Edmund Husserl, La filosofia come scienza rigorosa

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Edmund Husserl, La filosofia come scienza rigorosa
Glossario concettuale a cura di Alessandro Benigni
- Settembre 2002 -
[Edizione di riferimento: Edmund Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Bari, 2001. Prefazione di
Giuseppe Semerari].
"Scienza rigorosa"
Già dal titolo possiamo ricavare alcuni elementi chiarificatori circa il senso complessivo dell'opera e le intenzioni
generali dell'Autore. Si tratta appunto di un titolo programmatico: in questa sorta di manifesto della
fenomenologia - così come Husserl la intendeva nel periodo compreso fra le Ricerche logiche e le Idee - l'Autore
difende (contro lo storicismo e contro il naturalismo) l'ideale di una filosofia come scienza rigorosa, capace di
raggiungere una verità universale. Che cosa intende Husserl per "scienza rigorosa"? La risposta a questo
interrogativo è ovviamente complessa e dovrebbe comprendere una chiarificazione di tutta l'impostazione
filosofica husserliana, poiché l'ideale della filosofia come scienza rigorosa è uno dei nodi tematici più costanti
della sua opera. Impossibile svolgerla in modo esaustivo: mi limito a tracciare qualche linea generale. Fatta
questa precisazione, penso allora si possa dire che per Husserl l'ideale della vera filosofia consiste nel realizzare
l'idea della conoscenza assoluta, basandosi su un fondamento certo, e la fenomenologia è appunto il metodo che
permette di raggiungere questo obiettivo. In questo senso Husserl vuole superare la tradizione: in particolare
quella dello Psicologismo (il cui esito - la riduzione dell'esperienza alla sfera psicologica dei vissuti - viene
costantemente preso di mira come obiettivo polemico) e dello Storicismo (il cui esito - rappresentato dalle
"filosofie della weltanschauung" - costituisce una forma di relativismo scettico che si pone appunto agli antipodi
della concezione husserliana di filosofia rigorosa). Per costituirsi come scienza rigorosa, la filosofia - secondo
Husserl - non deve assumere nulla come ovvio e indiscutibile, ma deve piuttosto raggiungere criticamente un
fondamento dotato di evidenza assoluta. Per raggiungere questo obiettivo essa non può partire
dall'atteggiamento naturale, che assume il mondo come un insieme di fatti ovvi: le stesse scienze empiriche si
fondano su questo presupposto e identificano la conoscenza con l'accertamento dei fatti ingenuamente ritenuti
oggettivi e indiscutibili. Husserl afferma infatti (polemicamente) che ogni scienza della natura è ingenua nei suoi
punti di partenza: la natura che essa vuole prendere in esame, per questo tipo di approccio, esiste
semplicemente: bisogna invece liberarsi da ogni presupposto, sia dalle credenze comuni, sia da quelle proprie di
tali scienze, così come dai contenuti dottrinali di tutte le filosofie precedenti. Il compito irrevocabile della
filosofia è invece quello di comprendere il disvelarsi della realtà alla coscienza, di modo che siano
scientificamente esplicitate le leggi, assolute e universali, che ne regolano il dinamismo. È a questo livello che a
Husserl preme individuare un fondamento assoluto. A giudizio di Husserl, una tale conoscenza obiettiva assolutamente certa - è possibile solo se (e in quanto) liberata dal riferimento esperienziale al mondo
attualmente vissuto e se riferita alle realtà ideali (cfr. “essenze”). I principi del pensiero non sono atti psichici di
origine induttiva, come vorrebbe un approccio psicologistico. Come scienza delle essenze ideali, la filosofia è
allora fenomenologia, e la sua ambizione è allora cogliere la realtà nel suo originario darsi alla coscienza. In
questo senso, per Husserl la filosofia rigorosa è una scienza che posa su una fondazione ultima. Possiamo inoltre
dire che la fenomenologia è «scienza» in quanto si dimostra in grado di rivelare il come delle cose, risalendo alle
intenzionalità implicite del soggetto; è «rigorosa» perché non inventa nulla, non formula ipotesi, non pronuncia
affermazioni di sorta (invenzioni, formulazioni, ipotesi poggiano sempre su validità non propedeuticamente
indagate, accettate in modo ingenuo e perciò non rigorosamente utilizzate), ma interroga le datità assumendole
per quel che realmente sono e valgono per noi, ovvero assumendole in maniera rigorosa. Dopo queste premesse,
vediamo di individuare i rimandi ed i collegamenti al concetto di «filosofia come scienza rigorosa» presenti
nell'articolo, a partire dalle prime pagine, dove Husserl osserva che non esiste ancora una filosofia che possa
mostrarsi come scienza rigorosa): «Sin dai suoi primi inizi - scrive Husserl - la filosofia ha avanzato la pretesa di
essere scienza rigorosa e, precisamente, la scienza in grado di soddisfare le più elevate esigenze teoretiche e di
rendere possibile, in prospettiva etico-religiosa, una vita regolata da pure norme razionali. Questa pretesa è stata
fatta valere ora con maggiore ora con minore energia, senza essere però mai completamente abbandonata,
neppure nei tempi in cui gli interessi e le capacità per la pura teoria minacciavano di venir me no o in cui le forze
religiose soffocavano la libertà della ricerca teoretica. In nessuna epoca del suo sviluppo la filosofia è stata in
grado di soddisfare la pretesa di essere scienza rigorosa; neppure nell'epoca moderna che, pur nella molteplicità
e contrapposizione degli orientamenti filosofici, si sviluppa dal Rinascimento fino ad oggi in una direzione
essenzialmente unitaria. Certo, l'ethos dominante della filosofia moderna consiste proprio in questo, che essa,
invece di abbandonarsi ingenuamente all'impulso filosofico, intende costituirsi come scienza rigorosa mediante
la riflessione critica, attraverso ricerche sempre più approfondite sul metodo. Ma l'unico frutto maturo di questi
sforzi fu la fondazione e la progressiva autonomia delle scienze rigorose della natura e dello spirito, nonché delle
nuove discipline puramente matematiche. La filosofia stessa, in quel senso particolare che solo ora si viene a
distinguere, continuava ad essere priva del carattere di scienza rigorosa». [E. Husserl, pag. cit. pag. 3]. Un
ulteriore riferimento con medesimo tono polemico si presenta poco più avanti, dove si aggiunge che «la filosofia,
nella sua intenzione storica la più elevata e rigorosa di tutte le scienze […] è incapace di darsi la forma di vera
scienza» [E. Husserl, pag. cit. pag. 4.]. Siamo qui di fronte alle premesse che Husserl anticipa ad una più vasta
polemica che verrà poi sviluppata nelle pagine seguenti. Husserl denuncia apertamente lo stato di crisi della
filosofia. Questa crisi, che è ormai venuta alla luce all’interno della scienza e della filosofia, ha le sue radici
nell’esclusività con cui, nella seconda metà dell'800, la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno
accettò di venire determinata dalle scienze positive. Ma critica polemica di Husserl si svolge parallelamente alla
rivendicazione di un concetto della scientificità non modellato sull’idea della positività e contestualmente
all’affermazione della priorità di principio della ricerca filosofica e del suo carattere fondante. Tale critica - che è
anche propositiva - si basa su una considerazione di fondo: dopo Kant nessuno ha più dato nuovo impulso alla
ricerca "critica", all'impegno nella costruzione di una epistemologia dotata del carattere di scienza rigorosa
ovvero in grado di pervenire a risultati universali e necessari. Il problema originario che si trova alla base della
ricerca filosofica husserliana è dunque quello di una fondazione rigorosa del sapere: occorre - prima di tutto indagare le proprietà del genuino atteggiamento scientifico. Tale atteggiamento è fino ad ora rimasto latente o
perlomeno improduttivo, soprattutto se si tiene conto che «L'apprendimento scientifico non è mai l'accettazione
passiva di una materia estranea allo spirito, esso poggia sempre sulla spontaneità [Selbsttätigkeit], su di una
riproduzione interiore delle evidenze razionali [Vernuntteinsichten] ottenute da spiriti creatori, secondo principi
e conseguenze. […]» e «La filosofia non può imparare perché non vi sono tali evidenze oggettivamente comprese
e fondate, vale a dire poiché mancano ancora problemi, metodi e teorie concettualmente ben definiti e
pienamente chiariti nel loro senso». [E. Husserl, op. cit., pag. 5]. Vedremo in seguito come il riferimento alla
“spontaneità” e alla “riproduzione interiore delle evidenze razionali” sia - nel quadro della fenomenologia - un
elemento di massima importanza, sul quale riporre molta attenzione. Di seguito, comunque, una prima
conclusione: il punto di partenza - negativo - dal quale erigere una nuova critica della ragione, questa volta
scientificamente e rigorosamente orientata: «Non voglio dire - scrive Husserl - che la filosofia sia una scienza
imperfetta, dico semplicemente che non è ancora una scienza, che essa come scienza non ha ancora avuto inizio
[…]». [E. Husserl, pag. cit., pag. 5]. Per sgombrare il campo da possibili equivoci Husserl chiarisce poco più avanti
(siamo a pag. 20) che questa scienza rigorosa non è psicologia, ed in particolare non è psicofisica (psicologia
sperimentale). «La psicologia [...] in quanto scienza dei fatti, non è in grado di fornire i fondamenti per quelle
discipline filosofiche che hanno a che fare con i principi puri di ogni istanza normativa» [E. Husserl, op. cit., pag.
20]. Ritengo che sia qui opportuno richiamare le parole del Semerari, secondo il quale «nella misura in cui è
fenomenologia, la filosofia può svolgere fino in fondo la funzione di critica della conoscenza indagando
sistematicamente il presupposto assoluto di ogni forma di sapere. Husserl definisce scienza rigorosa la filosofia
fenomenologicamente concepita e intorno al suo concetto scrive La filosofia come scienza rigorosa, saggio che
conclude il processo di legittimazione della filosofia di fronte alle scienze positive quale Husserl sviluppa nel
decennio della prima elaborazione del programma fenomenologico dalle Ricerche logiche alle Idee per una
fenomenologia pura» [E. Husserl, op. cit., Prefazione di G. Semerari, pag. XIII]. Si tratta dunque di un programma
molto vasto ed è senz'altro possibile - da questo punto di vista - includere l'espressione "filosofia come scienza
rigorosa" tra le "parole d'ordine" del percorso teoretico husserliano: una sorta di "punto cardinale"
irrinunciabile, insieme di partenza e di conclusione. Ma perché e in che senso la fenomenologia è una "scienza"?
Si tratta forse di un ennesimo tentativo di "ridurre" la filosofia ai metodi e agli oggetti di ricerca delle scienze
naturali? Husserl spiega proprio alla fine del suo lungo articolo (siamo a pag. 105) che «la scienza filosofica
rigorosa non avrà pace fino a quando non avrà raggiunto i suoi inizi assolutamente chiari, vale a dire i suoi
problemi assolutamente chiari, i metodi predesignati dal senso proprio di questi problemi e il terreno ultimo di
ricerca in cui le cose sono date con assoluta chiarezza» [E. Husserl, op. cit., pag. 105]. La scienza filosofica - così
come la intende Husserl - è dunque ricerca di principi assolutamente chiari, scienza dei fondamenti, è scienza
universale dell'essere nel mondo. È - vedremo più avanti - scienza eidetica, ovvero scienza rigorosa delle forme
della nostra esperienza. La filosofia fenomenologica è inoltre scienza rigorosa in modo radicale perché non
assume come oggetto il mondo già dato e costituito, ma indaga piuttosto il piano delle tipicità essenziali, indaga il
come dell'esperienza, rispondendo alla domanda radicale “come si danno gli oggetti dell'esperienza?”, “quali
sono i modi tipici in cui il mondo viene dato?”. Si tratta allora di una scienza del fondamento - poiché il suo
oggetto (il darsi dell'esperienza) è indubitabile. Rinunciando ad un atteggiamento ingenuamente naturalistico, la
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filosofia fenomenologica è scienza rigorosa, "grande scienza" come la definisce Husserl. Siamo così di fronte ad
una pagina che si presenta eccezionalmente ricca di rimandi teoretici e nodi essenziali per comprendere il
discorso fenomenologico. Qui Husserl sostiene che «L'incanto che esercita l'atteggiamento naturalistico e che
soggioga noi tutti fin dall'inizio, rendendoci incapaci di astrarre dalla natura e di rendere così anche lo psichico
oggetto di una ricerca intuitiva nell'atteggiamento puro, anziché psicofisico, ha […] sbarrato il cammino verso
una grande scienza, inimitabilmente ricca di conseguenze, la quale è da un lato la condizione fondamentale per
una psicologia pienamente scientifica e dall'altro il campo di un’autentica critica della ragione. L'incanto
dell'originario naturalismo consiste anche nel fatto che esso rende a noi tutti così difficile vedere “essenze”,
“idee”, o piuttosto, poiché noi già per così dire le vediamo costantemente, riconoscerle nel loro carattere
specifico invece di naturalizzarle in maniera assurda. La visione d'essenza non offre difficoltà o segreti “mistici”
maggiori della percezione. Se portiamo intuitivamente a piena chiarezza, a piena datità, il “colore”, ciò che è dato
è allora un'essenza, e se ora allo stesso modo in una pura intuizione, volgendo lo sguardo da percezione a
percezione, portiamo a datità ciò che è “percezione”, la percezione in sé-vale a dire quest'identico di ogni
qualsiasi singolarità percettiva fluente-abbiamo allora colto intuitivamente l'essenza percezione. Fin dove arriva
l'intuizione, l'avere coscienza intuitivo, giunge anche la possibilità della corrispondente “ideazione” (come ero
solito dire nelle Ricerche logiche) o della “visione d'essenza”. Nella misura in cui l'intuizione è un'intuizione pura,
che non include alcuna cointenzione transiente, l'essenza intuita è un che di adeguatamente intuito, un che di
assolutamente dato». [Cfr. E- Husserl, op. cit., pag. 54-55]. Riprendiamo il filo del discorso: la filosofia, intesa
come scienza rigorosa, può essere ostacolata solo dall'incanto che esercita l'atteggiamento naturalistico. In se
stessa, la filosofia come scienza rigorosa si presenta come riaffermazione perentoria dell’epistéme fondata in
modo incontrovertibile. Tale fondamento trova la sua espressione in quelle che Husserl chiama “essenze”: esse
rappresentano il punto d’arrivo della “visione d’essenza”. L’intuizione è il medium che mette la coscienza di
fronte al disgelarsi delle “essenze”. Come vedremo, si tratta di un’intuizione caratterizzata da proprietà
particolari, che difficilmente si presa a ricadute scettiche. Il fondamento dell’epistéme - che qui viene sottratto
radicalmente ad ogni tentazione scettica - è l’esperienza vissuta, a livello coscienziale. Siamo così al livello
dell’Erlebnis. Tale fondamento non si porta mai oltre l’esperienza: si concentra piuttosto sulla comprensione del
senso che le cose mostrano in quanto cose dell’esperienza, sul senso dei vissuti in quanto vissuti della coscienza.
C’è qui un implicito quanto netto rifiuto di strutture immutabili esistenti al di là dell’esperienza. Le essenze
husserliane, in questo senso, sono molto "oltre" le essenze platoniche. Altrove Husserl parla di «visione
originariamente offerente»: tale visione (che conduce alla visione d’essenza) offre le cose nel loro darsi originale,
in carne e ossa, non in una loro immagine o copia. Appunto «offre» le cose, cioè non le crea e non le pone in un
mondo precostituito. Non le produce e non le manomette in alcun modo. Offre le cose, le lascia vedere. Siamo al
livello del disvelarsi degli oggetti dell’esperienza alla coscienza. Le cose si danno nell’intuizione: è l’intuizione che
permette il mostrarsi delle cose. L'atteggiamento rigoroso della filosofia fenomenologica - caratterizzato da una
sospensione critica dei pregiudizi psicologistici e naturalistici - costituisce dunque il presupposto stesso della
filosofia intesa come scienza: nelle prime righe dell’articolo Husserl aveva appunto parlato di «significativa svolta
della filosofia» e dell’intenzione di preparare il terreno al futuro “sistema” della filosofia, intendendo
l’edificazione di un «sistema filosofico che, dopo l'imponente lavoro preparatorio di generazioni, incominci
veramente dal basso su fondamenta indubitabili e si innalzi come ogni buona costruzione [...]» [Cfr. E. Husserl,
op. cit. p. 7-8]. Quella che Husserl annuncia in queste pagine è insomma una rifondazione della filosofia. «Le
considerazioni che seguono - scrive Husserl - poggiano sulla convinzione che i più elevati interessi della cultura
umana richiedano la formazione di una filosofia rigorosamente scientifica; che, di conseguenza, se una svolta
filosofica deve avere legittimità nel nostro tempo, è necessario che essa sia in ogni caso animata dall'intenzione
di una rifondazione della filosofia nel senso di una scienza rigorosa. Questa intenzione non è affatto estranea al
nostro tempo. Essa è ben viva proprio all'interno del naturalismo dominante. Sin dall'inizio esso persegue con
decisione l'idea di una riforma rigorosamente scientifica della filosofia, credendo anche in ogni tempo, nelle sue
forme più antiche come in quelle moderne, di averla già realizzata. Ma, in linea di principio, tutto ciò si compie in
una forma che è fondamentalmente errata da un punto di vista teoretico e che costituisce da un punto di vista
pratico un crescente pericolo per la nostra cultura. È oggi di grande importanza sottoporre ad una critica radicale
la filosofia naturalistica. In particolare, più che di una critica negativa che si limiti a confutarne le conseguenze, vi
è la necessità di una critica positiva dei principi e dei metodi. Solo quest'ultima è in grado di mantenere intatta
quella fiducia nella possibilità di una filosofia scientifica, che è minacciata dalla conoscenza delle assurde
conseguenze del naturalismo edificato sulla base di una rigorosa scienza empirica». [E. Husserl, op. cit., pag. 1011]. Come vedremo in seguito, la delineazione programmatica dei caratteri della filosofia come scienza rigorosa
passa attraverso la contrapposizione non solo al naturalismo ingenuo, ma anche allo psicologismo, anche allo
storicismo e alle "filosofie della weltanshauung". Lo sfondo di questi attacchi è costituito da una più generale
critica dello scetticismo. Tutte le “filosofie” che Husserl attacca sono più o meno esplicitamente viziate da un
atteggiamento scettico, sia nelle premesse che nelle conclusioni. In particolare - come vedremo - Husserl darà un
magistrale esempio di critica allo psicologismo: il principio di non contraddizione, secondo l’approccio
psicologista, afferma che due proposizioni contraddittorie non possono essere entrambe contemporaneamente
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vere. La validità di questo principio viene ammessa ma soltanto relativamente alla nostra struttura fisica: è il
pensiero della specie umana, ad essere costituito in modo tale da non poter ammettere due proposizioni
contraddittorie. Ma non è escluso e non si può escludere per principio che esistano altre specie di esseri pensanti
costituite in modo diverso: per loro questo principio può non essere vero. Ecco dunque che lo psicologista è
necessariamente portato dalla natura stessa della sua argomentazione, a subordinare la validità dei principi
logici alla costituzione psichica di una specie pensante: è portato cioè ad adottare una prospettiva relativistica e
sostanzialmente scettica: affermare che la verità è relativa alla specie e al suo specifico substratum biologico
significa in altri termini subordinare la sua validità ad una costituzione psicofisica specifica. Husserl si guarda
bene dal contrapporre a queste argomentazioni altri argomenti. Sarà sufficiente mostrare l’assurdità intrinseca
della teoria scettica portandola alle estreme conseguenze. Nella sua argomentazione lo scettico presuppone
infatti proprio la verità di ciò che afferma, e quindi cade inevitabilmente in una contraddizione che non solo
invalida la sua stessa teoria, ma la rende del tutto assurda. La posizione dello scettico (variamente rappresentata
dall’atteggiamento naturalistico e - come vedremo - dallo storicismo relativista) tratteggia dunque i limiti di un
territorio totalmente estraneo alla filosofia intesa come scienza rigorosa. Questa - come scrive Husserl - «non
avrà pace fino a quando non avrà raggiunto i suoi inizi assolutamente chiari, vale a dire i suoi problemi
assolutamente chiari» [E. Husserl, op. cit., pag. 105]. Tale chiarezza viene conquistata a partire dall’indagine del
campo dell’esperienza, là dove la fenomenologia - in quanto appunto scienza dei fenomeni - si mostra in grado di
descrivere e tracciare i limiti di tutto ciò che si mostra originalmente nell’intuizione.
“Coscienza”
In questo lungo articolo Husserl indaga - parallelamente alla critica condotta nei confronti del naturalismo e
dello storicismo - la possibilità ed il senso della filosofia come scienza rigorosa. Da questo punto di vista il ruolo
assolutamente centrale del termine "coscienza" è del tutto evidente. Ma andiamo con ordine. Il problema della
critica della coscienza riguarda la possibilità stessa della filosofia intesa come scienza rigorosa. Concretamente, si
tratta di vedere come il fenomeni o essenze possano dar luogo a una scienza in senso stretto e rigoroso. Poiché in
effetti il punto di partenza è dato dal fenomeno che si manifesta alla coscienza, da qui emerge la centralità di una
serie di termini concettuali (quali per esempio "intuizione" "intenzionalità" "datità","essenza" e "visione
d'essenza" ecc.) tra i quali appunto il termine "coscienza" gioca senz'altro un ruolo fondamentale. Sappiamo
infatti che per Husserl il fenomeno (e, in questa correlazione, l’essenza) si manifesta, si dà alla coscienza. Nel
sospendere la credenza nel mondo reale, ed ogni giudizio ingenuo su di esso, l'io si trova di fronte ad un mondo,
agli oggetti dell'esperienza così come si manifestano e in quanto si manifestano alla coscienza; cioè, il mondo
intero in quanto manifesto è tale solo come termine della coscienza. Reciprocamente, ogni modo della coscienza
ha correlativamente il suo oggetto, secondo tale stesso modo di coscienza. Ma che cosa intende Husserl per
"coscienza"? Husserl chiarisce che anzitutto non si tratta della coscienza intesa nel senso della psicologia. Per la
psicologia (per lo psicologismo), la coscienza è ridotta alle semplici attività mentali, funzionanti in base a
momenti e meccanismi propri. Ma «la ricerca fenomenologica è una ricerca d’essenza» e dunque la distinzione
critica tra metodo psicologico e metodo fenomenologico mostra che solo nella fenomenologia c'è la possibilità di
trovare la possibilità di una critica della ragione e anche per una autentica psicologia che non sia ridotta
all’atteggiamento psicofisico. Per tale atteggiamento l'attività mentale vuole, pensa, sente e ricorda, percepisce,
ha passioni, emozioni, ecc. Come modi di attività, ciascuno di questi fatti ha il suo meccanismo proprio; il
meccanismo del percepire non è identico a quello del desiderare, ecc. Questi meccanismi racchiudono anche
componenti somatiche del più diverso ordine (la conformazione cerebrale nel suo complesso). Husserl non nega
tutto ciò, non contesta i risultati raggiunti dalla psicofisica. Tuttavia - osserva Husserl - non è quello "fisico"
l'aspetto più importante per il problema della coscienza. Non si devono confondere i «meccanismi» della
coscienza con la coscienza stessa. Intanto perché questi meccanismi appartengono al dominio dei fatti, al
dominio della scienza naturale (un dominio che la fenomenologia intende mettere tra parentesi prima e non
durante l’indagine fenomenologica). Ma soprattutto perché questi meccanismi sono i meccanismi grazie ai quali
l'uomo ha coscienza; ma niente di più. "Che cosa sia" - non da un punto di vista funzionale, ma piuttosto da un
punto di vista ontologico - la coscienza che "funziona" con questi meccanismi, è problema che la psicologia come
scienza naturale ha sempre eluso e che non è - dal suo punto di vista - in grado di risolvere. Anzi, lo psicologismo,
considerando i pensieri come meri "eventi mentali" riduce la logica ad una branca della psicologia. Per
riprendere il caso del principio di non-contraddizione, secondo tale impostazione si è costretti a concludere che
l'impossibilità di ammettere proposizioni contraddittorie non deriva dalla validità in sé del principio di noncontraddizione stesso, bensì da un dato di fatto: la mente umana è "fatta", "funziona" in un modo tale che le
impedisce di pensare in modo contraddittorio. Le leggi logiche della coscienza sono così ridotte a leggi del
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"funzionamento" del cervello. In altri termini - mantenendo l’esempio - la logica aristotelica deriva da una certa
struttura del cervello: se i processi evolutivi si fossero sviluppati diversamente probabilmente la conformazione
cerebrale sarebbe diversa e con essa anche la nostra logica. Questo è il motivo di fondo che conduce Husserl a
contrapporsi al relativismo scettico dello psicologismo (così come al naturalismo e allo storicismo) che intende il
vero e il falso mai in assoluto, ma sempre in relazione alle strutture biologiche e psicologiche. Ma, osserva
Husserl, quali che siano i meccanismi psico-fisiologici che producono la coscienza, questa è, nella sua purezza
primaria, un mero «rendersi conto di qualcosa»: la coscienza è sempre e solo «coscienza-di», proprio in quanto
puro rendersi conto di qualcosa. Da qui l'errore fondamentale che Husserl rimprovera allo psicologismo: la
naturalizzazione della coscienza, l'aver convertito il momento del rendersi conto di qualcosa in un sistema di
meccanismi che al massimo potranno spiegare come si arriva a rendersi conto, ma non diranno mai in che cosa
consiste il puro rendersi conto. Solo giungendo al livello di questo puro rendersi conto è possibile arrivare alla
"coscienza pura". È a questa coscienza pura che è manifesto il fenomeno o essenza. Ma qual è la struttura di
questa coscienza pura? Per rispondere a questa domanda - a confermare il nesso profondo che Husserl stabilisce
tra questi termini fondamentali - è opportuno fare riferimento al concetto di "intenzionalità". Tale concetto
indica che ogni coscienza è rivolta verso qualcosa. La coscienza pura, la «coscienza-di», è coscienza solo in
quanto lo è «di» qualcosa. E questo esser rivolto verso qualcosa è ciò che si intende con «intenzionalità». Il
maestro di Husserl, Franz Brentano, aveva caratterizzato tutto "lo psichico" con l'essere "qualcosa di
intenzionale", per il fatto che presuppone il riferimento o direzione verso "qualcosa di diverso" dalla coscienza
stessa. L'analisi strutturale della coscienza pura comprende allora senz'altro la determinazione di cosa sia questa
intenzionalità. Anticipiamo qui soltanto alcuni punti. Anzitutto, in termini approssimativi, l'intenzionalità è quel
momento secondo cui la coscienza è una cosa che è tale solo «di» un'altra cosa. Sotto questo aspetto, la coscienza
è una intentio o, come dirà Husserl, è una noesis [pertanto è possibile distinguere tra l'atto della conoscenza
(noesis) dall'oggetto della conoscenza (noema)]. Ma andiamo con ordine. Si è visto che la critica allo
psicologismo (così come quella rivolta al naturasimo e allo storicismo) è funzionale ad un momento propositivo,
alla delineazione delle caratteristiche tipiche della filosofia intesa come scienza rigorosa. Abbiamo visto che si
tratta di una vera e propria fondazione (o meglio, dopo Cartesio e dopo Kant, di una ri-fondazione). Tale
prospettiva assume come compito irrinunciabile una "critica radicale": critica della coscienza e critica della
conoscenza. Tale critica, nel suo svilupparsi, prenderà la forma di una più vasta critica dell'esperienza. Una prima
fase pone sul campo una duplice consapevolezza: lo psichico è certamente legato al fisico (la psicofisica ha
senz'altro una sua ragion d'essere) ma esiste una dimensione psichica irrinunciabile ed irriducibile alla mera
psicofisica. Questa dimensione è propria della coscienza: per cui la critica dell'esperienza coinvolge
specularmente una critica della coscienza. Lo scopo - ed il risultato che Husserl consegue - è mostrare come sia
possibile intrecciare un rapporto teoretico fra coscienza ed esperienza senza ricadute relativistiche e scettiche. Il
problema - in questo momento - è quello di chiarire «come può l'esperienza dare o incontrare un oggetto» [Cfr. E.
Husserl, op. cit., pag. 24]: qual è il rapporto tra coscienza e oggetti? E come individuare - all'interno di questo
rapporto - dei significati oggettivamente validi? Evidentemente, siamo di fronte alla stessa esigenza teorica di
Kant: conciliare ragione ed esperienza. La risposta husserliane, come vedremo, consiste una teoria
dell'esperienza fondata sul concetto di correlazione e di intenzionalità. Il primo di questi due concetti chiave - la
correlazione - presuppone, come vedremo, un dualismo dinamico tra soggetto e oggetto, mentre il secondo
concetto chiave - l'intenzionalità - viene assorbita da Brentano ed adattata a questo nuovo quadro teorico
mediante una opportuna "forzatura". Entreremo maggiormente nel dettaglio affrontando questo tema più avanti.
Per ora ricordiamo solamente che in Brentano l'intenzionalità è un concetto che permette di distinguere i
fenomeni psichici da quelli fisici. Anche Husserl accetta la definizione di intenzionalità come carattere distintivo
e comune degli atti psichici. La stessa correlazione è allora possibile proprio alla luce del concetto di
intenzionalità. Intenzionalità significa "mirare a", "avere scopi". Si tratta di un discorso complesso, a sfondo
teleologico, che merita un approfondimento specifico. Ricordiamo solo che per Husserl «la coscienza è sempre
coscienza di qualche cosa». Ma questa affermazione non deve trarre in inganno: la coscienza non è uno specchio
passivo di ciò che le viene proposto dall’esterno. Il rapporto tra coscienza e oggetti non è statico, bensì dinamico.
C’è qui l’eco dell’impostazione kantiana: il vedere stesso, come atto della coscienza, è un attivo costituire
l’oggetto visivo, una costruzione di un oggetto definito i cui contorni sono ritagliati dai dati confusamente
indistinti che si presentano alla coscienza stessa. La coscienza ha quindi un ruolo attivo: il vedere - per
mantenere l’esempio - non è un ricevere dati dall’esterno nella più totale passività della coscienza, ma piuttosto
un continuo mettere a fuoco gli oggetti con-fusi ed indistinti del campo visivo che alla coscienza si offre, si dà.
Questo - da un altro punto i vista - è il gioco stesso della fenomenologia: un contiuno mettere a fuoco, un
continuo approfondire legami e strutture essenziali che solitamente vengono o ignorate o ingenuamente date per
scontate. Ma sulla coscienza è necessario fare ulteriori considerazioni. Da un punto di vista ontologico, la
coscienza trae una sua identità solo se illuminata dalla sua caratteristica - teleologica - di essere intenzionale.
Potremmo dire che avere coscienza è essere intenzionati. La chiarificazione di che cosa siano intenzionalità e
coscienza non può che crescere di pari passo: tanto più sappiamo che cos’è l’intenzionalità tanto più riusciremo a
dare un contenuto alla coscienza. Con il termine “coscienza” Husserl non intende mai una “sostanza” un “luogo
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psichico” determinato a priori ed indipendente. Egli intende piuttosto con “coscienza” il rapporto dinamico degli
atti soggettivi con il darsi dell’esperienza, anzi: nel darsi dell’esperienza. L'intenzionalità, quindi, definisce e
caratterizza le modalità dell'attività coscienziale. A questo nodo teoretico si potrebbero ricollegare altre
espressioni tipiche di Husserl quali per esempio "connessione d'essenza": «Ogni tipo d'oggetto - scrive Husserl che deve diventare oggetto di un discorso razionale, di […], deve manifestarsi nella conoscenza, dunque nella
coscienza stessa e deve, in conformità al senso di ogni conoscenza, lasciarsi portare a datità. Tutti i tipi di
coscienza, così come si ordinano per così dire teleologicamente sotto il titolo di conoscenza e, inoltre, si
raggruppano secondo le diverse categorie d'oggetto - in quanto gruppi di funzioni conoscitive ad esse
specificamente corrispondenti - devono potere essere studiati nella loro connessione d'essenza e nel riferimento
alle forme di coscienza di datità che sono loro proprie». [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 26]. La caratteristica della
coscienza è dunque quella di essere - in questo senso sì - il luogo del disgelarsi dell’essenza: la coscienza, in
quanto coscienza-di, è “connessione d’essenza”. Le diverse “funzioni conoscitive” caratterizzano la disposizione
della coscienza in base agli oggetti e ai corrispondenti modi di datità di queste connessioni. Abbiamo dunque
diverse tipologie di distensione di coscienza, in relazione ai diversi modi in cui la coscienza costituisce una
connessione d’essenza nel rapportarsi agli oggetti che si danno, in una relazione dinamica. Appena nella pagina
precedente Husserl aveva appunto parlato di “correlatum di coscienza”: «se la teoria della conoscenza intende
esaminare i problemi inerenti alla relazione tra coscienza ed essere, essa può avere davanti agli occhi l'essere
soltanto come correlatum di coscienza, come un che di coscienzialmente “inteso” [Gemeintes], vale a dire come
un che di percepito, ricordato, atteso, immaginativamente rappresentato, fantasticato, identificato, distinto,
creduto, supposto, valutato ecc. Si comprende allora che la ricerca deve mirare ad una conoscenza scientifica
dell'essenza della coscienza, a ciò che la coscienza stessa “è” in base alla sua essenza in tutte le sue forme
distinguibili e, nello stesso tempo però, a ciò che essa “significa”, nonché ai differenti modi in cui, in conformità
all'essenza di queste forme, essa intende - ora in modo chiaro ora in modo oscuro, presentando o
presentificando, in modo signitivo o immaginativo, schietto o mediato dal pensiero, in questo o quel modo
attenzionale e così in innumerevoli altre forme - un che di oggettuale, “mostrando” eventualmente il suo essere
“valido” e “reale”» [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 25-26]. Siamo ad un punto nodale. La critica implicita è rivolta alla
teoria brentaniana dei tre gradi di intenzionalità: rappresentazione, giudizio e sentimento: Husserl amplifica qui
le modalità di riferimento, i “canali” di relazione possibili tra coscienza intenzionate ed oggetti correlati. La
correlazione è - in questo senso - la modalità in cui la coscienza si rapporta all’essere dei suoi oggetti. A questo
punto, tra soggetto ed oggetto continua a sussistere un dualismo, ma non statico, bensì dinamico: non c’è
soggetto senza oggetto e viceversa, e la dinamicità del rapporto è data dalla loro correlazione. Un’altra
espressione tipica legata a questo tema è “fluente avere coscienza” [«Si devono prendere i fenomeni così come
essi si danno, vale a dire come quel fluente avere coscienza, intendere e manifestarsi, che essi sono […]. Pertanto
si devono prendere i fenomeni come un qualcosa che si forma e si modifica in questo o quel modo, nel mutare di
questo o quell’atteggiamento, di questo o quel modo attenzionale. Tutto ciò - scrive Husserl - porta il titolo di
“coscienza di” (…). Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 52]. Come si vede, Husserl non cessa di riproporre uno schema
funzionale all’interno del quale la coscienza - definita qui come “modo attenzionale” - è sempre in correlazione
con gli oggetti dell’esperienza. Si tratta della “pura coscienza” [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 28] intesa in modo
radicalmente diverso dal Naturalismo e contrapposta alla coscienza materializzata dello psicologismo e della
psicofisica, che a questo punto diventa uno dei privilegiati oggetti specifici della filosofia rigorosamente
scientifica.
“Intenzionalità”
Husserl aveva acquisito da Brentano il concetto di intenzionalità, continuamente rielaborato fino a farne un
elemento chiave dell'intera fenomenologia. Tuttavia tale nozione solo ad un livello più superficiale consiste nella
fondamentale caratteristica degli atti di coscienza di essere sempre “coscienza-di-qualcosa”, ossia di contenere
implicitamente un riferimento ad una qualche entità o significato. Più precisamente l'intenzionalità corrisponde
ad una proprietà essenziale della nostra coscienza: quella di essere sempre correlata al mondo delle nostre
esperienze nel suo complesso. La chiarificazione di tale concetto viene esposta da Husserl a pagina 57, dove
sull’intenzionalità vengono basati i giudizi che riguardano le visioni d'essenza, quelli che portano a definire
oggettivamente ciò che risiede nella visione d'essenza, il modo in cui le essenze di un certo genere o di una certa
specie si connettono con altre, il modo con cui ad esempio si uniscono tra loro intuizione, fantasia, percezione e
contatto (etc.). Tutti questi sono necessariamente «unificabili» poiché si accordano fra loro come «intenzione»
oppure sono «non-unificabili». In entrambi i casi (unificabili e non unificabili) danno luogo a una «coscienza di»
(pag. 58) Ogni giudizio di questo tipo è una conoscenza assoluta, un giudizio d'essenza che - scrive Husserl 6
sarebbe assurdo voler giustificare, confermare o contraddire mediante l'esperienza. Intenzionalità, "coscienzadi": la fenomenologia indaga le connessioni essenziali delle formazioni di coscienza, così come di ciò che in esse è
inteso e appartiene loro correlativamente ed essenzialmente in una comprensione intuitiva [pag. 58]. Occorre
però un passo indietro. L'intenzionalità era per Brentano il tratto distintivo dello psichico. Come abbiamo
accennato, Brentano aveva caratterizzato lo psichico con l'essere qualcosa di intenzionale, per il fatto che
presuppone il riferimento o direzione verso qualcosa di diverso dalla coscienza stessa. Si tratta ora di
evidenziare i tratti caratteristici dell'intenzionalità - così come la intende Husserl, attraverso la forzatura dello
schema brentaniano: si tratta cioè del chiarire come Husserl intenda questa intentio, a partire dal suo debito
teoretico nei confronti del maestro. Per questo dovremo ritornare ancora una volta al termine chiave “coscienza”
e precisamente “coscienza-di”. Intanto diciamo subito che intanto non si tratta di una semplice «relazione» tra un
atto e il suo oggetto. Non si tratta del fatto che la coscienza come intentio sia “una cosa” preventivamente
realizzata e conclusa, indipendente ed assoluta (etimologicamente: sciolta-da), come una sorta di atto che già
esiste, «dopodiché» si stabilisce una relazione con qualcosa che non è coscienza intenzionale, e sta al di là di essa,
relazione che verrebbe qui espressa nel «di». Non si tratta di questo perché l'essere rivolta all'oggetto non è un
momento aggiuntivo ed indipendente o semplicemente possibile rispetto alla coscienza, ma al contrario essa
appartiene strutturalmente e formalmente alla coscienza in quanto tale. L’essere intenzionale è la forma (éidos)
della coscienza stessa: l'intenzionalità non è un atto concluso di fronte all'oggetto, ma ha compimento come atto
solo nel suo stesso riferimento continuo e progressivo al suo oggetto. In altri termini, il «di» non è una relazione
dalla coscienza intenzionata all'oggetto, ma è la struttura stessa dell'intenzionalità, la sua matrice tipica, il suo
tratto distintivo. Fino a questo punto si non si notano radicali differenze rispetto allo schema di Brentano.
L'intenzionalità è, per Brentano, il fatto che la coscienza include intrinsecamente il momento del «di»: ogni
percepire è un «percepire-di», ogni ricordare è un «ricordare-di», ogni volere è un «volere-di», ecc. È
l'intenzionalità come «correlazione». Che ciò sia vero non è qualcosa di cui Husserl dubiti. Ma per Husserl non è
sufficiente. Intanto, come abbiamo visto più sopra, perché ogni oggetto della coscienza è presente ad essa solo
secondo i modi propri della coscienza, quali sono il percepire, il ricordare, ecc. E quindi, correlativamente, da una
parte la coscienza ha le sue modalità di distensione e di rapporto ai suoi oggetti, dall’altra anche gli oggetti hanno
la loro propria e peculiare modalità di essere percepiti, di essere ricordati, ecc. Così, la coscienza prefissa
anticipatamente il modo di presentazione dell'oggetto; non è una mera correlazione, ma un prefissare. D’altra
parte gli oggetti si danno secondo delle modalità tipiche. La struttura stessa della coscienza fa sì che ci sia per
essa un oggetto intenzionale, permette il darsi degli oggetti dell’esperienza; la coscienza non solo ha un oggetto,
ma fa sì che per essa ci sia un oggetto intenzionale, e lo fa a partire da se stessa. In altre parole l'intenzionalità caratteristica costitutiva della coscienza - non produce a partire da se stessa il contenuto dell'oggetto: questa
sarebbe una ricaduta in una forma di soggettivismo che Husserl invece rifiuta perentoriamente. L’intenzionalità
garantisce la possibilità della manifestazione dell'oggetto intenzionale così come esso è in se stesso, ovvero nel
suo proporsi alla coscienza che lo intenziona. L'intenzionalità è quindi il fondamento della possibilità di ogni
manifestazione oggettiva, di ogni disvelamento, di ogni “darsi” degli oggetti alla coscienza intenzionante. Dunque,
la «coscienza-di» rispetto agli oggetti non è una mera correlazione soggettiva, ma una sorta di “a priori” del
rapporto dinamico tra coscienza stessa ed oggetti dell’esperienza. Siamo di fronte ad una prima forzatura: per
Husserl l'intenzionalità non è solo tipica della coscienza in sé, vista come dire “dall’interno”, ma è anche un a
priori rispetto al suo oggetto, vista cioè in relazione al suo rapporto con gli oggetti intenzionati. E in questo caso
per “a priori” intendiamo che la coscienza fonda, a partire da se stessa la manifestazione del suo oggetto, la
possibilità del suo darsi. E questo fenomeno di intenzionalità è ciò che sistematicamente Husserl ha chiamato
Erlebnis. Tale è, delineata a grandi tratti, la struttura della coscienza pura, secondo Husserl. Ma in riferimento al
concetto di intenzionalità manca ancora la precisazione della forzatura di husserliana rispetto allo schema di
Brentano. Ora, per Brentano sono tre i modi con cui la coscienza intenziona l’oggetto (mediante 1.
rappresentazione, 2. giudizio e 3. sentimento). Inoltre in Brentano è presente una gerarchia tra oggetto primario
- esito dell’atto intenzionalizzante che rappresenta alla coscienza un oggetto (che le si pone di fronte, il
gegenstand) - e oggetto secondario, (la ri-rappresentazione dell’oggetto ora divenuto contenuto della
rappresentazione, del giudizio o del sentimento). E’ bene precisare che per Brentano istituisce così tre "classi"
distinte di fenomeni psichici, tra loro qualitativamente diverse. Proprio per segnare questa differenziazione nella
traduzione italiana de La psicologia dal punto di vista empirico, il termine Vorstellung è stato tradotto con
“presentazione”, e non, come ci si aspetterebbe, con “rappresentazione”; appunto per enfatizzare la duplicità dei
piani dell’oggetto, primario (la presentazione) e secondario (la rappresentazione vera e propria). Ma nella Quinta
delle Ricerche logiche Husserl interviene a questo livello, c su vari punti: 1) moltiplica le modalità di riferimento,
al di là delle tre affermate da Brentano (rappresentare, giudicare, sentire); 2. mentre ne La psicologia dal punto
di vista empirico Brentano afferma che l’oggetto intenzionato può essere sia reale (nel senso di “accessibile
all’esperienza”, interna o esterna) sia immaginario (frutto di fantasia, di immaginazione, come la
rappresentazione di oggetti inesistenti), facendo cioè riferimento alla “realtà” in diverse accezioni e
determinazioni, ora come Wirklichkeit, ora come Existenz, ora come Sein, ora come Realität, Husserl forza lo
schema brentaniano, affermando che anche l’Irrealität è passibile di intenzione. Al punto che Brentano, nella
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prefazione all’edizione del 1913 de La psicologia dal punto di vista empirico (ma già nella Classificazione dei
fenomeni psichici del 1911), ritiene opportuno un irrigidimento della propria posizione teoretica in senso
“antihusserliano”, restringendo la sua accezione di “oggetto” ed escludendo la possibilità di intenzionare oggetti
immaginari; 3. Husserl riprende e precisa ulteriormente il concetto di rappresentazione, maturando nella quinta
delle Ricerche logiche un susseguirsi di ipotesi interpretative e di differenti tentativi chiarificatori. Il punto
centrale dell’intervento di Husserl è proprio la distinzione brentaniana tra oggetto primario e oggetto
secondario, seconda la quale la quale la rappresentazione è qualcosa di diverso dal giudicare e dal sentire ed è
inoltre qualcosa di preparatorio rispetto al giudizio. Husserl contesta questa visione gerarchica, vedendo
piuttosto nella rappresentazione, nel giudicare e nel sentire una funzione continua, anche se a livelli diversi;
inoltre queste tre funzioni sono sempre intrecciate fra loro: nel giudicare vi è un rappresentare, nel sentire vi è
un giudicare, etc. Non sono perciò tre classi di riferimento gerarchicamente separate, ma piuttosto l’espressione
di un processo di complicazione crescente: la conoscenza è così uno sviluppo continuo di varie serie di modalità
di riferimento, in successiva complicazione. Il loro mutuo riferimento è dato appunto dalla correlazione tra la
coscienza e l’oggetto. Coscienza e oggetto, però, non esistono come elementi “a parte” del processo, ma si danno
all’interno del processo conoscitivo stesso. Tali serie correlate di modalità di riferimento sono in sostanza i flussi
degli Erlebnisse. Al posto della distinzione brentaniana tra oggetto primario e oggetto secondario, allora, Husserl
introduce una diversa distinzione: da un lato c’è il darsi, l’apparire; dall’altro, le essenze. Il darsi è l’apparire degli
oggetti di fronte al soggetto nell’intrecciarsi delle modalità di riferimento, in una diversa complessità ma
all’interno di una serialità continua. E’ il modo proprio degli oggetti di presentarsi al soggetto. Identificare le
essenze significa allora districare gli intrecci dei fasci di riferimento, ossia individuarne singolarmente la qualità
e il significato.
"Conoscenza"
È chiaro che si tratta di un altro termine di fondamentale importanza. Un vero "nodo concettuale" al quale si
ricollegano tutte le tematiche sviluppate e condotte nell'articolo. Trattandone il significato, mi sembra che sia il
caso di sottolineare appena come per Husserl la conoscenza sia uno strumento ed un fine non solo filosofico, ma
anche e prima ancora esistenziale. Già Semerari, nella Prefazione, ricorda come Husserl si sia posto come
obiettivo una critica della ragione, lamentando di non poter veramente e veracemente vivere senza venire in
chiaro in linee generali sul senso, l'essenza, i metodi, i punti di vista fondamentali di una critica della ragione,
senza aver immaginato, progettato, stabilito e fondato un generale abbozzo per essi. Una nuova teoria critica
della conoscenza doveva insomma liberarlo dai tormenti dell'assenza di chiarezza, del dubbio che tentenna qua e
là permettendogli di pervenire a una interna solidità [Cfr. E. Husserl, op. cit., Prefazione a cura di G. Semerari,
pag. XI-XII]. La filosofia - così come la intende Husserl - non è un movimento puramente intellettuale della
ragione, ma è piuttosto una affermazione perentoria che emerge dalla struttura integrale della vita, includendo in
essa non solo i momenti oggettivi di una conoscenza del mondo, ma anche l'esperienza vitale dei valori e
l'esperienza dei principi di azione. La filosofia è così una proprietà personale della vita. È questo uno degli aspetti
che in Husserl sono più affascinanti, che francamente mi hanno più impressionato. In Filosofia come scienza
rigorosa Husserl contrappone più volte la conoscenza scientifica a quella tipica della filosofia rigorosa. Mentre la
conoscenza scientifica - compromessa dall'atteggiamento naturale - manca in assoluto di profondità, in un
sistema che soltanto idealmente pretende di esser chiaro ed evidente, la conoscenza della filosofia rigorosa
perviene alla massima profondità possibile, poiché indaga la relazione tra l'io conoscente ed il darsi dei fenomeni
alla coscienza: il rigore concettuale e la chiarezza appartengono alla teoria rigorosa, sono le proprietà che
ineriscono alla sua conoscenza specifica. La conoscenza - osserva Husserl - sembra sulle prime qualcosa di ovvio,
così come l'esistenza del mondo esterno. Non appena cominciamo a riflettere ci accorgiamo però che questa
ovvietà non è poi così ovvia. La conoscenza è complessa. E' la sua struttura ad esserlo. In questo senso possiamo
dire che la fenomenologia si presenta perentoriamente come riflessione sulla natura del conoscere e sui rapporti
intercorrenti tra la conoscenza, il suo senso e il suo oggetto e, infine, sulla validità degli atti conoscitivi. Uno dei
compiti capitali della fenomenologia è allora chiarire le condizioni della possibilità della conoscenza, di una
conoscenza pura (kantianamente: a priori - termine che si ricollega ad un altro, molto utilizzato da Husserl:
"essenza"): comporta un'analisi della struttura del soggetto e delle modalità del suo rapportarsi alle esperienze, è
in grado di “integrare le operazioni scientifiche degli scienziati della natura e dei matematici, in modo da
perfezionare la conoscenza pura e la conoscenza teoretica autentica” [Cfr. E. Husserl, op. cit., Prefazione a cura di
G. Semerari]. Come deve essere costituita una soggettività affinché essa possa essere capace di intenzionare certi
tipi di oggetti, in particolare gli oggetti logici? E' questa la prima domanda alla quale la critica della conoscenza
risponde. E il problema gnoseologico - autentico - non è allora descrivere “come è fatto l'uomo” (ciò che attiene
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alla psicologia e all'antropologia), ma invece portare alla luce le strutture necessarie senza le quali un soggetto in
generale non potrebbe rapportarsi agli oggetti ed in particolare a oggetti ideali come quelli logici. Vale qui la
pena riportare quanto Semerari - sempre nella Prefazione - osservava: «L'intendere la filosofia quale critica della
conoscenza in relazione alle scienze della natura e alle scienze dello spirito riporta le tesi husserliane alla
tradizione trascendentalistica kantiana e neokantiana della critica della ragione. Il luogo di tale fondazione è, per
Husserl, la coscienza onde funzione primaria della filosofia in quanto critica della ragione e della conoscenza è
passare dalle domande criticistiche su come siano possibili, in linea di principio, le scienze alla domanda circa la
possibilità della coscienza e delle sue modalità strutturali in cui trovano motivazione e radici le scienze positive
della natura e dello spirito. Nei propositi di Husserl la fenomenologia realizza tale passaggio e, nella misura in cui
è fenomenologia, la filosofia può svolgere fino in fondo la funzione di critica della conoscenza indagando
sistematicamente il presupposto assoluto di ogni forma di sapere. Husserl definisce “scienza rigorosa” la filosofia
fenomenologicamente concepita e intorno al suo concetto scrive “La filosofia come scienza rigorosa”, saggio che
conclude il processo di legittimazione della filosofia di fronte alle scienze positive». Tale processo di
“legittimazione” prende avvio proprio dall’analisi delle strutture della conoscenza che non solo restavano
inindagate, ma accolte acriticamente: un tutt’uno con l’atteggiamento naturale che considera il mondo esterno
come semplicemente “dato”. Sempre Semerari osservava a questo proposito che per Husserl la fenomenologia
«realizza tale passaggio e, nella misura in cui è fenomenologia, la filosofia può svolgere fino in fondo la funzione
di critica della conoscenza indagando sistematicamente il presupposto assoluto di ogni forma di sapere». Ci
troviamo qui insomma di fronte ad un profondo legame che Husserl definisce tra il concetto di “scienza rigorosa”,
“filosofia fenomenologicamente concepita” e “critica della conoscenza”. Tale critica si allargherà - come abbiamo
visto- ad una teoria generale della “coscienza”. In "La filosofia come scienza rigorosa" il termine “conoscenza”
emerge con notevole frequenza: a ribadire la sua centralità all’interno del discorso fenomenologico. Già dalle
prime pagine Husserl parla di “conoscenza pura ed assoluta”, in stretta relazione al concetto di “filosofia come
scienza rigorosa”, lamentando una sua generale immaturità: “la filosofia, nella sua intenzione storica la più
elevata e rigorosa di tutte le scienze, essa, che rappresenta l'aspirazione imperitura dell'umanità alla conoscenza
pura ed assoluta (e, cosa inseparabilmente unita a questa, al puro e assoluto valutare e volere) è incapace di darsi
la forma di vera scienza”. [E. Husserl, op. cit., p. 4]. La conoscenza, denuncia Husserl, è stata progressivamente
ridotta ad oggetto di studio della psicologia scientifica (psicofisica). Soprattutto ad opera di Wundt, nel periodo
di crisi che sta attraversando la cultura filosofica europea di fine '800, la psicofisica si è proposta come nuovo
fondamento, una sorta di meta-scienza in grado di stabilire i criteri ed i livelli di validità delle altre scienze. Non
senza una certa ironia, Husserl parla a questo proposito di “psicologia rigorosa”: essa «sarebbe quella psicologia
scientifica esatta così a lungo ricercata ed ora finalmente realizzata. La logica e la teoria della conoscenza,
l'estetica, l’etica e la pedagogia avrebbero finalmente ottenuto grazie ad essa il loro fondamento scientifico ed
anzi esse starebbero già per trasformarsi in discipline sperimentali. Inoltre la psicologia rigorosa costituirebbe
evidentemente il fondamento di tutte le scienze dello spirito, nonché della metafisica. In riferimento a
quest'ultima essa non sarebbe, a dire il vero, il fondamento privilegiato, in quanto anche la scienza fisica della
natura parteciperebbe in eguale misura alla fondazione di questa universale dottrina della realtà» [E. Husserl, op.
cit., pag. 20]. Possiamo già intuire come la discussione che Husserl conduce sia rivolta contro la riduzione della
logica alla psicologia, cioè contro la riduzione di una «scienza delle idee» ad una «scienza di fatti»: lo
psicologismo - sviluppato coerentemente - non può che condurre a una posizione scettica. E lo scetticismo va
contestato sul terreno teorico come una assurdità teorica. Questo, il nodo concettuale di fondo che accomuna il
termine “conoscenza” alla “critica” della conoscenza e - in quest’ambito - di tutte le distorsioni teoretiche (prime
fra tutte: psicologismo e naturalismo) che hanno portato allo stato di crisi della filosofia. Scrive poco più avanti
Husserl: «In riferimento però alla teoria della conoscenza […] sono molte le obiezioni che possono essere
sollevate contro lo psicologismo e il fisicismo gnoseologici, e ne dobbiamo accennare alcune. Ogni scienza
naturale è nei suoi punti di partenza ingenua. Per essa la natura che intende ricercare c'è semplicemente. È ovvio,
le cose ci sono, sono nello spazio infinito in quanto in quiete, in moto, mutevoli, e in quanto cose temporali nel
tempo infinito». [E. Husserl, op. cit., pag. 21]. Come si vede, un discorso ricco ad articolato. Impossibile qui ed ora
prenderne in esame tutti i risvolti e tutte le conseguenze teoriche. Sarà comunque senz’altro opportuno
richiamare un ulteriore passo, nel quale emerge ancora il legame tra il termine “conoscenza” e “coscienza”, poco
più avanti, dove Husserl definisce il senso ed il significato generale della fenomenologia: «Ogni tipo d'oggetto, che
deve diventare oggetto di un discorso razionale, di una conoscenza prescientifica e poi scientifica, deve
manifestarsi nella conoscenza, dunque nella coscienza stessa e deve, in conformità al senso di ogni conoscenza,
lasciarsi portare a datità [corsivo mio]. Tutti i tipi di coscienza, così come si ordinano per così dire
teleologicamente sotto il titolo di conoscenza e, inoltre, si raggruppano secondo le diverse categorie d'oggetto in quanto gruppi di funzioni conoscitive ad esse specificamente corrispondenti - devono potere essere studiati
nella loro connessione d'essenza e nel riferimento alle forme di coscienza di datità che sono loro proprie. Così
deve essere inteso il senso della questione concernente la legittimità, che deve essere posta per ogni atto di
conoscenza, e deve potersi del tutto chiarire l'essenza di ogni dimostrazione fondata di legittimità e della
fondabilità ideale o validità, e ciò per ogni grado di conoscenza, in special modo per la conoscenza scientifica. Che
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cosa significhi che l'oggettualità sia e si mostri nella conoscenza come essente ed essente così, deve risultare
evidente, e pertanto del tutto comprensibile, puramente dalla coscienza stessa. E a tal fine è necessario lo studio
dell'intera coscienza, poiché essa entra nelle possibili funzioni conoscitive secondo tutte le sue forme. Ma, nella
misura in cui ogni coscienza è “coscienza di”, lo studio dell'essenza della coscienza include anche quello del
significato e dell'oggettualità della coscienza in quanto tali. Studiare un qualsiasi tipo di oggettualità nella sua
essenza generale (uno studio questo che può perseguire interessi distanti dalla teoria della conoscenza e
dall'analisi della coscienza) significa analizzarne i modi di datità e dispiegarne appieno il contenuto essenziale
nel relativo processo di «chiarificazione». Anche se qui l'atteggiamento non è quello rivolto ai modi di coscienza e
all'analisi della loro essenza, tuttavia il metodo della chiarificazione è tale che non si può fare a meno della
riflessione sui modi dell'essere inteso e dell'essere dato. Ma, d'altro canto, la chiarificazione di tutti i tipi
fondamentali di oggettualità è in ogni caso indispensabile per l'analisi dell'essenza della coscienza, e di
conseguenza in essa inclusa; ciò però vale solo in un'analisi gnoseologica, che veda il proprio compito nella
ricerca della correlazione. Pertanto comprendiamo tutti questi studi, per quanto debbano essere relativamente
separati, sotto il titolo di fenomenologici.” [E. Husserl, op. cit., pag. 26]. La conoscenza alla quale aspira la
fenomenologia è (kantianamente) pura ed assoluta: indubitabilmente certa: il suo oggetto è la “visione
d’essenza”: «Fin dove arriva l'intuizione, - scrive Husserl - l'avere coscienza intuitivo, giunge anche la possibilità
della corrispondente “ideazione” (come ero solito dire nelle Ricerche logiche) o della «visione d'essenza”. Nella
misura in cui l'intuizione è un'intuizione pura, che non include alcuna cointenzione transiente, l'essenza intuita è
un che di adeguatamente intuito, un che di assolutamente dato. Il dominio della pura intuizione abbraccia
dunque anche l'intera sfera che lo psicologo fa propria quale sfera dei “fenomeni psichici”, nella misura in cui egli
li prende puramente per se stessi, nella pura immanenza. Va da sé, per chiunque non abbia pregiudizi, che le
“essenze” colte nella visione d'essenza possano essere fissate in concetti stabili, per lo meno in misura
considerevole, rendendo così possibili enunciati stabili e nel loro genere oggettivamente e assolutamente validi.
Le più piccole differenze di colore, le sfumature ultime, possono sfuggire alla fissazione, ma la differenza tra
“colore” e “suono” è così sicura, che non vi è al mondo nulla di ancor più sicuro. Queste essenze, che possono
essere distinte e fissate in maniera assoluta, non sono soltanto quelle dei “contenuti” sensibili e delle apparizioni
“cose visive”, fantasmi ecc.), ma anche quelle di tutto ciò che è psichico in senso pregnante, di tutti gli “atti” e gli
stati dell'io, che corrispondono a ciò che è noto, ad esempio, con il nome di percezione, fantasia, ricordo, giudizio,
sentimento, volontà, con tutte le loro innumerevoli forme particolari. Restano qui escluse le “sfumature” ultime,
che appartengono a quanto di indeterminabile vi è nel “flusso”, mentre al tempo stesso la tipica descrivibile del
fluire ha a sua volta le sue "idee" che, colte e determinate intuitivamente, rendono possibile l'assoluta
conoscenza» [E. Husserl, op. cit., pag. 55]. Si tratta di un passo straordinariamente ricco di riferimenti teoretici.
Ne abbiamo già anticipato alcuni risvolti trattando del tema della filosofia intesa come scienza rigorosa. Il suo
fine, come si è visto, è il raggiungimento di evidenze stabili, di una conoscenza assoluta e - come scrive Husserl “valida in generale”. L’epoché fenomenologica permette di “portare a datità” ciò che è “percezione”, ovvero di
individuare nel flusso dei vissuti “un che di adeguatamente intuito”, un che di “assolutamente dato”. Ma a quale
livello si posso dare giudizi assoluti e quando, esattamente, si può pervenire a una conoscenza “valida in
generale”? Husserl risponde in questo modo: «Ogni giudizio che porta ad espressione adeguata in concetti fissi
adeguatamente formati ciò che risiede nell'essenza, il modo in cui essenze di un certo genere o di una certa
specie particolare si connettono con certe altre, il modo in cui, ad esempio, si uniscono tra loro “intuizione” e
“vuota intenzione” [leere Meinung], “fantasia” e “percezione”, “concetto” e “intuizione” ecc., e sulla base di questa
o quella componente essenziale sono necessariamente “unificabili”, accordandosi per così dire tra loro come
“intenzione” [Intention] e “riempimento” [Erfüllung], oppure al contrario sono non unificabili, fondando così una
“coscienza di elusione” [Bewußtsein der Enttäuschung] ecc.: ogni giudizio di questo tipo è una conoscenza
assoluta, valida in generale e, in quanto giudizio d'essenza, di un genere tale che sarebbe un controsenso volerlo
giustificare, confermare o contraddire mediante l'esperienza. Esso fissa una “relation of ideas”, un a priori [...]».
[E. Husserl, op. cit., pag. 57]. Dunque l’aver abbandonato il piano dell’esistenza comporta, implicitamente, un
porsi di fronte alla possibilità di individuare le essenze, ovvero di districare i fasci di riferimento della coscienza
agli oggetti selezionandone e descrivendone qualità e modi tipici. «La pura fenomenologia in quanto scienza scrive Husserl - nella misura in cui è pura e non fa alcun uso della posizione esistenziale della natura, può essere
soltanto ricerca d'essenza e non ricerca d'esistenza. Ogni “introspezione” ed ogni giudizio compiuto sulla base di
una tale “esperienza” cade al di fuori di questo ambito. Il singolo nella sua immanenza può essere posto soltanto
come un “questo qui” - questa percezione fluente, questo ricordo ecc. - e in ogni caso può essere sussunto sotto i
rigorosi concetti d'essenza dovuti all'analisi d'essenza. Infatti, l'individuo non è essenza, ma “ha” un'essenza, che
si può enunciare di esso in modo evidente e valido. Una tale mera sussunzione non può però chiaramente
determinarlo come individuo, attribuendogli una posizione in un “mondo” d'esistenze individuali. Per essa il
singolare è eternamente l'àpeiron. Essa può conoscere in modo oggettivamente valido solo essenze e relazioni di
essenze e così compiere in maniera definitiva tutto ciò che è necessario alla comprensione chiarificante di ogni
conoscenza empirica e di ogni conoscenza in genere: la chiarificazione dell'”origine” di tutti i “principi” logicoformali e logico-naturali e di ogni altro “principio” guida, nonché di tutti i problemi, a ciò strettamente connessi,
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inerenti alla correlazione dell'“essere” (essere di natura, essere di valore ecc.) e della “coscienza”» [E. Husserl, op.
cit., pag. 62].
"Critica"
La rilevanza dell'articolo La filosofia come scienza rigorosa sta anche nel suo essere compreso fra due distinte
fasi creative dell'opera di Husserl: in questo senso si può dire che esso rappresenti una sorta di "bilancio
provvisorio" nel periodo compreso tra le Ricerche Logiche e le Ideen. Il punto di partenza per questa riflessione è
dato dalla constatazione polemica della crisi della filosofia. Di fronte a quello che viene giudicato come uno stato
di empasse della filosofia contemporanea Husserl ricorda con amarezza la frase di Kant: «Non si impara la
filosofia, si impara soltanto a filosofare» [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 5]. In questa affermazione è possibile secondo Husserl - riassumere tutta la crisi della filosofia e la sua mancata maturazione ad autentica e genuina
scienza rigorosa. Tutto, perfino dopo Kant, sembra essere rimasto una mera questione di punti di vista, di
opinioni discutibili senza fine. Ma non è solo questione di critica della/delle filosofie della weltanschauung:
occorre promuovere una critica più radicale, in grado di portare la filosofia al livello che le è proprio, ovvero al
livello di una scienza in senso stretto e rigoroso. Naturalmente, questo tentativo colloca immediatamente la
critica husserliana contro due fronti: il fronte dello psicologismo e il fronte dello storicismo. Per lo psicologismo,
la scienza fondante della filosofia è ovviamente la psicologia; per lo storicismo lo è la storia, intesa qui come
insieme di movimenti attraverso i quali passa lo spirito umano a seconda delle epoche e delle culture. Ma
entrambe queste concezioni per Husserl sono un controsenso. Infatti, ogni teoria pretende di avere validità
assoluta. Orbene, lo psicologismo e lo storicismo sono due teorie consistenti nel fondare la validità assoluta in
qualcosa che non la possiede: nei fatti. Esse incarnano una "teoria della non validità assoluta di ogni teoria".
Sono, dunque, un controsenso. Per Husserl sia psicologismo che storicismo rappresentano in ultima analisi due
varianti dello scetticismo. Lo storicismo non ammette infatti che il pensiero possa in nessun senso avere una
validità fuori dai confini del contesto storico in cui esso sorge. L'estrema conseguenza di questa impostazione è la
(paradossale) liquidazione dell'idea stessa di verità. È chiaro che di questo atteggiamento ne fa le spese in primis
proprio la filosofia (disciplina che tende invece al raggiungimento di una verità universale, valida per tutti gli
uomini indipendentemente dalle epoche storiche). E d'altro canto, così come per lo storicismo ciò che è vero in
un'epoca storica può non esser più vero in un'altra, allo stesso nodo per lo psicologismo ciò che è vero per una
determinata costituzione psichica o biologica potrebbe essere non più vero per organismi differenti. Contro
queste ricadute scettiche che accomunano storicismo e psicologismo, Husserl difende l'ideale di una filosofia
come scienza rigorosa, capace di raggiungere una verità universale. Lo psicologismo e lo storicismo si fondano
sul loro atteggiamento meramente psicologico e storico. Ma su una simile limitazione non si può edificare una
vera filosofia che intenda promuoversi come scienza in senso stretto e rigoroso. Per questo Husserl ricorre alla
riflessione critica, critica che in un certo senso rappresenta per il nostro filosofo “l'esperienza della ripetizione”.
Semerari, ricordando una nota del 1906 - cita una confessione autobiografica di Husserl: «In primo luogo - scrive
Husserl - nomino il compito generale che devo risolvere per me se voglio chiamarmi filosofo. [...] Intendo una
critica della ragione". Husserl scrive questa nota nel 1906 e giustamente Semerari si chiede come e in che senso
si possa porre - all'inizio del XX secolo - il problema della ragione. E’ chiaro che non si può più ripresentare il
problema in termini kantiani. Dopo Kant, ed in particolare dopo la pubblicazione de I principi metafisici della
scienza della natura (1786), dalla affermazione della impossibilità di pervenire ad una psicologia scientifica
(affermazione non perentoria, però, dato che Kant non affermava affatto che i fenomeni dell’anima non fossero
oggetto di conoscenza. Distinguendo tra ambito esteriore ed ambito interiore dell’esperienza, Kant aveva
piuttosto sostenuto che ciascun ambito è “a suo modo” conoscibile, evitando così di porre una pietra tombale
sulla psicologia come scienza), si erano sviluppate, nel corso dell’800, due diverse tradizioni. Semplificando,
potremmo dire che una prima tradizione restava convinta della inapplicabilità del metodo matematico scientifico
alla psicologia e quindi opponeva un netto rifiuto all’idea di una “psicologia scientifica” (Lotze), mentre un’altra
tradizione restava comunque convinta della necessità di pervenire ad un metodo specifico per l’indagine della
psiche e dei fenomeni della interiorità (Herbart, Fechner, Mill, Wundt). E’ da questa tradizione che nascerò la
psicofisica (Wundt). Mentre in questo versante si procedeva alla “naturalizzazione della coscienza”, per usare
una tipica espressione husserliana (la cui tappa più eclatante è senz’altro costituita dalla fondazione del primo
laboratorio di psicologia fisiologica a Lipsia, nel 1879), dall’altra parte autori come Lotze e Brentano
procedevano con bel altre convinzioni. Lotze (con due opere quali La metafisica, del 1841 e La logica, del 1843)
aveva sostenuto con ostinazione l’idea che non tutta l’attività dell’anima fosse riconducibile alla psicofisica. Per
questo aveva circoscritto l’attività della coscienza, distinguendola dall’anima. Coscienza è per Lotze Bewußtsein,
ovvero quella parte di Seele (anima) o Geist (Spirito) che contempla una sorta di produttività a priori [e si tratta
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di un concetto importante, richiamato anche da Husserl con la sua nozione di spontaneità: «l'apprendimento
scientifico - scrive Husserl a pag. 5 - non è mai l'accettazione passiva di una materia estranea allo spirito, esso
poggia sempre sulla spontaneità (Selbstätigkeit), su di una riproduzione interiore delle evidenze razionali
(Vernunfteinsichten) ottenute da spiriti creatori, secondo principi e conseguenze»]. Per Lotze esisteva insomma
una sfera dell’attività umana non riconducibile alla psicofisica: Questa sfera trovava invece il suo fondamento in
alcuni principi logici elementari, la cui caratteristica era quella di valere. Si tratterebbe in questo caso di
un’attività spontanea della coscienza, spontaneità legata alla nozione di validità. Esistono delle verità che si
autogarantiscono, che valgono in sé. Idea ripresa da Brentano, che dirige la sua ricerca non sulle cose esistenti
“esteriormente” ma sulle “strutture di ordine fenomenico”. Tali strutture vengono illuminate dalla nozione di
validità. Per Brentano le cose appaiono all’orizzonte intenzionale del soggetto secondo strutture che sfuggono
all’indagine della psicologia scientifica. Per questo Brentano distingueva tra psicologia descrittiva e psicologia
genetica, distinguendo ulteriormente - in base alla nozione di intenzionalità - tra fenomeni psichici e fenomeni
fisici. Come si vede da questi brevi cenni, non era più possibile, all’inizio del XX secolo, affrontare il problema
della critica della ragione in termini kantiani. Ma al tempo stesso tale problema era ineludibile e - agli occhi di
Husserl - costituiva non un problema qualsiasi ma piuttosto il primo compito che un filosofo - se vuole davvero
chiamarsi tale - deve assolvere. E per Husserl tale critica assume - dopo Cartesio e dopo Kant - i contorni
dell'esperienza della ripetizione (il che non significa ovviamente ripetere letteralmente ciò che Cartesio e Kant
avevano detto, ma piuttosto riprendere il problema delle origini, passare attraverso l'esperienza di Cartesio e
Kant per non fermarsi ad essa. "Quello che conta è prendere alle origini, alle radici, il problema e tornare a
pensare su di esso" [Semerari]. La filosofia resta per Husserl l'aspirazione dell'umanità ad una conoscenza pura e
assoluta. Senza rinunciare alla riflessione cartesiana, ma al contrario prendendone spunto, bisogna
intraprendere una nuova rotta. Qual è questa rotta? La risposta va cercata in quella critica generale e radicale che
costituisce il punto di avvio della filosofia fenomenologica. Si tratta dunque di recuperare un atteggiamento
filosofico. Tale atteggiamento è determinato da ciò che si propone: una conoscenza, una scienza assoluta, dove
assoluto significa che si tratta di una conoscenza il cui oggetto non può essere messo in discussione, e che inoltre
su questo oggetto si abbiano conoscenze giustificate con piena evidenza dalla sua peculiare natura. Questa
conoscenza deve essere ottenuta in modo giustificato; in questo modo, l'intero universo delle conoscenze
filosofiche deve essere l'universo delle verità che ottenute dalla fenomenologia. Nel frattempo ogni altra verità
resta in sospeso. Un atteggiamento simile era già stato inaugurato da Cartesio. Per altro verso anche Kant aveva
intrapreso una critica radicale e generale della ragione. Nel recuperare questo atteggiamento filosofico, Husserl
cerca di pervenire ad un livello di radicalità assoluto. Vediamone brevemente i presupposti: se lo scetticismo
produce una situazione di dubbio radicale, la fase costruttiva dell'analisi filosofica deve partire da un
atteggiamento altrettanto radicale, individuando casi di evidenze indubitabili. In questa direzione Husserl
riprende l'argomentazione cartesiana: all'interno del nostro scettico smarrimento ci troviamo a dubitare di tutto
ma proprio così facendo reperiamo qualcosa di cui non possiamo assolutamente dubitare, poiché nel l'atto che io
giudico che tutto è dubitabile per me, è fuori di dubbio che lo giudico così, e che sarebbe un controsenso voler
tener fermo ad un dubbio universale. (L'dea della fenomenologia). Però l'argomentazione di Husserl non ha la
forma del cogito, ergo sum cartesiano: mentre Cartesio ricava dalla considerazione del cogito un punto
indubitabile a partire dal quale deve essere dedotto tutto il resto, per Husserl il ricorso al dubbio ha la funzione
di trasformare il mondo intero in fenomeno, e dunque di aprire una molteplicità di compiti descrittivi, in cui ciò
che è direttamente descrivibile e indubitabile è il mondo intero inteso come fenomeno, o "ridotto". Semplificando
potremmo dire che l'esito di tale atteggiamento in Cartesio ha come esito l'individuazione di una "res", di una
sostanza, mentre in Husserl si arriva alle essenze che la relazione intenzionale tra coscienza e fenomeni lascia
trasparire. Inoltre l'atteggiamento che conduce al fenomeno non è il dubbio, ma una riduzione di tipo diverso: la
riduzione fenomenologica. Cos'è il fenomeno? Cos'è la riduzione? Qual è il campo di ricerca filosofica aperto da
questa particolare forma di riduzione? Come si vede siamo di fronte ad un continuo rimandare e ricollegare tra
loro le nozioni ed i termini chiave della fenomenologia.
“Fenomeno”
Che intende Husserl con fenomeno? Possiamo partire dal senso etimologico del vocabolo: ciò che si manifesta (in
quanto si manifesta). Anzitutto, diciamo che fenomeno non significa "stati mentali": fenomeno non è uno stato
psichico. E questo perché tali stati psichici sono stati reali; e giacché sono tali, non sappiamo se hanno una
maggior realtà di quella che può avere l'oggetto di una percezione esterna. Neppure si tratta di fenomeni nel
senso che sono ciò che appare di una cosa che sta al di là del suo stesso apparire. Perché questa contrapposizione
non ci dice nulla in positivo su cosa sia l'apparente stesso. Dunque, per Husserl fenomeno non è qualcosa di
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contrapposto alla cosa in sé di Kant. Per Husserl, fenomeno è semplicemente ciò che è manifesto, in quanto è
manifesto. Ogni fenomeno include necessariamente colui dinanzi al quale è fenomeno: manifestarsi è
necessariamente manifestarsi a qualcuno. Correlativamente, ogni fenomeno è tale soltanto secondo i modi della
coscienza che lo intenziona. È quindi chiaro che, per Husserl, fenomeno e coscienza sono due termini correlativi:
ogni coscienza è coscienza di qualcosa, e questo qualcosa è il fenomeno che si dà in quella coscienza. Sappiamo
che la pratica della fenomenologia tende a ridurre ogni realtà alla condizione di fenomeno. Ora, per Husserl, tutto
sta nel dire cos'è questa operazione, cos'è questa riduzione. Poiché si tratta di una riduzione di tutto a puro
fenomeno, Husserl la chiama riduzione fenomenologica. Per intenderne la struttura, è necessario cominciare col
chiarire su che cosa opera questa riduzione; solo così riusciremo a determinare la natura peculiare della
riduzione stessa e a chiarire in che senso la fenomenologia riduce l’esperienza al livello fenomenico.
“Riduzione Fenomenologica”
Abbiamo detto che la fenomenologia esercita una riduzione sulla totalità del mondo in quanto tale. Per l'uomo
che vive secondo un atteggiamento naturale, come abbiamo visto, il mondo è - semplicemente - la totalità delle
cose reali. Ciò che abbiamo chiamato atteggiamento «naturale» consiste appunto nel vivere semplicemente ed
immediatamente in un mondo già dato. La naturalità della vita naturale consiste nel credere nella realtà del
mondo, dei suoi oggetti (al di là dell’esperienza) e di se stessi. Dunque, la vita naturale ha per supporto una
«fede» nella realtà del tutto; ogni credenza ulteriore è fondata su questa fede. Ebbene, la riduzione opera su
questa fede, cioè sulla credenza dell'esistenza "reale" del mondo intero, e consiste nel lasciarla in sospeso. Ma in
che consiste, esattamente, questa riduzione? Precisiamo subito che non si tratta di abbandonare puramente e
semplicemente questo mondo reale; cioè non si tratta di credere che il mondo in quanto tale non abbia esistenza.
Si tratta, al contrario, di continuare a viverlo e a vivere in esso, ma adottando, mentre lo si vive, un atteggiamento
particolare: porre in sospensione la validità della credenza nella sua realtà. Non si tratta insomma di negare
questa credenza - il che equivarrebbe a sostituirne una con un'altra - ma soltanto di sospendere la sua vigenza,
nel senso di astenersene. È quanto esprime il termine greco epoché: sospensione, astensione. Il mondo ed i suoi
oggetti vengono così “ridotti” ad essere soltanto ciò che appare alla coscienza e in quanto appare; cioè vengono
ridotti a puro fenomeno. Ecco perché questo tipo di riduzione è “fenomenologica”. La riduzione fenomenologica
comporta il superamento dell’atteggiamento naturale. Tale superamento permette di concentrarsi sull'éidos del
rapporto coscienza/oggetti. La riduzione fenomenologica è anzitutto e soprattutto una riduzione eidetica, una
riduzione dal fattuale (dato per scontato) all'eidetico. Il mondo, ridotto a fenomeno, risulta essere irreale (in base
all’assunzione dell’epoché). Irreale non significa in questo caso finto, falso o artificiale. L’eidetico non è un
artefatto, ma è la forma del darsi dell’esperienza. Irrealtà in questo caso significa che prescinde con l'epoché da
ogni riferimento alla realtà (che appunto viene messa tra parentesi). Anche in questo punto sembra evidente un
superamento della impostazione kantiana. Anche Kant aveva operato una sorta di riduzione, passando dagli enti
intesi come oggetto di conoscenza alle condizioni di intelligibilità di ogni oggetto in quanto tale, condizioni che
sono la forma stessa dell'intelletto umano. Ma il soggetto trascendentale di Kant rimaneva in qualche modo un
soggetto interno al mondo ed è appunto nel mondo e in relazione alle cose del mondo che acquistava il suo grado
fondamentale e fondante. Inoltre questo rango centrale dell'io, della coscienza, per Kant doveva consistere nel
dare forma all'oggetto in quanto oggetto. Per Husserl la coscienza non dà forma a ciò su cui si dirige. La coscienza
e il suo oggetto non sono in funzione di «conformazione», ma di mera «correlazione» il rapporto è dinamico,
come abbiamo detto, e non c’è alcuna superiorità (né da parte della coscienza né da parte dei suoi oggetti
correlati). L'unica cosa che la riduzione fa è sospendere la credenza nella realtà del mondo: dunque la coscienza
non crea né ridimensiona né legifera sull’oggetto; piuttosto, l'unica cosa che «fa» è avere l'oggetto come qualcosa
di manifestato, appunto: relazionarsi, intenzionandolo, all’oggetto. Gli oggetti dunque, restano indipendenti dalla
coscienza, ma si manifestano solo in e per una coscienza. Siamo evidentemente molto al di là, sia della metafisica
classica che della critica kantiana. La metafisica classica, da Platone in poi, pensava alla trascendenza come ad un
andare dalla realtà del mondo ad una causa (appunto: trascendente) che lo spiegasse. L’intenzione di Husserl è
invece - scartata la questione della sussistenza del mondo stesso - di comprendere il come delle cose in relazione
alla coscienza che le intenziona. E’ la fine della metafisica della causalità. Potremmo dire che si passa ad una
metafisica della modalità? L’oggetto, il nuovo oggetto della filosofia - da questo punto di vista - è l’essenza. Ma si
tratta, ancora una volta, di una nozione molto diversa da quella della metafisica classica. L'essenza è per Husserl
ciò che una cosa, «è». Essenza è l'essere delle cose. Il risultato della riduzione fenomenologica è la scoperta
dell'essenza, dell'essere delle cose. Il fenomeno puro è essenza, è essere: essere uomo, essere pietra, essere
cavallo, essere astro, essere verde, ecc. In cambio dell'aver posto tra parentesi la realtà delle cose, alimentata
dalla credenza fondamentale, ciò che abbiamo acquistato è nientemeno che l'essere stesso delle cose, la loro
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essenza. E questo è l'oggetto della filosofia. Questo oggetto ha sì un carattere assoluto, proprio nel momento in
cui si finisce con l’interrogarlo dalla prospettiva della metafisica della causalità. Le cose che si danno alla
coscienza, per esempio, sono più o meno verdi, triangolari, ecc. Però, «il» verde, «il» triangolo, sono pienamente
ciò che sono in se stessi. Ogni realtà di fatto è relativa alla sua essenza, ma invece l'essenza stessa non è relativa
al fatto. Sospeso il carattere di realtà, abbiamo davanti a noi qualcosa di assoluto. Ogni relativismo viene dalla
realizzazione fattuale dell'essenza. E’ un completo superamento del platonismo trascendentale? La ricerca
dell’assoluto scivola dal mondo delle idee alle modalità con cui la coscienza si relaziona agli oggetti intenzionati.
“Assoluto” non è per Husserl solo l’oggetto che si trova di fronte alla coscienza, ma anche la sua particolare
manifestazione alla coscienza. Quando percepisco qualcosa come realtà, ci sarebbe sempre la possibilità di un
errore, di un'allucinazione o un'illusione. Però, se sospendo questo carattere di realtà, allora rimango con il
percepito, così come si manifesta e in quanto si manifesta a una coscienza. Il possibile carattere allucinatorio o
reale della percezione è perfettamente indifferente. Ciò che «è» il verde è indifferente al fatto che la cosa sia o
non sia realmente verde. La coscienza in riduzione è sufficiente a se stessa; è l'unico ente che non necessita di
nessun altro per essere. È, dunque, l'unico essere assoluto.
"Naturalismo"
In epoca moderna lo sviluppo delle scienze positive e i loro successi portano alla convinzione che il sapere si dà
solo nel campo delle scienze particolari e, inevitabilmente, a una revisione del concetto di filosofia. In questo
senso, si può dire che buona parte della trama concettuale che fa da sfondo all'articolo sia percorsa dalla critica al
naturalismo e allo storicismo. Husserl cerca di definire il campo di ricerca proprio della filosofia rigorosa e contestualmente - un metodo di indagine appropriato. Tale metodo evidenzia - nel suo sviluppo e nelle sue
finalità - una radicale ed irriducibile differenza nei confronti del naturalismo. Fenomenologia e naturalismo
hanno in comune un oggetto di studio, la coscienza, ma esprimono due atteggiamenti che sono irriducibili e tra
loro perentoriamente antitetici. Il naturalismo è per Husserl una forma di soggettivismo, perché riduce tutti i
concetti a strutture soggettive (psicologiche e o biologiche). Il naturalismo è alla fine una forma dì scetticismo,
perché, se se ne traggono coerentemente tutte le conseguenze, come ogni altra forma di relativismo deve finire
per dissolvere del tutto la verità nell'adeguatezza rispetto alle varie strutture soggettive di fatto date, e quindi
eliminare la nozione di verità in sé, valida per tutti. Ecco allora perché l'espressione “filosofia naturalistica” è in
questo articolo sempre dispregiativa: essa indica un pensiero appiattito su un metodo ingenuamente scientifico.
Ma agli occhi di Husserl, tale pensiero ha due colpe fondamentali: a) l’idea che il mondo fisico sia l’unico
conoscibile con certezza; b) l’aver proceduto ad una naturalizzazione della coscienza, che riducendola a mera
realtà fisica. Nel testo la «filosofia naturalistica» (termine che compare a pag. 13) viene subito accomunato allo
storicismo. Già dalla pagina seguente si parla di «Naturalizzazione della coscienza», e quindi naturalismo e
psicologismo vengono immediatamente accomunati. «Ciò che caratterizza ogni forma di estremo e conseguente
naturalismo - scrive Husserl - dal materialismo comune fino alle più recenti forme di monismo sensistico e di
energetismo, è da un lato la naturalizzazione della coscienza, incluse tutte le datità di coscienza intenzionaliimmanenti, e dall'altro la naturalizzazione delle idee e con ciò di ogni ideale e norma assoluti. In riferimento a
quest'ultimo aspetto il naturalismo, senza accorgersene, nega se stesso. Se prendiamo la logica formale quale
indice esemplare di ogni idealità, è noto come i principi logico-formali, le cosiddette leggi del pensiero, siano
interpretati dal naturalismo come leggi naturali del pensiero. Che ciò comporti quel genere di assurdità che
caratterizza ogni teoria scettica in senso pregnante, è già stato mostrato in modo dettagliato in altro luogo. Anche
l'assiologia e la filosofia pratica del naturalismo, etica inclusa, possono essere sottoposte a una simile critica
radicale, nonché la stessa prassi naturalistica. Infatti, alle assurdità teoretiche seguono inevitabilmente assurdità
(evidenti incoerenze) nell'attuale condotta teoretica, assiologica ed etica. […]» [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 15].
Concetto che verrà ripetuto ed ampliato più avanti, a pag. 41-42, dove Husserl si ricollega nuovamente
all’equivoco del naturalismo e all'atteggiamento naturalistico della psicologia: «La psicologia però, con i suoi
istituti e strumenti di precisione, con i suoi metodi accuratamente elaborati, si sente con diritto superiore alle
ingenue conoscenze empiriche dell'anima proprie dei tempi antichi. Inoltre essa non ha mancato di compiere
riflessioni metodiche accurate e sempre rinnovate. Come poteva sfuggirle la cosa di principio più essenziale di
tutte? […] Ora tutto ciò poteva e doveva sfuggirle per il suo atteggiamento naturalistico, nonché per il suo zelo
nel volere emulare le scienze della natura e nel considerare il procedimento sperimentale come la cosa più
importante. Nelle sue laboriose e sovente acute considerazioni sulle possibilità dell'esperimento psicofisico, nei
tentativi di definire ordinamenti sperimentali, nella costruzione dei più sofisticati apparecchi, nel rintracciare
possibili fonti di errore ecc. essa ha tuttavia trascurato di approfondire la questione di come e per mezzo di quali
metodi quei concetti, che appartengono in maniera essenziale ai giudizi psicologici, possano essere portati dallo
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stadio della confusione a quello della chiarezza e della validità oggettiva. Essa ha trascurato di considerare in che
misura lo psichico, anziché essere rappresentazione di una natura, possegga piuttosto un'essenza propria, che
deve essere indagata rigorosamente e in maniera perfettamente adeguata prima di ogni analisi psico-fisica. La
psicologia non ha considerato che cosa risieda nel “senso” dell'esperienza psicologica e quali “esigenze” l'essere,
nel senso dell'essere psichico, ponga da sé al metodo. Ciò che ha costantemente confuso la psicologia empirica fin
dai suoi inizi nel XVIII secolo, è dunque l'illusione di un metodo scientifico-naturale sul modello del metodo della
fisica e della chimica» [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 41-42]. Eppure la psicologia sarebbe stata ad un passo
dall’imboccare la strada della scienza rigorosa: le sarebbe stato sufficiente riflettere sulla mancanza di
distinzione - nella sfera psichica - tra essere e apparire [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 48]. Al contrario, la psicologia
ha preferito evolversi nella direzione della psicofisica, ed in questo modo ha portato innanzi il progetto di una
completa reificazione della coscienza [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 49, ma anche pag. 19 e 29].
“Psicologia”
Il termine psicologia - così come il concetto di intenzionalità - può essere utile per evidenziare il debito (ed il
superamento) di Husserl nei confronti del suo maestro Franz Brentano. Husserl inizia a trattare della psicologia
criticando le pretese della psicofisica, ironicamente definita all’inizio dell’articolo con il termine di “psicologia
rigorosa”. Questa - scrive Husserl - «costituirebbe evidentemente il fondamento di tutte le scienze dello spirito,
nonché della metafisica. In riferimento a quest'ultima essa non sarebbe, a dire il vero, il fondamento privilegiato,
in quanto anche la scienza fisica della natura parteciperebbe in eguale misura alla fondazione di questa
universale dottrina della realtà. A tutto ciò obiettiamo: in primo luogo deve essere compreso in maniera
evidente-e una breve riflessione potrebbe mostrarlo-che la psicologia in genere, in quanto scienza di fatti, non è
in grado di fornire i fondamenti per quelle discipline filosofiche che hanno a che fare con i principi puri di ogni
istanza normativa, dunque con i principi della pura logica, della pura assiologia e della pratica». [Cfr. E. Husserl,
op. cit., pag. 20]. Le due principali concezioni che Husserl eredita da Brentano senza mai abbandonarle possono
essere individuate nella convinzione che la filosofia debba essere una scienza rigorosa che attinga direttamente
alla fonte dell'esperienza e, naturalmente, nella nozione di intenzionalità, pur se profondamente rielaborata
(Quinta delle Ricerche logiche). Ma può la psicologia edificarsi come scienza rigorosa? Alla fine del XIX secolo la
psicologia ha portato a compimento quel percorso che la condurrà da disciplina puramente filosofica a costituirsi
come una scienza autonoma di tipo sperimentale, fondata sul modello della fisica e della chimica. Questa nuova
scienza nasce ufficialmente proprio in Germania ad opera di Wilhem Wundt che nel 1873-74 pubblicò i
Fondamenti di psicologia fisiologica. Wundt dava alla nuova scienza psicologica un impianto concettuale basato
su un'interpretazione naturalistico-fisiologica dell'uomo e in particolare sull'associazionismo. Verso la fine del
secolo si assistette ad una travolgente ascesa di questa psicologia sperimentale, supportata dal rapido progresso
delle scienze fisiche, della biologia e dell'anatomia, cui essa faceva riferimento. In virtù della loro posizione
autorevole e socialmente prestigiosa di uomini di scienza in un'epoca di positivismo, gli psicologi ambivano a
ricoprire con le loro indagini tutta quell'area di fenomeni psichici cosiddetti "superiori", come i sentimenti, la
volontà e il pensiero, che fino ad allora erano dominio tradizionale della riflessione filosofica. Come alla fisica e
alla chimica era affidato il compito di analizzare i corpi fino ai suoi costituenti ultimi (atomi e molecole), alla
fisiologia quello di esaminare gli organi di senso e di individuare i singoli recettori responsabili dei processi
fisiologici alla base dei dati sensibili, analogamente alla sperimentazione psicologica si richiedeva di individuare
gli elementi ultimi dell'attività psichica, le sensazioni. Tuttavia, in questo stesso periodo nell'ambito della ricerca
psicologica si afferma un orientamento differente, per alcuni aspetti alternativo, facente capo all'insegnamento di
Franz Brentano. Anch'egli partiva dal presupposto che la nuova psicologia doveva prendere le distanze dalla
vecchia psicologia razionale, basata su assunzioni metafisiche, e divenire una scienza originaria dei fenomeni di
coscienza; tuttavia nella sua Psicologia da un punto di vista empirico, apparsa come l'opera di Wundt nel 1874,
Brentano sostiene che non è necessario trasferire la metodologia sperimentale propria delle scienze fisiche
nell'indagine psicologica: la psicologia doveva comunque basarsi su dati "empirici", ossia non costruiti in
maniera speculativa ma ottenuti dall'esperienza (in tal senso egli la considerava una psicologia empirica); anche
se tali dati andavano ricavati mediante il metodo della descrizione. In altri termini, piuttosto che effettuare
indagini sperimentali e ricavarne teorie naturalistiche, è necessario studiare i fenomeni psichici così come essi
vengono direttamente esperiti dalla coscienza, per poi procedere ad una loro classificazione sistematica. A tale
scopo Brentano si preoccupa di delineare ciò che contraddistingue i fenomeni psichici dai fenomeni fisici: ogni
fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli scolastici medioevali già chiamavano intenzionalità. Su questa
concezione dell'intenzionalità era confluita una eminente tradizione culminata nella scolastica medievale e le cui
radici sono rinvenibili, addirittura, nella psicologia aristotelica: nel De Anima Aristotele osservava infatti che "il
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sentito" in quanto sentito è presente nel senziente, che il senso recepisce il sentito senza la materia, che il
pensato è presente nell'intelletto pensante. Tommaso d'Aquino insegnava che il pensiero è intenzionale in colui
che pensa, così come l'oggetto d'amore lo è nell'amante e il desiderato nel desiderante, e utilizzava questa idea a
scopi teologici. Il recupero e l'utilizzo del concetto di intenzionalità da parte di Brentano, oltre a consentire di
distinguere la sfera del mentale dalla sfera di ciò che è fisico, è finalizzato ad evidenziarne la caratteristica
fondamentale, che è la "direzione" di un fenomeno psichico verso un oggetto. Ciò significa che Brentano utilizza
l'espressione intenzionale in riferimento, non tanto allo stato di coscienza, bensì al suo contenuto oggettuale. Nel
caso della percezione sonora il fenomeno psichico è rappresentato dall'atto dell'ascolto soggettivo del suono; il
fenomeno fisico va invece identificato nel suono ascoltato, ossia nell'oggetto cui si riferisce il fenomeno psichico
dell'ascoltare. L'oggetto intenzionale, inoltre, non è necessariamente una "realtà". Se, ad esempio, “mi raffiguro
un centauro, il fenomeno psichico è questo stesso atto immaginativo, mentre il centauro immaginato sarà,
evidentemente, un fenomeno fisico”. Il suono, il colore, il caldo e tutti gli altri fenomeni fisici che Brentano cita
come esempi hanno soltanto un'esistenza immanente o intenzionale, non vanno cioè confusi con i corrispondenti
oggetti della fisica. Questi ultimi sono gli autentici oggetti esterni, la cui esistenza è postulata teoreticamente e
per effetto dei quali sorgono in noi i fenomeni fisici. In altri termini, secondo Brentano la fisica indaga le leggi di
un mondo che rimane per noi inconoscibile; tutto ciò che possiamo sapere è che gli oggetti di tale mondo
ipotetico sono la causa "trascendente" dei fenomeni fisici e dunque delle nostre percezioni. Ma in Brentano il
termine "fenomeno" non indica soltanto il carattere immediato del dato percepito, ma anche la sua illusorietà. I
fenomeni fisici non godono, infatti, di un'esistenza effettiva e ciò equivale a dire che quanto l'esperienza
intenzionale ci offre si rivela, in definitiva, privo di un'esistenza che vada oltre l'esperienza stessa. Dunque noi
non abbiamo esperienza di ciò che esiste veramente. Per Brentano intenzionalità mette in relazione il soggetto
con un qualcosa di differente dalle sue percezioni o atti mentali, tuttavia essa non dà un accesso diretto al mondo
esterno, alle cose in "carne ed ossa". L'oggetto reale o trascendente può essere soltanto dedotto causalmente
dall'oggetto immanente, l'unico ad essere effettivamente conoscibile. In Brentano dunque l'intenzionalità non
serve ad assicurare un legame tra la coscienza e la realtà, tra l'interno e l'esterno. Questo legame è costruito
invece dal ragionamento causale, da una "deduzione causale", ed è mediante questa deduzione che noi
perveniamo ad un mondo esterno realmente esistente. Dal 1884 al 1886 Husserl seguì all'università di Vienna le
lezioni di Franz Brentano: qui si rese conto che anche in filosofia era possibile un lavoro serio e rigoroso, al pari
che nelle scienze esatte. Per Husserl Brentano restava il pioniere nella ricerca nell'esperienza interna alla
coscienza. Tale esperienza si fonda sull'intenzionalità, che Brentano assume come proprietà di base della vita
psichica. Husserl riconoscerà sempre al suo antico maestro il grande merito di aver avviato, nel suo tentativo di
riformare la psicologia, un'analisi del carattere peculiare del psichico (in contrapposizione al fisico), e di aver
rilevato tra gli altri suoi caratteri l'intenzionalità. Tuttavia Husserl non fu insensibile ai limiti dell'impostazione
brentaniana. In sostanza tale limite si risolve nel fatto che anche Brentano rimase impigliato nei pregiudizi della
tradizione naturalistica. In altri termini, secondo Husserl, in Brentano permarrebbe un dualismo di tipo
cartesiano tra la sfera del mentale, contraddistinta dall'intenzionalità, e il mondo esterno, soggetto alla “causalità
psicofisica”. Abbiamo già accennato a come (fine ottocento) gli psicologi sperimentali, grazie all'affermazione e al
crescente sviluppo della loro disciplina, ambissero ad assorbire l'intero dominio tradizionale del pensiero
filosofico. Nell'articolo Husserl designa appunto tale tendenza psicologista in generale in modo dispregiativo
come “filosofia naturalistica” o “teoria naturalistica della conoscenza”. Essa è per Husserl caratterizzata dalla
“naturalizzazione delle idee”, vale a dire la riduzione delle verità ideali a processi psicofisici sottoponibili
all'indagine sperimentale. In questo consiste propriamente la “naturalizzazione della coscienza”: la soggettività
diviene una “mera variabile dipendente dal fisico”, dunque non dissimile da un qualunque altro ente del mondo
naturale. In tale programma di ricerca "naturalistico" rientra lo psicologismo logico, il quale all'epoca costituiva
l'indirizzo predominante nell'ambito degli studi di logica che discendevano dall'opera di John Stuart Mill (Cfr.
Sistema di logica induttiva e deduttiva, 1843). Questi studiosi di orientamento psicologista, riconducendo le leggi
e i concetti logici a "fatti" psichici, finivano -sotto l'influsso di John Stuart Mill - per ridurre le basi teoretiche della
logica alla psicologia. Per Mill infatti la logica non è una scienza separata dalla psicologia: nella misura in cui è
una scienza, essa è una branca o parte della psicologia. La logica viene insomma ridotta ad un ramo particolare
della psicologia. Veniamo quindi alla critica di Husserl. Per la "corrente psicologista", come si è detto, i principi
logici fondamentali della logica, come per esempio il principio di identità o di non-contraddizione, hanno un
valore "relativo" alla loro base fisiologica. In base all'approccio radicalmente empirista di J. S. Mill il principio di
non contraddizione si baserebbe sull'esperienza e la sua origine si spiegherebbe anzitutto con il fatto che il
credere e il non-credere sono due stati d'animo diversi che si escludono a vicenda: è quanto ci insegna la più
semplice introspezione. E se pure volgiamo la nostra osservazione verso il mondo esterno troviamo anche qui
che la luce ed il buio, il rumore ed il silenzio, l'uguaglianza e l'ineguaglianza, il precedere ed il seguire, la
successione e la contemporaneità, in breve ogni fenomeno positivo e la sua negazione, sono fenomeni distinti e
non sovrapponibili, che si trovano in un rapporto di netta opposizione: l'uno è sempre assente, là dove l'altro è
presente. Il principio di non-contraddizione è allora per Mill un assioma ricavabile da progressive
generalizzazioni compiute a partire da fatti concreti: in altre parole il principio di non-contraddizione è per Mill
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semplicemente una generalizzazione di eventi contingenti, di fatti fisici e psichici. Una delle obiezioni
fondamentali che Husserl immediatamente solleva contro questa concezione consiste nel fatto che essa non tiene
conto della validità apodittica del principio di non contraddizione. Detto altrimenti: considerare una legge logica
come una generalizzazione induttiva di eventi empirici significa attribuirle tutt'al più una probabilità
teoreticamente fondata di grado molto elevato (cosi come accade per le leggi della fisica), senza essere in grado,
in linea di principio, di escludere una possibile falsificazione. All'interno di questo quadro, evidentemente, c'è
spazio solo per una verità "depotenziata", in quanto sempre dipendente e relativa, mai assoluta. Siamo in
sostanza di fronte alla liquidazione dell'idea stessa di verità. In ogni caso, il nucleo della strategia confutatoria di
Husserl consiste nel ricondurre tale impostazione psicologista al relativismo scettico, evidenziandone l'assurdità.
Lo scetticismo - anche se implicito - contravviene alle condizioni evidenti della possibilità di una teoria in
generale perché in ultima analisi in base alla sua impostazione relativistica pretende di eliminare la differenza
tra una teoria giustificata razionalmente ed una asserzione arbitraria. Se dunque, contro questa stessa negazione
di una verità assoluta ed universale, pretende di essere vero, esso è formalmente e sostanzialmente
autocontraddittorio. Husserl mostra che lo psicologismo è una forma di scetticismo e in quanto dunque le sue
tesi contravvengono le condizioni di possibilità di una teoria razionale. Lo psicologismo soffre in realtà di un
particolare tipo di relativismo, diverso da quello individuale protagoreo, il quale stabilisce la dipendenza della
verità dal singolo individuo. Lo psicologismo si presenta infatti come relativismo specifico o antropologismo
(termine che Husserl usa frequentemente in riferimento alle mode filosofiche del proprio tempo), in quanto
riferisce le leggi logiche e la loro validità alla costituzione della psiche della specie umana. Essendo dunque un
relativismo specifico, lo psicologismo risulta una forma di scetticismo, poiché sostanzialmente ritiene che al di
fuori della nostra specie, per altri ipotetici esseri intelligenti, i principi logici fondamentali potrebbero non essere
validi. Nell'affermare tutto questo lo psicologista-relativista palesemente si contraddice, poiché, sostenendo le
sue tesi, continua a pretendere di parlare di verità nel senso che è fissato dai principi logici fondamentali, quel
senso al quale noi esclusivamente ci riferiamo ogni qual volta parliamo di verità. Lo psicologismo deve essere
pertanto radicalmente superato. Tale superamento viene già indicato come momento propedeutico
all'edificazione di una filosofia come scienza rigorosa e diventa esplicito nella introduzione del 1913 al secondo
volume delle Ricerche logiche, dove è lo stesso Husserl a chiarire i termini del problema: «in che modo dobbiamo
intendere il fatto che l'"in sé" dell'obbiettività giunge a "rappresentazione", anzi ad "apprensione" nella
conoscenza, ridiventando così soggettivo; che cosa significa che l'oggetto sia "dato in sé" e nella conoscenza;
come può l'idealità del generale, in quanto concetto o legge, presentarsi nel flusso dei vissuti psichici reali e
diventare possesso conoscitivo del soggetto pensante» passo, questo, che mostra straordinarie assonanze con un
altro passo de La filosofia come scienza rigorosa, dove Husserl si propone appunto di chiarire «Come possa
l'esperienza, intesa come coscienza, dare o incontrare un oggetto; come possano delle esperienze giustificarsi o
correggersi reciprocamente mediante altre esperienze e non soltanto invalidarsi o rafforzarsi soggettivamente;
come può un gioco della coscienza logico-esperienziale significare un che di oggettivamente valido, di valido cioè
per cose essenti in sé e per sé; perché per così dire le regole del gioco della coscienza non sono irrilevanti per le
cose; in che modo la scienza della natura deve divenire in tutto e per tutto comprensibile, nella misura in cui essa
pretende di porre e conoscere in ogni suo passo una natura in sé essente - in sé essente cioè di contro al flusso
soggettivo della coscienza […] [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 24]. «La psicologia sperimentale, cui nessuno potrà
negare il rango di scienza rigorsa” [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 20] manifesta dunque la sua insufficienza. «Ciò
che ha costantemente confuso la psicologia empirica fin dai suoi inizi nel XVIII secolo, scrive Husserl, è […]
l'illusione di un metodo scientifico-naturale sul modello del metodo della fisica e della chimica. Vi è la sicura
convinzione che il metodo di tutte le scienze empiriche sia, considerato nella sua universalità di principio, uno
solo ed identico, lo stesso pertanto nella psicologia come nelle scienze della natura fisica. Se la metafisica ha per
lungo tempo sofferto della falsa imitazione ora del metodo della geometria ora di quello della fisica, la stessa
situazione si ripete ora per la psicologia. È significativo il fatto che i padri della psicologia sperimentale esatta
siano stati fisiologi e fisici» [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 43]. La psicologia, in sostanza, ha trascurato di
considerare in che misura lo psichico, anziché essere rappresentazione di una natura, possegga piuttosto
un'essenza propria, che deve essere indagata rigorosamente e in maniera perfettamente adeguata prima di ogni
analisi psico-fisica. «La psicologia - osserva Husserl - non ha considerato che cosa risieda nel “senso”
dell'esperienza psicologica […]» [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 43]. Concludendo possiamo dire che
complessivamente l'intera impresa fenomenologica si può considerare come un tentativo di mettere in relazione
il mondo dei concetti della logica formale e della matematica con l'ambito soggettivo della psicologia. Da questo
punto di vista sarebbe interessante un approfondito esame dell’influenza esercitata da Lotze. Occorrerà qui solo
rimarcare come la teoria del valore in sé delle proposizioni della logica sostengano Husserl nell’assestare il colpo
di grazia allo psicologismo (mostrando che esso è una forma di scetticismo logico e che dunque le sue tesi
contravvengono le condizioni di possibilità di una teoria razionale).
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“Essenza” - “visione d'essenza”
“Essenza” è un termine di singolare complessità: si ricollega direttamente a tutti i concetti chiave individuati nel
testo. Abbiamo già avuto modo di vedere come e in che senso per Husserl l'essenza sia precisamente ciò che una
cosa «è». Essenza è l'essere delle cose. Il compito della filosofia [pag. 106] è risalire alle origini ultime, movendosi
nelle sfere dell'intuizione diretta fino appunto a giungere all’essenza delle cose: la fenomenologia è “dottrina
d'essenza” [pag. 81]. Abbiamo già citato un passo di capitale importanza, dove Husserl osserva che «La visione
d'essenza non offre difficoltà o segreti “mistici” maggiori della percezione. Se portiamo intuitivamente a piena
chiarezza, a piena datità, il “colore”, ciò che è dato è allora un'essenza, e se ora allo stesso modo in una pura
intuizione, volgendo lo sguardo da percezione a percezione, portiamo a datità ciò che è “percezione”, la
percezione in sé-vale a dire quest'identico di ogni qualsiasi singolarità percettiva fluente-abbiamo allora colto
intuitivamente l'essenza percezione. Fin dove arriva l'intuizione, l'avere coscienza intuitivo, giunge anche la
possibilità della corrispondente “ideazione” (come ero solito dire nelle Ricerche logiche) o della “visione
d'essenza”. Nella misura in cui l'intuizione è un'intuizione pura, che non include alcuna cointenzione transiente,
l'essenza intuita è un che di adeguatamente intuito, un che di assolutamente dato». [Cfr. E- Husserl, op. cit., pag.
54-55]. La visione d’essenza - wesen-shauung [pag. 54] - è - secondo Husserl - anche il fondamento ultimo di ogni
metodo psicologico. Ma che cos’è esattamente la visione d’essenza? Rispondiamo osservando che la visione
d'essenza costituisce il momento fondamentale della ricerca fenomenologica in atto. Nella visione d'essenza la
coscienza arriva a cogliere l'oggetto della ricerca fenomenologica: l'eidos, l'essenza pura. La visione d'essenza
non è limitata ai dati di fatto empirici. Non è quindi limitata alla percezione. Secondo Husserl l’atteggiamento
naturalistico - ancora una volta - rende incapaci di astrarre la natura e di sottoporre anche lo psichico ad oggetto
di studio di questa ricerca intuitiva. Sempre l’atteggiamento naturalistico impedisce il sorgere di una grande
scienza - la filosofia come scienza rigorosa - che è condizione fondamentale per una psicologia pienamente
scientifica e dall’altro il campo di una autentica critica della ragione. Il naturalismo rende impossibile cogliere le
essenze. All’atteggiamento naturalistico viene infatti preclusa la capacità dell’intuizione immediata di cogliere le
essenze. «Se i fenomeni in quanto tali non sono natura, scrive Husserl, essi hanno allora un'essenza che può
essere colta in maniera adeguata in un'intuizione immediata. Tutti gli enunciati che descrivono i fenomeni
mediante concetti diretti, lo fanno, nella misura in cui sono validi, mediante concetti d'essenza, dunque mediante
significati concettuali che devono potersi riscattare in una visione d'essenza [Wesenschauung]» [Cfr. E. Husserl,
op. cit., pag. 53-54]. E poco più avanti Husserl osserva che le essenze portate a datità, che possono dunque essere
distinte e fissate in modo assoluto - non riguardano soltanto i contenuti sensibili, ma anche gli atti e gli stati
dell'io (percezione, fantasia, ricordo, giudizio, sentimento, volontà - collegamento a Brentano). Le «essenze» colte
nella «visione d'essenza» possono essere fissate in concetti stabili rendendo così possibili enunciati stabili nel
loro genere oggettivamente ed assolutamente validi (= fondazione della filosofia come scienza rigorosa, della
filosofia come sapere "forte"). La visione d'essenza non è affatto esperienza (nel senso della percezione, del
ricordo o di atti simili): «L'intuizione coglie l'essenza come essere d'essenza e non pone in alcun modo
un'esistenza» [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 56], l'intuizione cioè coglie le essenze - che sono dei modi del darsi
degli oggetti alla coscienza e non degli enti che esistono (empiricamente dati). Husserl parla appunto di «ricerca
fenomenologica d'essenza» [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 59]: la fenomenologia si concentra sulle modalità con cui
le molteplici percezioni giungono a portare a manifestare uno e lo stesso oggetto. Infatti - pag. 51 - secondo
Husserl il problema del come posso essere sicuro che la mia percezione sia la percezione proprio di
quest'oggetto che o di fronte (cioè percezione del suo orientamento, del colore, della sua forme, etc.) è un
problema che riguarda la sua essenza e non la sua esistenza - è cioè un problema che riguarda il modo con cui gli
oggetti si riferiscono, si danno alla coscienza. È infatti alla coscienza pura che l’essenza - in quanto fenomeno - si
manifesta. La «pura fenomenologia» è ricerca d'essenza, non di esistenza [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 61].
“Fenomenologia”
È senz'altro ovvio: il termine "fenomenologia" è di fondamentale importanza. Meno ovvio e meno facile è
definirne i contenuti. Diciamo anzitutto che "fenomenologia" è un metodo: la fenomenologia non si propone
come "una filosofia" o meglio come "un sistema filosofico" che presupponga determinati principi in base ai quali
si debba operare, in modo più o meno deduttivo o argomentativo, un’organizzazione del sapere; e neppure essa
si presenta come "una concezione del mondo" che possa offrire precetti di comportamento pratico o morale.
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Chiarire la natura e l'impianto teleologico della fenomenologia significa invece entrare nell'ambito di una
filosofia dell’esperienza che si pone in modo radicale, che è in grado di caratterizzare gli atti dell’esperienza
esibendo le loro differenze di struttura. Al livello di riflessione su tali strutture la fenomenologia è in grado di
mostrarne le «essenze». Le parole d'ordine della fenomenologia sono concetti chiave quali per esempio
“atteggiamento naturale”, “riduzione”, “intenzionalità”, “atteggiamento fenomenologico”, “visione d’essenza”,
“coscienza”, “esperienza” e “datità”. Chi vi si avvicina per la prima volta - come il sottoscritto - prova
inevitabilmente un senso di smarrimento. Husserl non si preoccupa affatto di esporre “una” (a questo punto
verrebbe da dire: “tra le tante”) idea di uomo, o una concezione metafisica della storia o dell’essere in rapporto al
divenire. Insomma Husserl non sembra (inizialmente) interessato ad esporre un qualsiasi scenario di idee
consistenti in contenuti metafisici o - peggio - dottrinali, che possano per questa ragione offrire un primo e
immediato orientamento filosofico-ideologico come dire, nel senso “usuale” del termine. Ad Husserl interessa
invece intraprendere un’altra strada, illuminata da una costellazione di concetti che riguardano una critica
radicale della filosofia in generale e dell’epistemologia in particolare. Che cos’è la conoscenza? Come e in che
senso possiamo ottenere conoscenze valide ed indubitabili, di spessore e di rigore assoluto? Sono questi gli
interrogativi della ricerca fenomenologica, ai quali Husserl risponde appunto con l’ideazione di un metodo di
ricerca, di ricerca filosofica in quanto tale. In questo senso è perfino troppo evidente la differenza che segna
l’esperienza di Husserl rispetto a quella di tutti gli altri filosofi. Per lo sguardo fenomenologico la ricerca di una
sostanza, di un principio primo, presuppone l’abbandono (per la prima volta?) di una concezione essenzialmente
metafisica della filosofia. La «messa tra parentesi» di ogni teoria presuppone infatti l’abbandono di ogni scenario
metafisico, soprattutto di ogni atteggiamento metafisico, anche se occulto. A questo si ricollega evidentemente
con il tema dell’epoché fenomenologica, uno dei cardini di tutto il sistema husserliano. Tenendo ovviamente
presente che Husserl non intendeva senz’altro proporre un atteggiamento di risolutiva spontaneità o innocenza,
di assoluta ingenuità filosofica, che ad una prima, superficiale lettura, potrebbe anche apparire come una
condizione esenziale affinché la coscienza intenzionate si apra alla verità del dato, alla datità fenomenologica
come tale non coperta da attribuzioni di senso precostituite, frutto appunto di un atteggiamento pregiudiziale di
impronta metafisica e sostanzialmente naturalistico. Husserl sapeva bene che i pregiudizi in quanto tali agiscono
ad insaputa della coscienza e quindi si trovano (in quanto pregiudizi) al di fuori dall’ambito della ragione
giudicante. In questo senso non può esserci nessuna liberazione né immediata né definitiva dai pregiudizi.
L’individuazione dei pregiudizi ed il loro superamento acquistano il senso di una ricerca continua, che in Husserl
assume i contorni di una continua e progressiva critica dell’esperienza, a partire da una critica dell’intenzionalità
degli atti di coscienza. Il punto di partenza è - ancora una volta - il dubbio cartesiano. E fin dall’inizio la ricerca si
rivolge non all’indagine di “una sostanza”, ma piuttosto agli attributi “operativi” della coscienza (ai caratteri
dell’intenzionalità, al tema della rappresentazione). Il tema della fondazione sfugge qui al terreno della
metafisica (sul quale era invece rimasto Cartesio) per portarsi su quello delle modalità operative della coscienza,
a partire dal suo carattere intenzionale. La fenomenologia, per questa strada, si snoda in un orizzonte di ricerca
che riguarda la filosofia dello spirito e dell’esperienza (una filosofia della soggettività) interamente edificata sulla
questione del metodo, che solo in seconda istanza può comportare ricadute terreno della responsabilità etica.
Anche se proprio da questo terreno l’esigenza di una ricerca scientificamente orientata ha preso origine (cfr.
Semerari, Prefazione, op. cit.). Tra gli scopi della filosofia, e fra i suoi scopi più importanti, vi è certamente quello
di portare chiarezza nei nostri pensieri. Husserl stesso propone una sintetica definizione di fenomenologia «Ci
imbattiamo così in una scienza - della cui enorme estensione i contemporanei non hanno ancora alcuna idea-che
è sì scienza della coscienza, sebbene non psicologia, vale a dire in una fenomenologia della coscienza di contro ad
una scienza naturale della coscienza. Ma poiché non si tratterà qui soltanto di un casuale equivoco, ci si dovrà già
aspettare che fenomenologia e psicologia debbano stare in un'intima relazione, avendo entrambe a che fare con
la coscienza, sia pure in modi differenti, in un “atteggiamento” differente; cosa che potremmo esprimere dicendo
che la psicologia ha a che fare con la “coscienza empirica”, con la coscienza colta nell'atteggiamento empirico,
intesa come qualcosa che esiste nella connessione della natura; di contro, la fenomenologia tratta della “pura”
coscienza, vale a dire della coscienza colta nell'atteggiamento fenomenologico». [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 28].
"Storicismo e filosofia della weltanschauung"
Entriamo così nella “Seconda parte” dell’articolo. In Dilthey il termine Weltanschauung indica la concezione della
storia come seguito di epoche, di sistemi aventi in sé il proprio centro e nei quali dal rapporto tra parti e tutto si
coglie il significato globale di ciascuno di essi. Da questa impostazione deriva che ogni filosofia risulta
condizionata dall'epoca in cui nasce e legata a essa, ne è cioè l'espressione appunto come Weltanschauung,
visione del mondo legata alla coscienza e ai valori dell'epoca. Ne La filosofia come scienza rigorosa - come
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osserva anche il Semerari - Husserl «si riferisce esplicitamente al filosofo dello storicismo come a colui che con il
relativismo, che sarebbe inseparabile dallo storicismo, e in oggettiva alleanza con il naturalismo, fa scadere la
filosofia al rango di Weltanschauung ossia di una mera visione del mondo: così a essa resta affatto estranea
l'istanza della scienza rigorosa e, per questo, si espone alla declinazione scettica». [cfr. E- Husserl, op. cit.,
Prefazione, pag. XVI]. Si tratta quindi di un termine utilizzato in una accezione prevalentemente negativa. Il
termine Weltanschauung compare nell’articolo molto presto (per la prima volta a pag. 10, nella sezione dedicata
ad una breve e suggestivamente incompleta “storia della filosofia” che Husserl espone al fine di poter meglio
delineare il suo obiettivo propositivo) e non cesserà di indicare quel tipo di filosofia che deve essere superato.
Fin dall’inizio la filosofia della Weltanschauung viene infatti accomunata allo scetticismo naturalistico. Poco più
avanti - siamo a pag. 12 - viene poi esplicitamente accomunata allo storicismo: Husserl parla qui di una "notevole
svolta" che vuole muoversi in una direzione molto diversa rispetto a quella del naturalismo ma che sotto
l'influsso dello storicismo sembra volersi allontanare dalle linee della filosofia scientifica e sfociare in una "mera
filosofia della Weltanschauung". «Weltanschauung e filosofia della Weltanschauung sono formazioni culturali che
appaiono e scompaiono nel corso dello sviluppo dell'umanità, dove il loro contenuto spirituale è motivato in
modo determinato dalle relazioni storiche date». [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 74]. L'analisi della filosofia della
weltanschauung viene condotta - più che per un interesse genuino - per edificare un ulteriore obiettivo polemico
da contrapporre alla fenomenologia, alla filosofia rigorosa. Ancora una volta il metodo è illuminato dalla
chiarezza concettuale: un continuo distinguo volto a mettere in luce tutte le differenze possibili tra
fenomenologia e filosofie ingenue o relativistiche e nel contempo in grado di delineare con chiarezza e da
molteplici punti di vista i contorni del metodo fenomenologico. Quello che Husserl si propone è infatti
«considerare il senso e la legittimità della filosofia della Weltanschauung, per contrapporla poi alla filosofia come
scienza rigorosa. La moderna filosofia della Weltanschauung - conclude Husserl - è [....] una figlia dello
scetticismo storicistico». [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 81]. Agli occhi di Husserl i sostenitori della filosofia della
Weltanschauung si trovano in una insostenibile contraddizione, della quale essi stessi sono consapevoli ma dalla
quale - accecati dallo storicismo - non riescono a liberarsi: «La maggior parte dei filosofi della Weltanschauung scrive Husserl - sono perfettamente consapevoli che la loro filosofia non è in grado di soddisfare appieno la
pretesa di rigore scientifico, e molti di loro ammettono almeno, molto francamente e onestamente, l'inferiore
livello scientifico dei loro risultati. Nonostante ciò essi hanno un'alta stima di questo genere di filosofia, che più
che scienza del mondo [Weltwissenschaft] vuole propriamente essere visione del mondo [Weltanschauung]; una
stima tanto più alta quanto più essi, sotto l'influenza dello storicismo, si oppongono in modo scettico al progetto
di una rigorosa scienza filosofica del mondo». [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 82] Tra filosofia come scienza rigorosa
e Weltanschauung vengono così evidenziate differenze essenziali: la fenomenologia - la filosofia come scienza
rigorosa - è in grado di cogliere essenze eterne e quindi - nel suo progressivo raggiungimento di verità assolute si pone essa stessa come un valore assoluto, sottratto al mutare delle epoche storiche. «L'“idea” della
Weltanschauung - scrive Husserl - è dunque in ogni epoca diversa, come risulta immediatamente dall'analisi [...]
del suo concetto. Di contro l'“idea” della scienza è un'idea sovratemporale, nel senso che non è limitata da alcuna
relazione allo spirito di un’epoca. A queste differenze sono connesse differenze essenziali nelle determinazioni
degli scopi pratici. Gli scopi della nostra vita sono in genere di due specie, gli uni relativi al tempo, gli altri
all'eternità; i primi servono alla perfezione nostra e dei nostri contemporanei, gli altri alla perfezione anche dei
posteri, fino alle generazioni più lontane. Con il termine scienza si indica un valore assoluto, atemporale. Ogni
valore di questo tipo, una volta scoperto, appartiene da allora in poi al patrimonio dei valori di tutta l'umanità
successiva e determina evidentemente subito il contenuto materiale dell'idea di cultura, sapienza,
Weltanschauung, nonché quello della filosofia della Weltanschauung. La filosofia della Weltanschauung e la
filosofia scientifica si distinguono così nettamente come due idee che si riferiscono in un certo modo l'una
all'altra, ma che non debbono essere confuse tra loro». [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag.]. Abbiamo già visto come
Husserl intenda fare della filosofia una scienza in senso stretto e rigoroso. Naturalmente, questo tentativo lo
colloca immediatamente contro due fronti: il fronte dello psicologismo e il fronte dello storicismo. Si è già detto
che per lo psicologismo, la scienza del fondamento della filosofia è la psicologia; per lo storicismo lo è la storia
come insieme di movimenti attraverso i quali passa lo spirito umano a seconda delle epoche e delle culture. Ma
entrambe queste concezioni per Husserl sono viziate da un irriducibile controsenso di fondo. Infatti, ogni teoria
pretende di avere validità assoluta. Orbene, lo psicologismo e lo storicismo sono due teorie consistenti nel
fondare la validità assoluta in qualcosa che non la possiede: nei fatti. Husserl si riferisce esplicitamente alle
conseguenze relativistiche che ogni approccio storicista inesorabilmente comporta, facendo in questo modo
scadere la filosofia al rango di Weltanschauung ossia di una mera visione del mondo: così a essa resta del tutto
estranea l'istanza della scienza rigorosa e, per questo, si espone ad una inesorabile (quanto in sé contraddittoria)
declinazione scettica. A pag. 71 Husserl osserva che anche se lo storicismo pretende di occuparsi dei fatti che
riguardano la vita empirica dello spirito, anche qui sorge un relativismo (parente stretto dello psicologismo
naturalistico) che ricade in analoghe difficoltà scettiche. Lo scetticismo viene così direttamente collegato alla
weltanschauung - pag. 74. Husserl cita direttamente Dilthey, aggiungendo delle considerazioni all’interno del
passo citato: «La teoria dello sviluppo [intesa come teoria scientifico-naturale dell'evoluzione, intrecciata alla
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conoscenza delle formazioni culturali nel loro sviluppo storico] è legata necessariamente alla conoscenza della
relatività propria della forma di vita storica. Di fronte allo sguardo che abbraccia la terra ed ogni evento passato,
svanisce la validità assoluta di ogni forma particolare di concezione della vita, di ogni forma di religione e di
filosofia. Così il formarsi della coscienza storica distrugge, in misura ancora più radicale dello sguardo
complessivo sul conflitto dei sistemi, la credenza nella validità universale di ognuna di quelle filosofie che hanno
cercato di esprimere in maniera costringente, mediante una connessione di concetti, la connessione del mondo».
Non vi è chiaramente alcun dubbio - osserva Husserl - circa la verità di fatto di quanto qui è detto. La questione è
però se tutto ciò, considerato nell'universalità di principio, possa essere giustificato. Certo, Weltanschauung e
filosofia della Weltanschauung sono formazioni culturali che appaiono e scompaiono nel corso dello sviluppo
dell'umanità, dove il loro contenuto spirituale è motivato in modo determinato dalle relazioni storiche date. Lo
stesso vale però anche per le scienze rigorose. Esse sono per questo prive di validità oggettiva? Questo potrà
forse sostenerlo uno storicista estremo, rifacendosi al mutamento delle conoscenze scientifiche ed osservando
che ciò che oggi vale come teoria dimostrata, domani viene riconosciuto come privo di valore e che quelle che per
alcuni sono leggi sicure, per altri sono mere ipotesi e per altri ancora vaghe supposizioni. E così via. Di fronte a
questo continuo mutare delle conoscenze scientifiche, non avremmo perciò effettivamente alcun diritto di
parlare di scienze non solo come formazioni culturali, ma anche come unità di validità oggettive? È facile vedere
che lo storicismo, portato fino alle sue ultime conseguenze, conduce all'estremo soggettivismo scettico». [Cfr. E.
Husserl, op. cit., pag. 73]. Chiaramente non è solamente lo «storicista estremo» che può arrivare a sostenere che
anche le "scienze rigorose" appaiono mutare nel tempo e quindi ciò che vale oggi come teoria dimostrata domani
viene riconosciuto come privo di valore. La ricaduta nel relativismo scettico costituisce una proprietà di qualsiasi
atteggiamento storicistico in quanto tale. Si tratta solo di portarlo alle sue ultime conseguenze per constatare
come esso conduca al soggettivismo scettico e quindi all’assurdo. In quest’ottica infatti la verità perderebbe così
la sua validità assoluta (pag. 75) «non vi sarebbe validità pura e semplice o "in sé" "quindi neanche il principio di
non-contraddizione e l'intera logica [...] avrebbero una simile validità» [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 75]. Lo
storicismo [pag. 80] è in conclusione un fraintendimento gnoseologico - che va respinto (come il naturalismo) in
virtù delle sue assurde conseguenze. La stessa sorte tocca alla filosofia della weltanschauung [pag. 81]. La
filosofia della weltanschauung è figlia dello storicismo storicistico [pag. 82]: essa considera tutte le scienze
particolari come proprio fondamento ma non è in grado di soddisfare veramente la pretesa di rigore scientifico
[pag. 82]. In sostanza anche la filosofia della weltanshauung si oppone in modo scettico al progetto i una rigorosa
scienza filosofica del mondo. E [pag. 88] dopo averne preso in esame la struttura, i fondamenti e le aspirazioni,
Husserl spiega perché non è possibile raccomandare incondizionatamente l'aspirazione ad una simile filosofia.
Le filosofie della weltanschauung sono infatti relative alle epoche e alle personalità dei filosofi che le elaborano.
Ma quello che Husserl vuole proporre [pag. 89] è una scienza filosofica che sia in grado i mostrare delle validità
a-temporali, dello stesso tenore di quelle logiche [Cfr. nozione di validità e normatività, pag. 97]. Quindi Husserl
stabilisce «d'ora in poi e per l'eternità» una netta separazione tra weltanschauung e scienza filosofica [pag. 9091].
“Chiarezza” - “Chiarezza Concettuale”
L'ideale teoretico di Husserl era quello di sostituire alle oscurità metafisiche tradizionali la chiarezza e la
distinzione di una filosofia basata su di un metodo rigoroso. La chiarezza è dunque, senz’altro e prima di tutto,
“chiarezza concettuale”. Il contributo della scienza consiste nell'arricchire un patrimonio di validità eterne [Cfr.
E. Husserl, op. cit., pag. pag. 102], in questo senso la filosofia come scienza rigorosa non ha nulla di "profondo" in
quanto mira alla distinzione e alla chiarezza concettuale: la profondità è infatti un indice del caos, che la scienza
autentica intende trasformare in un cosmos, in un ordine semplice, perfettamente chiaro e risolto. A pag. 97
Husserl parla di indigenza spirituale del suo tempo e di bisogno di chiarezza teoretica (anche qui segue, per tutta
la pagina 97 un descrizione della connessione tra problematica teoretica ed esistenziale). A pag. 27 Husserl
osservava che «studiare un qualsiasi tipo di oggettualità nella sua essenza generale (uno studio questo che può
perseguire interessi distanti dalla teoria della conoscenza e dall'analisi della coscienza) significa analizzarne i
modi di datità e dispiegarne appieno il contenuto essenziale nel relativo processo di “chiarificazione”. Anche se
qui l'atteggiamento non è quello rivolto ai modi di coscienza e all'analisi della loro essenza, tuttavia il metodo
della chiarificazione è tale che non si può fare a meno della riflessione sui modi dell'essere inteso e dell'essere
dato […]. Ma, d'altro canto, la chiarificazione di tutti i tipi fondamentali di oggettualità è in ogni caso
indispensabile per l'analisi dell'essenza della coscienza, e di conseguenza in essa inclusa; ciò però vale solo in
un'analisi gnoseologica, che veda il proprio compito nella ricerca della correlazione. Pertanto comprendiamo
tutti questi studi, per quanto debbano essere relativamente separati, sotto il titolo di fenomenologici». [Cfr. E.
Husserl, op. cit., pag. 27-28]. Da questi brevi richiami si vede allora come non a caso Semerari suggeriva una
analisi della ricorrenza di aggettivi (e sostantivi corrispondenti) quali klar (chiaro) e fest (solido, stabile). Tale
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analisi farebbe emergere senz’altro un ulteriore debito nei confronti di Brentano, peraltro riconosciuto da
Husserl in prima persona: «Ben presto - ricorderà Husserl riferendosi al maestro - i suoi argomenti mi
afferrarono, ben presto venni conquistato dalla chiarezza e dall'acutezza dialettica, uniche, delle sue esposizioni,
dalla forza in qualche modo catalettica del suo sviluppo dei problemi e delle teorie. Fu solo dalle sue lezioni che
ricavai la convinzione che mi diede il coraggio di scegliere la filosofia come professione di vita e cioè che anche la
filosofia sia un campo di lavoro serio, che anch'essa possa e quindi debba essere trattata con lo spirito della
scienza più rigorosa. La pura praticità con la quale affrontava tutti i problemi, il modo di trattarli per aporie, il
fine soppesare dialettico delle diverse argomentazioni possibili, la separazione delle equivocazioni, la
riconduzione di ogni concetto filosofico alle sue origini nell'intuizione - tutto ciò mi riempiva di ammirazione e di
incrollabile fiducia». Termini quali “chiarezza”, “chiarezza concettuale”, si richiamano senz’altro alla nozione di
“evidenza”. D’altronde l'idea stessa della filosofia come scienza rigorosa si basa sulla nozione di evidenza. È
questo il punto d'inizio indubitabile. L'evidenza riguarda l'implicita assunzione del darsi delle cose del mondo
alla coscienza. L'orizzonte della vita è costituito da un orizzonte di fenomeni che si pongono in "evidenza" - che si
danno alla coscienza. In questo senso l'evidenza "precede" qualsiasi giudizio. L'evidenza costituisce il punto di
avvio della fenomenologia, strutturando la possibilità di giungere a chiarezza nella formulazione dei giudizi.
“Erlebnis” “Flusso”
È necessario sottolineare con attenzione il debito di Husserl nei confronti dello storicismo. Debito che non è
teoretico, ma piuttosto terminologico. La nozione di “Erlebnis” ne rappresenta un esempio tipico. Questa era
stata coniata pochi decenni prima in Germania ed era stata divulgata da Dilthey per indicare una “esperienza
vissuta immediata”, ovvero un’esperienza di vita fatta in prima persona e immediatamente cosciente in sé.
Sappiamo che per Dilthey il compito primario delle scienze dello spirito era la descrizione dell’interiorità umana,
nella misura in cui si esprime in comportamenti, nel senso più largo del termine. L’attenzione di Dilthey è
prevalentemente riservata alla storia, riguardo alla quale viene posta la domanda fondamentale dello storicismo:
come è possibile che attraverso la storia si giunga alla conoscenza del mondo umano? Su cosa si fonda la pretesa
conoscitiva dell’indagine storica? La risposta fornita dallo storicismo converge sulla Psicologia. In questo modo,
la Psicologia diviene il fondamento delle scienze umane. La funzione fondante della Psicologia nei confronti della
Storia, in altri termini, veniva totalmente ricondotta da Dilthey alla possibilità di riconoscere il fluire degli
Erlebnis nel tempo. Husserl è solo parzialmente d’accordo con questa soluzione: Dilthey, non approfondendo
ulteriormente il rapporto tra temporalità-epoche e vissuti, lasciava infatti aperto il problema del relativismo:
fluendo nel tempo, infatti, gli Erlebnis non fondano mai saperi universali e necessari, ma sempre soltanto
“relativi” a definite epoche storiche, a precisi momenti del tempo. Al contrario, in Husserl la nozione di Erlebnis
entra in gioco proprio nell’ambito della edificazione della filosofia come scienza rigorosa, sottratta per
definizione ad ogni declinazione relativistica o scettica. Abbiamo già visto come la tesi dell’intenzionalità degli
atti o vissuti (Erlebnisse) della coscienza è uno dei tratti caratteristici del metodo fenomenologico. Husserl ha
mostrato appunto come il carattere intenzionale dei vissuti di coscienza concorra a liberare il mondo della vita
vissuta dalle ricadute soggettivistiche (quindi relativistiche e alla fine scettiche). Nelle Ricerche Logiche scriverà
molto chiaramente che «ciò che caratterizza i vissuti (Erlebnisse) intenzionali è il fatto che essi si riferiscono con
diverse modalità ad oggetti rappresentati. Ciò avviene appunto nel senso dell’intenzione. Un oggetto è in essi
“inteso”, vi è un “tendere” ad esso, e precisamente nella modalità della rappresentazione o anche del giudizio etc.
Ma ciò non vuol dire altro che questo: sono presenti certi vissuti che hanno il carattere dell’intenzionalità, ed in
particolare l’intenzione del rappresentare, del giudicare, del desiderare, etc. […]. [Cfr. E. Husserl, Ricerche
Logiche, trad. it. Giovanni Piana, Il Saggiatore, Milano, 1968, II, pag. 163.]. Nell’articolo Husserl parla – siamo a
pagina 21 - di "Icherlebnis" (vissuto dell'io) e a pag. 50 propriamente di Erlebnis, osservando che «Lo psichico
non è certo esperito come qualcosa che appare; è un Erlebnis, intuito nella riflessione, che si manifesta come sé
mediante se stesso, in un flusso assoluto, come ora e già “svanente” [abklingend], sprofondando costantemente,
in modo visibile, in un passato». [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 50]. L’Erlebnis è dunque, propriamente, il flusso
della coscienza. A pagina 55 l’Erlebnis (che qui è “singolarità percettiva fluente”) viene messo i rapporto a
termini quali «visione d’essenza», «pura intuizione» e «visione d’essenza». L’Erlebnis, il «fluente avere
coscienza», di cui Husserl parlava qualche pagina prima (pag. 52) è dunque il luogo in cui le essenze vengono
portate a datità. A pagina 75, terminando l’articolo, il «valere fluente» viene messo in relazione alla «validità
oggettiva»: l’Erlebnis è il luogo della verità (validità) che la fenomenologia è in grado di cogliere: [pag. 56] i modi
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tipici con cui la coscienza si rapporta al darsi degli oggetti sono a loro volta rappresentabili in modo certo e
assoluto, rendono possibile l'assoluta conoscenza. L’essenza dei vissuti intenzionali è il loro riferirsi (“tendere a”)
a un oggetto in vari modi (che non sono solo la rappresentazione, il giudizio, il sentimento - come accadeva nello
schema brentaniano). Ma il vissuto intenzionale è l’oggetto cui esso tende non sono due “cose” separate: aver
presente un oggetto e riferirsi ad esso intenzionalmente significano infatti la stessa cosa, tanto che sperimentare
un vissuto intenzionale significa appunto aver presente - intenzionalmente - un oggetto. Ecco allora perché
Husserl pone proprio nel flusso della coscienza, nell’Erlebnis, la datità delle essenze: esse sono tali appunto in
quanto manifestano il come del darsi delle cose alla coscienza fluente, in un rapporto che abbiamo già definito
come dinamico ed assoluto (in virtù dell’epoché fenomenologica). Emerge qui, inoltre, l’importanza di termini
quali “intuizione” e “immaginazione”.
“Intuizione” ed “evidenza”
L'intenzione di un oggetto immediatamente e originariamente dato alla coscienza è ciò che Husserl chiama
propriamente intuizione. La centralità di questo termine è attestata anche da un recente convegno tenutosi tra il
29 ed il 31 marzo a l'Aquila (Cfr. "Tra Neokantismo e fenomenologia" di Anna Donise, in “Rivista di Storia della
Filosofia”, Franco Angeli, Milano, 2/2002, pag. 261). In questo convegno uno dei primi elementi di analisi su cui
si sono concentrati diversi interventi è stato proprio il concetto di intuizione, terreno di confronto tradizionale
fra neokantiani e fenomenologi. Ne La filosofia come scienza rigorosa il concetto di intuizione viene messo in
relazione all’«avere coscienza intuitivo» e all’«ideazione o visione d’essenza» [Cfr. E. Husserl, op. cit., pag. 55], e
Husserl arriverà a parlare di “intuizione pura” [Cfr. E. Husserl, op. cit., ibidem]. Vediamo di chiarire. Come prima
cosa diciamo che l'intuizione per Husserl è immediata e complessa al tempo stesso. Infatti nell'intuizione di
«questo» colore rosso possiamo vedere non solo «questo» rosso, ma anche «il» rosso. Per questo l'intuizione
ideale è un'intuizione «fondata» in un'intuizione concreta; ma il suo essere fondata non le impedisce di essere
immediata, semplice, evidente. Il correlato intenzionale dell'evidenza è la verità: nell'intenzione intuitivamente
evidenziata, l'essere e l'intenzione coincidono. Per Husserl, l'evidenza non è, come invece era per il razionalismo,
una proprietà esclusiva degli atti «logici»; non è solo l'inclusione di un predicato in un soggetto. L'evidenza è il
riempimento di un'intenzione nel suo oggetto intuitivamente dato. L'evidenza logica non è che un piccolo caso
particolare dell'evidenza intenzionale. Ogni atto di coscienza, qualunque ne sia la natura, se è riempito da una
intuizione immediata, è evidente; c'è così un'evidenza dei valori, ecc. L'evidenza è un momento strutturale della
coscienza, e non solo del pensiero logico. E’ che questo nesso che permette ad Husserl di arrivare ad una scienza
in senso stretto e rigoroso dell'essenza, cioè dell'essere delle cose, quella scienza che è il sapere assoluto in cui
per Husserl consiste la filosofia. L'evidenza come riempimento con una intuizione è una possibilità radicale di
ogni forma di coscienza. Ma l'intuizione ha una portata e un valore assoluti. Ne deriva che ogni coscienza
evidente possiede una verità incrollabile, assoluta. Per Husserl, è il «principio di tutti i principi»: l'intuizione
diretta e originaria del dato in quanto dato, e solo in quanto dato, è un'evidenza assoluta di ciò che il dato «è».
Non si tratta di oggetti trascendenti, ma degli oggetti intenzionali in quanto manifesti ad una coscienza pura. E
poiché l'intuizione di ciò che viene ridotto in questo modo eideticamente e trascendentalmente è un'intuizione
dell'essenza, risulta che l'evidenza in questione è l'evidenza assoluta dell'essenza. La diversità rispetto a Kant è
radicale. Dunque «se i fenomeni in quanto tali non sono natura, essi hanno allora un'essenza che può essere colta
in maniera adeguata in un'intuizione immediata. Tutti gli enunciati che descrivono i fenomeni mediante concetti
diretti, lo fanno, nella misura in cui sono validi, mediante concetti d'essenza, dunque mediante significati
concettuali che devono potersi riscattare in una visione d'essenza [Wesenschauung]»[Cfr. E. Husserl, op. cit., pag.
53]. Al problema della possibilità della filosofia come scienza rigorosa, Husserl ha risposto insomma con un altro
concetto: intuizione, che è precisamente il vedere il manifesto originalmente manifestato, e soltanto in quanto
manifestato, cioè come mero correlato intenzionale della coscienza pura.
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