LE VISIONI DI MERCATO PER IL CATEGORY MANAGEMENT 1. La visibilità delle categorie in punto vendita 2. La segmentazione dell’offerta secondo il modello a clessidra 3. La variabilità dei confini del marketing industriale e commerciale 4. La partnership nel category management VERSIONE DEFINITIVA 1 Abstract Il tema del category management è stato finora affrontato ignorando il problema della definizione dei confini delle categorie merceologiche; ciò che ha finito per creare un vizio di fondo nella implementazione delle soluzioni di gestione integrata del valore. In questo lavoro intendo invertire il tradizionale approccio che parte da una “data” categoria per sviluppare modelli e soluzioni empiriche di partnership nei rapporti di canale. Ritengo infatti necessario affrontare prima la questione generale della distonia delle due visioni di mercato per arrivare poi a proporre la categoria merceologica come unità stategica di business per entrambe gli attori del canale. Ritengo infatti che il category management sia un punto di incontro ed un’efficace sintesi di due visioni molto diverse tra loro. Il primo passo consiste dunque nel dimostrare come la contestualizzazione per categorie del marketing industriale e commerciale incida sulla “visibilità” dei prodotti e, quindi, sugli gli acquisti d’impulso. Il secondo passo consiste nel proporre una chiave di lettura del mercato a tre livelli per ridurre la distonia della visione industriale e commerciale, analizzando nel contempo la varianza dei confini della categoria assunta come contesto delle azioni di marketing di industria e distribuzione. Dopo aver affrontato il problemi della definizione del mercato sarà possibile introdurre il tema della partnership nel category management, che viene qui inteso come un nuovo modello verso cui orientare le relazioni di canale. 2 1. La visibilità delle categorie in punto vendita I consumatori non entrano in punto vendita solo per approvvigionarsi di beni di cui avvertivano a priori il bisogno. Il punto vendita è infatti il luogo dove il consumatore si informa sui prodotti in offerta e si forma nuove idee di consumo. Questa ipotesi è confermata dagli acquisti d’impulso, vale a dire delle decisioni di acquisto maturate all’interno del punto vendita. Intervistando 500 consumatori all’entrata di un punto vendita 1, abbiamo constatato che solo il 21,1% aveva predisposto in precedenza e per iscritto una lista della spesa. I consumatori che non predispongono in anticipo una lista della spesa sono in genere più flessibili nelle loro decisioni di acquisto. Anche in assenza di una lista della spesa, il consumatore può comunque avere in programma di acquistare alcuni prodotti prima di entrare nel punto vendita. Per calcolare gli acquisti d’impulso abbiamo dunque confrontato le intenzioni d’acquisto espresse nella lista della spesa, o dichiarate in forma verbale prima dell’ingresso nel punto vendita, con il basket di prodotti acquistati; abbiamo così potuto stimare l’incidenza a valore degli acquisti d’impulso che è risultata pari al 53,1 %. L’acquisto d’impulso può riguardare sia il prodotto / categoria merceologica che la marca; infatti, la mobilità del consumatore è aumentata sia all’interno di una data categoria merceologica che tra diverse categorie merceologiche. Di norma, i consumatori programmano i loro acquisti in termini di categorie merceologiche, riservandosi poi di decidere la marca all’interno del punto vendita anche in funzione delle opportunità offerte dal distributore e/o dal fornitore. Dalla nostra indagine sul consumatore, è emerso che l’incidenza dei prodotti specificati solo come categoria nella lista della spesa è pari al 97,4% %; l’incidenza delle intenzioni d’acquisto formulate verbalmente per categoria è risultata invece pari al 99,5 %. Nel 26,9% dei casi, la programmazione dell’acquisto riguarda peraltro aggregati più ampi della categoria merceologica, vale a dire la funzione d’uso e l’occasione di consumo. Il 64,5 % degli intervistati ha inoltre dichiarato di rinunciare a volte all’acquisto programmato di un prodotto per acquistare un sostituto in promozione. L’importanza del punto vendita nel generare la domanda si deve dunque da un lato alla consistenza degli acquisti d’impulso e, dall’altro, all’ampliamento dei confini di programmazione degli acquisti. La consistenza degli acquisti d’impulso è destinata ad aumentare ulteriormente se industria e distribuzione troveranno il modo di collaborare per aumentare la visibilità dei prodotti e delle marche che, a sua volta, dipende: La ricerca è stata realizzata nel punto vendita CONAD “Le querce” di Reggio Emilia nella seconda settimana di novembre 1999. 1 3 dalla segmentazione espositiva dell’assortimento, che dev’essere coerente con l’organizzazione mentale dei bisogni del consumatore (consumer decision tree) 2; dalla localizzazione dei prodotti (layout merceologico) che, oltre a rispettare i vincoli fisici posti dalle attrezzature, dev’ essere organizzata in funzione dei flussi di traffico che si ritiene opportuno creare per massimizzare i contatti del consumatore con l’assortimento; dall’affiancamento dei prodotti complementari per una data occasione di consumo o funzione d’uso (contestualizzazione), in modo da stimolare il ricordo del bisogno; dal display merceologico che, per avere il massimo impatto sul consumatore, dev’essere organizzato di norma in verticale per categoria e in orizzontale per segmento di consumo o marca; dalla quantità e dalla qualità dello spazio attributi alle categorie e alle marche, che devono rispecchiare la diversa sensibilità della domanda e la diversa marginalità. La manovra delle leve di merchandising indicate più sopra è fondamentale per assicurare “visibilità” alle categorie ricercate dal consumatore in punto vendita. La distribuzione italiana non è però ancora arrivata a manovrare in modo completo e stabile le diverse leve di merchandising. Basti pensare in proposito che: solo pochissimi distributori hanno sviluppato il merchandising a livello di funzione autonoma rispetto agli acquisti, alle vendite, al marketing e alla logistica; solo il 14% dei distributori intervistati3 ha dichiarato di realizzare abitualmente ricerche sul consumatore per scoprire il modo con cui egli categorizza i prodotti 4; meno della metà dei distributori intervistati ha dichiarato di manovrare la leva della contestualizzazione espositiva. Sarebbe logico attendersi che la segmentazione del marketing industriale abbia un puntuale riscontro nella segmentazione di merchandising per saldare così il comportamento di consumo col comportamento di acquisto. L’unica forma di comunicazione della categoria è realizzata infatti in punto vendita dal distributore manovrando le leve del merchandising. Invece, si verifica una sostanziale distonia tra la segmentazione industriale e commerciale dell’offerta; entrambi poi non tengono in sufficiente considerazione la categorizzazione e la connessa gerarchia d’acquisto del consumatore. Un esempio servirà a meglio chiarire il concetto. I distributori 2 Il 58,7% dei consumatori intervistati ha dichiarato di ricercare in punto vendita prima la ctegoria e poi la marca. La ricerca è stata realizzata col metodo dell’intervista ed ha coinvolto 30 insegne appartenenti a diversi gruppi strategici. 4 Molto più numerose sono invece le aziende industriali che svolgono abitualmente ricerche sulla categorizzazione mentale del consumatore; tra le 7 aziende che hanno sponsorizzato questa indagine, 5 svolgono infatti ricerche sul consumer decision tree. 3 4 contestualizzano di norma5 la crema di nocciole a base di cacao col miele e la marmellata che insieme formano la categoria degli “ spalmabili dolci”. La spalmabilità è l’unico elemento che accomuna questi segmenti di consumo e la categoria non è di norma inserita nel contesto di un’occasione di consumo. Il “marketing” Ferrero non si rapporta però certo al miele e alla marmellata per disegnare le sue strategie; analogamente, le “vendite” Ferrero non si rapportano certo al miele e alla marmellata nel trattare le condizioni di vendita con i distributori. Analoghe considerazioni possono essere fatte per quanto riguarda la manovra della quantità e della qualità espositiva attribuita alle categorie e alle singole marche. La quantità di spazio è ancora oggi largamente attribuita in funzione inversa al servizio logistico: più alta è la frequenza di rifornimento e minore è la quantità di spazio attribuito. Questo orientamento all’offerta piuttosto che alla domanda non permette di utilizzare pienamente il punto vendita nella creazione di valore per il consumatore; l’esempio più eclatante si osserva nella categoria del latte fresco che, in genere, ha un’incidenza nell’esposizione molto inferiore all’incidenza nelle vendite e nel margine complessivo 6, unicamente per l’alto servizio offerto dall’industria con la consegna frequente a punto vendita. La qualità dello spazio è per contro di norma gestita in funzione del margine unitario lordo, nonostante la forte incidenza del fuori fattura per le marche industriali, ovvero in funzione dei contributi dei fornitori che competono per la realizzazione di un vantaggio competitivo sul piano dell’esposizione. La gestione dello spazio in base alla diversa elasticità della domanda e alla diversa marginalità netta non è dunque entrata nell’operatività della stragrande maggioranza dei distributori italiani. Pochissimi distributori hanno inserito un software di space allocation nelle proprie routine operative per riallocare in automatico lo spazio espositivo di categoria con la frequenza del rifornimento o della variazione dell’assortimento, inviando a punto vendita etichette di scaffale contenenti anche il numero di facings e il numero del ripiano dove esporre il prodotto. Anche se il 90% dei distributori intervistati attribuisce un livello sufficiente alla visibilità delle categorie e dei segmenti di consumo, la mia opinione è che gli spazi di miglioramento in questa materia siano ancora enormi. Fintanto che la distribuzione italiana era caratterizzata da una fortissima concentrazione territoriale delle insegne e, quindi, da un’altrettanto forte fedeltà “di necessità” del consumatore, l’efficacia di merchandising non aveva grande importanza. Il consumatore conosceva bene infatti in questo caso l’assortimento e la localizzazione dei prodotti perché la sua esperienza Recentemente, COOP e CONAD hanno testato un layout per funzione d’uso con riferimento in particolare alla prima colazione. In questo test, gli “spalmabili dolci” sono stati smembrati in miele / marmellata da una parte e creme di nocciola, dall’altra. La separazione sul piano espositivo dei prodotti che tradizionalmente componevano gli “spalmabili dolci” ha trasformato un segmento di consumo in una categoria merceologica, con rilevanti conseguenze sulla “vendibilità” dei prodotti coinvolti. 6 All’interno del banco frigo, il latte fresco occupa in media il 3,34% dello spazio espositivo, ma contribuisce alle vendite per l’8,72% e al margine per il 6,98%. 5 5 d’acquisto era limitata a uno/due punti vendita/insegne. La visibilità dell’assortimento è stata dunque finora un corollario della fedeltà e non richiedeva alcun intervento manageriale7. Ora però tutto questo sta cambiando anche nel nostro paese. Quando il consumatore dispone di più alternative a livello di forma distributiva, formato di punto vendita e insegna, l’infedeltà diventa la norma e l’esperienza non può più essere d’aiuto per localizzare i prodotti. In questo caso, la corretta manovra delle leve del merchandising diventa indispensabile per offrire al consumatore un’adeguata qualità del servizio. Lo sviluppo del potenziale di merchandising è peraltro facilitato dalla convergenza di interessi tra industria e distribuzione. Segmentazione, localizzazione, contestualizzazione e display sono infatti altrettante leve manovrabili per aumentare gli acquisti d’impulso nell’interesse di industria e distribuzione. La collaborazione tra industria e distribuzione nella manovra di queste leve è fondamentale sia per la complemetarietà delle competenze che per il sostanziale allineamento di interessi nell’aumentare la domanda stimolando gli acquisti d’impulso. In questa sede verrà analizzata in particolare la leva della segmentazione dell’offerta in quanto, oltre ad essere quella meno presidiata sul piano analitico, è sicuramente anche quella su cui si verificano i maggiori scostamenti nella visione industriale e commerciale. 2. La segmentazione dell’offerta secondo il modello a clessidra La segmentazione dell’offerta consiste nell’aggregare i prodotti in cluster omogenei al loro interno ed eterogenei al loro esterno. Con la segmentazione, le imprese tracciano i confini della loro azione di marketing; si tratta ovviamente di confini tanto più netti quanto maggiore è l’omogeneità interna e l’eterogeneità esterna, che a loro volta dipende dal numero di variabili considerate. I confini di una categoria merceologica possono essere infatti definiti attraverso l’intersezione di un numero più o meno consistente di “insiemi” di prodotti omogenei rispetto ad un dato carattere. Naturalmente, maggiore è il numero dei caratteri scelti per l’aggregazione e più ristretti saranno i confini della categoria, che risulterà anche tanto più omogenea al suo interno. I caratteri utilizzabili nel grocery per la segmentazione dell’offerta sono numerosi: l’occasione di consumo; Non stupisce che il 90% dei 500 consumatori intervistati nel punto vendita CONAD “Le querce” di Reggio Emilia abbiano espresso completa soddisfazione sull’esposizione dei prodotti. Trattasi infatti di un punto vendita con un’altissima frequenza di visita e fedeltà del consumatore. 7 6 la funzione d’uso; la tecnologia; la shelf life; i materiali utilizzati; il gusto, il colore, il profumo; il formato di prodotto; il tipo di confezione. Maggiore è il numero di caratteri utilizzati per la segmentazione e più ristretto è il numero di prodotti e di imprese che popolano l’aggregato. Definendo la categoria come intersezione di un numero variabile di insiemi omogenei rispetto ad un dato carattere, è possibile tracciare anche una netta linea di demarcazione tra la concorrenza effettiva esercitata in un ambito stretto e la concorrenza potenziale esercitata in un ambito largo. La segmentazione dell’offerta in categorie di prodotti via via più omogenei, consente di individuare anche i competitors con cui l’impresa si deve misurare ai diversi livelli. Per comprendere la complessità della segmentazione dell’offerta, si può fare riferimento alla categoria della birra; i caratteri di differenziazione della birra possono essere così articolati: gradazione alcolica (analcolica, leggera, normale, speciale, doppio malto, alla frutta); tipo di fermentazione (alta, bassa, spontanea); tecnologia di processo (tradizione inglese, scozzese, belga,irlandese, francese, tedesca, americana, londinese); colore (paglierino chiaro, dorato, ambrato, bruno, nero); spuma (persistenza, dimensione delle bollicine, cremosità, compattezza); profumo (luppolato, fruttato, maltato, erbaceo, floreale). La diversa combinazione dei caratteri di differenziazione della birra dà luogo di fatto a 56 segmenti di consumo (cfr. Appendice 1) che, ovviamente, sono in gran parte sconosciuti alla maggioranza dei consumatori e non vengono trattati contemporaneamente dai distributori. Se da un lato l’ampiezza dell’offerta industriale consente ai distributori di differenziare l’assortimento riducendo di conseguenza la trasparenza del prezzo di categoria, dall’altro, la differenziazione dell’offerta industriale è sempre eccessiva rispetto alla differenziazione della domanda e, quindi, spetta alla distribuzione riconciliare la richiesta di varietà del consumatore con la differenziazione dell’offerta industriale individuando la miglior combinazione tra rotazione e prezzo al consumo. Aumentando il numero di segmenti trattati si riduce infatti il tasso di rotazione in quanto la sensibilità della domanda all’aumento della varietà è decrescente. La diminuzione del tasso di rotazione determina a sua volta un aumento dei costi di distribuzione e, quindi, del prezzo al consumo. Esiste pertanto un trade off tra offerta di varietà e offerta di convenienza la cui definizione rientra nelle manovre competitive del distributore. Se poi si considera che le best practices di merchandising prevedono un’esposizione verticale di categoria e orizzontale di segmento/marca, di 7 fatto, si può creare una categoria sul piano espositivo solo quando il numero dei segmenti/marche è pari al numero degli scaffali. Nel caso della birra, i 56 segmenti di consumo offerti sul mercato vengono di fatto ridotti nei 6 segmenti espositivi illustrati nella figura 1. Il primo passo da compiere nella segmentazione del mercato consiste dunque nella individuazione delle “etichette” delle categorie che si vogliono trattare. Con riferimento alla figura 1, supponendo che industria e distribuzione concordino sull’esistenza di una categoria “BIRRA”. Il secondo passo da compiere consiste nel definire i confini della categoria individuando i segmenti espositivi, posizionando di conseguenza al loro interno i prodotti dei diversi segmenti di consumo che si è deciso di trattare. Il distributore decide la copertura dei segmenti di consumo in relazione al formato di punto vendita, al ruolo di marketing attribuito alla categoria, alla differenziazione rispetto ai competitors e al trade off tra varietà e convenienza. Il terzo ed ultimo passo consiste nell’individuare le occasioni di consumo e/ o le funzioni d'uso in cui può essere ventilata la categoria. Supponendo infatti che i distributori decidano di organizzare il layout per funzione d’uso / occasioni di consumo allo scopo di facilitare il reperimento dei prodotti e stimolare gli acquisti d’impulso 8, occorre decidere se e in che misura ventilare la presenza espositiva della categoria. Con riferimento alla fig. 1, si tratta di decidere se concentrare o disperdere l’esposizione della birra. Se si ritiene che la domanda di birra non vari in rapporto alle occasioni di consumo / funzioni d’uso, la categoria verrà proposta in un’unica localizzazione e articolata in diversi segmenti espositivi. Se viceversa si ritiene che il consumatore richieda diversi tipi di birra nelle diverse funzioni d’uso / occasioni di consumo e, soprattutto, se si ritiene che aggregando sul piano espositivo prodotti complementari si favorisca l’acquisto d’impulso, si opterà per la proliferazione della presenza espositiva della birra. Ciò che peraltro non significa necessariamente aumentare lo spazio espositivo attribuito alla categoria; si può optare infatti per la doppia esposizione nel caso di abbondanza di spazio e di elasticità della domanda, ovvero per l’esposizione singola di un dato segmento di consumo in caso contrario. Se prendiamo come riferimento un’altra categoria molto distante dalla birra (fig. 2), la lettura del mercato può essere riproposta con le stesse modalità: l’esposizione del torrone può essere opportunamente dispersa per occasioni di consumo se si ritiene opportuno contestualizzare la differenziazione del prodotto per stimolare gli acquisti d’impulso. Lo stesso si può dire nel caso in cui la differenziazione del prodotto non si esprima a livello di segmento di consumo, ma nell’estensione della marca in termini di formato e packaging. Il Rocher viene attualmente proposto in diversi formati 8 Questo orientamento è gia stato seguito con successo nel non alimentare creando universi espositivi; attualmente, alcuni distributori stanno sperimentando sia in Italia che all’estero questo tipo di layout. Il layout per occasione di consumo risponde ad esigenze promozionali e, quindi, è limitato nel tempo e si sovrappone al layout per funzione d’uso che invece è continuativo. Le occasioni di consumo che hanno una maggior valenza promozionale sono le varie festività e ricorrenze, l’inizio / fine della scuola, l’ospitalità, la stagionalità. 8 e in diversi packaging in rapporto a quattro occasioni di consumo: fuori pasto dolce, ospitalità, regalo, ricorrenza. E’ ovvio che, nel caso di un layout del punto vendita per occasioni di consumo, il Rocher dovrebbe essere proposto in quattro diverse localizzazioni e contestualizzazioni. Per chiarire ulteriormente le opportunità di valore che nascono allargando l’ottica di marketing, prendiamo in considerazione qui di seguito le differenze che caratterizzano i prodotti di due categorie merceologiche contestualizzabili nella funzione d’uso “fuori pasto dolce”. Merende Prodotti morbidi >>>>> Prodotti per bambini >>>>>>> Prodotti per la nutrizione >>>>>> Acquisto programmato >>>>> Acquisto multiplo >>>>> Comunicazione rivolta al responsabile d’acquisto >>>> Snack9 prodotti croccanti prodotti per adulti prodotti per la gola acquisto d’impulso acquisto singolo comunicazione rivolta al consumatore I prodotti appartenenti alle categorie “merende” e “snack” sono così diversi che si impone un approccio specifico. La differenziazione del consumer e trade marketing è del tutto naturale quando i prodotti che appartengono a diverse categorie vengono proposti con diverse marche. Anche in questo caso occorre però la collaborazione del distributore, che deve contestualizzare correttamente i prodotti rispettando il loro profilo di marketing. Se il distributore non gestisce il layout e il display in modo da rendere visibili le funzioni d’uso in punto vendita o, addirittura, se i prodotti sono esposti senza rispettare i confini naturali 10, non è facile per l’industria differenziare le sue azioni di consumer e trade marketing. A maggior ragione, la collaborazione del distributore è necessaria quando si tratta di posizionare uno stesso prodotto in diverse categorie con la stessa marca; Ringo è per esempio proposto con due diversi formati e packaging per la costestualizzazione nelle “merende” e negli “snack”. Alla contestualizzazione di una stessa marca in diverse categorie dovrebbe corrispondere un diverso prezzo al consumo per unità di misura e, di riflesso, diverse condizioni commerciali. Ringo snack e la Nutella in formato Millennium (2 kgr) da regalo dovrebbero essere proposti con un maggior prezzo al kgr sia per recuperare i maggiori costi di prodotto che per la 9 Questo schema è stato riprodotto per gentile concessione della società Barilla Non sono infrequenti per esempio i casi di inserimento di un prodotto snack nella categoria delle merende per beneficiare della maggior rotazione assicurata da questa contestualizzazione. 10 9 diversa contestualizzazione. Di nuovo, le opportunità di marketing che discendono da una corretta segmentazione possono essere colte solo se industria e distribuzione trovano il modo di collaborare nella segmentazione dell’offerta. La partnership nella contestualizzazione dei prodotti è cioè un prerequisito per la creazione di valore attraverso la differenziazione del prodotto industriale. In conclusione, il mercato può essere opportunamente letto su tre livelli che rappresentano come vedremo altrettanti contesti di riferimento per il marketing di industria e distribuzione. Adottando una chiave di lettura del mercato a tre livelli, il formato e il tipo di packaging possono essere considerati estensioni di prodotto con cui il brand si riposiziona in diversi segmenti di consumo o in diverse categorie. Fig.1 2 Siccome non esistono soluzioni oggettive per la segmentazione dell’offerta, secondo la scuola di pensiero che si esprime nell’ECR è necessario condividere il linguaggio e la sintassi11 del mercato per: 1- comunicare nel canale; 2- negoziare le condizioni e gli investimenti di trade marketing; 3- valorizzare il patrimonio informativo dei distributori; 4- allineare i confini delle categorie che il consumatore vede in punto vendita coi confini dell’azione di marketing dell’industria al fine di realizzare iniziative di marketing integrato. Il peso delle diverse motivazioni che possono essere portate a sostegno della necessità di condividere la visione del mercato è diverso per industria e distribuzione; dalle interviste ai due attori del canale emerge chiaramente che l’industria attribuisce più importanza al 3° e al 4° carattere, mentre la distribuzione assegna un punteggio più alto al 1° e al 2° carattere. L’albero ECR sarebbe dunque una sorta di “esperanto di marketing ” la cui adozione diffusa permetterebbe, seppur con diverse valenze per i due attori del canale, di superare l’ostacolo frapposto alla comunicazione dalle differenti categorizzazioni e dai conseguenti diversi valori economici. L’omogeneità della segmentazione migliorerebbe la trasparenza del mercato, in quanto la stima delle quote verrebbe fatta con riferimento allo stesso frame; la certezza del gradimento espresso dal consumatore attraverso 11 Il linguaggio è espresso dal codice EAN, mentre la sintassi è espressa dalla clusterizzazione dei prodotti che, con l’esclusione dei prodotti freschi non confezionati e del non alimentare, si articola nei seguenti cinque livelli: 6 reparti 63 settori 313 categorie 978 segmenti di consumo 1506 formati e gusti. I cinque cluster ECR rappresentano la sintassi del mercato, vale a dire altrettanti oggetti di calcolo per i sistemi informativi e punti di riferimento per la comunicazione di canale. 10 quote di mercato accettate universalmente aiuterebbe poi anche i distributori nella definizione delle loro politiche assortimentali. Infine, l’omogenità della segmentazione faciliterebbe anche l’acquisto del consumatore che finirebbe col trovare in tutti i punti vendita la stessa contestualizzazione dei prodotti 12. L’albero mercati costruito in sede ECR è stato certamente un esercizio utile dal momento che ha favorito l’incontro tra industria e distribuzione su un tema così importante come la segmentazione dell’offerta. Sono però convinto che i risultati operativi saranno modesti in quanto: la visione ECR del mercato è il frutto di un’intesa tra un numero limitato di aziende industriali / commerciali e non impegna in alcun modo le singole imprese, che possono adottare una “vista libera” per definire il loro ambito competitivo; il mercato ECR è un albero instabile perché si fonda su poche radici e sviluppa un numero eccessivo di rami, in quanto il tronco che rappresenta la categoria (2° livello) è radicato su un solo reparto (1° livello) e si sviluppa in tre livelli successivi senza tener conto dell’esigenza di combinare la segmentazione con la visibilità a punto vendita dei cluster (t.2) 13; la lettura del mercato dovrebbe essere invertita definendo prima la categoria con l’individuazione dei segmenti di consumo da esporre a punto vendita e, successivamente, decidendo se concentrare o ventilare per funzione d’uso l’esposizione dei segmenti di consumo; la segmentazione dell’offerta rientra nelle manovre competitive e, quindi, per definizione non può essere condivisa a livello generale. Dalle interviste effettuate alle imprese industriali e commerciali, non è emersa una decisa volontà di adozione immediata della segmentazione ECR (tab.1). Una prima giustificazione di questo atteggiamento prudenziale può essere ricercata nello scostamento tra la sintassi ECR e la segmentazione attualmente utilizzata dalle aziende; una piena coincidenza dei confini di categoria si realizza infatti solo nel 33% dei casi per l’industria e nel 41% dei casi per la distribuzione. In particolare, l’intenzione di passare rapidamente alla sintassi ECR è più consistente (33%) nell’industria che nella distribuzione (20%). L’adozione generalizzata dell’esperanto ECR porterebbe Nielsen e IRI a competere solo sul prezzo, con la possibilità che a termine, dopo una forte caduta della profittabilità, nascano poi spinte collusive. Sul fronte distributivo, l’omogeneità della segmentazione stimolerebbe l’infedeltà dei consumatori che dovrebbero sopportare minori costi (tempo d’acquisto) nel cambiamento di insegna. 13 La visibilità dei cluster assortimentali può essere realizzata manovrando la leva: della contestualizzazione, aggregando le referenze sostituibili; del display, esponendo in verticale l’aggregato che si vuol “far vedere” al consumatore e in orizzontare le sue diverse articolazioni. Più grande è il punto vendita, maggiore è lo spazio disponibile e la varietà offferta; ciò che permette di rendere “visibili” cluster assortimentali via via più ristretti. Anche nei punti vendita più grandi è però molto difficile assicurare la visibilità oltre il terzo livello di segmentazione. 12 11 Questo scostamento è sorprendente se si pensa che molti distributori non hanno ancora adottato la categoria come unità strategica di business e, di conseguenza, i loro sistemi informativi non sono organizzati per categorie; ciò che rende più semplice l’adozione della sintassi ECR in quanto non è richiesto un cambiamento di abitudini consolidate. Il 93% dei distributori intervistati ritiene però opportuna la produzione di dati Nielsen / IRI sulla base della sintassi ECR in aggiunta a quelli attualmente commissionati dall’industria. Il 71% dei distributori intervistati si è detto infatti pronto a utilizzare la sintassi ECR per gestire i rapporti di canale e una sintassi specifica aziendale per supportare le attività di marketing. Tab.1 ORIENTAMENTO ALL’ADOZIONE DELLA SINTASSI ECR No Si, immediatamente Si, nel medio – lungo periodo Distribuzione 20% 20% 60% Industria 17% 33% 50% I distributori esprimono un’esigenza di trasparenza nei rapporti di canale che potrebbe essere almeno in parte soddisfatta da un linguaggio comune e informazioni omogenee. Non bisogna però dimenticare che la produzione di informazioni secondo la segmentazione ECR richiederebbe costi aggiuntivi che difficilmente l’industria è disposta a sopportare semplicemente per aumentare la trasparenza dei l rapporti di canale. A volte infatti, la trasparenza è proprio ciò che si vuole evitare. Questo non significa però che non vi possa essere una collaborazione tra la singola insegna e il singolo fornitore per migliorare la contestualizzazione dei prodotti. La segmentazione dell’offerta rientra infatti nella logica normale del fornitore che si propone come category captain per contribuire a migliorare la performance della categoria, o di un insieme di categorie (funzione d’uso), come presupposto per aumentare nel contempo le vendite e la marginalità delle sue marche. Questo approccio è già stato implementato da Wall-Mart che, se da un lato pretende di negoziare coi fornitori il prezzo netto-netto evitando di conseguenza tutti i condizionamenti del marketing distributivo derivanti dal fuori fattura, dall’altro, è disposta a condividere con un fornitore partner di categoria il suo patrimonio informativo e la manovra del retail mix 14. Vi è un grande spazio di collaborazione tra industria e distribuzione nella scoperta della Berry, B., (1998), “Wall-Matr Expectations of Suppliers”, QEII Conference Center, Londra, 8 ottobre 1998 Arnold J. Fernie J. (2000), “Wall-Mar in Europa: Prospettive per il mercato britannico” Industria & Distribuzione, F. Angeli, n°1 14 12 categorizzazione mentale del consumatore e nell'articolazione delle rispettive politiche di marketing in funzione di una segmentazione su tre livelli. Si tratta però di uno strumento di differenziazione competitiva realizzato da coalizioni verticali. Se da un lato le aziende industriali “acquistano” la collaborazione dei distributori nel collocamento dei loro prodotti, dall’altro, vi è anche un sempre maggior impegno a sfruttare le sinergie di marketing nella aree in cui gli interessi dei due attori sono allineati Vi sono cioè veri e propri esempi di marketing integrato, vale a dire iniziative di marketing realizzate congiuntamente da industria e distribuzione specie nel campo della promozione delle vendite. Il marketing integrato non è in contraddizione con la visione del canale come successione di mercati indipendenti in quanto: si tratta di coalizioni temporanee che non si basano sul potere di mercato di un channel leader, ma sono al contrario alimentate dalla interbrandcompetiton; gli obiettivi di marketing dei due attori restano sostanzialmente diversi, ma nel breve periodo si possono realizzare sinergie collaborando in specifiche iniziative di sell out. 3. La variabilità dei confini del marketing industriale e commerciale La popolazione degli uomini di marketing è stata per lungo tempo affetta da miopia cronica 15. La miopia consisteva nel fissare gli obiettivi e nello scegliere i targets per le azioni di marketing guardando ai competitors più vicini in un orizzonte di breve periodo, trascurando di conseguenza l’impatto sui competitors più lontani e la concorrenza intersettoriale. I singoli beni assumono però un valore per il consumatore solo quando sono inseriti in processi di consumo che soddisfano bisogni complessi. Il consumatore non trae cioè un’utilità diretta dai singoli beni che acquista, trattandosi di imputs di un processo che implica una diversa intensità di preparazione a seconda del contenuto di servizio incorporato nel prodotto 16. Così, per esempio, il bisogno di nutrirsi e di bere si articola in una serie di processi di consumo / funzioni d’uso (prima colazione, pranzo, cena, merenda, fine-fuori pasto) che rappresentano il primo gradino nella gerarchia della soddisfazione del consumatore e altrettante occasioni di scelta tra prodotti sostituibili, oltre che di trade off tra acquisto di una materia prima e di un prodotto pronto per 15 16 Levitt T.,(1960)” Marketing myopia”,in: “Harvard Business Review”, luglio-agosto, pag. 24-47 Pellegrini L. (1997), Category management e marketing del distributore, in: Notizie FAID, N° 122 13 il consumo. I distributori iniziano solo ora a rendersi conto che, aggregando i prodotti in base alla omogeneità merceologica e localizzando poi le categorie prescindendo dai processi di consumo / funzioni d’uso in cui acquistano un significato per il consumatore, si perdono consistenti opportunità. L’affiancamento di prodotti complementari nella funzione d’uso consente infatti di stimolare gli acquisti d’impulso e di migliorare la qualità del servizio riducendo il tempo di permanenza nel punto vendita. Raggruppando i prodotti complementari rispetto ad una data funzione d’uso / occasione (centro) di consumo, è possibile infatti aumentare nel contempo la qualità del servizio e gli acquisti d’impulso. Così, per esempio, il cibo per neonati può essere affiancato ai prodotti per la pulizia e la cura del bambino creando un aggregato di livello superiore denominato baby care; analogamente, il cibo per animali può essere affiancato ai prodotti per la pulizia, il controllo e la cura degli animali creando la funzione di di Pet care. La pasta può essere per contro affiancata ai sughi e ai condimenti, creando la funzione d’uso denominata primo piatto. La manovra della leva della contestualizzazione espositiva richiede dunque una segmentazione dell’offerta in aggregati molto più ampi di quelli scelti dall’industria per orientare le sue azioni di marketing. In generale, la distonia tra la visione stretta dell’ industria e la visione ampia della distribuzione nella lettura del mercato è determinata dal fatto che per il dettagliante la segmentazione dell’offerta ha sempre una valenza espositiva; la segmentazione distributiva, al pari della altre leve di merchandising, serve cioè essenzialmente per influire sul comportamento di acquisto del consumatore che si trova all’interno del punto vendita. Questa circostanza trova la sua manifestazione più evidente nella difficoltà con cui l’innovazione di prodotto può essere riconosciuta sul piano della esposizione a punto vendita. L’innovazione può determinare un semplice spostamento dei confini o la nascita di una nuova categoria a seconda del grado di novità: incrementale o radicale. La nascita di una nuova categoria dal punto di vista industriale non si traduce però automaticamente in una nuova categoria anche dal punto di vista commerciale. Per il distributore infatti, la segmentazione dell’assortimento ha essenzialmente una valenza espositiva; la categoria può essere gestita però come unità di business sul piano espositivo solo quando il numero dei segmenti o delle marche è almeno pari al numero dei ripiani. Questa è infatti la condizione necessaria per adottare un display verticale di categoria e orizzontale di segmento/marca. Il produttore non può dunque esimersi dall’ampliare i confini delle sue azioni di marketing in sintonia con la segmentazione commerciale dell’offerta; se non seguisse il distributore su questo terreno rinuncerebbe infatti a delle consistenti opportunità di creazione di valore. Il distributore è portato a segmentare l’assortimento per processi di consumo non solo per soddisfare meglio il consumatore e cogliere nuove opportunità di marketing, ma anche per aumentare il suo potere contrattuale 14 negli acquisti. Ampliando i confini della categoria di riferimento, il distributore ottiene infatti: una riduzione della quota delle singole marche e, quindi, un abbassamento della leadership riconosciuta; un aumento del numero dei fornitori alternativi e, di conseguenza, una riduzione del rapporto di dipendenza nei confronti dell’industria; un aumento del campo di variazione delle condizioni di vendita e degli investimenti commerciali e. pertanto, una crescita del potenziale di miglioramento del valore negoziato sulla singola marca. Il distributore è infine portato ad ampliare i confini del suo marketing quando opera nel mercato virtuale dove il “contenuto” è separato dal “contesto” e dalla “infrastruttura” 17. La disintegrazione della catena distributiva del valore porta infatti all’erosione dei confini delle categorie come unità strategiche di business. Nel mercato virtuale, il distributore si limita ad offrire il contesto inteso come piattaforma di accesso e navigazione in un mare di offerte digitali,organizzate secondo confini molto più ampi di quelli del mercato fisico. E’ il caso per esempio di e-Toys che si sta attualmente riposizionando come venditore di prodotti per bambini, aggiungendo quindi ai giocattoli tutte le categorie che rientrano nella funzione d’uso dei prodotti per l’infanzia. Lo stesso si può dire per Amazon, che ha esteso la sua offerta dai libri ai CD, DVD / video, software, elettronica di consumo, medicinali e giocattoli18. Questa diversificazione dei distributori on line non si deve tanto alle economie che discendono da un’estensione della piattaforma di accesso e navigazione, oppure alle economie generate dalla concentrazione degli acquisti per effetto della ripartizione dei costi logistici di consegna della merce. Questi vantaggi si conseguono infatti anche acquistando da specialisti in un centro commerciale virtuale organizzato da portali come Yahoo e America Online. La diversificazione di e-retailers come e-Toys ed Amazon può essere invece meglio spiegata come estensione della marca dell’insegna. Dal momento che il vantaggio competitivo si gioca sulla facilità di accesso e navigazione, il distributore può opportunamente estendere la sua specializzazione dalla categoria merceologica alla funzione d’uso o alla occasione di consumo perché ciò agevola la ricerca del consumatore e stimola gli acquisti d’impulso. Un’estensione dell’offerta oltre la funzione d’uso può essere al contrario molto pericolosa perché trasformerebbe il distributore in un generalista con alti costi d’acquisto rispetto ai centri commerciali virtuali. La distonia tra la visione stretta dell’industria e la visione larga della distribuzione è destinata tuttavia a ridursi fino a scomparire nel prossimo futuro man mano che i distributori miglioreranno la qualità del loro management e l’autonomia del loro marketing. La visione distributiva del mercato finirà cioè per ampliare i confini del marketing industriale per effetto 17 Per u n approfondimento dei cambiamenti dei rapporti di canale nel mercato virtuale, si veda: G. Lugli, Evoluzione dei rapporti industria-distribuzione, in: L’Industria, n° 4 / 99 18 Cfr, The Economist, novembre 20th, p. 92 15 di due circostanze concomitanti. In primo luogo per il fatto che il consumatore è educato a riconoscere la categoria in punto vendita attraverso le azioni di merchandising e di comunicazione dell’insegna. Spetta al distributore vendere e comunicare la categoria. In secondo luogo, lo sviluppo di un marketing di categoria da parte del distributore si tradurrà nella nascita di nuove opportunità per l’industria di marca che adeguerà la sua visione di marketing a quella dei distributori. Il comportamento dei distributori non è però l’unica forza che spinge ad ampliare i confini del marketing industriale; anche la progressiva concentrazione di molti settori agisce nello stesso senso. La progressiva concentrazione di molti settori industriali incide cioè sulla segmentazione dell’offerta utilizzata per orientare le politiche competitive. Per crescere in termini relativi all’interno della categoria, il fornitore deve investire risorse tanto più consistenti quanto più alto è il suo potere di mercato. All’aumentare della quota di mercato si riduce infatti da un lato la sensibilità alle leve del marketing mix dei consumatori non trattanti e, dall’altro, aumentano gli sforzi dei distributori per offrire alternative al consumatore attraverso la marca commerciale e sostenere sul piano espositivo i followers. Il produttore in posizione di dominanza può non avere dunque interesse ad aumentare la sua quota di mercato, in quanto risultati ben più consistenti possono essere ottenuti impiegando le stesse risorse per allargare le occasioni di consumo e, più in generale, per sottrarre consumatori e consumi ai sostituti. Se Coca Cola adottasse per esempio politiche volte a sottrarre volumi all’acqua minerale o ad altre bevande gassate piuttosto che a crescere in quota nella cola 19, si assisterebbe ad una crescita in valore assoluto e ad una riduzione del peso relativo in quanto il mercato di riferimento si amplierebbe. La soggettività dei confini dell’azione di marketing mette in discussione il rigore del calcolo delle posizioni di dominanza da parte dell’Antitrust, che si basa sempre sulla definizione più stretta del mercato 20. Un altro fattore di ampliamento dei confini del marketing industriale è l’aumento della promozione di prezzo, che ha finito per accrescere la mobilità del consumatore. La crescita dell’infedeltà non riguarda solo le marche di uno stesso segmento di consumo o di una stessa categoria merceologica. Le diverse categorie sono popolate da fornitori che non si considerano tra loro in concorrenza, ma che il consumatore ritiene sostituibili rispetto ad una data occasione di consumo / funzione d’uso. Quando il rapporto di sostituibilità tra La quota di Coca Cola nella categoria della cola si colloca intorno all’80%. I confini del mercato rilevante per l’Antitrust variano peraltro in funzione della decisione da assumere. Se si tratta di assumere una decisione sull’abuso di posizione dominante, i confini di categoria vengono tracciati in modo molto stretto sia sul piano merceologico che territoriale. Se invece si tratta di autorizzare fusioni e incorporazioni, i confini della categoria vengono ampliati. Nel caso di Coca Cola, l’Antitrust italiana ha condannato la Compagnia per abuso di posizione dominante nella categoria della Cola, mentre l’Antitrust francese ha negato l’autorizzazione alla acquisizione di Orangina assumendo come riferimento il mercato delle bevande analcoliche. Una definizione ristretta del mercato porterebbe infatti a dover autorizzare le fusioni-incorprazioni in quanto le parti opererebbero su diversi mercati rilevanti. Sembra quasi che le corti individuino prima il potere di mercato e poi definiscano i confini del mercato per ravvisare l’esistenza del potere stesso. 19 20 16 categorie è elevato e sostenuto dalla variabilità dei prezzi generata dall’attività promozionale, l’ambito di riferimento del marketing industriale finisce per ampliarsi. Le azioni aggressive dei fornitori operanti in una data categoria merceologica incidono infatti sulle vendite e sui profitti dei rivali diretti (stessa categoria) in maniera consistente e sui rivali indiretti (diversa categoria) in maniera meno consistente, ma non trascurabile. Anche nel nostro paese si comincia dunque ad orientare il marketing e le vendite in un’ottica di cross category. Quando il contesto di riferimento è la funzione d’uso o l’occasione di consumo, le azioni più efficaci sono quelle specificatamente orientate a togliere volumi ai rivali indiretti; i risultati ottenuti attaccando i rivali indiretti sono peraltro più stabili in quanto non generano di norma una reazione consistente e immediata. L’allargamento dei confini della concorrenza comincia dunque ad avere un risvolto operativo nei comportamenti delle imprese che non sono più orientate solo a crescere in quota, ma anche e soprattutto ad allargare il mercato stimolando nuove occasioni di consumo. Anche sul piano organizzativo, l’allargamento dei confini della concorrenza comincia ad essere visibile con lo spostamento di ingenti risorse di trade marketing dal brand management al category management. Infine, i confini del marketing industriale si amplieranno quando il distributore manovrerà la leva della contestualizzazione espositiva, soprattutto per le imprese che producono beni acquistati prevalentemente d’impulso. L’aggregazione di prodotti complementari nella funzione d’uso, oltre a stimolare le vendite incoraggiando l’acquisto d’impulso, rappresenta un’opportunità anche per il marketing industriale. Molti prodotti sono infatti consumati in diverse occasioni e, di conseguenza, l’impresa industriale può differenziare il formato e la formula per adattarli alle esigenze del consumatore. Questo significa che una stessa marca può essere esposta in diverse localizzazioni, col risultato di aumentare la sua visibilità ed accessibilità per il consumatore che di norma visita solo una parte del punto vendita. Si può dunque creare valore per il consumatore sintonizzando il marketing industriale col marketing distributivo. A questo punto dell’analisi possiamo concludere che è in atto un processo di ampliamento dei confini del marketing industriale e commerciale; ciò che determina una riduzione della distonia tra la visione stretta dell’industria e la visione ampia della distribuzione. Questa convergenza della visione industriale e commerciale del mercato non elimina tuttavia l’esigenza di differenziare i confini di riferimento a seconda del target che si vuole raggiungere e dalla leva che si vuole manovrare. Resta dunque da chiarire la natura e le implicazioni della varianza del contesto in cui prendono forma le azioni di marketing e si valutano i loro risultati. La segmentazione dell’offerta varia in rapporto ai tre possibili target dell’azione di marketing: il consumatore (consumer marketing), il distributore 17 (trade marketing), l’acquirente (marketing distributivo). Quando il marketing industriale si rivolge al consumatore finale, la visione del mercato non può che essere assai stretta. La scoperta di vuoti d’offerta da soddisfare con la differenziazione del prodotto richiede infatti di norma l’individuazione di segmenti di domanda via via più stretti. Inoltre, la rivalità per la conquista e il mantenimento delle preferenze del consumatore non può che essere gestita con riferimento ai competitors e ai prodotti più “vicini”; anche sul piano tattico dunque, il contesto di riferimento del consumer marketing è definito da un numero limitato di prodotti e rivali. Quando invece il produttore orienta la sua attività di marketing nei confronti del cliente rivenditore per influire sul suo comportamento a sostegno della marca, la visione del mercato si è amplia. Il distributore valuta infatti la performance dei brands e orienta il suo comportamento verticale con riferimento a un contesto molto più ampio del segmento di consumo. Inoltre, la competizione sul mercato intermedio per acquisire i servizi commerciali a supporto della marca è di fatto trasversale (cross category); si pensi per esempio all’esposizione in testa di gondola, piuttosto che fuori banco e in avancassa. I conflitti di ruolo tra la funzione marketing e la funzione vendite delle aziende industriali discendono dunque anche da una diversa visione del mercato di riferimento: più ampia per la funzione vendite nell’attività di trade marketing e più stretta per la funzione marketing nell’attività di consumer marketing. Quando poi il target delle azioni di marketing è rappresentato dal cliente che si trova all’interno del punto vendita, il contesto di riferimento è rappresentato da tutti e tre i livelli della clessidra; per influire sulla dimensione e sulla composizione della spesa, è necessario infatti specificare il retail mix per segmento, categoria e funzione d’uso. In definitiva, il contesto in cui possono essere opportunamente interpretate e valutate le azioni di marketing varia in rapporto al target da raggiungere secondo lo schema seguente. Consumatore (consumer marketing) Funzione d’uso / occasione di consumo Categoria Segmento di consumo (ASA) X Distributore (trade marketing) Acquirente (retail marketing) X X X X X 18 La segmentazione dell’assortimento si articola in cluster più o meno ampi sia in rapporto ai diversi possibili target che ai diversi obiettivi delle azioni di marketing. Questo principio vale sia per il distributore che per il fornitore. Se analizziamo per cominciare la variabilità dei confini di marketing dal punto di vista del distributore, il primo livello di segmentazione consiste nella aggregazione di tutti i prodotti sostituibili e complementari nella funzione d’uso. Questa segmentazione dell’assortimento serve a guidare il layout (localizzzazione) e il display dei prodotti; la manovra di queste leve si pone come obiettivi: il miglioramento della leggibilità dell’assortimento e della connessa visibilità dei prodotti; l’aumento degli acquisti d’impulso; il miglioramento della qualità del servizio riducendo il tempo di acquisto. La segmentazione dell’assortimento in funzioni d’uso non serve però a soddisfare altre esigenze gestionali del distributore. La segmentazione dell’assortimento in funzioni d’uso non serve per esempio per guidare la negoziazione delle condizioni di acquisto e degli investimenti commerciali dei fornitori; la comparazione di sconti e contributi può essere infatti utilmente fatta solo tra fornitori che offrono sostituti vicini che si considerano pertanto rivali diretti. La stessa misurazione della performance perde di significato quando viene fatta confrontando prodotti sostituibili solo nella funzione d’uso, ma largamente eterogenei sul piano del consumo. Occorre dunque approfondire la segmentazione dell’assortimento specificando le funzioni d’uso in categorie merceologiche. La segmentazione dell’assortimento in categorie merceologiche non serve però a sua volta per definire il retail mix del distributore. Occorre infatti articolare sul piano espositivo l’assortimento nel maggior numero possibile di segmenti di consumo; il display verticale di segmento e orizzontale di marca migliora infatti la leggibilità dell’assortimento e orienta il consumatore verso l’acquisto dei prodotti a più alta marginalità unitaria. L’unico vincolo alla definizione espositiva di un segmento è la presenza di un numero di marche almeno pari al numero degli scaffali. L’omogenietà interna del segmento di consumo è naturalmente molto consistente in quanto, oltre alla omogeneità propria della categoria, si aggiungono altri elementi: il gusto, il formato, la fascia prezzo, la shelf life. Anche il prezzo, la promozione e la comunicazione vanno gestite a livello di segmento di consumo perché è a questo livello che il consumatore assume le informazioni per la scelta del punto vendita. Una segmentazione analoga a quella richiesta per la manovra del retail mix è necessaria per la manovra delle leve di marketing del fornitore. L’innovazione e la differenziazione del prodotto devono essere infatti guidate dalla segmentazione in funzioni d’uso. L’offerta di prodotti intermedi tra categorie consolidate ha infatti caratterizzato i processi innovativi degli ultimi anni; si pensi in particolare al passaggio dal caldo al freddo, dal salato al 19 dolce, dal basso contenuto di servizio all’alto contenuto di servizio. L’estensione della marca per funzioni d’uso rappresenta inoltre una strada obbligata per aumentare le occasioni di consumo e, nel caso dei distributori che organizzano il layout per funzioni d’uso, anche per aumentare la presenza espositiva e con essa le occasioni di acquisto in punto vendita. La funzione d’uso rappresenta per contro un aggregato troppo ampio per orientare la comunicazione e la manovra delle leve di trade marketing; per realizzare un vantaggio competitivo nella mente del consumatore e nel punto vendita agendo rispettivamente sulla percezione e sul servizio distributivo accordato al prodotto, occorre manovrare le diverse leve con riferimento ad un contesto caratterizzato da una maggior omogenità interna come quello espresso appunto dalla categoria. Infine, la definizione del prezzo relativo non può prescindere dalla considerazione dei sostituti più vicini; il posizionamento di prezzo richiede cioè il segmento di consumo come contesto di riferimento. La variabilità dei confini del mercato di riferimento può essere dunque espressa sia in funzione del target (consumatore, distributore, acquirente) che della leva di marketing che si intende manovrare secondo il seguente schema. DISTRIBUZIONE Layout merceologico MERCATO RILEVANTE Funzione d’uso Negoziazione Categoria Retail mix Segmento di consumo INDUSTRIA Politica di prodotto Comunicazione e trade marketing Politica di prezzo . 3. La partnership nel category management La distonia tra la visione industriale e commerciale del mercato di riferimento può essere in parte ricomposta attraverso il depotenziamento del trade marketing e la condivisione del retail marketing, sviluppando in sostanza la partnership nel category management. La soddisfazione puntuale e completa del consumatore è il cemento che unisce industria e distribuzione nelle rispettive azioni di marketing. Molti conflitti verticali nascono dalla pretesa di soddisfare ciascuno il proprio consumatore, dimenticando che il consumatore di beni non è una persona diversa dal consumatore di servizi; i due elementi dell’offerta si vendono peraltro congiuntamente e si influenzano a vicenda. Per soddisfare dunque completamente il consumatore occorre estendere l’orizzonte temporale 20 delle azioni di marketing e neutralizzare sul piano competitivo i rapporti di canale. Ciò che significa da un lato ridurre gli investimenti di trade marketing e, dall’altro, ridimensionare il ruolo del buyer spostando la negoziazione a valle del marketing nella catena del valore distributivo. Gli investimenti sui clienti rivenditori generano infatti solo vantaggi non sostenibili; non appena il flusso di denaro si interrompe o il competitor decide di offrire di più per ottenere la collaborazione di una data insegna, si ritorna al punto di partenza. Il trade marketing, a differenza del consumer marketing, non genera alcuna accumulazione di valore. Più consistenti sono gli investimenti di trade marketing e più instabili sono le quote di mercato delle marche industriali; analogamente, più consistenti sono gli investimenti di trade marketing e maggiore è la varianza delle quote di vendita che le marche industriali realizzano nelle diverse aree e nelle diverse insegne. Nel medio – lungo periodo Industria e Distribuzione perseguono il comune obiettivo della fidelizzazione; il consumatore fedele alla marca è in genere fedele anche all’insegna. I fornitori più lungimiranti non puntano più dunque oggi a limitare l’autonomia di marketing dei clienti con riferimento ai brands del loro portafoglio, ma si propongono come partners per il miglioramento della performance della categoria. L’interesse dell’industria a sposare la categoria come unità strategica di business (ASA) discende dal fatto che, aiutando i clienti a migliorare la performance della categoria, è possibile far crescere nel contempo la quota della marca. L’obiettivo della politica distributiva è dunque lo stesso; ciò che cambia è l’approccio ai clienti rivenditori e gli strumenti impiegati. Col trade marketing si investivano risorse sui clienti per evitare discriminazioni espositive, per ottenere il miglior servizio distributivo alla marca, oltre che naturalmente per utilizzare il punto vendita e l’insegna come mezzi di comunicazione e promozione delle vendite. Col category management, l’orizzonte del fornitore si amplia all’intera categoria e il suo contributo al miglioramento della performance può spaziare dalla semplice condivisione del patrimonio informativo all’affiancamento del cliente rivenditore nella manovra del retail mix per un certo numero di punti vendita in test. Se col trade marketing il fornitore investiva sui distributori per ottenere un servizio commerciale adeguato a supportare gli obiettivi di vendita della marca, col category management invece l’investimento è indiretto; il fornitore finanzia cioè la crescita della qualità del management distributivo nella convinzione che la performance della categoria possa essere migliorata in sintonia con la crescita in quota della marca. Questa convinzione ha il suo fondamento logico nella performance di categoria, che è particolarmente modesta quando: la visione distributiva del mercato è troppo ampia e tale da assegnare un eccessivo peso alle interdipendenze tra categorie 21; 21 Si pensi in particolare alla vendita in perdita di alcuni prodotti per crear traffico al punto vendita. 21 il distributore non dispone di competenze, risorse e modelli organizzativi idonei ad assumere la categoria come unità strategica di business; vi è forte distonia tra la leadership goduta dal fornitore sul mercato del consumo e il posizionamento competitivo sul mercato intermedio. Ovviamente, il category management non potrà sostituire completamente il trade marketing; sul piano organizzativo, lo sviluppo della partnership attraverso la gestione congiunta della categoria è stato peraltro assegnato proprio alla funzione trade marketing. E’ difficile prevedere in che misura il nuovo approccio sostituirà il vecchio, anche perché la sostituzione dipenderà dalla disponibilità dei distributori a seguire i fornitori sulla nuova strada. In questa sede non interessa però tanto la ristrutturazione degli investimenti che supportano la politica distributiva dell’industria di marca, quanto piuttosto la logica e gli strumenti del passaggio dal brand management al category management. Il category management consiste nell’adozione della categoria come unità strategica di business nei rapporti col consumatore e nelle relazioni di canale. Con questa definizione si è risolto alla radice il problema dell’appartenenza del category management; industria e distribuzione possono cioè avere entrambi un’approccio strategico alla categoria nel momento in cui condividono il contesto di riferimento per tutte le attività generatrici di valore. Il primo passo che un distributore compie verso il category management è la ventilazione degli obiettivi di sell out e di margine per categoria; quest’esercizio viene naturalmente compiuto in base al ruolo di marketing attribuito alle singole categorie. Se ad una categoria viene attribuito il ruolo della creazione di traffico per un certo periodo e per uno o più formati di punto vendita, la conseguenza diretta sarà un aumento delle vendite ed una riduzione della marginalità unitaria. Gli obiettivi di vendita e di margine attribuiti alla categoria vengono poi ventilati per fornitore ed è a questo punto che si attiva il primo banco di prova della partnership nella gestione della categoria. Il fornitore potrebbe infatti non essere d’accordo sul ruolo attribuito alla categoria e, di conseguenza, sulle vendite e sul margine unitario della categoria oltre che della marca. Questo conflitto nasce da una diversa visione di marketing di industria e distribuzione. L’industria, per quanto possa ampliare la sua visione di marketing, non arriverà mai oltre la categoria. Al contrario, la visione di marketing della distribuzione si estende sempre alla funzione d’uso e all’intero punto vendita; di conseguenza, il ruolo assegnato ad una categoria ha sempre una valenza trasversale sia che si tratti di crear traffico sia che si tratti di fidelizzare la clientela sviluppando un’immagine di convenienza, qualità e servizio. La decisione di attribuire un dato ruolo di marketing ad una data categoria spetta dunque al distributore proprio per la valenza trasversale di questa decisione. D’altra parte, se il partner industriale deve accettare come vincolo il ruolo di marketing attribuito 22 dal cliente, non può però rinunciare alla condivisione della sua implementazione. Il successo della partnership si misura infatti con l’incremento di performance della categoria ed è compito del fornitore evitare che la visione trasversale del distributore finisca per penalizzare eccessivamente la categoria. Concretamente, supponiamo che il distributore attribuisca il ruolo di creazione di traffico alla categoria “birra”; per evitare che questa scelta si traduca in un aumento delle vendite modesto rispetto alla riduzione della marginalità unitaria, il fornitore può chiedere di: limitare la promozione al periodo di massima stagionalità; promuovere solo i segmenti di consumo e le marche più sensibili al prezzo; declinare l’intensità della promozione per formato di punto vendita; differenziare le marche in promozione per area territoriale; finanziare la promozione con risorse assegnate al marketing di insegna. Un’altra fonte di conflitto è il contenuto del category management, che per molte aziende industriali significa solo puntare alla ottimizzazione della performance di categoria condividendo la manovra del retail mix. Per la distribuzione invece, l’ottimizzazione della performance di categoria viene ricercata combinando retail mix e negoziazione. All’industria di marca che opera in più categorie merceologiche viene infatti chiesto di: rinunciare al sostegno dei prodotti deboli con gli strumenti della vendita abbinata a prodotti forti, oltre che con sconti e i contributi trasversali; differenziare le condizioni commerciali e gli investimenti di trade marketing in funzione dei diversi contesti in cui si inseriscono i suoi prodotti 22. L’industria non può però accettare una completa contestualizzazione della negoziazione per categoria; per esempio, non è pensabile che il fornitore possa accettare di chiudere il contratto con uno stesso cliente su alcune categorie e non su altre. L’adozione della categoria come punto di riferimento per amministrare le relazioni di canale non può esprimersi cioè nel completo abbandono della vecchia logica del portafoglio prodotti, ma solo nella sua evoluzione. Un ulteriore elemento di complessità interviene poi quando la negoziazione cross category riguarda diverse aziende di uno stesso gruppo industriale. Un’altra fonte di conflitto è la possibile strumentalizzazione della negoziazione di categoria. Il distributore potrebbe infatti ricercare il partner industriale nella gestione della categoria a valle dell’assegnazione del ruolo di marketing. Nel caso per esempio dell’assegnazione del ruolo della creazione di traffico, il category captain potrebbe essere individuato in funzione della disponibilità a supportare questa autonoma decisione del distributore; il che significa mettere all’asta la partnership nel category management individuando il fornitore che è disposto ad investire di più. Oppure, il Dalle interviste all’industria di marca è emerso che oggi la differenziazione per categoria del trade marketing interessa principalmente le condizioni di vendita; in futuro, si prevede un’accentuazione della differenziazione del servizio logistico e dei contributi promozionali 22 23 distributore potrebbe scegliere come category partner il follower per ridurre la sua dipendenza dal leader; in questo caso, il follower accetta di aumentare il valore negoziale in cambio di una sua crescita in quota nell’insegna. Ovviamente, questi comportamenti opportunistici impediscono una collaborazione reale e stabile nel miglioramento della performance di categoria. La partnership nel category management richiede un cambiamento radicale nel comportamento negoziale di entrambi; il fornitore deve ridurre fortemente il suo orientamento al portafoglio prodotti e il distributore deve spostare la negoziazione a valle del marketing nelle attività che compongono la catena del valore distributivo. Un altro ostacolo che si incontra sulla strada della partnership nel category management è la replicabilità delle soluzioni testate.La necessità di differenziare il retail mix per formato di punto vendita e per area territoriale riduce la replicabilità ed evidenzia un contrasto di fondo tra la visione di marketing dei due attori del canale. Il fornitore può accettare una differenziazione per formato del retail mix di categoria, ma non può condividere una differenziazione territoriale del retail mix di categoria se non è giustificata dalla domanda, ma dalle esigenze competitive del distributore. Spesso poi la scarsa replicabilità del test viene strumentalizzata dal distributore che moltiplica così il numero dei partners di categoria per formato e area territoriale. Siccome l’investimento del fornitore si giustifica solo in una prospettiva ponderale e, d’altra parte, non avrebbe senso ridurre l’orizzonte della partnership al punto vendita in test, la replica delle soluzioni testate con successo va messa in conto fin dall’inizio. D’altra parte, il fornitore può proporre lo sviluppo della partnership nel category management solo ai clienti che non operano in sovrapposizione territoriale; ciò che introduce da un lato un limite strutturale alla replicabilità e, dall’altro, apre questo nuovo modello di relazione anche alle imprese che non detengono una posizione di leadsership. Un ultimo ostacolo alla partnership si incontra nell’organizzazione dei due attori del canale. Per l’industria, realizzare test di category management significa spostare responsabilità e risorse dal marketing alle vendite; ciò che, in attesa di uno sviluppo del modello organizzativo, può essere fatto solo per iniziativa e sotto il controllo del top management. Per il distributore, la collaborazione col fornitore in un test di category management implica la separazione e la subordinazione dell’attività di negoziazione alla attività di marketing; ciò che di nuovo può essere fatto solo per iniziativa e sotto il controllo del top management. I vertici aziendali hanno però fin’ora manifestato grande prudenza nel supportare l’evoluzione al category management per non turbare equilibri consolidati e, in sostanza, per non creare conflitti interni che avrebbero ripercussioni imprevedibili. 24 Un punto di equilibrio delle opposte esigenze potrebbe essere trovato scambiando la garanzia di miglioramento della performance di categoria offerta dal fornitore con l’impegno del distributore ad estendere per formato le soluzioni testate con successo. Che la partnership nel category management sia la strada giusta per creare valore trova oggi conferma nell’interesse dell’antitrust inglese che accusa i due attori del canale di collusione per tenere alti i prezzi ed escludere i piccoli fornitori dall’assortimento 23. La partnership nel category management riduce la trasversalità del marketing distributivo in quanto la visione ampia del mercato propria delle aziende commerciali viene controbilanciata dalla visione strettta propria delle aziende industriali. Se la collaborazione si estende a numerose categorie, è probabile dunque che si riduca fino a scomparire la propensione del distributore a vendere sotto costo per creare traffico. Questo non significa però colludere per tenere alti i prezzi, ma eliminare una forma di concorrenza che in alcuni paesi è ritenuta distorcente al punto che è stata sancita la sua illegalità. Anche l’accusa di collusione per escludere i fornitori più piccoli mi sembra poco fondata. Non bisogna infatti dimenticare che gli assortimenti commerciali sono costantemente aumentati in ampiezza e in profondità in tutti i paesi; ciò che mal si concilia con la tesi di una collusione per ridurre le alternative offerte al consumatore. Soprattutto, ampiezza e profondità dell’assortimento non possono essere confusi con la varietà dell’offerta. Un assortimento di categoria che si presenta ampio come numero di marche e profondo come numero di referenze per marca può essere nel contempo poco vario se alcuni importanti segmenti di consumo risultano scoperti. In termini di wellfare può essere opportuna una riduzione di ampiezza e profondità se realizzata per aumentare la copertura dei segmenti di consumo. Siccome poi la sensibilità della domanda all’aumentare dell’ampiezza, della profondità e della varietà, è ovviamente decrescente, il tasso di rotazione si riduce man mano che aumenta il numero di alternative offerte al consumatore. La riduzione del tasso di rotazione determina a sua volta un aumento dei costi di distribuzione e, quindi, un aumento del prezzo al consumo. Spetta al distributore riconciliare la domanda di alternative di acquisto con la domanda di convenienza attraverso una politica assortimentale definita con la collaborazione del produttore che, avendo maturato una profonda conoscenza del consumo dei suoi prodotti, può fornire preziose informazioni al cliente rivenditore. 23 Cfr. MARKUP, dicembre 1999 25 Fig. 1 - IL MODELLO A CLESSIDRA Pulizia della persona Mangiare BISOGNI Pulizia dei capi Pulizia della casa bere FUNZIONI D’USO Prima Primo Secondo Contorni Pane e Fine Fuori colazione piatto piatto sostituti pasto pasto Feste e Ospitalità ricorrenze CATEGORIA BIRRA SEGMENTI ESPOSITIVI Standard Premium Superpremium Specialty Analcoliche/Light Saving 26 FIG. 2 - IL MODELLO A CLESSIDRA BISOGNI SODDISFATTI DAL SUPERMERCATO Mangiare Piaceri di gola Bere Pulizia della persona Pulizia dei capi Pulizia della casa FUNZIONI D'USO/ OCCASIONI DI CONSUMO Merende Snack Ospitalità Regalo Ricorrenza CATEGORIA SEGMENTI DI CONSUMO DA SELEZIONARE PER L’ESPOSIZIONE TORRONE Torrone classico torrone classico torrone classico torrone classico duro alla nocciola duro alla mandorla tenero alla nocciola tenero alla mandorla torrone specialità torrone specialità torroncini classici torroncini classici torroncini ricoricoperto nocciolato morbidi duri perti al cioccolat 27 T. 2 – Segmentazione ECR dell’offerta grocery Drogheria Alimentare Prodotti da forno e cereali Fuori pasto dolci Fuori pasto salati Specialità etniche Olio, aceto e succo di limone Conserve animali Conserve vegetali e frutta Insaporitori Sughi, salse e condimenti Pane e sostitutivi Preparati e piatti pronti Prodotti dietetici Cibi infanzia Preparati bevande calde Pasta Riso Ingredienti base Latticini uht e assimilabili Spalmabili dolci Ricorrenze Bevande Acqua Champagne/spu mante Vino Liquori Aperitivi Bevande piatte Bevande gasate Succhi di frutta Altre bevande e preparati Birre Freddo Gelati Surgelati Fresco Da bere Bianco Formaggi Yogurt Freschi dolci Latte e panna fresca Condimenti freschi Salumi Precotti Altri prodotti freschi Piatti pronti/specialit à Pasta fresca Uova fresche Cura Casa Cura Persona Detergenti superfici Commodities Detergenti stoviglie Usa e getta Accessori Deodoranti ambienti Insetticidi Detergenza bucato Cura tessuti Igienico sanitari Igiene personale Prima infanzia Igiene orale Rasatura e depilazione Capelli Corpo, mani e piedi Viso Profumeria cosmetica Ai gusti Compatto Brassé Bifidus Greco Pezzi frutta Pet food Accessori pet e lettiere 63 CATEGORIE 1092 SOTTOSEGMEN TI DI CONSUMO Intero Bambino 7 REPARTI 331 SEGMENTI DI CONSUMO Minipasto Magro Pet Care Goloso 1.739 FORMATI/ GUSTI 220.000 REFERENZE 28 APPENDICE: BIRRE OTTENUTE MEDIANTE ALTA FERMENTAZIONE Bitter Ale Strong Ale Light Ale Pale Mild Dark Mild Tradizione inglese Brown Ale Old Ale Barley Wine Pale Ale India Pale Ale Real Ale Tradizione scozzese Scotch Ale Strong Scotch Ale Tradizione irlandese Red Irish Ale Belgian Ale Golden Strong Ale Dark Strong Ale Tradizione belga Saison ALE Trappiste D’Abbazia Tradizione francese Bière De Garde Tradizione germanica Altbier Tradizione americana Kolsch Cream Ale Steam Beer Milk Stout STOUT Tradizione inglese Oatmeal Stout Imperial Stout PORTER Tradizione irlandese Dry Stout Tradizione londinese Porter tradizionale Porter moderna Ambrata–rossa, molto luppolata con scarsa schiuma Versione più forte della Bitter Ale Ambrata–rossa molto calorica Chiara, meno luppolata e con gradazione inferiore alla Bitter Versione scura della Pale Mild Scura, prodotta con malto–caramellato, gusto dolce Scura ad alta gradazione con un certo corpo Scura con gradazione vicina a quella del vino, di notevole corposità Ambrata–rossa dal gusto particolare Più alcolica e luppolata della Pale Ale Ambrata–rossa aggiunta di lieviti e invecchiata Scura con sapore maltato Versione più forte della Scotch Ale Ambrata–rossa dal noto sapore leggermente burroso Ambrata–rossa più aromatica e alcolica delle britanniche Versione più forte della Belgian Ale, dorata dal sapore morbido e fruttato Versione scura a maggiore gradazione della Belgian Ale Color arancio scuro molto luppolata dal gusto acidulo con sentore di frutta ed erbe speziate Colore variabile dall’oro al marrone scuro, gusto fruttato e aromatizzato, corpose ad alta gradazione Simili alle Trappiste Color ramato ad alta gradazione ottenute mediante rifermentazione in bottiglia Ambrata–rossa, dal sapore pulito simile alle “Ale” inglesi e belghe Chiara dal sapore leggermente fruttato Chiara, cremosa di bassa gradazione Chiara ottenuta da lieviti tipici della fermentazione bassa: birra vivace Scura e corposa dal sapore dolce Scura, particolarmente corposa per aggiunta di farina di avena Versione ad alta gradazione, corposa con sentore di ribes Scura, gusto amaro, corposa di normale gradazione Scura, molto alcolica Versione a gradazione moderata 29 APPENDICE: BIRRE OTTENUTE MEDIANTE BASSA FERMENTAZIONE Pils Munchner Hell Munchner Dunkel Vienna Marzenbier Red Lager Dort Export LAGER Ruchbier Dark Lager Ice Beer Dry Beer Strong Lager Bock Recente tipologia di lager chiara ottenuta mediante abbassamento della temperatura sotto zero Anch’essa recente, chiara dal sapore secco, neutro senza retrogusti Di buona corposità, con sentore di malto che prevale sul luppolo e conseguente aromaticità contenuta Tipica tedesca con gradazione alcolica sostenuta (6–7°) Dunkel Weizen Weizenbock Versione più alcolica e maltata delle Weizennbier Doppelbock Malt Liquor Bière Blanche Hofenweizen Kristallklar Frambozen Birra di frumento speciale a bassa gradazione, disponibile in tre versioni (bianca, verde, e rossa) con aggiunta di un particolare fermento lattico che le conferisce una tipica acidità fruttata Birra a fermentazione spontanea ottenuta con una miscela di orzo maltato e frumento non maltato, molto luppolata con luppolo invecchiato: ne scaturisce un aroma più attenuato, gusto acidulo, colore ambrato e scuro, consistenza vinosa Ambrata–rossa ottenuta dalla miscela di Lambic giovane e invecchiata Lambic ambrata–rossa dal sapore fruttato dovuto all’aggiunta di amarene Versione che prevede l’aggiunta di fragole Faro Lambic ottenuta con aggiunta di zucchero o caramello, dal caratteristico sapore dolce–acido e colore marrone Berliner Weiss Lambic ALTRI TIPI DI BIRRA Versione scura Ambrata–rossa maltata dal sapore dolce Ambrata–rossa a gradazione alcolica leggermente superiore delle normali lager Rossa, alternativa alle tipologie viennesi e Marzenbier genericamente qualificate anche Red Beer Chiara, via di mezzo tra una Pils e una Munchner anche se leggermente più forte Scura dal caratteristico gusto affumicato Alternativa alla Runchbier sempre di colore scuro Versione della Bock utilizzata a maggio per festeggiare la primavera Versione che supera i 7,5° Birra statunitense ad alta gradazione Birra ottenuta da una miscela orzo–frumento (frumento non maltato), chiara, denominata anche Witbier, dal leggero tono di acido lattico e intenso aroma di frutta Birra chiara rifermentata e non filtrata con la caratteristica di avere il residuo di lieviti in bottiglia Weizennbier ottenuta con una miscela di cereali–frumento (con frumento maltato prevalente sugli altri) chiara dal sapore fruttato Versione più scura e abboccata delle Weizennbier Maibock ALTA GRADAZIONE Chiara, gusto secco amaro e luppolato, abbondante schiuma con gradazione alcolica tra 4 e 5 gradi Chiara, sapore maltato e aroma poco luppolato Geuze Kriek 30