estratti da: Globalizzazione e disuguaglianze di Luciano Gallino

estratti da: Globalizzazione e disuguaglianze
di Luciano Gallino, Laterza, Roma-Bari, 2003
p. 43 : Condizioni di lavoro
Un Rapporto della Banca mondiale sottolinea nel modo che segue la presenza di due fenomeni mondiali
distinti, ma correlati, in cui si compendiano i due volti della globalizzazione. Essi sono «la riduzione degli
interventi statali sui mercati e l'accresciuta integrazione del commercio, dei flussi di capitale e dello
scambio d'informazioni e di tecnologie». Quindi il Rapporto prosegue: «In un simile clima di profondi
mutamenti le decisioni riguardanti i lavoratori dipendenti e le condizioni di lavoro sono dettate da
pressioni competitive mondiali». Avendo già toccato sopra elementi delle condizioni di lavoro quali i salari
e il grado di sicurezza, ci limiteremo qui ad altri elementi di esse quali l'età di ingresso nelle forze di
lavoro; il quadro istituzionale (il fatto cioè che un lavoro rientri o meno nell'economia formale); gli orari;
gli ambienti di lavoro; le libertà sindacali.
Questi diversi elementi appaiono strettamente correlati fra loro. In ogni paese, e in ogni settore
produttivo, lo stato di uno di essi permette di predire con buona approssimazione lo stato di tutti gli altri.
In base ai dati dell'ONU e del BIT si può affermare che:
- da 100 a 200 milioni di bambini in età compresa tra i 6 e i 12 anni svolgono lavori pesanti (in miniere,
cave, vetrerie, fabbriche di tappeti, costruzioni di strade) in condizioni ambientali pessime, orari superiori
alle 12 ore al giorno, salari infimi (un dollaro al giorno o poco più), ovviamente al di fuori di ogni quadro
giuridico e tutela sindacale;
- un numero analogo di adolescenti, la gran maggioranza donne, lavora in condizioni simili, con salari di
poco superiori, e però in settori differenti: abbigliamento, cancelleria, elettronica di consumo;
- si stima che il lavoro non strutturato, ovvero svolto al di fuori di ogni regola istituzionale - base
dell'economia che vien detta informale là dove il diritto del lavoro di fatto ancora non esiste, mentre viene
definita invece invisibile, sotterranea, parallela, sommersa là dove le regole di diritto esistono ma sono
disattese - comprenda i due terzi di tutti coloro che hanno un qualche tipo di occupazione nell'Africa subsahariana; la metà degli occupati in Asia; tra un terzo e la metà nell'America latina, un quinto in Europa e
nel Nord America;
- in complesso, nel Sud il 40 per cento del totale delle forze di lavoro è disoccupata, sotto-occupata od
occupata in lavori assolutamente precari, da cui trae un reddito infimo.
Concludere che simili dati siano o no il risultato di «pressioni competitive mondiali», secondo il passo
succitato della Banca mondiale, dipende dai settori cui ci si riferisce, come pure da ciò che si intende per
«pressioni competitive». Di certo l'industria tedesca, americana o francese non trae utili dal lavoro dei
bambini che soffiano vetro in Thailandia o annodano tappeti nel Belucistan, né da quello delle ragazze che
fabbricano stilografiche a Canton. Lo stesso lavoro è però utile allo sviluppo dei consumi individuali in
Europa, in Giappone, negli Stati Uniti, in Canada; della struttura commerciale che li alimenta; della
pubblicità che li stimola. Questi mercati coinvolgono complessivamente milioni di persone, e
rappresentano quindi vastissimi interessi orientati a premere affinché il costo del lavoro nei paesi
d'origine dei relativi prodotti sia mantenuto il più basso possibile. Le condizioni di lavoro sopra riassunte
sono determinate e mantenute anche da tali pressioni.
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Al di là dell'aumento della disoccupazione, dei modesti tassi di crescita, della stasi della produttività e
della riduzione dei salari reali, che hanno accompagnato la globalizzazione dagli anni Ottanta, altri suoi
effetti vanno richiamati: il forte aumento delle disuguaglianze di reddito tra lo strato più ricco e lo strato
più povero della popolazione mondiale, ricordato nei capitoli precedenti; nonché il degrado economico,
sociale e culturale, e talora l'annichilimento fisico, di innumerevoli comunità locali, a causa sia del
processo di inurbamento sopra ricordato, sia della situazione di pressoché totale dipendenza da processi
internazionali esogeni in cui la globalizzazione le ha costrette, o di trasferimenti forzati nel quadro di
progetti di modernizzazione. Per comodità ripetiamo qui un dato, tratto dal Rapporto ONU 1999 sullo
sviluppo umano: nel 1997 il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale, quasi tutta concentrata
nei paesi OCSE, si spartiva l'86 per cento del PIL del mondo; per contro al 20 per cento più povero
toccava solamente l'1 per cento. Si noti: nel 1990 il rapporto tra il quintile più ricco e il quintile più
povero era 60 : 1; mentre nel 1960 non superava il 30 : 1. Circa il declino indotto o la distruzione
programmata di comunità locali, vanno anzitutto ricordati i milioni di contadini trasferiti a forza, o indotti
a trasferirsi con artifici rivelatisi poi ingannevoli, per fare fronte ai grandi progetti finanziati dalla Banca
mondiale, quali dighe, impianti idroelettrici, autostrade, o massicce deforestazioni per far luogo a impianti
agroindustriali.
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4. Iniziative dal basso per una globalizzazione dal volto umano
Dinanzi alla proposta di una global governance capace di perseguire efficacemente obiettivi del genere
che ho ricordato, sorge spontanea una domanda: quali sono i soggetti reali capaci di metterla in piedi, e
con quali mezzi, per quali vie si può realizzarla? Credo che per costruire una risposta plausibile a simile
domanda si debba dividerla in due. Se si chiede quali sarebbero le organizzazioni, quali gli strumenti
operativi da mobilitare a tal fine, sembra ovvio che un ruolo importante dovrebbe spettare alle
organizzazioni internazionali che già sono sulla scena: Fondo monetario internazionale, Banca mondiale,
Banca per i regolamenti internazionali, Organizzazione mondiale per il commercio, Commissione europea.
A esse se ne dovrebbero aggiungere altre a diversi livelli, regionale, nazionale e internazionale; ma, visto
che le suddette organizzazioni sono comunque operanti, non si vede per quali motivi non si dovrebbe
cominciare con esse.
Viene poi la seconda parte della domanda in questione: chi spinge, chi sollecita le suddette organizzazioni
affinché cerchino di realizzare una globalizzazione dal volto umano (l'espressione è dell'ONU), una
globalizzazione che persegua fini simili a quelli sopra indicati, che sono ben diversi da quelli che dette
organizzazioni perseguono da almeno una trentina di anni? La risposta parrebbe ovvia: dovrebbero
essere i cittadini a farlo, gli imprenditori, gli amministratori pubblici, i sindacati, le organizzazione non
governative. Questa risposta è talmente ovvia che finora non è stata nemmeno discussa. Ora se vi è
qualcosa di drammatico nei processi di globalizzazione, ciò è appunto la mancanza di discussione; o, per
esser più precisi, la mancanza di partecipazione democratica. Decisioni di estrema importanza per noi e
per i nostri figli sono state prese nel corso di decenni da poche migliaia di persone in tutto il mondo,
dislocate a Washington (BM), Basilea (BRI), Ginevra (OMC), Bruxelles (CE), Francoforte (BE) oppure
Davos, sede, come tutti sanno, della riunione annuale d'uno dei gruppi di interesse più potenti del
mondo, il World Economic Forum. Accordi commerciali, aggiustamenti strutturali, prestiti internazionali
per miliardi di dollari: tutto ciò è passato regolarmente sopra la testa di associazioni di categoria, enti
locali, operatori sociali ed economici, organizzazioni non governative. Se davvero volessimo realizzare
una global governance, la quale ci porti verso una globalizzazione dal volto umano, è forse ora che le
radici dell'erba, come dicono gli inglesi (nell'espressione grassroots democracy), la base formata da quei
cittadini del mondo per i quali la democrazia vive di partecipazione non meno che di rappresentanza,
comincino a farsi sentire.