Il furor di Didone nel IV libro dell`Eneide

Il furor di Didone nel IV libro dell'Eneide
Il IV libro dell'Eneide è dedicato all'amore dell'infelice Didone
nei confronti di Enea, amore inteso come furor a cui si
contrappone la pietas dell'eroe troiano, che accetta il destino che
gli dei hanno voluto per lui, abbandona la donna che lo ama e
parte per l’Italia.
Ora, nei libri precedenti, l’eroe troiano aveva raccontato, su
invito della regina di Cartagine, le proprie peripezie legate alla
guerra di Troia e alla fuga, accendendo nella donna la passione
che Virgilio sin dall'incipit del libro paragona ad un fuoco che la
tormenta e che non dà pace; Didone, innamorata, decide di
parlare con la sorella Anna.
L’amore induce ad agire follemente in ogni suo gesto Didone, la
quale trova pace soltanto quando si trova in compagnia di
Ascanio, il figlioletto di Enea tanto simile al padre: in realtà,
sotto le sembianze del giovane, si nasconde Cupido.
Decisivo, a questo punto, è l'intervento di Giunone, a cui sta
cara la costruenda Cartagine, e di Venere; le due divinità si
accordano per scatenare una tempesta, dopo una battuta di
caccia, che spinge i due protagonisti a trovare rifugio presso
una stessa caverna; qui viene consumato il loro amore che
Virgilio descrive con lampi nel cielo e l'ululare delle Ninfe. È un
giorno felice per Didone ma è anche l'inizio della sua infelicità.
Giove, a cui Giunone non aveva detto nulla, manda Mercurio
per rimproverare Enea della perdita di tempo e della
deviazione del Fato: deve raggiungere l'Italia e fondare una
nuova città.
Il pius rimane molto colpito dai rimproveri del messaggero e
ordina di preparare la flotta mentre temporeggia e riflette sulle
parole da dire alla regina. Nel frattempo, però, Didone viene a
conoscenza dalla Fama, cioè dalla diceria, dalla voce comune, e
non dal diretto interessato, che il suo amato sta per partire
insieme ai propri compagni alla volta dell’Italia.
La donna allora, in preda al furor, decide di parlare all'amato: si
dice ingannata, lo accusa, rimpiange la mancata maternità ed
infine preannuncia la propria morte. L’eroe ascolta con dolore
ma sa anche che deve abbandonare il lido cartaginese e
assecondare il volere degli dei: “Italiam non sponte sequor”
risponde al verso 361, non segue l’Italia per sua volontà, ma
per gli dei, per il popolo orfano di patria, per la memoria del
padre Anchise e per Ascanio che merita il dominio di quelle
terre. Ma Didone, totalmente invasa dal furor, non dà peso a
1
tutto ciò, che considera semplici scuse, travolge l’uomo con una
serie di accuse di ingratitudine per l’ospitalità ricevuta e di
insensibilità, promettendogli vendetta.
Questo mio saggio è incentrato sul furor, su questa passione
amorosa che colpisce la regina in due momenti particolari:
quando viene a sapere della decisione presa da Enea e infine
quando decide di togliersi la vita.
Riporto di seguito due passi in cui Virgilio descrive questa follia
d’amore che colpisce il personaggio di Didone e che riguardano
l’ultima parte del libro, quella dedicata proprio al suicidio della
regina.
Lo scenario in cui si colloca questo evento ha molto della
dimensione teatrale: infatti, come afferma Bettini1 “ se
generalmente la morte di una donna è coperta dal silenzio,
quella spesso violenta delle eroine della tragedia domina la
scena del teatro; qui il suicidio è il modo della morte femminile,
il tratto antropologico di distinzione tra i sessi nella morte”; pur
con alcune eccezioni, in genere, è la donna a procurasi la morte,
mentre l’uomo la riceve da altri. Ma anche in questo senso la
figura di Didone non è sovrapponibile al modello dell’eroina
tragica: mentre quest’ultima ricorre all’impiccagione (perché la
morte cercata da una donna non deve comportare spargimento
di sangue), Didone, così come farà Fedra nella tragedia di
Seneca, si uccide con la spada dello stesso Enea che, anche se è
già lontano, è dunque presente al suicidio, è presente attraverso
l’arma che ha donato in segno di amore e di ringraziamento
dell’ospitalità ricevuta e come preludio di morte della regina.
Riporto il passo tratto, appunto, dal IV libro, versi 642- 6472, in
cui compare un termine non molto usato nella lingua latina,
cioè furibunda3:
“At trepida, et coeptis immanibus effera Dido,
sanguineam volvens aciem, maculisque trementis
interfusa genas, et pallida morte futura,
interiora domus inrumpit limina, et altos
conscendit furibunda rogos, ensemque recludit
Dardanium, non hos quaesitum munus in usus.”
1
Cfr. Bettini M. (2005) , pp 302-303
and Roman Materials della Perseus Digital Library
http://www.perseus.tufts.edu/hopper/text?doc=Verg.+A.+4.642&fromdoc=Perseus%3Atext%3A199
9.02.0055 (consultato il 26.05.2013), il brano è riportato secondo l’edizione J. B. Greenough, 1900.
2
Il testo latino è tratto dal database Greek
3
La ricerca del nesso è stata effettuata sul database PHI 5.3 tramite il programma di lettura Diogenes 3.1.6.
Questo termine compare due volte in tutta l’Eneide. (libro IV v. 646 e libro VII al v. 348)
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“ma Didone trepidante e crudele per le azioni intraprese
immani,
volgendo la pupilla sanguine, le guance cosparse di macchie
tremanti,
e pallida per la morte imminente, irrompe nelle stanze interne
della casa e
sale sugli alti roghi furibonda, sguaina la spada Dardania,
dono non richiesto per questo uso”
Virgilio descrive anche fisicamente l’aspetto che assume
Didone: pupille rosse come il sangue, le guance tremanti e
cosparse di macchie e pallida per la morte imminente, questa
descrizione è un topos nella letteratura latina, anche Seneca
adopererà tali termini per descrivere per esempio l’amore anche
in questo caso inteso come furor e come ignis sacer che
sconvolge Fedra.
Dopo essersi gettata sulla spada, arriva la sorella Anna e in cielo
Giunone manda Iride ad abbreviare l’agonia dell’infelice, a
strapparle quel particolare capello, a cui –secondo una credenza
diffusa- la sua vita era legata.
La messaggera esegue gli ordini.
Quest’ultimo passo4 (696-705) riassume un po’ la visione che
Virgilio ha dell’amore, passione paragonata tanto al fuoco
quanto al furor5:
“Tum Iuno omnipotens, longum miserata dolorem
difficilisque obitus, Irim demisit Olympo,
quae luctantem animam nexosque resolveret artus.
Nam quia nec fato, merita nec morte peribat,
sed misera ante diem, subitoque accensa furore,
nondum illi flavum Proserpina vertice crinem
abstulerat, Stygioque caput damnaverat Orco.
Ergo Iris croceis per caelum roscida pennis,
mille trahens varios adverso sole colores,
devolat, et supra caput adstitit: “Hunc ego Diti
sacrum iussa fero, teque isto corpore solvo.”
Sic ait, et dextra crinem secat: omnis et una
and Roman Materials della Perseus Digital Library
http://www.perseus.tufts.edu/hopper/text?doc=Verg.+A.+4.696&fromdoc=Perseus%3Atext%3A199
9.02.0055 (consultato il 26.05.2013), il brano è riportato secondo l’edizione J. B. Greenough, 1900.
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Il testo latino è tratto dal database Greek
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Dalla ricerca lemmatizzata effettuata sul database PHI 5.3 tramite il programma di lettura Diogenes 3.1.6 si
evince che il termine furor compare nel IV libro dell’Eneide cinque volte ( v. 91, v. 101, v. 433, v. 501, v. 697).
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dilapsus calor, atque in ventos vita recessit.”
“Allora Giunone onnipotente commiserando il lungo dolore
del difficile trapasso, mandò Iride dall´Olimpo che sciogliesse
l´anima lottante e le membra incatenate.
Infatti poiché moriva né per fato né per morte meritata,
ma infelice prima del giorno e accesa da improvviso furore,
non ancora Proserpina le aveva strappato dal capo il biondo
capello e condannata la persona all´Orco stigio.
Perciò Iride rugiadosa con le penne di croco per il cielo
traendo mille vari colori nel sole davanti vola giù
e si fermò sopra la testa. "Io comandata porto questo
sacro a Dite e sciolgo te da questo corpo":
così disse e con la destra taglia il capello, tutto il calore
insieme svanì e la vita si disperse nei venti.”
Nel IV libro dunque il lessico della passione ruota attorno ai
campi semantici del fuoco bruciante che prefigura il suicidio
conclusivo e quello del furor che trasporta sul piano infero lo
statuto di un’eroina originariamente destinata alla dimensione
siderea grazie a quella caratteristica, il pudor che però a causa di
Enea si è estinto. Per Virgilio dunque l’amore è dementia cioè
mancanza di senno e come tale ha solo effetti negativi: è una
forza irrazionale che sconvolge gli animi, una furia devastante
che provoca dolore e morte e questo il poeta è riuscito a
dimostrarlo attraverso la descrizione dei repentini
ondeggiamenti di un animo in tempesta proprio come quello di
Didone.
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Bibliografia
Bettini M. (2005) Alla ricerca del ramo d’oro. Letteratura e
antropologia di Roma antica, Milano, La Nuova Italia.
Bono, P.- Tessitore, M.V. (1998) Il mito di Didone. Avventure di
una regina tra secoli e culture, Milano, Mondadori.
Mazzini, I. (1995) Didone innamorata o pazza? La psichiatria antica,
una chiave di lettura per il IV libro “dell’Eneide”, in Latomus: revue
d’études latines, 54, 1, pp. 92-105, Collection Latomus.
Ricottilli, L. (2000) Gesto e parola nell’ Eneide, Patròn, Bologna.
Rivoltella, M. (2002) La morte di Creusa e Didone nell’Eneide e il
modello del “seguito amoroso”, in Aevum, 1, Milano, Università
Cattolica del Sacro Cuore.
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