Isole Senkaku: Cina e Giappone ai ferri corti

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Isole Senkaku: Cina e Giappone ai ferri corti
È sempre difficile tentar di comprendere fino in fondo le strategie politiche alla base di
determinate decisioni che portano a dei contenziosi diplomatici. Una difficoltà che cresce
esponenzialmente quando si tenta di decifrare ciò che passa per la testa ai decision-maker di
Pechino. Perché la Cina continua a spargere sale sulle proprie potenziali alleanze in Asia?
Perché ignora il soft power? Forse che non è interessata all’egemonia continentale, e quindi
non è un pericolo per l’Occidente e i suoi alleati?
Per rispondere a questi quesiti, è necessario scoperchiare l’intricata questione dei dissidi
territoriali nel Mar Cinese Meridionale e tentare di capire quali siano oggi le esigenze
strategiche di Pechino. Tra queste priorità, a quanto pare, non v’è il soft power.
> La mancata ascesa della Cina
Il politologo Joseph Nye, padre del termine «soft power», affermava che gli Stati Uniti un tempo
riuscivano a «ottenere ciò che desideravano nel mondo» grazie ai «valori espressi» dalla cultura
americana e trasmessi dalla televisione, dal cinema e dalla musica. Questa presenza bonaria e
positiva spingeva le popolazioni di tutto il mondo e i loro governi a seguire il modello degli Stati
Uniti e ad «ammirare i loro valori, imitandone l’esempio e aspirando a raggiungere il loro livello
di prosperità e apertura». Oggi, per Washington è molto piú difficile influenzare la percezione di
sé nel resto del mondo tramite Hollywood e la musica pop; ma tutte le grandi potenze mondiali,
nel frattempo, hanno studiato e compreso questo meccanismo, tentando di copiarlo nel proprio
piccolo. Tutte, tranne la Cina.
L’attuale inferiorità politica (soft power) di Pechino, tuttavia, non deve portare l’Occidente a
sottovalutarne le ambizioni di lungo periodo, soprattutto alla luce delle provocazioni ormai
sistematiche messe in campo nelle rivendicazioni territoriali, che hanno trasformato la Cina in
un attore destabilizzante e ostile per tutti gli Stati coinvolti nelle diatribe sulla sovranità nelle
isole Spratly, Paracel e Senkaku — quest’ultime nuovamente oggetto d’un recente confronto
tra Cina e Giappone.
> Cina, Giappone e il falso nazionalismo
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Iniziando dalla questione delle Spratly, arcipelago d’oltre 650 isole conteso da Vietnam, Cina,
Filippine, Malesia, Taiwan e Sultanato del Brunei, il governo di Pechino è riuscito ad arrivare ai
ferri corti con tutte le parti in causa, pretendendo l’acquisizione unilaterale di territori. Molto
simile è la questione legata alle isole Paracel, un arcipelago al largo delle coste vietnamite. In
questo caso, la differenza è che la Cina non si fermò alle minacce, arrivando a una clamorosa
occupazione nel 1974. La vicenda delle Paracel ha reso tesissimi i rapporti sino-vietnamiti,
costringendo Hanoi a scongelare i propri rapporti con gli Stati Uniti e a rinsaldare l’asse con
Mosca.
L’irruento espansionismo di Pechino, come anticipato, non s’è fermato nemmeno di fronte al
Giappone, nonostante esso sia uno dei piú importanti partner commerciali della Cina e uno dei
piú grandi alleati in campo militare degli Stati Uniti. In questo caso, sono state le isole Senkaku
l’oggetto della discordia, col governo di Tokyo arrivato all’inizio del 2013 ad annunciare
d’essere pronto a respingere anche militarmente ogn’approdo cinese nell’arcipelago.
Tokyo fa risalire i propri diritti ai tempi della guerra sino-giapponese del 1894, ma il governo
cinese replica che già i nazionalisti del Kuomintang avevano disegnato una mappa in cui si
rivendicavano le isole disputate. Coll’ingresso nel XX secolo, la realtà si fa però molto piú
chiara, col Giappone che controlla questa fetta di territorio anche dopo la seconda guerra
mondiale tramite gli Stati Uniti, che assumono il controllo del Paese, incluse le isole contestate.
La disputa sulle Senkaku s’è ulteriormente surriscaldata alla fine del novembre 2013, quando
la Cina ha annunciato che avrebbe imposto alle compagnie aeree, comprese quelle giapponesi,
la comunicazione dei piani di volo sulla zona, reclamandole in questo modo, de facto, come
proprie. Le compagnie aeree hanno inizialmente ceduto al diktat di Pechino, salvo poi fare
marcia indietro in séguito all’intervento del primo ministro nipponico Shinzo Abe, che ha
dichiarato che nessuna comunicazione di rotta sarà data alle autorità cinesi, giacché sarebbe
come «abdicare ai diritti sulle isole».
La pretesa cinese ha fatto nascere una spirale di provocazioni dagli esiti potenzialmente
devastanti. Infatti, nemmeno la reazione degli Stati Uniti s’è fatta attendere. Gli americani
hanno dapprima protestato coi ministri della Difesa Hagel e degli Esteri Kerry; poi, nell’àmbito
dell’alleanza politico-militare col Giappone, hanno sorvolato la zona off-limits con due
bombardieri B-52 senza chiedere il «permesso». Successivamente, Pechino ha inviato l’unica
«piccola» portaerei — la Liaoning, ex nave da guerra russa classe 1988 — verso le isole, mentre
alcuni caccia iniziavano a sorvolare la zona.
In séguito, anche aerei militari giapponesi e sudcoreani hanno sorvolato l’arcipelago, mentre gli
americani, per rafforzare la propria presenza, inviavano anche i nuovi aerei da pattugliamento
P-8 Poseidon. Agli schieramenti militari si sono aggiunti altri àmbiti di confronto, con Pechino
arrivata a reclamare perfino i relitti sottomarini.
> Li Keqiang, prima tappa in India
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Di fronte a quest’atteggiamento, molti analisti hanno iniziato a domandarsi perché la Cina
unisca, a una tattica d’espansionismo territoriale, una politica che sostanzialmente mina le basi
d’una possibile leadership regionale, allontanandola dai suoi potenziali alleati. Tuttavia, l’errore
che non bisogna commettere è confondere tattica e strategia, sottovalutando le capacità
strategiche di Pechino. Il miglior modo per evitare quest’errore è cercare di pensare come il
regime cinese.
La mentalità della Cina d’oggi non è molto diversa da quella dell’Unione Sovietica degli anni
Cinquanta. Entrambe le potenze hanno un’eccessiva fiducia nelle proprie potenzialità e nella
propria superiorità — dovuta alla sacralità e infallibilità dell’ideologia marxista-leninista nel caso
sovietico, e ai retaggi storici della visione «sinocentrica» dell’Asia nel caso di Pechino.
Entrambe, quindi, vedono le regioni circostanti come il proprio giardino di casa o area
d’influenza. Nel proprio immaginario strategico, le interpretano come un legittimo terreno
«cuscinetto» da occupare per erigere le basi della propria egemonia. Nel caso di Pechino, ciò si
pone in continuità con secoli di storia in cui le popolazioni circostanti erano costrette a una sorta
di rapporto di vassallaggio coll’impero cinese.
Pertanto, la Cina non starebbe sacrificando la propria ambizione di leadership in cambio di due
scogli in mezzo al mare. Al contrario, starebbe intraprendendo un percorso strategico in diversi
step che prevede dapprima un potenziamento territoriale, militare ed economico, e poi un
potenziamento politico. In poche parole, fortificarsi oggi per avere uno status geopolitico piú
predominante domani, quando penserà a costituire una «pax cinese» contrapposta a quella
occidentale.
L’espansionismo cinese diventa cosí, sotto molti punti di vista, assimilabile a quello dell'Unione
Sovietica di fine anni Quaranta, che provocò come reazione la politica di contenimento.
George F. Kennan, ambasciatore americano a Mosca, a séguito del discorso del
Bolshoi tenuto da Stalin il 9 febbraio 1946, scrisse nello storico lungo telegramma, dal quale
prese spunto la Dottrina Truman, che i russi avevano bisogno d’uno stato di confronto
continuo per «legittimare il proprio dominio autocratico» e giustificare il marxismo-leninismo
come unico strumento per superare «l’istintiva paura dell’URSS nei confronti del
mondo esterno».
> La Russia nello spazio post-sovietico
Espansionismo, necessità d’alimentare lo scontro internazionale, fiducia nell’ideologia e timore
nei confronti del mondo sono stati cosí gli elementi che hanno spinto la Russia a costituirsi
come una minaccia da contenere, e sono gli stessi elementi che avvicinano il containment
d’allora a quello attuale, coll’aggravante che il retaggio di superiorità sinocentrica ha surrogato
l’ideologia e annullato ogni timore.
L’Occidente si trova cosí — oggi come allora — a confrontarsi con un competitor
potenzialmente ostile. Una minaccia ch’è ancora in fase di definizione, agli albori della propria
crescita egemonica. La Cina, infatti, è ancora distante da standard di potenza militare e politica
tali da esser pericolosa come l’Unione Sovietica agli albori della Guerra Fredda. Ciò
nonostante, se gli Stati Uniti e i loro alleati vogliono impedire che il mondo sia nuovamente
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catapultato sulla soglia d’una mutual assured destruction, è necessario procedere súbito
all’adozione d’una strategia di «contenimento preventivo» che limiti ogni sforzo cinese
d’incrementare la propria egemonia militare, territoriale e politica. Una strategia di
contenimento che richiede una presa di coscienza molto forte — che, probabilmente, è già stata
conseguita dall’amministrazione Obama, data la risoluta reazione con cui gli Stati Uniti si sono
contrapposti alla Cina, a difesa dell’alleato giapponese.
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