note introduttive per una riFLeSSione SuLLa memoria oraLe deL

Riv. Geogr. Ital.
117 (2010), pp. 869-893
Stefania Montebelli, Luisa Spagnoli *
Note introduttive per una
riflessione sulla memoria orale
del paesaggio **
“Quando un certo sostrato di
conoscenze comuni si perde,
si spezza la comunicazione
tra epoche e generazioni.
Come i testi sacri della letteratura,
così le scritture dei nostri
nonni e bisnonni
sono comprensibili solo attraverso
la lente della storia di famiglia
tramandata oralmente”.
(Assmann, 2002, p. 13)
1. Premessa: memoria orale, identità e paesaggio in uno sguardo
d’insieme. – Nel corso del tempo le differenti società, a seconda dei
modelli culturali di riferimento e dei diversi modi di vivere e organizzare lo spazio, hanno attribuito a certi luoghi uno specifico
valore simbolico, dotandoli di una forza emotiva, di una particolare
“energheia”, capace di produrre immagini mentali che facilmente
entrano a far parte del processo di memorizzazione. La memoria,
infatti, produce una serie di rappresentazioni, cui sovrintende un
*
Seppure frutto del lavoro comune delle autrici, il presente contributo è da attribuirsi a Stefania Montebelli per quanto concerne i paragrafi 3, 4 e 6; a Luisa Spagnoli
per i paragrafi, 1, 2 e 5.
**
Il contributo prende spunto da alcune riflessioni esposte in merito all’argomento
nell’ambito del Forum dedicato ai giovani studiosi dal XXX Congresso Geografico Italiano, “Il futuro della Geografia: ambiente, culture, economie”, che si è svolto a Firenze
nei giorni 10-12 settembre 2008.
Si ringraziano il dott. Pierluigi Magistri per aver provveduto a raccogliere direttamente la memoria orale delle comunità abruzzesi della Marsica occidentale intervistate,
senza l’aiuto del quale la nostra idea non avrebbe potuto prendere forma, e il maestro
Roberto Pivotto (Sintesirecording studio mobile), per l’elaborazione e riproduzione delle
tracce audio che conservano il suono in presa diretta della filastrocca marsicana.
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processo di selezione di elementi che si codificano in immagini.
Immagini, dunque, di luoghi che, mediante differenti sistemi di
mediazione, dalla trasmissione orale a quella scritta, persino iconografica e cartografica, si inscrivono nella memoria collettiva,
assurgendo a simboli in grado di richiamare alla mente – scrive
Giorgio Mangani (2006, pp. 11-21) – quell’insieme di narrazioni,
tradizioni e valori di cui ogni società è intrisa. Tali immagini codificate raccontano dei caratteri memorabili di luoghi investiti di
valori narrativi e simbolici, che si costituiscono come un richiamo
mnemonico. “Che ci si trovi di fronte ad un racconto delle origini,
a luoghi assunti come scenario di eventi trascorsi, a una genealogia
o a degli oggetti capaci di evocare un trascorso che abbia un senso
per una data comunità, in tutti i casi, siamo in presenza di elementi
suscettibili di produrre una forma di memoria e, quindi, di identità
collettiva” (Fabietti e Matera, 2000, p. 13) (1).
In tal senso, dunque, la memoria si costituisce come “pilastro”
delle identità, in grado di veicolare i molteplici discorsi che ciascuna comunità elabora e condivide (2). L’identità si crea e si radica
in virtù di sottili “meccanismi” che si possono cogliere “a partire
dalle rappresentazioni culturali (la memoria collettiva) che entrano
in rapporto dialettico con la realtà” (ibidem, p. 17). Si sostanzia,
pertanto, un’osmosi tra dimensione individuale e collettiva, nel
senso che l’elaborazione della memoria, pur producendosi anche a
partire dalla selezione operata dal singolo individuo, rimanda sempre ai legami che si instaurano nell’ambito della collettività; legami,
questi, sia di tipo linguistico sia culturali (ivi) (3).
In quest’ottica, gli elementi individuati e, in una certa misura,
privilegiati dalla selezione mnemonica assumono un forte connotato
simbolico, che deriva dai valori culturali sui quali ciascuna collettività organizza la propria esistenza. Così, la memoria può orientarsi
(1) Ogni società crea “un’immagine mentale di sé perpetuando la propria identità
attraverso la successione delle generazioni e sviluppando, così, una cultura del ricordo”
(Assmann, 1997, p. 17).
(2) Ugo Fabietti e Vincenzo Matera sostengono, infatti, che le svariate forme
d’identità collettiva si costruiscono a partire dal processo selettivo della memoria, nel
senso che essa, non essendo una registrazione neutra, “un dato naturale”, bensì un prodotto culturale, attua un processo selettivo sulla base dei valori condivisi dalla società di
appartenenza (Fabietti e Matera, 2000, pp. 13-14).
(3) Jan Assmann, ripercorrendo la tesi di Halbwachs (1987) imperniata sul concetto dei “quadri sociali”, coincidente tra l’altro con la teoria della frame analysis di E. Goffman, elabora l’idea che alla base della strutturazione della memoria individuale esiste la
partecipazione del singolo ai processi comunicativi, vale a dire che essa “è una funzione
del suo svolgimento nei diversi gruppi sociali” (Assmann, 1997, p. 12).
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a ricordare “un passato glorioso, [imprese] indimenticabili”, come
a non far cadere nell’oblio luoghi carichi di senso, o – per dirla con
parole di Eugenio Turri – “topoi”, “iconemi”: entità riconosciute
come riferimenti culturali fondamentali delle identità alle differenti
scale, in cui si condensano immagini intrise di significato, tali da
evocare un passato, una tradizione profondamente radicata nella
coscienza individuale e collettiva (Turri, 1998, p. 22).
Su questa via si delinea l’idea di un paesaggio inteso come serbatoio di memorie, capace di custodire e racchiudere in sé il senso
identitario e d’appartenenza che lega l’uomo al luogo della propria
quotidianità. Un paesaggio che è il riflesso delle molteplici storie,
identità, attese, azioni che ogni collettività esprime nel corso della
sua complessa esistenza. Ciascun paesaggio, infatti, rispecchia
“un’organizzazione dello spazio, una maniera propria degli oggetti sociali di ordinarsi e rivelarsi nel territorio” (Ibidem, p. 20). Di
questo paesaggio, attraverso il quale è possibile ripercorrere, comprendere e tradurre la storia delle società, la memoria è in grado
non solo di ricordare avvenimenti straordinari, ma soprattutto di
far rivivere i suoi “topoi” più significativi, i quali si rappresentano
come “punti fermi, eletti” che trasmettono, per una data società,
verità intese come eterne e immutabili, nonostante il fluire del
cambiamento (Ibidem, p. 139) (4). Si costituiscono così memorie
che raccontano il senso collettivo di un territorio vissuto ed esperito quotidianamente, facendo emergere lo spirito di un luogo, il suo
genius loci, i suoi suoni, colori, odori, tramandati mediante molteplici forme di narrazione. Ogni società, del resto, mette “in scena”
numerose storie in cui organizza i propri ricordi, forgiando così
una propria immagine di sé (Assmann, 1997, p. 19).
Il senso di queste pagine, che intendono semplicemente gettare le
basi per una prospettiva di ricerca, consiste nel lumeggiare sporadici,
ma intensi frammenti della memoria orale di alcune comunità che
hanno come scenario, o – parafrasando Eugenio Turri – come teatro
dell’agire collettivo, il contesto territoriale di Avezzano e della Marsica occidentale in Abruzzo, nel tentativo di proporre una riflessione
sull’importante ruolo che le narrazioni orali assumono nel rievocare
(4) Con ciò s’intende, in realtà, che la memoria – ancora sulle tracce di Jan Assmann – “procede in maniera ricostruttiva”, vale a dire che il passato non si cristallizza
in essa, al contrario si organizza in virtù del cambiamento cui le società vanno soggette
(Ibidem, p. 17).
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echi di paesaggio, i quali altrimenti potrebbero rischiare di trasformarsi in fioche tracce di un passato o perdersi del tutto (5).
Nella prospettiva dunque di comprendere le modalità con
cui il paesaggio marsicano è stato tramandato, si è provveduto
a recuperare alcune testimonianze orali delle sue collettività – e
principalmente della comunità di Santo Stefano di Sante Marie – situate nel settore occidentale della Marsica; regione che ci
ha consegnato un paesaggio dove l’intreccio tra storia, cultura
e natura ha prodotto varietà di forme e d’identità. Le molteplici
voci ascoltate raccontano la storia, gli avvenimenti, il vissuto, le
peculiarità di un territorio, del suo uso e dei suoi luoghi più significativi, sotto forma sia di filastrocche orali o litanie – cantate
solitamente ai fanciulli prima di addormentarsi – sia di narrazioni
in forma libera, volte nell’insieme a celebrare un paesaggio che
rappresenta un modo particolare di vedere il mondo, che possiede una sua peculiare storia e identità, capace di testimoniare il
rapporto culturale che le comunità hanno stabilito con il proprio
territorio (Cosgrove, 1990, p. 23) (6).
La scelta di privilegiare, nell’ampio contesto marsicano, la cultura orale della comunità di Santo Stefano di Sante Marie, nasce
dal suo inserimento – nell’ambito del progetto “S.O.S. Patrimonio
Culturale Immateriale”, fortemente auspicato dall’Unione Nazionale delle ProLoco d’Italia (Unpli) – tra le località del nostro Paese
di cui valorizzare il cospicuo patrimonio culturale immateriale. Un
patrimonio intangibile, fatto di canti, musiche, tradizioni popolari
e narrativa orale, che partecipa della vita stessa delle comunità locali che lo elaborano e lo fruiscono, palesando lo stretto legame con
il territorio in cui è prodotto.
(5) Si tratta di testimonianze orali per lo più raccolte presso la comunità di Santo
Stefano di Sante Marie, secondo una modalità non propriamente basata sulla tradizionale formula dell’intervista, bensì costruita su un dialogo aperto e spontaneo con gli
interlocutori locali, per poter meglio cogliere il rapporto emozionale che ognuno di loro
ha con i luoghi del proprio vivere. Per tali ragioni si è prescelto il solo supporto audio,
per meglio fissare la viva voce della comunità e della sua memoria.
Altra parte della documentazione orale è stata desunta da un filmato, pubblicato
sul Dvd realizzato dalla Soprintendenza per il Patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico per l’Abruzzo (L’Aquila) e dal Comune di Sante Marie, che ha visto come protagoniste, insieme alla comunità sopracitata, anche quelle di S. Giovanni, Castelvecchio,
Scanzano, Tubione, Val dei Varri e Luppa.
Inoltre, alcune delle filastrocche orali, analizzate nel nostro lavoro, sono state tratte
dalla trascrizione realizzata da Giovanbattista Pitoni.
(6) In tal senso, il paesaggio diviene forma discorsiva, la rappresentazione di un
luogo attraverso “parole”, regolata dalle pratiche sociali che lo elaborano e lo interpretano.
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All’origine di questa iniziativa è a sua volta da rilevare l’entrata
in vigore e la successiva ratifica da parte dell’Italia nel 2007, della
“Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale” dell’Unesco, approvata a Parigi il 17 ottobre del 2003. Con
essa, per Patrimonio culturale immateriale s’intendono:
le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il Knowhow – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali
associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui
riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione,
è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro
ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un
senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la
diversità culturale e la creatività umana (Convenzione per la salvaguardia
del patrimonio culturale immateriale, art. 2).
2. Sulle tracce del paesaggio intangibile. – I paesaggi restituiti
dalle testimonianze orali, attraverso i complessi meccanismi su
cui si fonda la memoria collettiva di tipo comunicativo – di cui
si darà conto nelle pagine seguenti – non sono altro che paesaggi
percepiti, paesaggi rappresentati e paesaggi della memoria, i quali
raccontano la storia di una collettività (quella marsicana); delle sue
tradizioni, usi e consuetudini; del suo divenire, che, nonostante il
trascorrere del tempo, il modificarsi dei modelli culturali e delle
proprie strutture, continua a vivificare quei luoghi portatori d’identità, ammantati di valori culturali e simbolici, in cui essa non può
fare a meno di riconoscersi e ridefinirsi. Luoghi in cui si proietta il
vissuto di un’intera comunità, che assumono il significato di “pertugi” attraverso i quali riscoprire tracce di un passato condiviso.
Assume in tal senso particolare significato la comprensione
del processo di percezione del paesaggio in termini di “immagini e
rappresentazioni, di significati e di valori attribuiti dai diversi gruppi sociali” (Zerbi, 1996, p. 138). Un paesaggio, dunque, che viene
colto non tanto nella sua dimensione oggettiva, vale a dire “come
segno che si materializza su di esso per il gioco combinato di fattori
ecologici e umani”, quanto soprattutto nel senso di forma intangibile, “come manto di valori attribuiti ad un territorio assunto essenzialmente come spazio culturale” (Vallega, 2007, pp. 49-52) (7).
(7) L’assunzione della duplice valenza del paesaggio, che non è certo una novità
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Un’esigenza, questa, del resto, fatta propria in sede politica anche
dalla Convenzione Europea del paesaggio che, tra le principali
preoccupazioni evidenziate dal Consiglio d’Europa, sottolinea la
necessità di salvaguardare e valorizzare “la cultura riflessa sul paesaggio”, espressione dei valori che ciascuna comunità attribuisce
alle “forme del territorio” con cui interagisce e intesse relazioni di
tipo esistenziale (Vallega, 2008, p. 14). Tale riflessione ci conduce a
riconoscere il significato culturale intrinseco ad ogni paesaggio che
si lega così “ai contenuti ed alle modalità dell’esperienza paesistica,
ai legami inscindibili tra ecosfera e semiosfera, alle motivazioni e
ai condizionamenti degli stessi ‘sguardi’ che vi si orientano” (Gambino, 2002, p. 57).
Un altro significativo impulso in questa direzione, proviene
– come già anticipato – dall’impegno dell’Unesco che, attraverso
lo strumento della Convenzione, ha dato voce ai beni “invisibili”,
inconsistenti dal punto di vista materiale; cioè quell’insieme di valori, riti, tradizioni orali che costituisce l’identità e la memoria di
ciascuna comunità, la cui ri-scoperta e valorizzazione rappresentano una possibile forma di sviluppo sostenibile del territorio (8).
In particolare, si specifica che il patrimonio culturale intangibile si
manifesta in diversi settori, tra cui quello concernente “le tradizioni
ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio”, capace di veicolare
e trasmettere le manifestazioni culturali proprie di ciascuna collettività (Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale
immateriale, art. 2).
Le narrazioni orali oggetto del presente studio sono appunto
in grado di veicolare l’immagine di un paesaggio fatto di suggestioni, di emozioni, di valori – oltre che di forme tangibili – il quale si
tramanda da una generazione all’altra, rivelandoci l’esistenza di
forti legami instauratisi nel corso del tempo tra uomini e territorio.
Costituiscono dunque un esempio di come in virtù della memoria
comunicativa orale non venga meno il legame sottile che unisce le
generazioni, un sostrato comune che altrimenti potrebbe cedere
alla forza disgregatrice del tempo, e così facendo impedire che i
nell’ambito del panorama scientifico, costituisce una delle fondamentali e originali chiavi di lettura proposte dalla Convenzione Europea, laddove, nel fornire la definizione di
paesaggio, adotta una visione combinata, riconoscendo e prendendo in considerazione
sia il suo aspetto concreto sia la sua dimensione percettiva.
(8) La Convenzione, infatti, richiede che gli Stati contraenti provvedano ad elaborare e stilare elenchi nazionali di beni immateriali da salvaguardare, una lista di beni
rappresentativi ed una concernente i beni a rischio.
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ricordi di una collettività possano perpetuarsi, preservando il senso
dei luoghi e l’identità.
In questi termini si comprende l’opportunità di privilegiare
un’analisi rivolta alla lettura e all’interpretazione degli elementi
intangibili del paesaggio, l’insieme cioè di simboli e significati attribuiti ai luoghi; circostanza che trova riscontro ancora una volta nella
stessa Convenzione, laddove si sottolinea l’importanza di considerare
il paesaggio non in sé, quanto piuttosto in rapporto alla percezione
delle collettività; e così facendo si asserisce la necessità di riportarlo
nel “ventre” delle manifestazioni culturali, vale a dire “nell’universo
rappresentativo degli individui e delle società” (Turri, 1998, p. 11).
Una prospettiva, questa, che, avvalendosi dell’ottica semiotica
d’interpretazione, ci svela la polisemia del paesaggio (9), inteso come
fenomeno di significazione culturale, intessuto da una molteplicità
di segni che rimandano ad un codice predefinito nell’ambito della
collettività da cui essi scaturiscono. In tal senso, il paesaggio va
inteso come proiezione degli aspetti valoriali della società che l’ha
plasmato nel corso della storia, in grado di produrre valori simbolici
e ideologici e, quindi, identitari “sui quali essa pone le basi della propria preservazione e regola la propria esistenza” (Casti, 2004, p. 15).
Si apre, in sostanza, la via all’idea di paesaggio inteso secondo
una lettura che tenga conto della sua dimensione culturale intangibile, trasmessa dalle tradizioni orali intese come veicolo del sapere;
delle pratiche consuetudinarie iterate dalle comunità e tramandate
di generazione in generazione, rinnovandosi continuamente e costruendo la propria memoria collettiva. Diviene così indispensabile
indagare le funzioni simboliche e metaforiche del paesaggio, comprenderne gli aspetti eminentemente culturali, “i suoi depositi mitici e memoriali, le sue funzioni narrative” (Gambino, 2000, p. 11).
3. La memoria collettiva nel processo di memorizzazione culturale
– Ogni contesto territoriale ha
una propria tradizione culturale, una memoria semantica che ne fa
un insieme omogeneo. Ciò che di un territorio vediamo e sentiamo
è rivelato da mediatori segnici, materiali e immateriali, che non solo
e comunicativa: il suono delle parole.
(9) La categoria concettuale di paesaggio è, infatti, aperta ad una molteplicità di
interpretazioni e riflessioni, tali da rendere impossibile la sua reductio ad unum. Tale è
la ricchezza dei suoi significati che l’accezione polisemica assunta dal paesaggio sembra
riflettere una straordinaria varietà di modi di concepirlo e di letture possibili (Gambino,
1997, pp. 25-26).
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costruiscono quella che Eugenio Turri ha definito semiologia del
paesaggio, “insieme organizzato di ‘segni’ capaci di rimandare ad
elementi funzionali (le strade, le case, i campi coltivati, le fabbriche,
i paesi, le città, ecc.)” (Turri, 1990, p.17), ma contengono l’atmosfera,
l’amor loci, entro cui è sinergicamente racchiuso il senso di una visione collettiva legata nel presente alla memoria: diacronia funzionale
alla ragione sociale e necessaria alla visione prospettica e retrospettiva su cui si fonda la continuità evolutiva di una comunità, nonché
alla costruzione della coscienza individuale.
Ciò che consente ad ogni singolo individuo di sentirsi parte
integrante di una comunità e di stabilire con essa un legame di
appartenenza identitaria è, quindi, la struttura connettiva (10) che
basa la sua funzionalità da una parte sul consolidamento di regole e
valori, dall’altro sulla costruzione di un passato comune che diviene
ricordo collettivo. L’attività che permette all’azione del presente di
trovare una sua collocazione nella ragione sociale e di immettersi ordinatamente in schemi leggibili e condivisi, è la ripetizione,
rituale e simbolica, attraverso la quale si attualizza, in un’eterna
epifania, il senso culturale interpretato dalla tradizione (11). Quando un ricordo, quindi, reiterato e attualizzato è tradizionalmente
interpretato, trova collocazione e compimento nella “cultura del
ricordo” (12), ossia in quella memoria culturale istituzionalizzata
che pur distinguendosi dalla memoria comunicativa, o del ricordo
vissuto, appartiene insieme a questa al grande serbatoio della memoria collettiva.
(10) “Essa [la struttura connettiva] lega l’uomo al suo prossimo creando, in quanto ‘universo simbolico’ uno spazio comune di esperienze, di attese e di azioni, il quale
conferisce fiducia e orientamento grazie alla sua forza legante vincolante […]. Ma la
cultura lega anche lo ieri e l’oggi, modellando e mantenendo attuali le esperienze e i
ricordi fondanti, e includendo le immagini e le storie di un altro tempo entro l’orizzonte
sempre avanzante del presente, così come da generare speranza e ricordo” (Assmann,
1997, p. XII).
(11) “Il ricordo attualizzato trova compimento quando la tradizione viene interpretata. Tutti i riti posseggono questo doppio aspetto di ripetizione e attualizzazione.
[…] Questi due poli delineano il campo d’azione di una dinamica entro cui lo scritto
diventa significativo ai fini della struttura connettiva della cultura. In concomitanza con
la fissazione per iscritto delle tradizioni, si compie un passaggio graduale dal prevalere
della ripetizione al prevalere dell’attualizzazione, dalla ‘coerenza rituale’ a quella ‘testuale’” (ibidem, 1997, p. 17).
(12) Come ricorda Jan Assmann, la cultura del ricordo è un fenomeno universale
che ha a che fare con la “memoria che crea comunità”. Un concetto, questo, che si
distanzia dalla pratica dell’arte della memoria, quale invenzione dell’antichità e manifestazione esclusivamente occidentale. “L’arte della memoria concerne il singolo, e gli
fornisce delle tecniche per esercitare la sua memoria: si tratta di educare una capacità
individuale. Nel caso della cultura del ricordo, invece, si tratta dell’adempimento di un
obbligo sociale [che] concerne il gruppo” (Assmann, 1997, p. 5).
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Mentre la memoria culturale è un fatto di “mnemotecnica istituzionalizzata” nella quale il passato è sintetizzato in figure simboliche o mitologiche che, prescindendo dall’effettiva storicità, giustificano il presente attraverso il racconto delle origini commemorato
in festività cadenzanti, la memoria comunicativa, invece,
… comprende i ricordi che si riferiscono al passato recente. Sono i
ricordi, questi, che un essere umano condivide con i suoi contemporanei:
il caso tipico è la memoria generazionale. Tale memoria s’innesta e cresce
storicamente nel gruppo: essa nasce nel tempo e passa con il suo passare
o, più precisamente, con quello dei suoi detentori; quando coloro che la
incarnano muoiono, essa lascia il posto a una memoria nuova (Assmann,
1997, p. 25).
Da qui tutta una serie di differenze che caratterizzano le due
diverse tipologie di memoria collettiva: mentre quella comunicativa, strettamente connessa all’oralità, fonda il suo ricordo su esperienze storiche legate alla biografia, usando forme di espressione
scarsamente formalizzate, e intrecciate alla quotidianità nella quale
sono racchiusi i ricordi detenuti da testimoni coevi, in un arco di
tre o quattro generazioni; la memoria culturale, viceversa, descrive
e scrive la storia esprimendosi, attraverso codificazioni simboliche,
in una struttura temporale legata a un passato mitologico e in una
forma istituzionale diffusa da detentori per lo più specializzati.
A ben guardare, la differenziazione tra memoria culturale e
comunicativa ci porta a riflettere sulla distinzione dicotomica tra il
sacro e il profano, il commemorativo e il quotidiano, il durevole e il
fuggevole: tutti elementi caratterizzanti l’unicità del paesaggio che
esprimono l’impulso alla conservazione della memoria, attraverso
la ripetizione e l’attualizzazione nel quotidiano in un’impressione
culturale di breve e/o lungo termine.
La memoria comunicativa orale, dunque, è universo cognitivo
di suoni depositari di un racconto che, alleggerito del segno tanto
vincolante nella scrittura, trasmette direttamente con l’immaginazione, sfuggendo ogni testualità. Un senso, quello pronunciato
dall’oralità, che non lega il nome a qualcosa che si vede, che non
lo etichetta e che, quindi, difficilmente la scrittura può recuperare.
Persino la percezione temporale ne è influenzata: il suono non si
fissa nel tempo e nel momento in cui una parola è stata pronunciata, è conclusa, finita, edificandosi sul silenzio.
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La concezione prodotta ed espressa dalla cultura orale è correlata alla comunicazione di gruppo; permessa, questa, da una costruzione mnemonica coadiuvata da una sintassi particolare (13). Il
pensiero, quasi sempre di facile memorabilità, si traduce in un sistema di tipo associativo che, per permettere l’immediato recupero
orale, deve essere caratterizzato da ritmicità, ripetizioni e antitesi,
allitterazioni e assonanze, epiteti e costruzioni formulari. I proverbi,
le frasi fatte formano, quindi, l’essenza del pensiero legato all’oralità che si snocciola in enunciati paratattici, colmi di congiunzioni
copulative, ridondanti di ripetizioni che tendono a rimanere uguali
nel tempo ma che, comunque, rielaborano esperienze di vita reale
in modo enfatico e partecipativo rendendo, così, il pensiero operativo o situazionale (14).
Inoltre è giusto precisare, anche ai fini dell’analisi della documentazione orale riportata dal nostro studio, che il “canto” degli
oratori illetterati è un unicum, per cui ogni versione risulta caleidoscopica (15), dal momento che il cantore dispone di un numero
eccezionale di formule metriche, tra loro simili e compatibili,
che vanno ad incastonarsi perfettamente nella metrica ritmica e
regolare. Questa caratteristica mutevole dell’enunciato è un atto
creativo alimentato non dall’immissione di nuovo materiale, ma
dall’adattamento di quello tradizionale rispetto alle esigenze della performance, dettate dal contesto ambientale e dal fruitore. La
diversità delle versioni è, quindi, una caratteristica necessaria alla
ripetizione orale la quale, se da una parte copre l’impossibilità di
tenere esattamente tutto a mente, dall’altro denota il grado d’abilità
e originalità del cantore, che spesso utilizza anche la componente
somatica e gestuale come aiuto alla memorizzazione (16). In que(13) “Fisicamente costituita come suono, la parola parlata deriva dall’interiorità
umana, rende manifesti gli esseri umani tra loro come interiorità coscienti, persone, e li
unisce come gruppo”. In tal senso, quando un oratore si rivolge ad un pubblico di uditori, questi diventano un insieme, un tutt’uno con lo stesso oratore (Ong, 1986, p. 108).
(14) “[Di fronte ad] una serie di disegni raffiguranti gli oggetti martello, sega,
ceppo, accetta, i soggetti illetterati pensano a raggrupparli non in termini di categorie
(tre strumenti, e il ceppo che non è uno strumento) ma di situazioni pratiche – ‘pensiero
situazionale’ –, senza utilizzare per la classificazione il concetto di ‘strumento’ che si
poteva riferire a tutti gli oggetti tranne al ceppo” (Ibidem, p. 82).
(15) “[…] pur nella relativa invarianza della struttura morfologica, abbiamo una
grandissima e inafferrabile varietà di esecuzioni sempre diverse l’una dall’altra e sempre
valutabili secondo una scala che tenga conto della loro maggiore o minore efficacia artistica: è tale varietà così caleidoscopica, del resto, a spiegare perché, nonostante un’altamente
prevedibile sequenza di funzioni e scontato lieto fine, si possa provare piacere, ci si possa
divertire e non annoiare, a ogni ascolto (o lettura) di fiabe” (Lavinio, 1993, p. 9).
(16) Basti pensare che: “nell’Italia settentrionale, in ambienti popolari contadini, la
‘stalla’ era il luogo delle riunioni collettive serali, occasioni naturali per l’esecuzione di rac-
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sta dimensione fenomenologica unificante del suono, laterale alla
cultura alfabetizzata che divarica la coscienza individuale frapponendo tra il singolo e la realtà il piano bidimensionale della forma
scritta, è espresso il senso che l’uomo dà all’esistere, pensato in maniera assolutamente diversa e del tutto inspiegabile per chi, invece,
alfabetizzato lo è (17).
4. L’oralità e la filastrocca nella “magia della fiaba” (18). – Uno
dei generi tipici dell’arte verbale orale tradizionale è la fiaba che,
all’interno del sistema narrativo orale, rappresenta un particolare racconto di fatti prettamente fantastici e di finzione. Il genere
fiabesco è caratterizzato da un “a-cronismo” che non colloca temporalmente le vicende narrate né in un passato remoto, tipico del
racconto mitologico delle origini, né in un passato recente, ma in
uno spazio temporale imprecisato (Lavinio, 1993). Del resto l’uso
del presente attualizza il racconto, il quale si dispiega in una serie
di formule e modi di dire che varieranno rispetto all’ambito territoriale di cui sono memoria mascherata.
Quello che è interessante notare è come, attraverso le norme
stilistiche e sintattiche proprie di questo genere della tradizione
orale, siano espresse le caratteristiche territoriali del contesto
dal quale prendono forma e suono: “Sullo sfondo di uno stile
relativamente omogeneo, tipico del genere fiabesco, si innestano stili ‘regionali’ o ‘locali’, che contribuiscono a caratterizzare
i cosiddetti ecotipi, e stili individuali legati all’abilità dei singoli
narratori” (Ibidem, p. 9). Il genere fiabesco è strettamente connesso al vissuto popolare, alla sua memoria comunicativa da cui
attinge per la costruzione di uno spazio scenico all’interno del
quale l’oratore utilizza le proprie doti vocali e mimiche. Gli avvenimenti, le storie di vita personali e familiari, passando di bocca
in bocca, si traducono in forma sintatticamente organizzata per
la memorizzazione, fino a diventare – in uno sforzo di trasmissione generazionale ritmato e rapsodico – parte del bagaglio della
conti orali, ma anche per l’ascolto di testi letti ad alta voce, da parte dei pochi alfabetizzati
eventualmente presenti, a un uditorio intento nel frattempo a piccoli lavori artigianali, di
cucito e/o di riparazione e manutenzione di strumenti di lavoro” (Ibidem, p. 2).
(17) Dopo l’invenzione della stampa, infatti, e il consequenziale utilizzo e diffusione delle carte geografiche, la cultura occidentale ha cominciato a percepire e rappresentare l’universo e il mondo “come una vasta superficie o un insieme di superfici (la vista
ci mostra superfici) pronte per essere ‘esplorate’” (Ong, 1986, p. 107).
(18) “La magia della fiaba” è il titolo del lavoro di Cristina Lavinio a cui, soprattutto
nel corso della stesura di questo paragrafo, la nostra riflessione si è rifatta.
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memoria comunicativa popolare strettamente connessa all’uso
sincretico di diversi codici (verbale, gestuale, ecc.) attraverso i
quali la cultura orale agisce.
Senza soffermarsi sull’analisi specifica delle filastrocche – di
cui del resto si darà conto nei paragrafi successivi – quale esempio
di memoria comunicativa orale e connubio identitario tra vissuto
e luogo nel contesto marsicano, è opportuno ricordare che queste
rappresentano proprio un sottoinsieme del genere fiabesco molto
vicino alla novella (19) per il loro indugiare su elementi fisici e
accadimenti del reale. Le filastrocche in sé possiedono, infatti,
elementi caratteristici della fiaba: una formula di apertura e chiusura, il tempo dell’enunciazione coincidente con quello enunciato,
l’esigenza ritmica tradotta in rima. Inoltre, elemento caratterizzante proprio delle filastrocche è l’estremizzazione dell’utilizzazione dei formulari: “in cui la parte narrativa è come un semplice
supporto scheletrico alla costituzione di una filastrocca che può
poi circolare anche autonomamente come tale” (Lavinio, 1993,
p. 96). In genere nel fiabesco possono esserci precisi riferimenti
al contesto culturale e territoriale con rinvii alla toponomastica
locale ma, come si potrà desumere dall’analisi delle filastrocche
riportate, questa toponomastica relativa allo spazio narrato è
pronta a riempirsi di sempre nuovi elementi tratti dal reale contesto territoriale, seppure dipendenti dalle occorrenze – suggerite
dalle circostanze del momento – della performance. Nelle filastrocche marsicane, quindi, la citazione di alcuni toponimi (San
Pietro e San Giovanni, Santa Maria Moneta …; passétte màne màne
je Sarviàne s’ìtt’a pposà’ ‘ncìm’ a Jùche …), ha il preciso compito di
accentuare il carattere “veritiero” della novella e di localizzarla in
quei luoghi del vissuto su cui lo spazio cognitivo della collettività
si proietta.
In questa rappresentazione del reale, che racconta di un
immaginario collettivo agganciato alla magia della parola, è
espresso il sentimento d’appartenenza che unisce indissolubilmente l’uomo al proprio luogo – quest’ultimo partecipe del mondo fantastico del primo – fino anche ad assumere nuovo valore
significativo nel ricordo comune e a divenirne mediatore esterno,
(19) Come suggerisce Cristina Lavinio, il termine “novella”, attribuito ad alcuni
racconti popolari, laddove non è utilizzato come sinonimo di fiaba, mette in risalto
l’andamento più realistico del racconto (Lavinio, 1993, p. 84).
881
rianimatore di memoria: “perché il luogo riattiva il ricordo, almeno quanto il ricordo riattiva il luogo” (Assmann, 2002, p. 22).
Ascoltare il suono delle testimonianze della cultura orale, allora,
è come udire il senso di una mappatura nella quale si inscrivono
i luoghi di memoria trasmessi dalla leggerezza del suono delle
parole, ma proprio per questo destinati all’oblio come rifiuti riciclabili, “semiofori” in attesa di rifunzionalizzazione (20). Più
che di memoria dei luoghi, quindi, si dovrà parlare di luoghi di
memoria dove si mantiene ciò che magari non esiste più, ma
che dal ricordo può essere riattivato (21). Il valore della testimonianza orale, nella memoria comunicativa, sta proprio in questo
rimando al senso di quei luoghi che materialmente deperiscono
a rovina e che rischiano l’illeggibilità, fino alla scomparsa dal
paesaggio della memoria collettiva.
Così, non c’è memoria collettiva che non si dispieghi in un quadro spaziale. Ora, lo spazio è una realtà che dura: le nostre impressioni si sospingono via l’una con l’altra, niente rimane nel nostro spirito, e non si capirebbe
come possiamo ritrovare il passato se esso non si conservasse in effetti nel
mondo materiale che ci circonda. É sullo spazio, sul nostro – quello che
occupiamo, dove passiamo e ripassiamo, a cui abbiamo sempre accesso, e
che in ogni caso la nostra immaginazione o il nostro pensiero potrebbe ricostruire in ogni momento – che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione: è
su di lui che il nostro pensiero deve fissarsi perché questa o quella categoria
di ricordi possa riapparire (Halbwachs, 1987, p. 149).
5. Attraverso il “racconto” del paesaggio: gli “iconemi” marCon il recupero della memoria comunicativa orale delle
comunità intervistate nella Marsica occidentale si dispiega un
racconto del paesaggio che è narrazione identitaria, incentrata
sull’individuazione di alcuni specifici iconemi i quali rimandano
agli elementi significativi del paesaggio, o meglio alle sue unità di
significazione, esprimendo così la sua valenza culturale. In questi
sicani. –
(20) Secondo l’articolata lettura di Aleida Assmann (2002, p. 24) un oggetto quando si trasforma in rifiuto viene defunzionalizzato e subisce una perdita del suo valore
d’uso. “Successivamente a questa neutralizzazione esso può riacquistare valore o, più
precisamente, può assurgere a simbolo di un valore. In questo modo il rifiuto privo di
valore diventa un ‘semioforo’, vale a dire un segno visibile per qualcosa di invisibile e non
percepibile concretamente come il passato o l’identità di una persona”.
(21) “La memoria dei luoghi è però del tutto diversa dai luoghi della memoria.
Mentre, di fatto, la memoria dei luoghi si fissa in un posto preciso dal quale non può
essere separata, i luoghi della memoria si caratterizzano proprio per la loro capacità di
trasmissione” (Ibidem, p. 348).
882
termini, dunque, il paesaggio è assunto quale costrutto culturale
che deriva dai valori condivisi dalla collettività che lo abita, lo vive, lo interpreta e lo comunica, parlandoci di sé, del suo passato,
delle sue aspettative future, del rapporto con il proprio territorio;
è il risultato, cioè, dell’insieme di valori che caratterizzano le società.
In questa accezione, alcuni elementi paesaggistici, desumibili dalle filastrocche così come dai racconti che le introducono,
assumono un ruolo catalizzatore, su cui ruotano valori e si intrecciano significati da cui la società marsicana ricava il proprio
modello identitario. Una serie di elementi geografici, forme
materiali e visibili del paesaggio, cui si attribuiscono la valenza
di “topoi”, di simboli, che connotano i luoghi significandoli culturalmente.
Ascoltando i diversi racconti si ha la percezione di trovarsi di
fronte all’immagine di un paesaggio in cui i singoli luoghi sono investiti da un “significato totale” e, come tali, in grado di “narrare”
frammenti di una vita, di una storia vissuta. Luoghi della memoria
che ci restituiscono la rappresentazione di un paesaggio in cui la realtà si confonde, o meglio, si alterna alla geografia della memoria;
luoghi che, nonostante in parte siano divenuti tracce illeggibili nel
paesaggio, continuano ad esistere proprio in virtù della loro capacità di trasmissione. È nella verbalità, soprattutto nella fiaba o nella
filastrocca come sistema di narrazione, che il paesaggio continua a
“vivere”, in quell’oralità che serba in sé il ricordo, l’immagine di una
cultura, di un patrimonio di conoscenze e saperi, frutto di secoli di
interazione con la natura.
*****
La filastrocca “Zichiri zichiri Janni”, i cui suoni e parole riecheggiano da Santo Stefano di Sante Marie ad Avezzano, ci introduce in un mondo tipicamente agreste e rurale, quasi ancestrale,
rimasto a lungo marginale anche nell’ambito dello stesso contesto
abruzzese.
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Zichiri zichiri Janni (22)
San Pietro e San Giovanni
Santa Maria Moneta
Jo citio mi’è de seta
la seta e la bbammace
sto citio a mi me piace
me piace […] che vatte le castagne
le vatte troppo forte da fa trema’ le porte
se nnè jto alle montagne
addoelle sse montagne
se so’ spallate
se so’ fatte cinnichiiji
zichiri, zichiri sett’arijji
Sulla trama di questo racconto si animano, quasi fosse un
palcoscenico, le “montagne”, segni inconfondibili nella struttura
paesistica del territorio marsicano, le “castagne”, fondamentali nella
cultura locale, la cui raccolta ancora oggi è praticata abitualmente,
testimonianza di un modo secolare di uso del suolo, e i tre monasteri
benedettini – San Pietro, San Giovanni e Santa Maria Moneta – che
tanto hanno significato nella storia e nella cultura della Marsica.
(22) La trascrizione del testo è il risultato della commistione di due differenti versioni della filastrocca che parte della comunità intervistata, il più delle volte, ricorda in
modo frammentario, mescolando e sovrapponendo frequentemente entrambe le trame.
Del resto, è proprio dell’oralità tramandare molteplici versioni, di cui ognuna costituisce
un unicum, risultato della creatività di colui che la recita (si veda, a tale riguardo, infra,
p. 10). “Zichiri zichiri Janni” ancora oggi fa parte dell’immaginario collettivo per lo più
della comunità di Santo Stefano di Sante Marie, per motivi che varcano la sua specifica
funzione di “ninna nanna”, così come cantata dai testimoni più anziani della collettività:
i fanciulli, infatti, usano ripeterla ludicamente in forma di semplice litania.
Si precisa, inoltre, che sebbene tutte le filastrocche citate siano state trascritte così
come ascoltate, si è comunque scelto di optare per una traduzione in lingua italiana con
la finalità di agevolare la comprensione di alcune espressioni tipicamente abruzzesi. Qui
di seguito, il testo in italiano di “Zichiri zichiri janni”:
Zichiri zichiri Janni
San Pietro e San Giovanni
Santa Maria Moneta
il bimbo mio è di seta
la seta e la bambagia
questo bimbo a me piace
mi piace […] che bacchia le castagne
le bacchia troppo forte da far tremar le porte
se n’è andato sulle montagne
dove son quelle montagne
sono franate
si son fatte pezzettini
zichiri, zichiri sett’arijji
884
La montagna costituisce l’“iconema” che più denota il paesaggio marsicano, compreso come è entro il settore centrale
della catena appenninica, le cui dorsali montane principali sono quella dei Simbruini-Ernici a sud-ovest e quella del Velino
Sirente e sue propaggini meridionali a nord-est. In sostanza, un
territorio prevalentemente caratterizzato da rilevanti sistemi
montuosi, ad eccezione dell’ampia conca fucense, situata nella
porzione orientale della Marsica, della Piana di Carsoli o del
Cavaliere, nel settore occidentale, e dei Piani Palentini, estesi
sotto Magliano dei Marsi, limitrofi al Bacino del Fucino. “L’alta
montagna abruzzese” – secondo la magistrale descrizione di
Aldo Sestini – “pur non presentando frequenti creste e cime ardite e rocciose come le Alpi, dispiega una propria grandiosità e
rudezza, sia per i forti dislivelli e l’imponenza di taluni versanti
ripidi e compatti, sia per il relativo isolamento dei vari massicci, che consente di spaziare dalle vette su panorami amplissimi
a giro d’orizzonte” (Sestini, 1963, p. 112). Dunque, il sistema
montuoso come elemento ricorrente e peculiare del paesaggio
che, pur senza volere abbracciare un’ottica interpretativa spiccatamente deterministica, ha inevitabilmente condizionato l’uso
del suolo: la produzione agricola, prevalentemente incentrata
sulla coltivazione del grano e delle patate, si è limitata al fondo delle conche, nelle aree più pianeggianti, lasciando ampio
spazio all’utilizzo del bosco, popolato in prevalenza da querceti
e castagneti, che ha rappresentato nel lungo corso della storia
una risorsa indispensabile per la popolazione locale, sia per la
raccolta di legname sia dei frutti. Le castagne, in particolare,
hanno costituito a lungo la base dell’alimentazione delle comunità marsicane, così come, del resto, delle popolazioni dei
centri montani della nostra penisola laddove la possibilità di far
spazio alle colture di frumento sarebbe stata pressoché nulla, riuscendo a ritagliare unicamente appezzamenti di scarsa entità,
adibiti per lo più ad orti.
Ancora le montagne tornano prepotentemente ad imporsi sulla
scena, laddove in un’altra filastrocca, più tipicamente avezzanese,
assurgono a reali protagoniste della narrazione.
S’avezétte ‘na nùdia ‘ncim’ a Mujìne
passétte màne je Sarviàne
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s’ìtt’a pposà’ ‘ncìm’ a Jùche:
ddì ne fàccia sàrve Signore: la rànnena! (23)
“Sussurrati”, quasi “cantati”, per scongiurare la minaccia di
un temporale, naturale avversario dell’operosità contadina, i rilievi
montuosi, punti di riferimento per seguire il passaggio di una nuvola, sono precisamente individuati nella vetta del Velino – apice
del vasto complesso della catena del Velino-Sirente – e nel Monte
Salviano, che si estende da nord-ovest a sud-ovest, separando la
Conca del Fucino dai Piani Palentini.
Ai suoni delle filastrocche si sommano le voci degli anziani
intervistati, le cui testimonianze restituiscono nell’insieme un paesaggio che, sebbene in gran parte oramai privato delle sue caratteristiche peculiari e individualizzanti, a causa di una dirompente
omogeneizzazione culturale occorsa negli ultimi decenni, “prosegue” la sua secolare narrazione, soprattutto in virtù dei racconti
tramandati oralmente, che da una generazione all’altra portano
con sé le regole di produzione d’uso sedimentate in quel territorio
nel corso di una lunga tradizione culturale e funzionale. Sembra
quasi che i racconti evochino il paesaggio “elementare”, ma “unitario e completo” allo stesso tempo, “intessuto di oggetti e luoghi
interconnessi nella realtà e nella memoria” che, Eugenio Turri,
esemplificando, attribuisce al ricordo di un ipotetico contadino,
un individuo cioè che ha pienamente vissuto “il proprio spazio e il
proprio tempo” (Turri, 1998, pp. 153-154). Un paesaggio coerente,
“nel quale l’uomo si rapporta alla natura con adesione piena della
memoria alla cultura” (ivi) (24).
(23) Si presenta qui di seguito la traduzione in lingua italiana della sopraccitata
filastrocca orale:
S’alzò una nuvola dalla cima del Velino
man mano sorpassò il Salviano
andò a posarsi sopra Luco:
Dio ci salvi: la grandine!
(24) Altre filastrocche costituiscono un valore aggiunto alla ricostruzione dei caratteri tradizionali dell’economia agro-silvo-pastorale marsicana, che in fondo riflettono
quel mondo ancestrale e rurale caratteristico di numerosi contesti territoriali della penisola italiana negli anni precedenti alla Grande Trasformazione. A titolo esemplificativo,
nella litania che racconta:
Avezzano cococciari
alla Scurcola cipollari
pignatari a Tejjacozzo
lupinari a Capistrejjo
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Si delinea, dunque, un paesaggio intriso di memorie, un ricco
palinsesto di ricordi, in cui l’esperienza individuale si mescola con
quella collettiva, il quale, seppure in parte non più tangibile, difficilmente potrà essere obliato del tutto: in esso, infatti, il passato è
spessore culturale.
Per ritornare alla filastrocca “Zichiri zichiri Janni”: anche solo quei pochi elementi, “San Pietro, San Giovanni e Santa Maria
Moneta”, toponimi apparentemente neutri ad un primo frettoloso
ascolto, in realtà sono pregni di significato e in grado di veicolare
l’immagine di una comunità, di un territorio, la cui organizzazione, nei secoli altomedievali, è stata demandata principalmente ai
monasteri benedettini; che, in virtù di una sorprendente vivacità
sotto il profilo culturale e soprattutto della gestione economicoproduttiva, hanno via via contribuito alla creazione di un paesaggio caleidoscopico, ricco di contenuti storico-culturali (25).
Tre presenze importanti, tre edifici di culto che indubbiamente
hanno assunto un rilevante significato per la comunità, entrando
efficacemente “nella visione collettiva dello spazio”. Del resto, laddove si narra di “San Giovanni”, è manifesto il riferimento a San
Giovanni in Barri o in Val di Varri (26), un monastero fondato
[…]
Ad Avezzano ci sono i coltivatori di zucche
a Scurcola Marsicana di cipolle
a Tagliacozzo i fabbricanti di terrecotte
a Capistrello i coltivatori di lupini […]
si fa riferimento a diverse realtà locali della Marsica ognuna delle quali è stata caratterizzata nel tempo da tipiche attività colturali e artigianali. Ancora un’altra filastrocca
testimonia la necessità di quel mondo e di quella cultura, contadina e pastorale, di ampliare, accrescere, la famiglia per poter contare su un cospicuo numero di braccia utili alle
attività rurali. Il fuoco e i pezzi di legno sono intesi in senso metaforico, rappresentano
cioè il bisogno di alimentare il nucleo famigliare accrescendo il numero dei figli.
’Ne pézze nen fa fóche
Ddù pézze è tróppe póche
Tré pézze è focaréjie
Quàttre e cìngue è ffóche bbéjie
Un pezzo non fa fuoco
due pezzi è troppo poco
tre pezzi è un fuocherello
quattro e cinque è un fuoco bello
(25) Dalla seconda metà dell’VIII secolo il territorio marsicano è stato caratterizzato da un costante fiorire di abbazie benedettine, in gran parte dipendenti dai centri
monastici principali dell’Italia centro-meridionale: Montecassino, Farfa, Subiaco, San
Vincenzo al Volturno e San Clemente a Casauria (Saladino, 2001, p. 429).
(26) San Giovanni in Barri, uno dei più rilevanti possedimenti dell’abbazia di Farfa,
fu posto a controllo del percorso di accesso alla Sabina attraverso la Valle di Varri, che
887
intorno all’anno Mille che ospitò Tommaso da Celano negli ultimi
anni della sua vita.
Dunque, una realtà, quella marsicana, che trova la sua ragion
d’essere anche nei monumenti celebrativi della sua storia sacra e
religiosa, fortemente radicata nella cultura locale. Particolarmente
evidenti sono i segni lasciati dai complessi monastici, capillarmente diffusi sul territorio, in assoluta autonomia e in contrapposizione all’autorità vescovile. Le grandi abbazie dell’Italia centromeridionale, in sostanza, tesero a creare e a concentrare i loro
possedimenti in Terra marsicana, nelle aree più vicine alla loro
diretta zona d’influenza, in prossimità delle grandi vie di traffico
(Somma, 2007, p. 40). L’espansione del potere ecclesiastico è stata
così rilevante, da lasciare testimonianza non solo nella documentazione scritta ma anche nello stesso paesaggio, caratterizzandolo in
modo determinante, sia nelle sue manifestazioni concrete e visibili,
sia in quelle intangibili, inerenti il dominio della rappresentazione.
Così gli edifici di natura religiosa, anche quelli non più visibili,
continuano a vivere nella memoria collettiva, nella rappresentazione che la comunità marsicana è in grado di produrre mediante
la trasmissione orale. Veri e propri simboli della fede, inscritti nel
paesaggio, essi si pongono come “iconemi” caratteristici, i quali, se
oggi possono apparire secondari dal punto di vista dell’organizzazione del territorio, in passato hanno sicuramente assunto un ruolo
centrale nella definizione della trama territoriale della regione. In
tal senso, sebbene le abbazie siano scomparse o sopravvissute in
forma di relitti – quest’ultimo è il caso di San Giovanni del quale
sono visibili oggi solo alcune tracce della cinta muraria – la loro
storia non si è persa; al contrario continua ad essere vivificata attraverso la mediazione della trasmissione orale, assurgendo così ad
elementi di narrazione.
Tali elementi del paesaggio, che possiamo ritenere, secondo
l’interpretazione di Assmann, “figure del ricordo”, necessitano
di essere, in un certo senso, “materializzate” spazialmente e
temporalmente, “anche se non sempre in senso storico e geografico”. Con ciò si intende che ogni comunità per sussistere e
consolidarsi necessita di ancorarsi a determinati luoghi in cui,
non solo si manifestano le sue possibili “forme di interazione”,
si estende fra Castelvecchio e Santo Stefano, da una parte, e Leofreni di Pescorocchiano,
dall’altra (Bontempi, 1952, p. 12; Saladino, 2001, p. 431).
888
ma soprattutto si rintracciano “simboli d’identità e punti di
aggancio per il suo ricordo. La memoria ha bisogno di luoghi,
tende alla spazializzazione”: non c’è memoria collettiva, infatti,
che non prenda forma e non alberghi in un quadro spaziale (Assmann, 1997, p. 14).
Un ulteriore spunto di riflessione è suggerito dalle ultime strofe della filastrocca, laddove recita, “addoelle sse montagne, se so’
spallate, se so’ fatte cinnichiiji”. Potrebbe forse trattarsi di un velato
riferimento al terremoto che ai primi del Novecento si abbatté in
modo disastroso sulla Marsica, lasciando inequivocabili segni sul
suo paesaggio e drammatizzando la storia di un’intera comunità?
Rimane certamente un’ipotesi, sicuramente suggestiva, che ancora
una volta ci lascia intendere l’importante ruolo assunto dalla memoria e dalla sua trasmissione orale, in grado di richiamare alla
mente avvenimenti straordinari, imprevisti, ma anche ciclici, iterati, inscindibilmente ancorati ad una dimensione spazio-temporale.
A testimonianza di quanto la memoria si leghi ai luoghi, cioè
“ai palcoscenici che la accolgono” (Turri, 1998, p. 151), Ignazio
Silone, nato a Pescina, uno dei paesi più gravemente colpiti dal
sisma, dove perse quasi tutta la sua famiglia, affiderà il ricordo
della sua drammatica esperienza alle parole contenute nella lettera
inviata al fratello:
Ahimè! son tornato a Pescina, ho rivisto con le lagrime agli occhi le
macerie; sono ripassato tra le misere capanne, coperte alcune da pochi
cenci come i primi giorni, dove vive con una indistinzione orribile di sesso,
età e condizione la gente povera. Ho rivisto anche la nostra casa dove vidi,
con gli occhi esausti di piangere, estrarre la nostra madre, cerea, disfatta.
Ora il suo cadavere è seppellito eppure anche là mi pare uscisse una voce.
Forse l’ombra di nostra madre ora abita quelle macerie inconscia della
nostra sorte pare che ci chiami a stringerci nel suo seno. Ho rivisto il
luogo dove tu fortunatamente fosti scavato. Ho rivisto tutto […] (Giardini,
Appendice, 1999).
In questo caso, nonostante la memoria sia veicolata dalla
mediazione della trasmissione scritta, costituisce pur sempre un
importante esempio di come essa possa rimandare all’elaborazione
di un “paesaggio della nostalgia” – per dirla con parole di Eugenio
Turri – che soprattutto affiora quando il territorio perde le proprie
specificità materiali ed immateriali, segni di riferimento per la costruzione identitaria di chi ha partecipato alla sua creazione.
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6. Conclusioni: il paesaggio tra luogo e memoria. – È esistito il
tempo di un paesaggio che era espressione di una cultura orale,
contadina, fatta di quotidianità rurale a ritmi e abitudini lontanissime da quelle della nostra contemporaneità urbanizzata. Un paesaggio che sta scomparendo con la vita che lo significava e che la
morte dei suoi testimoni lascia vuoto di una memoria che ha tutto
il diritto di vivere, almeno come nostalgia:
sentimento vitale che ognuno avverte nei confronti del territorio in
cui ha fatto le sue prime esperienze di vita, quelle esperienze che hanno
formato la personalità di ognuno e che hanno nutrito la sua visione delle
cose. Esso si fa sentire particolarmente quando da quel territorio si è lontani. Ma la nostalgia ha una valenza analoga allorquando viene distrutto il
territorio delle nostre esperienze più importanti, quando non lo ritroviamo
più, perché da esso sono stati tolti i segni che costituivano i riferimenti sui
quali si fondava la nostra identità (Turri, 1998, p 156).
Ricordi, nostalgia, luoghi capaci di rimandare ad un paesaggio
della memoria che assicura la continuità culturale collettiva, giustificando l’esistenza stessa degli individui e donando senso all’esistenza come rappresentazione (Turri, 1998). Soffermarsi, quindi,
sullo spazio culturale di una società che ha costruito un mondo di
suoni da cui anche la cultura scritta dipende, acquista un significato e valore specifico rispetto alla presente ottica d’indagine che ha
inteso sondare il valore tout court del paesaggio. Un’intenzionalità
analitica che, dopo essersi soffermata sulla natura della memoria
comunicativa a cui appartiene gran parte del patrimonio orale, ha
voluto illustrare le modalità con cui questa tipologia di trasmissione avviene attraverso una delle sue produzioni più esemplificative:
la filastrocca orale.
Da qui l’idea di paesaggio come sguardo d’insieme, volto manifesto dell’azione umana su una parte del substrato fisico in cui
trova forma il senso culturale attraverso il quale la società organizza la sua permanenza e la sua struttura. Un paesaggio, dunque,
che muta nel tempo storicizzando usanze, pratiche, memorie per
mezzo delle quali la società esprime culturalmente le sue esigenze,
imprimendo senso ai luoghi. Un senso che aiuta la costruzione del
paesaggio della memoria legato ai monumenti, agli oggetti tanto
quanto a un insieme di elementi immateriali che ne costituiscono assieme lo scenario e l’essenza. Il sentimento identitario che
890
ne consegue è garantito, quindi, da costruzioni e mediatori che
divulgano, reiterano il senso di questo dominio territoriale e lo “segnano”, materialmente e immaterialmente, dando vita ad un vero
e proprio organismo territoriale semantico il cui scenario paesaggistico è teatro dell’azione culturale (27).
Pertanto, la caratterizzazione paesaggistica di un territorio è
parte integrante dell’attività poietica di una società che costruisce
i propri riferimenti nei quali proiettare l’autoreferenzialità, strettamente connessa alla facoltà di ri-conoscimento collettivo nel
luogo. Tale ri-conoscimento è capace di assicurare, integrando ogni
possibile trasformazione materiale del luogo stesso e ogni suo mutamento di significato impressogli dal senso culturale nel tempo,
la coagulazione identitaria nel presente in una prospettiva agente
e retroagente. Questo spazio culturale, colmo di simboli attraverso
cui la memoria collettiva si racconta, è costruito dall’uomo che ne
viene a sua volta educato all’identità, all’assimilazione dei valori e
del loro evolversi in quello che Eugenio Turri definisce “scambio
interattivo tra uomo che guarda e uomo che agisce, tra attore e
spettatore, tra uomo protagonista di cultura e di natura” (Turri,
1998, p. 2). Un feed-back ontologico sorretto dalla costruzione di
una percezione di continuità temporale che lega il passato al presente e legittima la visione del futuro, attualizzando le tappe del
percorso culturale attraverso l’azione del mediatore esterno alla
memoria per eccellenza: il luogo (28).
(27) Un paesaggio, dunque, come riflesso della coscienza territoriale, azione e misura del vivere umano nel territorio: “inteso questo come lo spazio nel quale operiamo,
ci identifichiamo, nel quale abbiamo i nostri legami sociali, i nostri morti, le nostre
memorie, i nostri interessi vitali, punto di partenza della nostra conoscenza del mondo”
(Turri, 1998, p. 15).
(28) L’importanza dei luoghi come referenti identitari materiali, testimonianze
della cultura del ricordo ufficiale, è ben colta in questo brano di Aleida Assmann: “Alla
categoria dei mediatori esterni della memoria appartengono infine anche i luoghi, teatro
di avvenimenti significativi dal punto di vista religioso, storico o biografico. Questi luoghi hanno la capacità di conservare e garantire la memoria anche dopo una fase di oblio
collettivo. Dopo una rottura con la tradizione, turisti e pellegrini, ritornano ai luoghi per
loro significativi, dove ritrovano paesaggi, monumenti e rovine. Con ciò si ottiene una
“rianimazione”, perché il luogo riattiva il ricordo, almeno tanto quanto il ricordo riattiva
il luogo” (Assmann, 2002, p. 22). Anche Maurice Halbwachs si sofferma sull’importanza
del luogo ma come elemento “assorbente” l’azione culturale antropica divenendo, così,
campo d’autoreferenzialità per eccellenza: “Il luogo occupato da un gruppo, non è come
una lavagna su cui si scrivono delle cifre e delle figure e poi si cancellano. Il luogo accoglie l’impronta del gruppo, e ciò e reciproco. Allora, tutte le pratiche del gruppo possono
tradursi in termini spaziali, e il luogo che occupa non è che la riunione di tutti i termini.
Ogni aspetto, ogni dettaglio di questo luogo ha in sé un senso che non è intelligibile che
per i membri del gruppo, poiché tutte le parti dello spazio che ha occupato corrispondono ad altrettanti differenti aspetti della struttura e della vita della loro società, almeno
per ciò che essa ha avuto di più stabile” (Halbwachs, 1987, p. 137).
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Luogo e memoria sono connessi, quindi, da un legame sorretto
da imprevedibili significati molti dei quali non classificabili in quella costruzione del tempo attraverso cui prende forma la cultura del
ricordo che utilizza l’oblio, la dimenticanza, quale strumento di selezione e edificazione di senso. Una amnesia collettiva indotta di cui
rimane troppo spesso vittima la memoria comunicativa, in quanto
priva di una modalità di trasmissione che ne tramandi il messaggio
culturale, occultato nelle trame perché non facilmente codificabile
nella forma scritta. Eppure la memoria collettiva si compone anche
di quest’immenso patrimonio immateriale analfabeta e amorfo attraverso cui il paesaggio, prendendo sostanza cromatica, olfattiva,
dialettale, oltre che materiale, racconta il suo ricordo più intimo.
La lettura e la conservazione del valore del paesaggio, soprattutto in una chiave geografica, dovrebbe passare anche per
le problematiche che porrebbe la cancellazione di una parte
fondamentale del patrimonio collettivo legato alle abitudini, alle
pratiche del tempo quotidiano che hanno una loro particolare
poesia e dignità memorativa rassicurante, familiare. Se dovesse
continuare a mancare la consapevolezza dell’importanza di queste particelle di paesaggio, senza le quali sarebbe impossibile
un’analisi profonda del suo valore, la memoria comunicativa
sarebbe destinata ad essere rifiutata assieme al bagaglio di patrimonio orale in cui il quotidiano riposa il suo sapere sia in
forma di filastrocca, racconto, proverbio, che in ricordi evanescenti come il suono di una parola. E allora, cosa rimarrà di tutti
quegli spazi del vissuto di cui si compone il paesaggio, quando
il ricordo rifiutato dalla cultura del passato come eco si consumerà? Lontani dal divenire “mnemotopi” (29), luoghi semiotizzati mediatori della memoria culturale, rimarranno immersi in
un tempo senza scansione, materializzazioni orfane del vissuto,
capaci solo di rappresentare l’assenza e, nei casi più fortunati,
l’attesa di un nuovo senso.
(29) La nozione di mnemotopo è presentata da Jan Assmann (1997) che afferma di
essersi rifatto al concetto di topographie légendaire della Terra Santa, di Maurice Halbwachs (1972), ossia del luogo di memoria come espressione caratterizzante della memoria
collettiva di un gruppo: “[…] interi paesaggi possono fungere da medium della memoria
culturale; in questi casi essi non vengono tanto accentuati mediante dei segni (dei “monumenti”), quanto piuttosto elevati globalmente essi stessi a rango di segni, ossia vengono semiotizzati. […] Si tratta, qui, di “testi” della memoria culturale, di ‘mnemotopi’, di
luoghi della memoria. […] Da qui a esaminare la localizzazione concreta dei ricordi in
un paesaggio fertile di memoria e carico di significati come la Palestina il passo è breve:
la Terra Santa diventa ‘Mnemotopo’ (Assmann, 1997, p. 34).
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Roma, Università degli Studi “Gugliemo Marconi”; [email protected].
Cagliari, Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea (Isem), Consiglio Nazionale delle
Ricerche; [email protected]
SUMMARY: A reflection on oral memory and landscape: introductory notes. – Over
the course of time, societies have attributed a symbolic value to certain places according
to their own cultural references and different lifestyles. These places become endowed
with such emotional strength and special “energheia” that in turn they produce mental
images which are easily retained in the memorization process. The memory may thus
allow one to remember a glorious past as well as not to forget special places, so called
meaningful “topoi”, which evoke traditions deeply rooted in individual and collective
consciousnesses.
The aim of this essay is to shed some light on the oral traditions and community
memory of villages located in the Marsica territory of Abruzzi (Italy). In addition, we
aim to lay the foundations for a reflection on the key role that oral narrative production
may have in evoking traces of landscape.
RÉSUMÉ: Réflexion liminaire sur la mémoire orale du paysage. – Au cours du temps,
les sociétés successives ont attribué à certains lieux, en accord avec les modèles culturels
de référence et les différents modes de vie et d’organisation de l’espace, une valeur symbolique spécifique, leurs octroyant une force émotive, une “energheia” toute particulière
capables de produire des images mentales pouvant facilement participer au processus
de mémorisation. La mémoire est aussi prédisposée à se souvenir d’un passé glorieux,
comme à ne pas laisser tomber dans l’oubli certains lieux, “topoi” significatif, associés à
une tradition liée à la conscience individuelle ou collective.
Cet article a pour objectif de mettre en lumière quelques fragments de la mémoire
orale des communautés de la Marsica dans les Abruzzes, Italie, et de jeter les bases d’une
réflexion sur le rôle majeur tenu par les narrations orales dans l’évocation des paysages.
Termini chiave: paesaggio, memoria orale, patrimonio immateriale.
Key Words: landascape, oral memory, intangibile heritage.
[ms. pervenuto il 15 febbraio 2009 ; ult. bozze l’11 novembre 2010]