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Schelling
La vita, il pensiero filosofico e le opere di Schelling
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1 Premessa
2 La Vita
3 Il Pensiero
3.1 L’evoluzione del suo
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1
pensiero: una prima
suddivisione
3.1.1 La Filosofia Positiva
3.2 L’Assoluto e Filosofia
dell’identità (o dell’unitotalità)
3.2.1 Filosofia della natura:
dalla natura allo spirito
3.2.2 Filosofia della natura:
fisica speculativa (o a priori)
3.2.3 Idealismo
trascendentale: dallo spirito
alla natura
3.2.4 L’idealismo estetico:
l’importanza dell’arte
3.2.5 L’ultimo Schelling
3.3 Schelling e l’idealismo
trascendentale
3.3.1 Gli inizi fichtiani del
pensiero schellinghiano
3.3.1.1 Ripresa e sviluppo
della filosofia fichtiana
3.3.2 La Filosofia della
Natura
3.3.2.1 L'unità di spirito e
di natura
3.3.2.2 La Natura: forze
dinamiche e intelligenza
inconscia
3.3.2.3 L'anima del
mondo e la natura dell'uomo
3.3.3 Idealismo
trascendentale e idealismo
estetico
3.3.3.1 Partire dal
soggettivo per giungere
all'oggettivo
3.3.3.2 L'attività reale e
l'attività ideale dell' Io
3.3.3.3. L'Estetica di
Schelling
3.3.3.4. L'attività artistica
3.3.4 La filosofia
4.5 La Filosofia della
Rivelazione
4.5.1 Prima lezione
4.5.2 Seconda lezione
4.5.3 Terza e quarta
lezione
4.5.4 Quinta lezione
4.5.5 Sesta lezione
4.5.6 Settima lezione
4.5.7 Nona lezione
4.5.8 Decima e undicesima
lezione
4.5.9 Dodicesima,
tredicesima e
quattordicesima lezione
4.5.10 Dalla Quindicesima
alla Diciottesima lezione
4.5.11 Dalla
diciannovesima alla
ventiduesima lezione
4.5.12 Ventitreesima…
trentaduesima lezione
4.5.13 Dalla trentatreesima
alla trentasettesima lezione
5 Brani antologici
5.1 Filosofia della mitologia
5.2 La teoria dell'arte
5.3 Filosofia della mitologia
5.4 Filosofia della
rivelazione
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5.5 Filosofia negativa e
positiva
5.6 Gli elementi
fondamentali del sistema
filosofico
5.7 I tre periodi della storia
5.8 Idealismo e dogmatismo
5.9 Il male in Dio
5.10 Il programma della
vera filosofia
5.11 Il superamento del
male come scopo della
creazione
5.12 La libertà e il male
5.13 La positività del male
5.14 Perché il male è
necessario
5.15 Sistema dell'idealismo
trascendentale
5.16 Schelling, Il finalismo è
nelle cose, così come
l'unità di Spirito e Natura
6 Aforismi
7 Filosofi correlati
7.1 L'idealismo di Fichte e
Schelling
7.1.1 Johann Gottlieb
Fichte
4 Le Opere
7.1.2 Friedrich Wilhelm 4.1 I primi studi del giovane Joseph Schelling Schelling
4.1.1 Filosofia della natura 7.2 Schelling e Kierkegaard
7.2.1 Il maestro e l’allievo
e idealismo trascendentale
7.2.2 La realtà e il limite
nel giovane Schelling
del pensiero
4.2 La filosofia della natura e 7.2.3 L’enigma
dell’esistenza
l'idealismo trascendentale
4.2.1 Il sistema dell'identità 7.2.4 L’ansia di vivere
7.2.5 Un teologo senza
e la sua rottura
frontiere
7.2.6 L’ironia
4.3 Idee per una filosofia
7.2.7 Aut - Aut
della natura: la struttura
7.2.8 Il possibile è sempre
finalistica e dialettica del
vero
reale
7.2.9 La comunicazione
4.3.1 La natura come
indiretta
"preistoria" dello Spirito
4.3.2 Fisica "speculativa" e dell'identità
3.3.4.1 La Ragione come
assoluto
3.3.4.2 L'Identità assoluta
3.3.4.3 Dall'infinita
Identità assoluta alla realtà
finita e differenziata
3.3.5 La fase della teosofia
e della filosofia della libertà
3.3.5.1 La natura di Dio
3.3.5.2 La giustificazione
metafisica della lotta fra il
bene e il male
3.3.6 La Filosofia positiva
3.3.7 Conclusioni sul
pensiero di Schelling
3.4 Ulteriore considerazioni
3.4.1 Il distacco da Fichte
3.4.2 La filosofia della
natura
3.4.3 L'idealismo
trascendentale
3.4.4 Filosofia ed estetica
3.4.5 Filosofia e religione
3.4.6 Politica in Schelling
3.4.7 Le accuse di ateismo
3.4.8 Rilievi critici
3.4.9 L’eredità
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pensiero scientifico
4.4 Il sistema dell'idealismo
trascendentale
4.4.1 L'assoluto
4.4.2Filosofia della natura
4.4.3Filosofia
trascendentale
7.3 L’arte per Schelling,
Aristotele, Kant e
Schopenauer
7.4 La realtà e la natura in
Schelling, Hegel, Fichte e
Kant
7.5 Hegel e Schelling
1 Premessa
Schelling è considerato il filosofo idealista che ha pienamente espresso la sensibilità del romanticismo.
Fondamentali sono, nella sua riflessione, i temi riguardanti la natura, l’arte, il panteismo e l’inconscio.
L’idea della poesia come essenza dell’universo, l’esaltazione del genio artistico capace di addentrarsi nel
senso oscuro e infinito delle cose più del filosofo e dello scienziato, fecero subito, di questo autore, il filosofo
per eccellenza, che più di altri incarnava lo spirito del Romanticismo.
2 La Vita
Friedrich Wilhelm Joseph Schelling nasce Il 27 gennaio del 1775 a Leonberg, nel Wuerttemberg. Primo di
cinque figli, suo padre era un colto pastore protestante appassionato di studi di orientalistica e critica biblica
e che avviò fin dall'infanzia Friedrich alla conoscenza del mondo antico.
Nel 1790, all’età di 15 anni, dopo aver
compiuto i primi studi a Bebenhausen
e Nuertingen, dove fra l'altro ebbe
modo di conoscere per la prima volta
Hoelderlin, e aver dimostrato la sua
precocità, Schelling venne ammesso,
con tre anni di anticipo sulla norma,
allo Stift di Tubinga, dove fu
compagno di camera dello stesso
Hoelderlin e anche di Hegel, il quale,
pur essendo di un lustro più anziano
di lui, subì da questo un influsso
determinante. In seguito studiò
matematica e scienze naturali a
Lipsia.
Concluse nel 1792 il biennio filosofico
con la dissertazione Antiquissimi de
prima malorum humanorum origine
philosophematis Gens. III explicandi
tentamen criticum et philosophicum,
in cui è evidente l'approccio
razionalistico al testo biblico.
L'anno successivo, lo stesso
approccio venne applicato al campo
dell'interpretazione mitologica nel
saggio Sui miti, le leggende storiche e
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i fenomeni del mondo antico.
Per quanto l'ambiente dello Stift fosse
poco aperto alle novità filosofiche e
politiche, Schelling ebbe comunque
modo di entrare in contatto con le
dottrine fichtiane e le idee politiche
rivoluzionarie provenienti dalla
Francia.
Dopo aver incontrato Fichte e aver letto la prima parte, quella teoretica, della Dottrina della scienza,
Schelling pubblicò nel 1794 Sulla possibilita' di una forma della filosofia in generale e nel 1795 Sull'Io come
principio della filosofia. Il 1795 fu un altro anno importante per il filosofo poiché concluse il triennio teologico
con la dissertazione De Marcione Paullinarum epistolarum emendatore. Venne successivamente chiamato a
collaborare al "Philosophisches Journal", sul quale pubblicò, tra il 1795 e il 1796, le Lettere filosofiche sul
dogmatismo e il criticismo.
Rinunciò quindi alla carriera ecclesiastica trovando, a soli 21 anni, un impiego come precettore presso il
barone Von Riesedel, curando l’educazione dei figli prima a Stoccarda, tra il novembre 1795 e il marzo1796,
e poi a Lipsia.
Nello stesso 1796 redasse la Nuova deduzione del diritto naturale, anche in conseguenza del fatto di essersi
dovuto occupare, nella sua nuova veste, degli studi giuridici dei giovani Von Riesedel.
Tra il 1796 e il 1797 tornò sull'interpretazione di Fichte nei Trattati per la chiarificazione dell'idealismo della
Dottrina della scienza. Ma, soprattutto, in questi anni getta le basi della propria filosofia della natura con le
Idee per una filosofia della natura e la prima versione di Sull'anima del mondo.
Durante l’estate del 1798, all’età di 23 anni, si trasferì da Lipsia a Jena, chiamato dalla locale Università,
grazie anche all’amicizia con Goethe, come coadiutore di Fichte nell'insegnamento universitario, e nel 1799
di fatto in sostituzione di Fichte, costretto quest’ultimo a dimettersi in seguito alla polemica sull'ateismo.
Lì entrò in contatto i maggiori esponenti
del Romanticismo: Goethe, Novalis,
Schiller, Hölderlin, i fratelli Schlegel, e lo
stesso Fichte.
Fondò la rivista "Zeitschrift fuer
spekulative Physik" (Rivista per la fisica
speculativa) progettata come strumento
di diffusione della nuova filosofia della
natura, e nel 1802, con Hegel, il
"Kritisches Journal der Philosophie"
(Giornale critico della filosofia).
Nel frattempo pubblicò il Primo abbozzo
di un sistema di filosofia della natura
(1799), con la relativa Introduzione
(1799), il Sistema dell'idealismo
trascendentale (1800), la Deduzione
universale del processo dinamico (1800),
l'Esposizione del mio sistema di filosofia
(1801), il dialogo Bruno (1802), le
Ulteriori esposizioni del mio sistema di
filosofia (1803), le Lezioni sul metodo
dello studio accademico (tenute per la
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5
prima volta nel 1802, ma pubblicate nel
1803).
Nell'estate del 1803 sposò Carolina Michaelis, vedova del medico Boehmer e già sposata in seconde nozze
con August Wilhelm Schlegel, da cui aveva ottenuto il divorzio nello stesso 1803.
Anche a causa del deteriorarsi dei rapporti personali con gli amici di Jena, in autunno si trasferì a
Wuerzburg, chiamato come professore ordinario. Cominciarono intanto a manifestarsi gravi dissapori e
polemiche con Fichte, dovute più che altro all'incapacità di ciascuno dei due di comprendere il punto di vista
dell'altro.
Nel 1805 fondò, con Marcus, gli Jahrbuecher der Medicin als Wissenschaft. Pubblica Filosofia e religione
(1804) in risposta alle tesi sostenute da Eschenmayer nello scritto La filosofia nel suo passaggio alla nonfilosofia, gli Aforismi introduttivi alla filosofia della natura (1805) e gli Aforismi sulla filosofia della natura, la
cui seconda parte apparirà quando Schelling avrà già lasciato Wuerzburg (1806-7).
A questo periodo appartengono anche la Filosofia dell'arte (corsi tenuti in origine a Jena tra il 1802 e il 1803
e ripresi a Wuerzburg tra il 1804 e il 1805), la Propedeutica filosofica (1804) e il Sistema dell'intera filosofia
(1804), che saranno tuttavia pubblicati postumi.
In seguito alla pace di Presburgo (dicembre 1805), Wuerzburg passò sotto il controllo austriaco. Nella
successiva primavera, Schelling decide quindi di trasferirsi a Monaco, dove, non esistendo ancora una
Università, entra a far parte dell'Accademia delle Scienze, presieduta da Jacobi.
Il 12 ottobre 1807, in occasione dell'onomastico del re, tiene il celebre discorso Sul rapporto delle arti
figurative con la natura.
Nel 1808 fu nominato Segretario Generale dell'Accademia delle Arti Figurative, creata in pratica
appositamente per Schelling al fine di evitargli la difficile convivenza con Jacobi.
A questo periodo risalgono l'ultimo intervento contro Fichte, l'Esposizione dei veri rapporti della filosofia della
natura con la dottrina migliorata di Fichte (1806) e le Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana
(1809). Nel frattempo, in seguito alla pubblicazione della Fenomenologia dello Spirito (1807), si consuma anche la
rottura con Hegel, che lo aveva attaccato nella sua prefazione.
Il 7 settembre del 1809 morì la moglie Carolina. Incominciò così un lungo periodo oscuro e solitario, in cui
pesarono fortemente i dispiaceri della vita privata e l’ormai assodata sconfitta del suo sistema filosofico
rispetto a quello hegeliano di cui assiste al trionfo.
Il filosofo, fortemente provato, si trasferì
per qualche mese a Stoccarda, tra il
febbraio e l'ottobre del 1810, dove tiene le
celebri Privatvorlesungen e compone il
dialogo Clara, vera e propria meditazione
sulla morte. Il rientro a Monaco fu segnato
dalle polemiche.
Lì, infatti, maturò una svolta profonda
nella sua filosofia, a cui contribuirono vari
eventi: l'incontro con Baader che gli fece
conoscere il pensiero di Böhme.
Nel 1811, Jacobi pubblicò un aspro
attacco contro Schelling intitolato Sulle
cose divine e la loro rivelazione, a cui
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Schelling risponde con altrettanta violenza
con il Monumento dello scritto sulle cose
divine (1812).
Nello stesso periodo, era alle prese con il
progetto delle Età del mondo, di cui
prepara due versioni (una nel 1811 e
l'altra nel 1813) che vengono entrambe
prima consegnate all'editore e poi ritirate,
e un'ulteriore elaborazione nel 1815.
A tre anni dalla scomparsa della moglie Caroline, Schelling si risposò con Paulina Gotter, figlia di un'amica di
Carolina, con cui era da tempo in corrispondenza e che gli rimase accanto per tutto il resto della vita,
dandogli sei figli.
L’anno successivo, nel 1813 fondò una nuova rivista, la Allgemeine Zeitschrift von Deutschen fuer Deutsche,
che ospitò nel suo primo numero la disputa con Eschenmayer a proposito delle Ricerche filosofiche, ma che
ebbe vita ancora più breve delle precedenti.
Nel 1815 Schelling pubblicò la lezione Sulle divinità di Samotracia. Cinque anni dopo, nel 1820 fu chiamato a
Erlangen, dove restò per sette anni, tenendo come professore libero lezioni di Storia della Filosofia e
Filosofia della Mitologia. Le lezioni del semestre invernale 1820-21 furono dedicate agli Initia philosophiae
universae, cioè ai fondamenti dell'intera filosofia.
Il 1827 è l’anno del suo rientro a Monaco come professore di filosofia presso l'Università, trasferita l'anno
precedente da Landschut, e come Presidente dell'Accademia delle Scienze, dove terrà le famose Lezioni
monachesi sulla storia della filosofia moderna.
L'unico scritto filosofico che Schellig pubblicò in quegli anni è la Prefazione ai Fragments philosophiques di
Victor Cousin (1834), ma nel frattempo Schelling lavorava al progetto della "filosofia positiva", in opposizione
alla "filosofia negativa" della tradizione razionalistica e formalistica. Intanto i quaderni originali dei corsi tenuti da Schelling in questi anni sono andati perduti nel corso dei
bombardamenti del 1944, ma rimangono gli appunti di studenti e uditori.
Tra le opere riprese nell'edizione delle opere complete figurano la Prima lezione monachese (1827), i corsi
del 1836-37 sulla Storia della filosofia moderna, e sull'Esposizione dell'empirismo filosofico.
Per altri scritti, alcuni dei quali hanno subito varie
rielaborazioni, la datazione non può ritenersi
sempre certa: Sistema delle età del mondo
(1827-28); Introduzione alla filosofia (1830);
Filosofia della Rivelazione (1831-32); Sistema
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della filosofia positiva e Sistema delle età del
mondo (1832-33); Filosofia della Mitologia
(1835-36); Sistema della filosofia positiva (183637); Filosofia della Mitologia (1837-38);
Introduzione nella filosofia (1839).
Nel 1841 Schelling, anche a causa della
situazione non proprio favorevole determinatasi
con i Protestanti della Baviera, accolse l'invito di
Federico Guglielmo IV di Prussia e si trasferì a
Berlino come libero docente, con il compito,
probabilmente, di contenere il successo
straripante della filosofia di Hegel, deceduto
dieci anni prima, e del quale occuperà la
cattedra.
Anche qui i suoi corsi, che vedranno tra gli uditori Kierkegaard, Feuerbach ed Engels, vertendo
principalmente sulla Filosofia della Mitologia e la Filosofia della Rivelazione, e sono ricostruibili in buona
parte solo attraverso Nachschriften: Filosofia della Rivelazione (1841-42); Filosofia della Rivelazione (184243 e 1844); Principi della filosofia - Esposizione del processo naturale (1843-44); Filosofia della Mitologia
(1845-46).
In quest’ultima fase della sua vita ebbe modo di sviluppare l'ultima fase del suo pensiero, in aperta polemica
contro l'idealismo hegeliano, affermando l'autonegazione della ragione dialettica per ristabilire il primato
dell'essere parmenideo. Nel 1847 smise di tenere i suoi corsi pubblici. Appartengono inoltre a questo periodo l'Introduzione filosofica
alla filosofia della Mitologia e il Saggio sull'origine delle verità' eterne (1847-54) e il discorso Osservazioni
preliminari alla questione sull'origine del linguaggio (1850). Questi lavori suscitarono grande attrazione, ma i suoi richiami caddero nel vuoto.
Ritiratosi definitivamente dall'insegnamento, morì a Bad Ragaz, una località della Svizzera, mentre si trovava
in villeggiatura, il 20 agosto 1854.
3 Il Pensiero
II pensiero di Schelling si contraddistingue per lo slancio verso l'unità ultima e indivisa del sapere e
dell'essere e si presenta composto di "filosofia dello spirito" e "filosofia della natura".
Io, o spirito, e natura sono in principio complementari e opposti. Insieme rappresentano due strutture
coincidenti in un organismo che si auto-produce e si auto-organizza secondo meccanicità e finalità, libero
caso e necessità. Nelle Idee per una filosofia della natura Schelling asserisce che la natura è un "organismo senziente", che si
auto-produce razionalmente in una sequenza di gradi sempre più complessa, pur in assenza di finalità
razionali esplicite.
In natura l'uomo è certo una forza tra le forze
naturali, ma il suo fare introduce un finalismo nel
mondo della necessità e casualità naturali.
Le forze di attrazione e repulsione operanti negli
enti della natura sono gli stessi principi attivi
nell'intuizione dello spirito umano: in natura
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appaiono dal punto di vista oggettivo
dell'inconscio, nell'intuizione viceversa da quello
spirituale-soggettivo della coscienza.
Necessità e casualità della natura si riflettono
nella necessità e casualità dell'arte, perciò il
linguaggio del mito e della poesia si presenta
come il più idoneo a esprimere e pensare la
natura stessa.
Nel Sistema dell'idealismo trascendentale l'arte,
che permette di cogliere l'unione e l'identità
originarie del soggettivo e dell'oggettivo, dello
"spirituale" e del "naturale", è intesa come
sommità del sapere e prassi comunicativa della
filosofia. L'intuizione estetica coglie nell'opera
artistica, seppure istantaneamente e
imprevedibilmente, il fondamento ontologico in
cui lo spirituale e il naturale sono l'unità
originaria.
La riflessione immediatamente posteriore tenta di attribuire stabilmente alla teoria filosofica ciò che prima era
stato determinato quale proprio dell'opera artistica: la visione dell'identità assoluta. Questa identità ultima
viene ripensata però come "abisso di quiete e di inattività", come suprema "indifferenza". L'identità del fondamento comune si traduce nell'originario annullamento delle definizioni polarmente
contrapposte (conscio e inconscio, soggettività e oggettività, idealità e realtà, libertà e necessità), prima
pensate sostitutive della filosofia trascendentale. Questa fase del pensiero di Schelling viene generalmente detta filosofia dell'identità.
Negli ultimi anni la filosofa di Schelling si afferma definitivamente come rammemorazione di un
immemorabile "soggetto assoluto", una "Oltredivinità" che richiama la tradizione mistica neoplatonica, e
come esercizio razionalmente estatico. La ragione si arresta con stupore di fronte al dato puro e semplice del reale, al fatto che questo si presenti ad
essa, che pure ne può cogliere le articolazioni, in modo inassimilabile a priori.
3.1 L’evoluzione del suo pensiero: una prima suddivisione
Schelling fu un intellettuale molto precoce poiché raggiunse il massimo della popolarità a soli 25 anni. Nel
1800 circa, a soli 32 anni, cominciò ad essere oscurato dall'astro nascente del sistema filosofico di Hegel,
che peraltro era più anziano di lui.
Più giovane di Hegel, Schelling ne fu tuttavia per qualche anno il maestro e quando Hegel morì, Schelling gli
sopravvisse per circa 20 anni, dando vita ad una filosofia successiva ad Hegel ed in polemica con lui.
Il pensiero di Schelling presenta dunque, come già quello di Fichte, diversi periodi.
Di questi è possibile individuarne cinque:
1- momentanea adesione alle tesi di Fichte;
2- Filosofia dello Spirito e della Filosofia della Natura, ovvero elaborazione di un proprio pensiero autonomo;
3- Filosofia dell'Identità, ovvero identificazione tra Natura e Spirito;
4- Filosofia della Libertà, in contemporanea all'incipiente successo di Hegel;
5- Periodo della Filosofia Positiva, successiva alla morte di Hegel;
Schelling iniziò il suo cammino muovendo dalla
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filosofia di Fichte e, anche quando se ne
allontanerà, manterrà comunque qualche legame
con essa.
Tuttavia, dopo un primo periodo di ferma
adesione alla filosofia fichteana, Schelling fa un
passo aventi verso la sua prima fase autonoma,
in cui maturò la Filosofia dello Spirito e la
Filosofia della Natura, presentando una visione
alternativa: secondo Fichte, l'Io pone il non-Io,
ovvero il soggetto, che è lo spirito, pone l'oggetto
la natura, attraverso un processo, tutto interno
all'Io, dal momento che fuori di esso non vi è
ancora nulla.
Tuttavia, nota Schelling, se la natura è stata tirata
fuori dallo spirito, allora vorrà dire che la natura,
in fin dei conti, ha la stessa essenza dello spirito,
o, in altri termini, è lo stesso spirito che si palesa
in modo diverso.
Questo passaggio è quello che Schelling,
rielaborando il sistema filosofico di Fichte,
definisce carattere spirituale della natura ,
cercando di chiarire che la natura è un prodotto
dell'Io, la cui caratteristica principale è la
spiritualità.
La natura si veste nuovamente delle particolarità tipiche dello spirito e ne consegue che la rappresentazione
schellinghiana della natura sarà di stampo vitalistico e organicistico. Non a caso Schelling fu senz'ombra di
dubbio il filosofo che più di tutti ha elaborato la concezione romantica della natura vivente, che lui definisce
anche spirito pietrificato: la natura, infatti, altro non è che lo spirito che si manifesta in forme che,
propriamente, non sono le sue.
La filosofia di Fichte era raffigurabile mediante una semiretta, poiché vi era un punto di partenza, l'Io che
poneva il non-Io, e uno slancio infinito: egli insisteva molto sul fatto che la natura fosse non-Io, poiché
sentiva l'esigenza di porre un ostacolo, un qualcosa di diverso all'Io.
Schelling invece tende la sua traiettoria in un'altra direzione, sottolineando che Io spirito e la natura (l’io e il
non-io) siano la stessa cosa, poiché l'uno è il derivato dell'altro. Ecco dunque che la filosofia di Schelling si può raffigurare come Filosofia dello Spirito e della Natura: così
come in Fichte, vi è l'Io (spirito) che pone il non-Io (natura), in Schelling, dato che la natura è anch'essa
spirito, seppur spirito pietrificato, spirito che si sviluppa nello spazio, allora essa propone al suo interno una
tensione che mira a tirar fuori dall'interno una sua dimensione spirituale.
Nella natura troviamo livelli della realtà in cui la spiritualità si manifesta in modi diversi. Avremo così una
natura spirituale, in cui però lo spirito è pietrificato, cioè sta nascosto, e solo in certi livelli della natura esso
tende a manifestarsi maggiormente: nei livelli della meccanica, ad esempio, la natura non si manifesta come
spirito e la spiritualità resta nascosta, quasi inafferrabile. Ma più si va verso una maggiore complessità della natura e più la sua spiritualità tende ad emergere: già
nella chimica si intravede qualche elemento spirituale, nel magnetismo si fa un ulteriore passo avanti, ed è
nel livello biologico, in cui emerge la dimensione organicista, che si vede benissimo la spiritualità. Anche
nella luce, fa notare Schelling, si può scorgere un tentativo della spiritualità della natura di emergere.
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Bisogna chiarire che il punto di partenza
dello spirito è il punto di arrivo della
natura: con la posizione del non-io da
parte dell'Io si procede dallo spirito alla
natura, ma poi la natura va dai livelli
meno vivi (la meccanica) verso una
sempre maggiore spiritualità (la
biologia). Se per Fichte si partiva dall'Io e si
andava avanti all'infinito, con Schelling,
una volta posto il non-Io, da quello si
deve ritornare all'Io.
C’è infatti una specie di circolarità tra
natura e spirito poiché lo spirito pone la
natura e la natura fa emergere lo
spirito. E' dunque naturale che in questo
panorama Schelling recuperi concetti
che appartengono alla filosofia di
Platone e di Giordano Bruno come
quello dell'anima del mondo, a
sottolineare che la natura, in quanto
prodotto dello spirito, è un essere
vivente a pieno titolo.
Spesso le considerazioni di Schelling vengono poste accanto a quelle di Goethe secondo cui l'intero regno
vegetale deriverebbe da un'unica pianta, anticipando così certe elaborazioni delle teorie evoluzionistiche.
Schelling non ha di per sé una concezione evoluzionistica in senso darwiniano poiché la gerarchia della
natura a cui egli accenna non è temporale ma puramente logica: in altri termini, Schelling vuol solo dire che
vi è una scala della natura che va dagli esseri meno complessi a quelli più complessi, dalla meccanica
all'uomo.
Eppure Schelling, ammettendo che tutte le cose sono manifestazioni di un'unica realtà, la spiritualità,
propose una sorta di evoluzionismo atemporale, una specie di gerarchia logica dall'essere più semplice al
più complesso, entrambi manifestazioni della realtà spirituale.
Schelling definisce potenze i diversi livelli della realtà e sottolinea come ogni potenza tenda a mostrare
polarità e come ciascuno dei termini di tale polarità sia il rappresentante della polarità spirito-natura: non c'è
dunque da meravigliarsi se in entrambi questi poli che contraddistinguono ciascuna potenza si rivelano
ulteriori polarità, dal momento che la polarità natura-spirito tende essa stessa a dividersi in altri gradi. All'interno degli stessi principi spirituali ci sarà perciò polarità. E' poi indubitabile che, in quest'ottica, Schelling abbia una concezione finalistica della natura, con una
modificazione della kantiana Critica del Giudizio in una vera e propria filosofia della natura in chiave
teleologica.
Per Fichte l'Assoluto poteva tranquillamente essere lo
spirito (l'Io) poiché era su un gradino superiore rispetto
alla natura; non a caso quello di Fichte era un idealismo
soggettivo.
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Con Schelling, invece, natura e spirito si sollevano a
pari dignità e ne consegue che l'Assoluto dovrà essere
qualcosa che non è né lo spirito né la natura, ma che si
colloca al di là di essi. Sarà definibile Assoluto, dice
Schelling, l'Identità assoluta di soggetto e oggetto, da
lui chiamata anche Assoluto o Identità. Si tratta di un
livello che si dispone al di là della distinzione
soggetto/oggetto: la matrice neoplatonica risulta qui
evidente. Spesso questa fase del pensiero di Schelling,
che è la più originale, viene descritta come un centro
(l'Assoluto, identità assoluta di tutto) da cui nasce
un'esplosione di differenziazioni: da questa fase
muoverà Hegel, aderendovi e per poi allontanarsene
criticandola aspramente.
Propriamente romantica, oltre alla concezione spiritualizzata della natura, è la posizione privilegiata che
Schelling riserva all'arte come strumento conoscitivo. Infatti, se la realtà è identità assoluta di natura e spirito,
allora la modalità di apprendimento non potrà essere di tipo mediato, un’ argomentazione discorsiva alla
Platone. Viceversa, come la realtà è assoluta, anche il modo di conoscerla dovrà essere istantaneo,
comprensibile con un'intuizione che superi tutte le diversificazioni e individui subito l'identità.
Ecco perché l'arte è lo strumento gnoseologico per eccellenza, secondo Schelling, poiché essa è
quell'espressione dell'uomo in cui soggetto (spirito) e oggetto (natura) sono fusi: nella realizzazione
dell'opera d'arte, infatti, sostengono una dimensione di naturalità (l'ispirazione artistica) e una dimensione
cosciente, quindi l'istinto animale è fuso con la dimensione cosciente e razionale.L'arte risulta essere lo
strumento più equilibrato per cogliere l'Assoluto perché presenta un'evidente affinità con esso: si colloca
ancor prima della distinzione tra spirito e natura, proprio come l'Assoluto.
Sia l'arte sia l'assoluto sono a monte della separazione tra soggetto e oggetto. E così Schelling, identificando
il primato dell'arte, è costretto dal suo stesso pensiero ad esulare dalla filosofia e a naufragare verso l'arte,
come Fichte verso la religione. La filosofia dell'Identità si trasforma poi, secondo una logica ben definita, in
filosofia della libertà e, in un secondo momento, in Filosofia Positiva. Per staccarsi dalla filosofia dell'Identità
e passare alle due successive, Schelling inizia dall’ osservazione che se il principio assoluto è l'identità
necessariamente indifferenziata, dove non è possibile cogliere distinzione alcuna tra soggetto e oggetto,
allora come si spiega la frantumazione della realtà? Che cosa può aver dato origine alla molteplicità delle
cose che ci circondano?
Schelling indica anche la propria filosofia dello spirito col nome di stampo idealistico trascendentale e
distingue, sulle orme di Fichte, tra un'attività pratica con cui lo spirito concepisce la natura e un'attività
conoscitiva con cui la natura opera sullo spirito. Successivamente alla filosofia dello spirito e della natura in
Scheling si aprì la fase della Filosofia dell'identità. Il passaggio argomentativo che consente a Schelling di
passare da una fase all'altra è il seguente: se la natura è spirito, allora anche dalla natura emerge lo spirito,
aveva detto nel periodo della filosofia dello spirito e della natura. Ora, però, Schelling conferisce pari dignità
allo spirito e alla natura, poiché si richiamano a vicenda, con la conseguenza che né l'uno né l'altro può
essere l'Assoluto.
Schelling si trova perciò di fronte al difficile problema in cui si sono imbattuti tutti i pensatori che hanno
ipotizzato la derivazione dell'intera realtà da un unico principio: come e perché dall'unità assoluta del
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principio si passa allo sgretolamento totale della realtà?
La filosofia di Schelling, da questo momento in poi, è interamente orientata a rispondere a questa domanda:
nei primi anni dell'Ottocento, Schelling ritiene di poter fornire una risposta riprendendo la filosofia panteista di
Giordano Bruno, la quale aveva insistito in modo particolare su come l'uno si potesse articolare nella
molteplicità. Ed è in Bruno che Schelling trova una prima soluzione al problema: si tratta della soluzione della
caduta . Il movimento dall'uno alla molteplicità viene cioè spiegato come una sorta di decadimento dai livelli
più alti della realtà ai più bassi.
In chiave religiosa, Schelling intende la
caduta come una specie di peccato
originale che ha portato l'uno a spaccarsi in
una miriade di frantumi; oltre alla tradizione
religiosa, riprende anche elementi derivati
dalla filosofia di Anassimandro,
continuando sul fatto che vi sia stata una
disarticolazione causata dall'aver
commesso colpe. Da questo momento, il
pensiero schellinghiano si sviluppa su
speculazioni sempre più complesse di
ordine mistico-religioso, con il recupero
delle riflessioni di Böhme, pensatore
seicentesco che mescolava alchimia e
filosofia nel tentativo di giustificare il
passaggio dall'uno al molteplice. Fu
attraverso questi sviluppi che si passò
nella fase della Filosofia della Libertà,
contraddistinta dalla rinuncia al panteismo
e dalla netta accettazione del teismo: alla
natura divina si sostituisce cioè il Diopersona.
Resta però il problema della caduta, intrinsecamente connesso a quello del male. E' un problema a prima
vista insormontabile, poiché, se vi è un unico principio da cui tutto deriva, allora il male deve per forza
scaturire da esso. La soluzione accettata in questo periodo da Schelling, sulle orme di Böhme e dello stesso
Platone, consiste nell'ammettere un dualismo nel principio. Il male che spunta nel mondo, deve per forza
derivare, come ogni altra cosa, dal decadimento del principio e di conseguenza Schelling riconosce due
aspetti distinti in Dio: fondamento ed esistenza. Sullo sfondo di queste riflessioni vi è la convinzione,
tipicamente romantica, che il principio supremo sia dinamico, la cui natura stessa è il divenire, poiché esso è
vitale. L'esistenza di Dio, spiega Schelling, è essa stessa una sorta di prodotto, in quanto Dio esiste venendo fuori
da un fondo oscuro, una sorta di origine presente in Dio ma da cui Dio stesso viene fuori. In questo senso
Dio è un'esistenza, ovvero un venir fuori dal suo stesso fondamento oscuro: la luce emerge dalle tenebre ,
dice metaforicamente Schelling, che in questo modo trova in Dio stesso fondamento del male.
Molte volte Schelling parla del fondamento di Dio come una sorta di egoismo di Dio, alludendo al rimanere
dentro di sé egoisticamente, senza venir fuori. A livello di Dio, però, la distinzione tra fondamento (tenebre)
ed esistenza (luce) non si connota ancora chiaramente come distinzione tra bene e male, poiché sarebbe
ridicolo accettare la presenza del male in Dio.
Pertanto Schelling, accettando il dualismo in Dio e distinguendo tra esistenza e fondamento, non dice che in
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Dio c'è il male, bensì che in Dio c'è il principio del male, del declinare, del frantumarsi della realtà e, in ultima
istanza, della possibilità di scelta tra bene e male: e proprio per questo la filosofia di questo periodo è
designata col nome di Filosofia della Libertà.
3.1.1 La Filosofia Positiva
Si può considerare che nella storia, secondo Schelling, e anche secondo Hegel, si esplicita Dio stesso. Con
la Filosofia Positiva si rimane su un terreno ancora più religioso: Schelling, riflettendo sulla filosofia di Hegel
e sulle altre fiorite in quegli anni le definisce filosofie negative, contrapponendo ad esse la nuova filosofia da
lui stesso elaborata in quegli anni: la Filosofia Positiva.
Si tratta di filosofie negative poiché hanno chiarito l'essenza ma non l'esistenza: hanno cioè spiegato il quid
est (che cosa è) ma non il quod est (il fatto che una cosa esista). Sì, perché una cosa è dire che cos’è il libro,
un'altra cosa è dire che il libro esiste: le filosofie di quegli anni, nella prospettiva schellinghiana, si sono
limitate a spiegare che cosa fosse il libro, dando per scontato che esistesse. E' come se tali filosofie avessero chiarito cosa sono le cose attraverso l'uso della ragione, dando per
scontato che esse esistono. Pur potendo chiarire l'essenza delle cose, nota Schelling, la ragione non potrà
mai motivarne l'esistenza, poiché essa dipende da un atto della volontà creatrice di Dio: le cose esistono
perché Dio ha deciso che devono esistere in base ad un atto libero, il quale, proprio perché è libero, sfugge
ai dettami della ragione. Con la presunzione di chiarire ogni cosa con la sola ragione, le filosofie negative
hanno potuto rendere conto unicamente delle essenze, ossia di ciò che è necessariamente. Ma se l'essenza dell'uomo
consiste inevitabilmente nell'avere
due gambe, due occhi e una testa,
e ciò può essere colto dalla
ragione, la sua esistenza , al
contrario, dipende da un atto
assolutamente libero da parte di
Dio. Un atto libero non sarà mai
razionalmente spiegabile.
L'esistenza delle cose non la si è
mai spiegata tramite la ragione: e
Schelling applica questo
ragionamento principalmente
contro il sistema filosofico di
Hegel, il cui errore più grande
risulta nel non aver saputo
spiegare razionalmente l'essenza
della realtà, ma nell'aver preteso
di dedurre l'esistenza delle cose
dalla loro essenza.
Hegel riteneva che, analizzando l'essenza delle cose potesse derivare l'esistenza del mondo. Ma Schelling
critica decisamente questa posizione, contrapponendola a quella secondo cui dal concetto di essenza
dell'uomo non deriva mai l'esistenza, la quale, al contrario, nasce da un atto libero di creazione da parte di
Dio, atto che, proprio in quanto libero, sfugge alla ragione.
Schelling perciò si propone d’integrare le filosofie negative con l'elaborazione di una filosofia positiva che non
si limiti ad indagare sulle condizioni negative della realtà (l'essenza), ma anche su quelle positive ovvero
sull'esistenza.
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La risoluzione adottata da Schelling prevede che la filosofia positiva parta non dall'impiego della ragione, ma
dall'accettazione del dato di rivelazione: se una persona è libera, del resto, la ragione non può dirmi nulla su
ciò che egli farà o non farà, con l’effetto che l'unica maniera per conoscere ciò che farà o non farà è che ce lo
riveli lui. Questa è la filosofia positiva di Schelling, divisa in Filosofia della Mitologia e Filosofia della
rivelazione.
Pur essendo profondamente cristiano, Schelling non ritiene che il cristianesimo sia la sola religione 'vera'
rivelata da Dio, bensì sostiene che pure le altre sono state rivelazioni divine, quasi come se Dio fosse stato
colto con la capacità mitopoietica, come cioè se si fosse rivelato all'uomo con la mitologia pagana (Filosofia
della mitologia). Ed è però ai Cristiani che si è rivelato direttamente (Filosofia della rivelazione).
Sull'onda di queste speculazioni, Schelling elabora una filosofia della storia triadica, di impostazione
religiosa.
Come Fichte, anche Schelling ha un esito extra-filosofico: egli esce piuttosto in fretta dal tracciato filosofico
per rifugiarsi prima nell'arte e poi nella religione.
Si può notare come Schelling, pur non essendo un esistenzialista, abbia aperto spiragli in quella direzione:
non a caso Kierkegaard, precursore dell'esistenzialismo, resterà colpito dai suoi insegnamenti, anche se
riterrà Schelling troppo oscuro e nebuloso. In effetti, comincia ad affacciarsi
sulla scena filosofica l'idea, tipica
dell'esistenzialismo, dell'irriducibilità
dell'esistenza all'essenza, nella
convinzione che esista una
dimensione della realtà non
riconducibile all'essenza e alla
ragione. Si tratta di una potente
reazione al pensiero hegeliano, al
suo panlogismo (dottrina per la
quale la ragione è la realtà
assoluta), una contestazione
all'idea che tutto sia riportabile alla
ragione. Sia Marx che Nietzsche
percorreranno questa strada, anche
se con esiti molto diversi.
3.2 L’Assoluto e Filosofia dell’identità (o dell’uni-totalità)
Come per ogni romantico, anche per Schelling, è inaccettabile la tesi cartesiana che la materia (res extensa)
e lo spirito (res cogitans) siano nettamente distinti.
Esiste un principio unitario che spiega sia la materia che lo spirito: tutto è concatenato nell’Assoluto.
L’Assoluto è al centro della riflessione schellinghiana. Il termine Assoluto indica “ciò che è sciolto da ogni
legame, libero da ogni condizionamento” e, per Assoluto, Schelling, intende il Principio infinito e creatore
della realtà, Dio stesso.
Questo principio infinito è, per l’autore, un’unità di soggetto (Io) e oggetto (Natura), di ideale e reale, conscio
e inconscio, libertà e necessità.
Un Assoluto puramente soggettivo (come l’Io di Fichte) non riuscirebbe a spiegare compiutamente la Natura,
mentre un Assoluto puramente oggettivo (come in Spinoza), non riuscirebbe a spiegare lo spirito. Allora
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Schelling propone “una terza” via tra Assoluto soggettivo e Assoluto oggettivo: l'Assoluto, dovrà essere
qualcosa che non è né lo spirito né la natura, ma che si colloca al di là di essi, comprendendoli.
Sarà Assoluto, dice Schelling, l’unità di soggetto e oggetto, da lui chiamata “Identità”, o anche semplicemente
“Assoluto”. Schelling scrive: “Non c’è qui un primo e un secondo: sono entrambi contemporanei e formano un
tutto unico, A volere spiegare questa identità debbo già averla soppressa”.
Questa identità non può essere studiata pienamente attraverso il linguaggio e la ragione (il logos), in quanto,
l’uso di questi strumenti, distrugge l’unita di soggetto/oggetto.
Se parlo dell’identità, se cerco di spiegarmela, già la pongo come oggetto da spiegare e, allora, mi trovo
all’interno del dualismo tra soggetto e oggetto di conoscenza, essa non è più identità.
La conseguenza è che l’Assoluto, come assoluta identità, si potrà cogliere soltanto con un atto
extrarazionale che, come vedremo sarà l’arte. Nel frattempo però, la ragione, il linguaggio ci possono mostrare come partendo da uno dei due poli del
dualismo (soggetto/oggetto,spirito/natura…) si giunge all’altro.
La tesi dell’Assoluto come identità conduce il
pensiero di Schelling a svilupparsi in due
direzioni:
• una filosofia diretta a mostrare come la
natura si risolva nello
spirito (che è chiamata filosofia o scienza
della natura);
• una filosofia diretta a mostrare come lo
spirito si risolva nella
natura (che è chiamata filosofia
dell’idealismo trascendentale).
Sostiene Schelling: “Come la scienza della
natura cava l’idealismo dal realismo,
spiritualizzando le leggi naturali in leggi
dell’intelligenza, ossia accoppiando al
materiale il formale; così la filosofia
trascendentale cava il realismo
dall’idealismo, in quanto materializza le leggi
dell’intelligenza in leggi naturali, ossia
aggiunge al formale il materiale”.
Si può arrivare alla natura partendo dallo
spirito, ma si può compiere anche il processo
inverso, arrivando allo spirito partendo dalla
natura.
3.2.1 Filosofia della natura: dalla natura allo spirito
La filosofia della natura è una filosofia opposta ma complementare alla filosofia trascendentale: parte
dall’oggetto, dal reale, dal materiale, per giungere al soggetto, all’ideale, allo spirito, Oggetto, reale,
materiale a Soggetto, ideale, spirito.
Il punto di partenza di Schelling è il sistema di Fichte, reinterpretato con originalità. Come abbiamo visto, per
Fichte il non-io, la natura, è semplice strumento della libertà, momento solo negativo dello sviluppo dell’Io,
sottomesso a leggi puramente meccaniche e matematiche.
Schelling propone invece una concezione dinamica e intimamente spirituale della natura: la natura ha
un’anima, si riveste delle caratteristiche tipiche dello spirito e dell’Io (vitalismo organicistico).
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La natura è un tutto vivente e senziente, un’attività intelligente che opera in modo inconscio: se per Fichte à
l’Io è tutto, per Schelling à tutto è Io, tutta la realtà è spiritualità.
La natura è un organismo che organizza se stesso, come un animale, una pianta. La materia non è infatti
inerte, ma è costituita da forze in rapporto reciproco di azione e reazione: la materia è “spirito in letargo”,
“preistoria della coscienza”, “intelligenza pietrificata”, così come lo spirito è “materia in evoluzione”.
Le forze di attrazione e di repulsione attraverso cui la natura esprime il suo “essere viva” sono:
• il magnetismo,
• l’elettricità,
• il chimismo.
A queste tre forze corrispondono, nel mondo
organico,
• la sensibilità,
• l’irritabilità e
• la riproduzione.
Sotto l’azione delle forze attrattive e
repulsive, l’universo conosce tre momenti (o
potenze) di sviluppo:
• mondo inorganico (la natura è
inconsapevole);
• luce (la natura si fa visibile a se stessa);
• mondo organico (in cui la natura attraverso
la sensibilità comincia ad essere
autoconsapevole).
La natura è in Schelling uno spirito inconscio
in moto verso l’autocoscienza, un percorso
che porta dal minerale all’uomo, cioè natura
autoconsapevole di se stessa.
“Schelling vede in tutta la natura, a partire
dai fenomeni elementari, l’agitarsi del logos,
dell’intelligenza, dell’idea, che poi sboccia
nell’uomo”.
3.2.2 Filosofia della natura: fisica speculativa (o a priori)
E’ chiaro che, con questi presupposti, lo studio della natura, la fisica, non può essere risolto in un semplice
procedimento di calcolo matematico.
Il meccanicismo è una filosofia (un modello esplicativo, un paradigma) che consiste nel ritenere che la natura
è costituita esclusivamente da corpi e da forze: tali corpi e tali forze, agiscono in modo tale che, se qualcuno
potesse conoscere con esattezza il loro stato, in un momento qualsiasi, sarebbe anche in grado di prevedere
con esattezza il futuro.
Tale principio fu espresso molto chiaramente dal matematico, fisico e astronomo francese Laplace (17491827):
«Noi dobbiamo considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto di un dato stato anteriore e come le
causa di ciò che sarà in avvenire.
Una intelligenza che, in un dato istante, conoscesse tutte le forze che animano la natura e la rispettiva
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posizione degli esseri che la costituiscono, e che fosse abbastanza vasta per sottoporre tutti i dati alla sua
analisi, abbraccerebbe in un’unica formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo come quello
dell’atomo più sottile; per una tale intelligenza tutto sarebbe chiaro e certo e così l’avvenire come il passato
le sarebbero presenti».
L’universo, nel suo insieme sarebbe come un biliardo, dove le palle sono i corpi, e i colpi impressi dall’asta,
le forze: conoscendo la posizione dei corpi e le forze che agiscono, si può prevedere la configurazione del
biliardo in ogni attimo del futuro.
Per Schelling il meccanicismo è inammissibile: l’universo è vivo e intelligente.
L’autore scrive: “Il meccanicismo da solo è ben lungi dal comprendere tutto ciò che costituisce la natura.
Infatti, non appena mettiamo piede nel campo della natura organica, cessa per noi ogni concatenazione
meccanica di causa ed effetto.”
Contro una tale filosofia, Schelling sottolinea l’esigenza di una fisica speculativa o a priori, per la quale lo
sviluppo del cosmo è orientato verso un fine, da una forza immanente (anima del mondo).
Tale sviluppo si effettua parallelamente per natura e coscienza: al manifestarsi di forme sempre più
complesse della coscienza corrisponde un potenziamento della natura.
A priori non significa in questo
caso una fisica “costruita a
tavolino” che non tenga conto
degli esperimenti, ma che ogni
singolo fenomeno fisico,
testimoniato dall’esperienza, deve
essere studiato e considerato
come facente parte di una totalità
organica, da cui deriva e entro cui
si colloca.
Per il carattere speculativo e
derivato da convinzioni
metafisiche, la Naturphilosophie di
Schelling è stata considerata dagli
storici come un momento di
incomprensibile smarrimento della
scienza moderna, un “torbido
abbandono alle forze sfrenate
della fantasia che ha prodotto le
più ridicole assurdità”.
Molti fisici hanno accusato
Schelling di aver smarrito il
metodo scientifico galileianonewtoniano, e di esporre, con il
suo sistema, la fisica e le scienze,
al pericolo di una manipolazione
arbitraria.
Tuttavia, pur esistendo questo pericolo, la filosofia della natura schellinghiana ha dei grossi meriti.
Ha stimolato ad esempio molti scienziati a interessarsi a fenomeni quali il sogno, l’ipnotismo, l’elettricità e il
magnetismo, tutti osservati un po’ con occhio di sospetto da parte della “fisica meccanicistica” del tempo.
Lo stesso modello esplicativo meccanicistico, entrato definitivamente in crisi del ‘900, sarà superato anche
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grazie alla filosofia della natura di Schelling.
3.2.3 Idealismo trascendentale: dallo spirito alla natura
L’idealismo trascendentale è una filosofia opposta ma complementare alla filosofia della natura: parte dal
soggetto, dall’ideale, dallo spirito, per giungere all’oggetto, al reale, al materiale.
Soggetto, ideale, spirito à Oggetto, reale, materiale Seguiamo il nostro autore nei suoi ragionamenti.
Schelling ritiene che l’Io presenta una struttura interna di tipo dialettico fichtiano, e si è sviluppato
attraversando varie epoche.
Anche per l’autore, come per Fichte, l’autocoscienza rappresenta il punto di partenza di tutto il sistema del
sapere, il principio primo ed Assoluto da cui muove la filosofia trascendentale nelle sue deduzioni.
In modo inconsapevole (produzione inconscia) l’Io pone gli oggetti (attività reale), ma anche i presupposti
per il loro superamento (attività ideale).
Attività reale (produzione limite) e attività ideale (superamento del limite) sono concomitanti: si implicano a
vicenda.
L’Io, attraversando diverse epoche, si sviluppa verso una progressiva presa di coscienza di sé.
La filosofia trascendentale è proprio la storia dell’Autocoscienza che ripercorre tutte le tappe del processo
anteriore alla coscienza:
• La prima fase, quella della sensazione, è il momento in cui la coscienza considera il proprio oggetto fuori di
sé, proveniente dall’esterno (empirismo ingenuo): l’Io trova davanti a sé “qualcosa” che lo limita e la
percezione di sé consiste solamente in questo suo “sentire” di essere sottoposto a una azione esterna, di
“patire” una limitazione;
• La seconda è quella dell’intuizione produttiva, l’Io inizia la propria autocostruzione, percependosi come
“polarità” rispetto all’”oggetto”, come senziente che sente, appunto, il proprio “patire il limite” e si prepara, in
quanto attività, a superarlo (kantismo).
• La terza è quella della riflessione: l’Io riflette su se medesimo cogliendosi come “altro” rispetto agli oggetti,
pervenendo così ad una conoscenza differenziata di sé (Fichte).
E’ solo con la riflessione che l’Io giunge alla
conoscenza che gli oggetti sono suoi
prodotti. Mentre il produrre resta un fatto
inconscio, la riflessione rende l’Io
consapevole dell’intero processo che l’ha
visto attore inconsapevole della produzione.
Il fatto che la produzione di oggetti sia
inconsapevole spiega il perché alla
coscienza comune gli oggetti appaiono
provenire da una dimensione estranea all’Io,
dalla dimensione della cosa in sé, che a
questo punto però appare, alla coscienza
filosofica, mero fatto accidentale del
processo costitutivo-conoscitivo dell’Io;
dunque come qualcosa di inesistente, priva
di valore ontologico, priva di essere.
Nello stadio finale, nel momento in cui l’Io si
pone come coscienza e volontà, si forma una
filosofia pratica, costituita dalla morale
(espressione concreta della libertà di azione
individuale) e dal diritto (espressione
concreta della necessità dettata dalla
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presenza degli altri).
Con la filosofia pratica l’uomo agisce nel mondo. Morale e diritto trovano la loro sintesi nella storia, che è
rivelazione dello sviluppo dell’Assoluto.
La storia è dunque conciliazione di morale e diritto, di libertà individuale e obblighi derivanti dall’altrui
volontà. L’Assoluto attraverso la libera azione degli individui (i cui risultati finali sono però dipendenti dal disegno di
Dio-Assoluto), evolve verso il suo fine: la progressiva rivelazione dell’identità di tutte le opposizioni.
La storia concluderà il proprio cammino quando la rivelazione sarà completamente avvenuta. Allora inizierà il
periodo della Provvidenza, in cui si realizzerà una federazione planetaria degli stati in una costituzione
giuridica universale che garantiranno la pace perpetua che, come per Kant, anche per Schelling,
rappresentano dal punto di vista politico, il fine della storia.
3.2.4 L’idealismo estetico: l’importanza dell’arte
Come abbiamo già visto, il linguaggio e la ragione (logos), possono solo mostrare come dall’oggetto si
perviene al soggetto (filosofia della natura) e viceversa (filosofia trascendentale).
In realtà, né la filosofia della natura, né la filosofia trascendentale, riescono a cogliere pienamente l’assoluta
identità tra la natura e lo spirito.
Schelling deve allora fare un passo in avanti, deve cercare di cogliere l’identità in se stessa, deve cercare un
mezzo, che gli permetta di cogliere oggettivo e soggettivo insieme: lo trova nell’arte.
Schelling scrive: “L’arte è l’unico vero ed eterno organo e documento insieme della filosofia, che sempre e con novità
incessante attesta quel che la filosofia non può rappresentare esternamente, cioè l’inconscio nell’operare e
nel produrre e la sua originaria identità col cosciente.
”L’artista, attraverso l’ispirazione inconscia, esprime concetti che non comprende compiutamente.
Questi concetti vengono poi,
attraverso uno sforzo cosciente,
tradotti in forme, poesie, sinfonie,
disegni, coreografie…
L’opera d’arte è il frutto, da una
parte di una ispirazione
inconsapevole, non controllata
dall’artista, quindi non cosciente,
inconscia, e dall’altra di uno sforzo
cosciente per comunicare.
Nell’opera d’arte si realizza
compiutamente l’identità
idea/materia, l’incontro fra
inconscio e conscio.
Il fatto che il soggetto che
contempla l’opera d’arte non
sappia distinguere se l’infinito sia
in esso o in se stesso, manifesta
concretamente l’identità. 3.2.5 L’ultimo Schelling
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L’ultimo Schelling, il pensatore che occupa la cattedra di Hegel a Berlino, su chiamata di Federico Guglielmo
IV nel 1841, è un filosofo che ha forti ripensamenti.
L’autore sembra aver esaurito l’impeto romantico, l’anelito verso l’Assoluto, verso la totalità…l’infinito.
Egli sviluppa una filosofia caratterizzata, da una parte, da note di forte misticismo, dall’altra, da forme di
irrazionalismo positivistico.
Il fondo della realtà diventa ora, per il vecchio pensatore, “inafferrabile”, non più comprensibile, neppure con
l’arte.
La distanza fra il soggetto e l’oggetto, tra il pensiero e la natura, aumenta in modo da sembrare incolmabile.
A questo punto si aprono due strade:
• l’oggetto, totalmente altro dal soggetto, può essere raggiunto
solo attraverso l’estasi mistica (irrazionalismo mistico);
• l’oggetto, totalmente altro dal soggetto, è quello che ci sta
davanti, nella sua bruta concretezza, nella sua realtà
(irrazionalismo positivistico);
Si apre così la strada al pensiero di autori come Schopenhauer e Kierkegaard, o al positivismo ottocentesco.
3.3 L’evoluzione del pensiero schellinghiano: una seconda suddivisione
L’evoluzione del pensiero di Schelling è decisamente complesso. In tanti hanno cercato di determinare le
varie tappe di tale parabola, con esiti diversi.
Diversamente da quanto mostrato in precedenza, viene qui fornita un’ulteriore divisione del momento
filosofico schellinghiano ,distinto questa volta in sei periodi:
1) gli esordi fichtiani (1795-1796);
2) il momento della filosofia della natura
(1797/1799);
3) la fase dell'idealismo trascendentale (1800);
4) il momento della filosofia dell'identità
(1801/1804);
5) la fase teosofica e della filosofia della libertà
(1804/1811);
6) l’ultimo periodo: a filosofia positiva e della
filosofia della religione (dal 1815 in poi).
E’ il caso di rilevare che in questa suddivisione
è presente una fase in più rispetto allo schema
precedente, che riguarda appunto il momento
dell’idealismo trascendentale Inoltre viene qui
di seguito proposto uno schema relativo ai
lavoro prodotti da Schelling. Se si prescinde dai primi due lavori legati
all’interpretazione biblica e all'interpretazione
degli antichi miti del 1792 e 1793, le varie
opere si possono ordinare seguendo le varie
fasi sopra elencate. Ecco le più significative:
1) Sulla possibilità di una forma della filosofia in generale (1794), Sull'Io come principio della filosofia
(1795), Lettere filosofiche sul dogmatismo e sul criticismo (1795).
2) Idee per una filosofia della natura (1797), Sull'anima del mondo (1798), Primo abbozzo di un
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sistema della filosofia della natura (1799).
3) Sistema dell'idealismo trascendentale (1800).
4) Esposizione del mio sistema (1801), Bruno o il principio naturale e divino delle cose (1802),
Filosofia dell'arte (1802- 1803), Lezioni sul metodo dello studio accademico (1803).
5) Filosofia e religione (1804), Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà (1809), Lezioni di
Stoccarda (1810).
6) Introduzione alla filosofia della mitologia, Filosofia della mitologia, Filosofia della Rivelazione, che
sono sostanzialmente i corsi tenuti a Berlino e pubblicati postumi.
3.3.1 Gli inizi fichtiani del pensiero schellinghiano
La prima fase del pensiero schellinghiano è stimolata dai dibattiti sulle antinomie inerenti alla kantiana "cosa
in sé", che peraltro, egli ritiene sostanzialmente risolti e superati dalla filosofia di Fichte.
Si comprende, pertanto, come la primissima produzione del nostro filosofo, prodotta fra i diciannove e i
ventun’anni costituisca sostanzialmente un tentativo di impossessarsi dell'Idealismo fichtiano e di ripensarne
i motivi di fondo.
Secondo Schelling la dottrina di Fichte è la "vera" dottrina kantiana, cioè elaborata in modo coerente e
consapevole. Infatti, le conclusioni del filosofo di Rammenau segnano una tappa decisiva nello sviluppo
dell’idealismo: bisogna cercare nella sfera del Soggetto ciò che prima si era cercato nella sfera del mondo
esterno e dell'oggetto.
Tuttavia, per quanto Schelling, in questa prima fase sia ancora intriso delle teorie di Fichte già s’intravedono
in lui nuove esigenze, che permettono di presentire in quale direzione si muoverà.
In primo luogo, è evidente il taglio fortemente metafisico con cui Schelling si avvicina alla lettura della
Dottrina della scienza.
Di conseguenza, l'Io puro viene esposto
come l'Assoluto, la cui unità non è quella
numerica degli individui, bensì quella
propria dell'"Uno-Tutto" immutabile.
L'Io non è coscienza, né pensiero né
persona, perché coscienza e persona
sono momenti successivi e "dedotti".
Similmente, Schelling dà grande
importanza all'"intuizione intellettuale"
così come alla "libertà", infatti delinea
con maggiore chiarezza la "deduzione
del mondo" a partire dall'Io.
Bisogna comunque rimarcare come la
presenza di Spinoza accentui ancora di
più la visione metafisica nel pensiero di
Schelling.
Spinoza ha assolutizzato l'oggetto (il non-io) e ha cercato di garantire la pace dello spirito al prezzo
dell'abbandono del soggetto (empirico) all'oggetto assoluto.
Fichte, per contro, pone non l'Oggetto assoluto ma il Soggetto assoluto e riporta il soggetto empirico al
Soggetto assoluto mediante l'intuizione intellettuale che rivela appunto la concomitanza dell'io empirico con
l'Io assoluto.
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In questi elaborati giovanili sono visibili le nuove necessità che contraddistingueranno i successivi interessi di
Schelling. In particolare, Schelling cercherà:
a) di dare maggiore soddisfazione alle istanze fatte valere dall'oggettivismo spinoziano e riequilibrare il
soggettivismo assoluto fichtiano, che rischia di cadere nell'unilateralità opposta a quella spinoziana;
b) di colmare la vistosa lacuna del sistema fichtiano, che aveva ridotto al puro non-io tutta la natura,
facendole perdere qualunque identità specifica per poi annullarla.
A partire dal 1797, Schelling si accinse dunque a rivalutare la natura e a colmare le lacune del sistema di
Fichte. Così facendo mise in crisi la Dottrina della Scienza e spianava la strada ad una differente formulazione
dell'Idealismo.
3.3.1.1 Ripresa e sviluppo della filosofia fichtiana
Il primo periodo della speculazione di Schelling è caratterizzato dalla ripresa e dallo sviluppo della Filosofia di
Fichte. Di questo ultimo egli condivide pienamente l’impianto idealistico: il riferimento kantiano alla «cosa in
sé» viene sostituito con la ricerca di un principio assoluto da cui derivino sia la forma sia il contenuto della
conoscenza. Già da questa prima fase fichtiana, Schelling manifesta tuttavia due esigenze che condurranno
a un'aperta critica del suo maestro.
a) In primo luogo, emerge l'istanza di ricercare
il fondamento primo della conoscenza, non
fichtianamente - nell'Io puro, ma in un principio
originario che comprenda in sé sia il momento
soggettivo della conoscenza (cioè l'Io
trascendentale ) sia la sua componente
oggettiva (il Non- io fìchtiano);
b) In secondo luogo, la derivazione fichtiana del
Non-io dall'Io, appare insoddisfacente a
Schelling poiché essa risolve la natura (il
mondo oggettivo) in un momento interno al
soggetto, in un semplice limite che l'Io pone alla
propria attività, Schelling invece intende
affermare che - pur essendo strettamente
connessa con lo sviluppo del soggetto – la
natura non ha una realtà propria, irriducibile a
una semplice posizione dell’Io.
Negli scritti di filosofia della natura Schelling si
proponeva di ritrovare il soggetto nell'oggetto, lo
spirito nella natura. Nel Sistema dell'idealismo trascendentale
(1800) egli compie invece l'operazione opposta.
Consistente nel cercare l'oggetto nel soggetto,
la natura nello spirito.
Il primo livello della vita dello spirito: l'io. Il primo livello della vita spirituale - descritto nel Sistema
dell'idealismo trascendentale - è quello dell' autocoscienza o dell'Io. A differenza di Fichte,
l'autocoscienza non è qui intesa come soggettività pura, alla quale si contrappone un Non-io che
esiste soltanto come posizione e momento interno dell' Io assoluto.
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Per Schelling, l'autocoscienza è sintesi di due attività dialetticamente opposte:
1) Da un lato, essa contiene un'attività limitata che produce l'oggetto, ponendolo Fichtianamente
come limite, come qualcosa di opposto al soggetto. Infatti. tale attività opera inconsciamente, in
modo che l'oggetto appaia al soggetto come qualcosa di “dato” esternamente.
2) D'altro lato, nell'autocoscienza è contenuta anche un'attività illimitata e limitante, la quale
consapevolmente va oltre il limite dell'oggetto, riconoscendo in quest'ultimo un prodotto
inconsapevole dell'Io. Queste due attività fondamentali sono anche dette da Schelling
rispettivamente attività reale, in quanto produce la realtà dell'oggetto, e attività ideale, poiché
oltrepassa il limite rappresentato dall'oggetto ricomprendendolo in sé come produzione dell'Io.
L'attività ideale e quella reale, tuttavia, non sono separate. bensì costituiscono i due aspetti diversi di
un' unica attività dell'autocoscienza, che è sintesi assoluta di entrambe. Tale sintesi non è statica,ma dinamica: continuamente l'attività reale produce l'oggetto e
continuamente l'attività ideale lo oltrepassa riconducendolo a sé. In questa sintesi delle due attività
consiste l’intuizione intellettuale che l’Io ha di se stesso come attività ideale e reale a un tempo.
L'Io è, quindi, unità indissolubile di soggetto e oggetto, di spirito e di natura, di attività consapevole
e di attività inconscia.
In questo modo l’idealismo trascendentale Fichtiano viene piegato alla dimostrazione della tesi
(sostanzialmente anti-fichtiana ) che nell'autocoscienza l'oggetto entra allo stesso titolo del soggetto
e che, quindi, il vero idealismo non può che essere contemporaneamente autentico realismo.
La sintesi assoluta è ulteriormente illustrata da Schelling attraverso la descrizione dei tre gradi, detti
Epoche, dell'evoluzione dell'Io.
1) La prima epoca riguarda il passaggio dalla sensazione all'intuizione produttiva. Nella sensazione
sembra che il soggetto trovi di fronte a sé un oggetto esterno , rispetto al quale esso appare completamente
passivo. Nell'intuizione produttiva , viceversa, l'Io determina l'oggetto come un proprio prodotto. La
sensazione appare dunque costituita da un momento passivo e da un momento attivo
2) La seconda epoca va dall'intuizione alla riflessione, mediante la quale l'intelligenza diventa consapevole
della corrispondenza tra la propria costituzione e quella del proprio prodotto.
In questa fase, l'Io si riconosce quindi come organismo umano, come vertice estremo dell'organizzazione
naturale.
3) La terza epoca va dalla riflessione alla volontà. Per mezzo di un atto di, l'intelligenza giunge alla
consapevolezza che la propria attività è pura forma, distinta da ogni materia. Quando si libera da ogni
oggetto materiale l’intelligenza si riconosce come pura volontà di autodeterminazione.
Il secondo livello della vita dello spirito: la volontà. Con la volontà si passa dal primo livello della vita dello
spirito - l'attività teoretica - al secondo grado, rappresentato dalla filosofia pratica. Come abbiamo visto la
volontà risulta dall'astrazione del soggetto da qualsiasi condizione materiale. In tal senso, essa è
espressione di libertà . Ma il singolo soggetto libero trova di fronte a sé altre volontà individuali altrettanto libere.
Si pone quindi il problema dell'armonizzazione
di queste volontà in un sistema che garantisca
tuttavia la compatibilità tra le diverse libertà.
Questo sistema è il diritto. Ma il diritto non può
nascere dalla semplice libertà, poiché esso
comporta la limitazione forzosa della libertà
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dell'uno per garantire quella di tutti gli altri. Il
diritto implica,quindi, un'unione di libertà e
necessità.
Il terzo livello della vita dello spirito: l'arte.
Se l'unione di libertà e necessità trova nella
storia la propria concreta realizzazione. essa
può tuttavia essere colta soltanto dalla terza e
più elevata attività dello spirito, che è l'arte.
L'arte è il solo strumento che consenta
all'uomo di penetrare l'Assoluto: soltanto
attraverso l'intuizione artistica, infatti, l'uomo
può cogliere l'unità di spirito e natura,
soggetto e oggetto, conscio e inconscio. L'arte
che si esprime nel genio rappresenta la vera
conoscenza e la vera filosofia. Aderendo
pienamente ai canoni romantici, Schelling
identifica completamente il filosofo con
l'artista.
3.3.2 La Filosofia della Natura
3.3.2.1 L'unità di spirito e di natura
Che cos'è la natura se non puro non-io? Schelling sostenne che il problema è risolvibile supponendo
l'esistenza di una unità fra ideale e reale, fra spirito e natura: "Il sistema della natura è insieme il sistema del
nostro spirito". Ciò comporta che si deve applicare alla natura la medesima spiegazione che Fichte aveva
applicato con successo alla vita dello spirito. Per Schelling, dunque, gli stessi principi che spiegano lo spirito
possono spiegare anche la natura.
Possiamo così desumere che ciò che spiega la natura è quella stessa intelligenza che spiega l'Io. Bisogna
applicare alla natura quella "attività pura" scoperta da Fichte come "essenza" dell'Io.
Schelling giunse pertanto alla conclusione che la Natura è prodotta da una intelligenza irrazionale, che opera
all'interno di essa, e che si sviluppa gradualmente, ossia a successivi livelli che mostrano una intrinseca e
strutturale finalizzazione.
Il grande principio della Filosofia della Natura schellinghiana è il seguente: "La Natura deve essere lo Spirito
visibile, lo Spirito Natura invisibile. Qui, dunque, nell'assoluta unità dello Spirito in noi e della Natura fuori di
noi, si deve risolvere il problema come sia possibile una Natura fuori di noi".
La Natura altro non è se non "una intelligenza irrigidita in un essere", "sensazioni spente in un non essere",
"arte formatrice di idee che trasforma in corpi".
3.3.2.2 La Natura: forze
dinamiche e intelligenza
inconscia
Assodato il fatto che Spirito e
Natura derivano dai medesimi
principi, allora, anche nella
Natura bisogna rintracciare
quella stesse forze dinamiche
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che le permettono di espandersi
e di un limite che le si
contrappone, che troviamo nell' Io fichtiano.
L'opposizione del limite non
arresta se non
momentaneamente la forza
espansiva, la quale riprende il
suo corso, per poi arrestarsi ad
un ulteriore limite, e così di
seguito.
Perciò, ad ogni fase costituita da
tale incontro della forza
espansiva e di quella limitante
corrisponde la produzione di un
grado e di un livello della Natura,
che si presenta come più ricco e
quindi più elevato.
Il primo incontro fra forza positiva espansiva e forza negativa e limitativa dà luogo alla "materia", che dunque,
è un prodotto dinamico di forze contrapposte.
La ripresa dell'espansione della forza infinita positiva e l'ulteriore incontro con la forza negativa e limitante dà
luogo a quello che appare come "meccanicismo universale" e come generale "processo dinamico".
Possiamo così vedere come Schelling, ha ben usufruito delle scoperte della scienza del suo tempo nel
mostrare il mobile manifestarsi delle forze e della loro polarità e opposizione.
L'identico schema di ragionamento vale per spiegare il più alto livello della Natura, che è il livello "organico".
Schelling richiama, a questo proposito, i principi della "sensibilità", della "irritabilità" e della "riproduzione", in
grande auge fra gli scienziati del suo tempo, che egli fa corrispondere, in maniera analogica, rispettivamente
al magnetismo, alla elettricità e al chimismo, ad un livello più elevato, ma secondo la stessa dinamica.
In conclusione: la Natura è costituita da quell’unità di forze che Schelling definì intelligenza inconscia, che si
dispiega nel modo sopra precisato, e che si manifesta in piani e in gradi sempre più alti, fino a giungere
all'uomo, nel quale si accende la coscienza, e l'intelligenza raggiunge la consapevolezza.
3.3.2.3 L'anima del mondo e la natura dell'uomo
Emergono, così, chiaramente alcune asserzioni di Schelling, diventate celeberrime:
- "Il medesimo principio unisce la natura inorganica e l'organica";
- le singole cose della natura costituiscono come gli anelli "di una catena di vita, la quale torna su se stessa,
e in cui ogni momento è necessario al tutto";
- ciò che appare non vivo nella natura è solo "vita che dorme";
- la vita è "il respiro dell'universo";
-"la materia è spirito irrigidito".
In questo modo Schelling ha potuto riproporre l'antico concetto di "anima del mondo", come "ipotesi per
spiegare l'organismo universale".
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Questa antichissima figura teoretica,
divenuta molto famosa da Platone in poi,
secondo Schelling non è altro se non
l'intelligenza inconscia che produce e regge
la Natura e che solo con la nascita dell'uomo
si apre alla coscienza. Infine l'uomo, che,
considerato nell'infinitudine del cosmo
(riprendendo le teorie di Giordano Bruno), si
presenta fisicamente come una piccolissima
cosa, risulta invece essere il fine ultimo della
Natura, perché in lui si ridesta appunto quello
Spirito, che in tutti gli altri gradi della Natura
rimane come assopito.
3.3.3 Idealismo trascendentale e idealismo
estetico
3.3.3.1 Partire dal soggettivo per giungere
all'oggettivo
La Natura dunque rappresenta la storia
dell'intelligenza inconscia, che attraverso
gradi successivi di oggettivazione giunge alla
coscienza.
Schelling sentì il bisogno di recuperare
l'esame della filosofia della coscienza e
ripensarne le strutture tenendo presenti le
nuove acquisizioni, e cioè di ripensando a
fondo la Dottrina della Scienza fichtiana.
In effetti, dopo aver esaminato come la natura arrivi all'intelligenza, necessitava rivedere come l'intelligenza
arrivi alla natura. E nel far questo, con alle spalle tutto quanto in materia di Filosofia dello Spirito era già stato
detto da Kant a Fichte, Schelling elaborò e scrisse II sistema dell'idealismo trascendentale.
Ecco come il nostro filosofo indica il programma della filosofia trascendentale:
"Porre come primo l'obbiettivo e ricavare da esso il subbiettivo, è, come abbiamo già accennato, il compito
della filosofia della natura. Ora, se una filosofia trascendentale esiste, non le rimane altro che seguire il
cammino opposto: partire dal subbiettivo come dal primo e assoluto, e farne derivare l'obbiettivo. In tal modo
la filosofia della natura e quella dello spirito si sono distinte secondo le due possibili direzioni della filosofia; e
se ogni filosofia deve riuscire, o a far della natura un'intelligenza, o dell'intelligenza una natura, ne segue che
la filosofia trascendentale a cui spetta quest'ultimo ufficio, sia l'altra necessaria scienza fondamentale della
filosofia".
3.3.3.2 L'attività reale e l'attività ideale dell' Io
Nella realizzazione dell' Idealismo trascendentale, come nella Filosofia della Natura, Schelling fa una
disamina sulla polarità di forze, seguendo il principio proprio di Fichte, opportunamente riadattato. Lo
schema del ragionamento seguito da Schelling è il seguente.
L'Io è l’attività originaria che si sviluppa all'Infinito; un’attività produttiva che diviene oggetto a se medesima e
quindi è intuizione intellettuale auto-creatrice. Copyright ABCtribe.com
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Ma la produzione pura infinita che è propria dell'Io, per essere non solo produttrice, ma per divenire anche
prodotto "deve porre limiti al proprio produrre" e quindi "opporre a sé qualche cosa".
Ma l'attività dell'Io, in quanto è attività infinita, pone il limite e poi anche lo supera, fino a un livello sempre
ulteriore, come Fichte aveva già detto.
Schelling chiama l'attività che produce all'infinito "attività reale", in quanto produttrice, mentre chiama "attività
ideale" quella che prende coscienza scontrandosi con il limite.
Le due attività si
presuppongono a vicenda e
"da questo mutuo presupporsi
delle due attività [...] dovrà
essere derivato l'intero
meccanismo dell'Io".Ma in
questo modo gli orizzonti della
Dottrina della Scienza di
Fichte si dilatano e l'Idealismo
soggettivo diventa,
propriamente, un Idealrealismo, come Schelling dice
in questo passo: "La filosofia
teoretica è idealismo, la
pratica realismo, e solo
entrambe formano il sistema
compiuto dell'idealismo
trascendentale. Come
l'idealismo e il realismo si
presuppongono a vicenda,
così la filosofia teoretica e la
pratica; e nell'Io stesso è
originariamente uno e legato
ciò che noi dobbiamo
separare in servigio del
sistema, che procediamo a
costruire".
Si sarà notato che, in questo modo, Schelling conclude col mettere la Filosofia Trascendentale come un
terzo momento oltre la filosofia teoretica e la filosofia pratica come la loro sintesi. E in modo molto chiaro fa
appello a una attività unitaria che sta alla base dei due momenti del sistema.
3.3.3.3. L'Estetica di Schelling
Nella filosofia teoretica gli oggetti si presentano come "invariabilmente determinati" e le nostre
rappresentazioni ci sembrano determinate da essi e il mondo ci sembra essere un qualcosa irrigidito fuori di
noi.
Nella filosofia pratica, invece, le cose ci appaiono come variabili e modificabili dalle nostre rappresentazioni,
in quanto ci sembra che i fini che noi ci riproponiamo le possano modificare.
A questo punto sembra insistere una contraddizione almeno apparente, dato che nel primo caso si esige un
predominio del mondo sensibile sul pensiero, nel secondo caso, invece, si esige un predominio del pensiero
sul mondo sensibile.
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Parrebbe, in definitiva, che, per avere la certezza gnoseologica, si viene a perder quella pratica, e, per avere
la certezza pratica, veniamo a perdere quella teoretica.
Ecco allora che si pone un problema: "in qual modo possono ad un tempo le rappresentazioni essere
pensate come determinate dagli oggetti, e gli oggetti come determinati dalle rappresentazioni?".
La risposta al problema è la seguente: si tratta, dice Schelling, di qualcosa di più profondo della "armonia
prestabilita" di cui parlava Leibniz, in quanto si tratta di una identità insita nel principio stesso: si tratta di una
attività che è, ad un tempo, conscia e inconscia, e che, come tale, è presente sia nello Spirito sia nella
Natura e che genera tutte le cose.
Questa attività conscia-inconscia è l'attività estetica. Sia i prodotti dello Spirito sia quelli della Natura sono
generati da questa stessa attività: "la combinazione dell'uno e dell'altro senza coscienza, dà il mondo reale;
con la coscienza dà il mondo estetico e spirituale. Il mondo oggettivo non è se non la poesia
primitiva e ancora inconscia dello spirito;
l'organo universale della filosofia, e la chiave di
volta del suo intero edificio, è la Filosofia
dell'Arte".
A Schelling è dunque attribuita la più ampia e
organica teoria estetica formulata nella
stagione romantica: i suoi duplici interessi
artistico-filosofici lo spingono ad indagare sulle
profonde relazioni che intercorrono tra filosofia
e arte, inducendolo a definire quest'ultima
"organo generale della filosofia", funzione che
ha attinenza non solo col "bello" ma anche col
"vero".
La sua riflessione pone le radici in un'attenta
analisi della tragedia greca, o meglio dell'Edipo
re, opera da lui ritenuta esemplare del genere
tragico: in essa attinge l'ispirazione per le sue
più generali considerazioni estetiche.
Nelle Lettere sul dogmatismo e il criticismo del
1795, dove la sua teoria appare ancora in
forma embrionale, l'interpretazione della
vicenda di Edipo è volta a mettere in luce il
notevole spessore filosofico della tragedia
greca, le sue chiare valenze metafisiche.
L'arte tragica, infatti, nel rappresentare un'antinomia insolubile tra la volontà del singolo, che pretende di
guidare l'agire individuale in autonomia, e il destino, che lo dirige segretamente secondo una causalità
predeterminata, riproduce in forma artistica il dualismo metafisico tra libertà e necessità. Rivela tutta la sua
densità filosofica nella riflessione problematica sul loro rapporto che essa esige.
Schelling presenta la situazione tragica come una realtà conflittuale, dove l'arbitrio del protagonista e i casi
della sorte paiono opposti in una lotta lacerante, e qualsiasi soluzione conciliante del loro dissidio sembra
impossibile.
La tragedia greca rendeva onore alla libertà umana facendo lottare il suo eroe contro lo strapotere del
destino: per non andare al di là di tutti i confini dell'arte doveva farlo soccombere, ma per riparare
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nuovamente a questa umiliazione della libertà umana, imposta dall' arte, doveva farlo espiare anche per il
delitto commesso dal destino.
E' un grande pensiero, quello di essere disposti ad affrontare anche la punizione per un delitto inevitabile per
dimostrare così, attraverso la perdita della propria libertà, questa libertà, e proclamare, nell'atto stesso di
perire, il proprio libero volere.
E' dunque l'eroe a restare vinto. Egli soggiace al peso della sua impotenza ed è incapace di opporsi
all'impeto delle forze che lo trascendono; ma proprio quando egli accetta di soffrire per ciò che in realtà non
ha commesso, assumendosene la responsabilità, si appropria della paternità dell'azione da lui compiuta,
riscatta la sua libertà limitando al contempo il ruolo del destino.
L'Edipo re è dunque la tragedia che meglio si presta ad incarnare una simile concezione del tragico e a
svelare artisticamente tale dinamica mettendone a nudo i caratteri principali.
Come è stato osservato "nel dramma risultano fuse due tensioni" che, oltre a strutturarlo intimamente nella
sua forma letteraria, conferiscono all'intera vicenda uno spiccato senso di conflittualità e un profondo
significato: la prima "trae impulso dall'indagine strenua di Edipo sui misteri che lo circondano", una seconda
"definisce al contempo la figura stessa di Edipo come mistero da decifrare".
Dalla prospettiva filosofica esse sono
interpretabili l'una come l'azione pratica
dell'uomo in quanto soggetto del proprio volere,
impegnato nella scoperta e nella modificazione
della realtà circostante; l'altra come riflessione
problematica sulla condizione dell'uomo, il quale
percepisce nella propria vicenda storica la
presenza determinante di un elemento
trascendente che governa in modo surrettizio lo
svolgersi della sua vita, e s'interroga riguardo la
reale efficacia della propria volontà Proprio queste due tensioni riproducono e
rendono più cruento nella tragedia il conflitto tra
arbitrio e destino, il dualismo tra libertà e
necessità: esse s'intensificano
contemporaneamente, più Edipo s'impegna nella
ricerca più il senso dell'intera vicenda gli appare
oscuro e ambiguo.
Il responso dell'oracolo di Delfi e la successiva
consultazione di Tiresia, volute entrambe dal re
di Tebe, non chiariscono la situazione ma anzi la
rendono più misteriosa: nonostante ciò Edipo
continua l'indagine spinto dall'impulso istintivo di
conoscere.
Il colloquio in origine distensivo tra il re e Giocasta diviene, per tragica ironia, sorgente di nuovi ombre e
dubbi: e se l' uomo ucciso al trivio fosse stato Laio? Non sarebbe dunque vera l'accusa di Tiresia?
Tuttavia la volontà di sapere, di dominare razionalmente la situazione è più forte dell'atroce sospetto; Edipo è
determinato a continuare la sua ricerca, anche se mostra di essere ormai disorientato: il racconto del messo
di Corinto riguardo le sue origini provoca il suicidio di Giocasta, ma egli fraintende nuovamente la situazione
e addita il motivo di tale gesto alle sue origini di trovatello.
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La sua brama orgogliosa di conoscere, stimolata dal senso di mistero che avvolge la vicenda, non ha però
tregua ed egli procede con impavida fermezza nella sua indagine: la testimonianza dell'unico superstite della
scorta di Laio è sconcertante, Edipo conosce la verità.
"Un mortale, destinato dal fato a compiere un delitto, che lotta contro il fato, e che tuttavia è terribilmente
punito per il delitto che è stato opera del destino" è il commento di Schelling: ma l'eroe tragico è proprio colui
che, pur nell' ambiguità che circonda il suo agire, ne rivendica la paternità e si erge contro le forze che
inficiano il suo libero arbitrio: così l'estrema decisione di accecarsi, di punirsi, rappresenta il supremo
tentativo di difendere l'esclusività della propria azione, di porsi come unico artefice di essa, accettando anche
le conseguenze che ne derivano.
La sua condizione di colpevole risulta così estremamente problematica, il confine tra innocenza e
responsabilità oggettiva si rivela molto labile: il tragico si manifesta proprio in questa ambiguità, nella quale si
lascia però intravedere una fondamentale intuizione metafisica che prelude alla risoluzione del conflitto.
Grazie al titanico comportamento di Edipo s'instaura infatti una placida concordanza tra agire dell'uomo e
disegno divino: si realizza una perfetta simbiosi tra volere umano e volere degli dei: ciò che emerge come
senso più profondo della vicenda è il mostrarsi nella loro perfetta freddezza che rende finalmente possibile
una comprensione metafisica unitaria del fenomeno tragico.
Né la libertà umana né quella divina escono sconfitte; entrambe conservano la loro integrità proprio perché
possono convivere in modo non conflittuale. Ma la libertà, in vero, è una, unica, ed appartiene nello stesso
tempo all'uomo e alla divinità.
In termini filosofici tale libertà è il principio primo dell'autonomia e della spontaneità dell'essere assoluto, che
struttura tanto l'essenza dell'io quanto quella della natura, alla quale, secondo Schelling, è assimilabile il
divino inteso come legge immanente dello svolgimento della realtà, in quanto è plausibile una duplice
interpretazione, soggettiva ed oggettiva, dello stesso principio primo.
La dimensione conflittuale della
tragedia è il momento in cui il
reale appare massimamente
dualizzato, dominato da due
tensioni opposte. Ma tale
situazione concerne solo un
aspetto della realtà, non
l'essenza la cui natura è unitaria.
Il conflitto è superabile se si
pensa che le due forze che lo
animano coincidono
nell'assoluto. Se in esso la
libertà si nega nella sua forma
duplice, nello stesso tempo si
afferma come principio primo
dell'essere; scopre la sua
sostanziale unità e le sue
molteplici dimensioni. Questo è il senso più profondo
del tragico, che è caratterizzato
da questa doppia valenza
negativa e positiva; esso è un
meccanismo conflittuale nel
quale la libertà si afferma e non
si nega; "tale processo può con
Hegel definirsi dialettico".
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In questo modo l'intero sistema schellinghiano, la cui essenza è costituita dall'identità di libertà e necessità,
culmina nella sua definizione della vicenda tragica come ristabilirsi di questa indifferenza nella lotta. Ancora
una volta il tragico è concepito come fenomeno dialettico. Siccome l'indifferenza di libertà e necessità è
possibile solo al prezzo che il vincitore sia ad un tempo lo sconfitto, e lo sconfitto ad un tempo il vincitore. E il
teatro del conflitto non è un campo intermedio, che rimane esterno al soggetto in esso coinvolto, ma è
trasferito all'interno della libertà stessa, la quale, quasi in discordia con sè medesima, diventa il proprio
stesso antagonista".
Schelling ritiene dunque che il superamento dei conflitti e dei dualismi sia presente, in nuce, già nell'opera
tragica, anche se esso risulta evidente in modo più compiuto mediante un'analisi filosofica, grazie alla quale
è possibile svolgere le implicazioni della tragedia per ristabilire una effettiva comprensione unitaria del tutto,
recuperando così il senso più profondo del suo idealismo.
La sua matura riflessione estetica mostra i chiari legami con gli esiti della filosofia dell'identità cui egli è
definitivamente approdato: essendo possibile intendere ogni uomo sia come soggetto del proprio libero
volere che come risultato del pure libero dispiegarsi della natura, di conseguenza l'arte è interpretabile come
attività in cui vengono a coincidere l'operare cosciente dell'artista e il suo essere al contempo frutto dell'
inconsapevole svolgersi dell'io come natura.
Ogni prodotto artistico conserva dunque, come sua intrinseca caratteristica, un substrato inconscio: può
ritenersi espressione simbolica del reale che in esso prende forma.
La tragedia, in particolare, oltre a presentare questa ambivalenza comune ad ogni opera d'arte, tematizza
tale duplicità dell'essere umano, elevandosi, così, a unico genere nel quale è perfettamente intuibile l'identità
del "lato" soggettivo e del "lato" oggettivo dell'io.
3.3.3.4. L'attività artistica
Abbiamo visto come nella visione schellinghiana, la creazione artistica prevede la fusione di conscio e
inconscio, e il prodotto artistico è, sì, finito, ma mantiene una significazione infinita.
Nei capolavori dell'arte umana c'è l'identica cifra dei capolavori dell'arte cosmica. L'arte diviene, così, "l'unica
ed eterna rivelazione".
Schelling può anche abbandonarsi ai più audaci sogni circa una futura umanità, che riconduca la scienza alla
fonte della poesia e crei una nuova mitologia, non più prodotto di un singolo, ma di una stirpe rigenerata:
"Ora se l'arte sola è quella, a cui
riesca di rendere obbiettivo con
valore universale quanto il filosofo
non può rappresentare che
subbiettivamente, è da aspettarsi,
per tirare ancora questa
conclusione, che la filosofia, com'è
stata prodotta e nutrita dalla
poesia nell'infanzia del sapere, e
con essa tutte quelle scienze, che
per mezzo suo vengono recate
alla perfezione, una volta giunte
alla loro pienezza, come altrettanti
fiumi ritorneranno a
quell'universale oceano della
poesia da cui erano uscite.
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Quale poi sarà l'intermediario del
ritorno della scienza alla poesia,
non è difficile dirlo in modo
generale, essendo un tal
intermediario esistito nella
mitologia, prima che questa
separazione, la quale sembra
adesso inconciliabile, fosse
avvenuta.
Ma come possa nascere una nuova mitologia, che non sia creazione del poeta singolo, bensì di una nuova
stirpe, che quasi rappresenti un solo poeta, è un problema la cui soluzione si deve attendere solo dai futuri
destini del mondo e dal corso ulteriore della storia".
È questo, l'idealismo estetico che tanta impressione e tanti entusiasmi suscitò fra i contemporanei, ma che,
come tutti i sogni, per quanto grande, durò solo per breve tempo.
3.3.4 La filosofia dell'identità
3.3.4.1 La Ragione come assoluto
Questa rappresentazione dell'arte, o meglio dell'intuizione estetica, come quella che raccoglie l'ideale e il
reale nella loro unità, e la determinazione della filosofia trascendentale come Ideal-realismo contenevano già
chiaramente una nuova concezione dell'Assoluto che doveva abbandonare le unilaterali espressioni kantiane
e fichtiane quali: "Soggetto", "Io", "Autocoscienza" e simili, per puntare su una nuova formulazione che
intendesse l'Assoluto come "identità" originaria di Io e Non-io, Soggetto e Oggetto, Conscio e Inconscio,
Spirito e Natura, in breve.
L'Assoluto, dunque, è questa Identità originaria di Ideale e Reale e la Filosofia è sapere assoluto
dell'Assoluto, fondato sulla intuizione di esso, che è condizione di ogni sapere ulteriore.
Questo Assoluto è ormai chiamato "Ragione" e il punto di vista della Ragione è il punto di vista del Sapere
assoluto. La filosofia è dunque una scienza assoluta.
Il rovesciamento della posizione di Kant è ormai stato completato, così come è anticipata in pieno la
prospettiva che Hegel farà propria.
E’ evidente che ci troviamo alle prese con un pensiero in cui Fichte e Spinoza sono sintetizzati in una forma
di panteismo spiritualistico radicale.
Tutto è Ragione e la Ragione è tutto: "All'infuori della Ragione non vi è nulla, e tutto è in essa"; "La Ragione
è semplicemente una, e semplicemente uguale a se stessa".
3.3.4.2 L'Identità assoluta
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L'unica conoscenza assoluta è quella dell'Identità assoluta, e questa Identità assoluta è infinita, e quindi tutto
ciò che è, è, in qualche modo, "identità", che, come tale, non può mai essere soppressa. Ogni cosa che
venga considerata come è in sé, si risolve in questa "identità infinita", in quanto esiste solo in essa e non
fuori di essa.
Questa identità non esce fuori di sé, ma, al
contrario, tutto è in lei: "L'errore
fondamentale di ogni filosofia, scrive
Schelling, è il presupposto che l'Identità
assoluta sia realmente venuta fuori di se
stessa, e lo sforzo di rendere comprensibile il
modo come questo uscir fuori accade”.
L'Identità assoluta invece non ha mai
cessato di esser tale, e tutto cio che è,
considerato in se stesso, è non già il
fenomeno dell'Identità assoluta, ma essa
stessa".
Questa "Identità assoluta" è quindi l'"UnoTutto", al di fuori del quale non esiste alcuna
cosa per sé, è l'Universo stesso che è
coeterno all'Identità.
Le singole cose sono fenomeniche
manifestazioni che scaturiscono dalla
differenziazione qualitativa di "soggettivo" e
di "oggettivo", da cui nasce il finito. Ogni
essere singolo è la differenziazione
qualitativa dell'identità assoluta; esso non
solo rimane radicato nell'Identità (come a suo
fondamento), ma suppone sempre anche la
totalità delle cose singole cui è collegato
strutturalmente e organicamente.
3.3.4.3 Dall'infinita Identità assoluta alla realtà finita e differenziata
L'indifferenza o identità originaria si esplica, dunque, nella duplice serie fenomenica di "potenze": vale a dire
nella serie di "potenze" in cui prevale il momento della soggettività (A) e nella serie in cui prevale quello della
oggettività (B); ma nel prevalere di A è sottinteso B, così come nel prevalere di B è sottinteso A, di guisa che
l'Identità si conserva nella totalità e si riafferma in ogni differenziazione.
È evidente che la grossa difficoltà di questa nuova prospettiva di Schelling consiste nello spiegare come e
perché dalla "Identità infinita" nascono la differenziazione e il finito.
In parte Schelling cerca, in questa fase, di superare la difficoltà, reintroducendo la teoria platonica delle Idee.
Nella Ragione intesa come assoluta Identità e Unità dell'universale e del particolare vi sono unità particolari,
le Idee, che dovrebbero costituire la causa delle cose finite. Ma nell'Assoluto le Idee sono tutte in tutte,
mentre le cose sensibili sono separate e l'una fuori dell'altra. Schelling sostiene che nel sensibile le cose
sono tali solo per noi, ossia solo per la nostra coscienza empirica.
Ma ormai è evidente che Schelling sta lottando con un problema gravissimo, ossia con il problema
dell'origine del finito dall'infinito. Copyright ABCtribe.com
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Al punto in cui egli si era spinto non gli era possibile né accogliere il creazionismo (che fa nascere il finito per
un atto di libera volontà del Creatore e suppone la trascendenza), né lo spinozismo (che in pratica annulla il
finito e comunque rappresenta una posizione preidealistica). E così egli riprese l'antico concetto gnostico,
che già in passato il misticismo tedesco aveva accolto, secondo cui l'esistenza delle cose e la loro origine
suppongono una originaria "caduta", un "distacco" da Dio.
Per Schelling, dunque, "l'origine del mondo sensibile può spiegarsi solamente con un distacco dall'Assoluto
mediante un salto". E’ questo il tema centrale della fase "teosofica" della filosofia schellinghiana, in cui si
fanno sentire echi irrazionalistici, talvolta in modo anche accentuato.
3.3.5 La fase della teosofia e della filosofia della libertà
3.3.5.1 La natura di Dio
La soluzione del problema cui si è accennato comporta una revisione dell’intera problematica dell'Assoluto.
Schelling accetta ormai di essere denominato "panteista", a patto che si intenda per "panteismo" che tutto è
in Dio, ma non viceversa che tutto è Dio.
Dio è l'antecedente e le cose sono il conseguente. Il conseguente è nell'antecedente, ma non viceversa, o,
almeno, lo è in tutt'altro senso.
Inoltre, Schelling accetta anche, a questo punto, di considerare Dio come "persona", ma una persona che è
in continuo divenire.
Gli opposti, che Schelling prima aveva
ammesso nell'Assoluto come unificati, ora
li intende come presenti in lotta
nell'Assoluto medesimo.
In Dio vi è dunque una duplicità insita: un
principio oscuro e cieco che è "volontà"
irrazionale e un principio positivo e
razionale. La vita di Dio si esplica perciò
come vittoria del positivo sul negativo. Dio
non è puro Spirito ma è anche Natura.
3.3.5.2 La giustificazione metafisica
della lotta fra il bene e il male
Il dramma umano, che consiste nella lotta
fra il bene e il male, fra la libertà e la
necessità, non è se non il rispecchiarsi di
un originario conflitto di opposte forze che
sono alla base della stessa esistenza e
della stessa vita di Dio.
Il male c'è nel mondo, perché c'è già in Dio.
Gli aspetti oscuri, negativi e angosciosi
dell'esistenza hanno quindi un'origine
nell'Assoluto stesso. E così anche
l'intelligenza, la luce e l'amore che sono nel
mondo, sono prima in Dio.
La vita come lotta fra i due momenti rispecchia l'originaria lotta che è già in Dio, e la vittoria della libertà,
dell'intelligenza e del positivo, che è lo scopo della storia degli uomini, è il rispecchiamento di quella vittoria
che si realizza eternamente in Dio e per cui Dio è "persona".
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Il male, come il negativo che viene superato eternamente in Dio, resta in tal modo ricacciato eternamente nel
non-essere, e, come tale, non è in contrasto con la libertà, con il bene, con la santità e con l'amore.
In questa concezione si risentono gli echi di Eckhart e soprattutto di Bohme, alla cui lettura Schelling era
stato iniziato da Franz von Baader (1756-1841), che fu suo discepolo, e, ad un tempo, agì su di lui con i suoi
forti interessi teosofici.
3.3.6 La Filosofia positiva
L'ultimo Schelling ha distinto una "filosofia negativa" da una "filosofia positiva" e si è dedicato a
quest'ultima. Egli intende per "filosofia negativa" quella fino a questo momento professata, ossia la
speculazione intorno al "che cosa universale", vale a dire intorno all'essenza delle cose. Per "filosofia
positiva" egli intende invece la filosofia che concerne la esistenza effettiva delle cose. La prima concerne la
possibilità logica delle cose, la seconda la loro esistenza reale.
Con questa distinzione egli non intende negare la prima forma di filosofia, ma far valere la necessità di una
integrazione sostanziale della medesima. La filosofia negativa è costruita per intero sulla
ragione, quella positiva sulla religione e sulla
rivelazione, oltre che sulla ragione.
È evidente che la rivelazione per eccellenza è
quella su cui è fondata la religione cristiana.
Schelling, però, estende il concetto di rivelazione
a tutte le religioni storiche, comprese quelle
politeistiche. Anzi egli intende in generale l'arco
storico delle religioni come una sorta di
"rivelazione progressiva di Dio". Si comprende, quindi, come il nostro filosofo
abbia fatto oggetto di attente analisi sia la
mitologia pagana, sia la Bibbia.
È importante, ancora, rilevare che il Dio di cui questa filosofia positiva si occupa è ormai il Dio-persona che
crea il mondo, si rivela e redime l'uomo dalla caduta: è, insomma, il Dio considerato in quella concretezza
religiosa che le filosofie moderne non hanno quasi mai considerato quale oggetto specifico della propria
riflessione. E, infine, è da notare come, in questa fase, Schelling, mettendo in rilievo il motivo dell'esistenza
non deducibile dall'essenza, anticipi motivi "esistenzialistici" che Kierkegaard coglierà immediatamente e
porterà in primo piano.
3.3.7 Conclusioni sul pensiero di Schelling
Il sistema filosofico di Scheling è stato dunque caratterizzato da repentini movimenti tra i sistemi filosofici a
lui contemporanei o precedenti e allo stesso tempo ha aperto nuovi orizzonti e nuove prospettive nello
sviluppo dell’idealismo.
Alla sua epoca egli ha dato il meglio di sé fra il 1799 e il 1803, cioè durante il periodo di Jena; e da questa
fase del pensiero schellinghiano lo stesso Hegel ebbe molto da imparare. Ma, poi, la fortuna di Schelling , come è già stato detto, andò declinando, mentre saliva l'astro di Hegel, che
dal 1818 in poi polarizzerà su di sé l'attenzione di tutti.
Certamente Schelling è stato il pensatore che meglio di tutti ha dato voce alle inquietudini romantiche, a
quello " Streben", ossia a quel tendere senza posa, a quel continuo "sorpassarsi", lasciando alle spalle il
prodotto della propria creazione per ricercarne uno sempre nuovo.
II Sistema dell'idealismo trascendentale resta la sua opera più compiuta; ma essa, per la maggior parte, è un riepilogo generale di
cose già dette dai suoi predecessori, espresse tuttavia in modo migliore, e tutte le novità si concentrano in meno di trenta pagine
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cioè nelle idee sull'arte e sull'intuizione artistica. Ma quest'opera è anche l'espressione e il simbolo del miglior periodo di Schelling,
anche perché la vena teosofica del penultimo periodo limita alquanto gli orizzonti del filosofo, mentre le ultime opere furono
pubblicate postume.
Hegel consacrerà infine lo schema storiografico secondo cui Fichte rappresenterebbe l'idealismo soggettivo,
Schelling quello oggettivo, Hegel stesso quello assoluto, come una triade dialettica di "tesi" "antitesi" e
"sintesi", la cui sintesi "supera" la tesi e l'antitesi e le "invera".
Lo schema è però inadeguato storicamente, poiché sia Fichte che Schelling, considerati nella loro effettiva
statura storica, non si lasciano imprigionare in esso; ma, se ci si limita a ciò che di essi il loro tempo assorbì,
tale semplificazione risulta plausibile, sia pure con le debite riserve. E così Hegel ebbe buon gioco e si
impose come colui che ridava, potenziate, le scoperte fichtiane e schellinghiane, riscattandole dalla loro
unilateralità, e trasformandole in una vera conoscenza sistematica e scientifica dell'Assoluto.
3.4 Ulteriori considerazioni
3.4.1 Il distacco da Fichte
Schelling si distacca da Fichte non
tanto sul versante dell'IO quanto su
quello del non-IO. Egli infatti rifiuta
la riduzione della natura a mera
posizione dialettica dell'IO puro, e
opta per una concezione più
organica e vivente della natura
(che non ha nulla a che vedere
colla fisica meccanicista anglofrancese, importata in Germania
dal criticismo di Kant).
Lo stesso Schelling indicherà nello
studio della chimica dei gas
l'elemento che determinò la sua
emancipazione dalla filosofia
fichtiana.
Il riferimento era ai risultati raggiunti da Priestley e soprattutto da Lavoisier sull'isolamento dell'ossigeno e
sulla possibilità di unire idrogeno e ossigeno per produrre l'acqua.
Schelling riscopre un concetto di natura come un tutto organicamente connesso. Questa peraltro era stata
l'idea dell'animismo neoplatonico rinascimentale, cui si riconducevano le varie tradizioni magico-occultistiche
e alchemico-astrologiche: idea uscita sconfitta dal confronto colla matematizzazione della natura operata da
Bacone, Galilei, Newton, ecc. In Germania, non essendovi stata al tempo di Schelling una rivoluzione
borghese che promuovesse uno studio scientifico della natura, quella filosofia arazionale della natura aveva
continuato a svolgere un ruolo di cultura subalterna.
Schelling dà grande importanza alle tre forme dell'animazione universale: magnetismo, elettricità e chimismo.
Il suo tentativo è quello di usare queste tre forme di movimento per costruire una filosofia della natura che
obbedisca alla regola dell'unità organica, vivente, animata, capace di perenne trasformazione della natura.
Non gli interessa l'atteggiamento dell'illuminismo secondo cui la scienza è possibile solo là dove esiste
specializzazione di campi separati d'indagine. Perché il magnetismo? Perché esso consente di pensare alla coesione delle varie parti dell'universo e alla
reciproca gravitazione. Copyright ABCtribe.com
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Perché l'elettricità? Perché tutto il processo naturale è sempre il risultato di un'opposizione di forze (che si
attraggono e si respingono, vedi ad es. il magnete). Perché il chimismo? Perché esso fonda la metamorfosi
dei corpi, per cui, variando le proporzioni, ogni corpo può trasformarsi in un altro.
In sintesi: Per Schelling la filosofia della natura è superiore alla filosofia dell'IO di Fichte, in quanto essa
mostra che l'uomo è il punto in cui la natura giunge alla forma che consente la sua propria intelligibilità.
L'uomo è un prodotto della natura e non la natura un prodotto dell'uomo. Il non-IO di Fichte non ha realtà
propria, secondo Schelling, e l'IO non è "puro" poiché per attuarsi ha bisogno di affermare un non-IO che lo
limita.
3.4.2 La filosofia della natura
La natura per Schelling è attività spirituale inconscia, infinita, e le sue produzioni sono gli esseri finiti, dei
quali il maggiore è l'uomo, poiché con l'uomo la natura acquista consapevolezza di sé (diventando spirito).
La natura ha una realtà propria e indipendente, ma non nel senso del noumeno kantiano, poiché essa è
costituita della stessa spiritualità che si rivela nello spirito e che caratterizza anche l'uomo in grado di intuirla.
La natura, per attuare se stessa, deve incontrare e superare un impedimento ch'essa porta in sé. Nella natura infatti esistono due tendenze
opposte, una positiva l'altra negativa:
quando queste due forze sono in
equilibrio (sintesi) si ha la produzione di
una determinata forma naturale; poi
l'equilibrio si rompe, per ricomporsi
successivamente, generando nuove
forme naturali, in una progressione
infinita.
La natura che interessa Schelling non è
quella oggettiva delle scienze naturali e
sperimentali (natura naturata), ma quella
soggettiva della filosofia idealista (natura
naturans), l'unica che permette di
cogliere (attraverso la fisica speculativa
basata sull'intuizione) l'unità dei
fenomeni, la loro derivazione da un
fondamento comune (natura finalistica).
Qui l'influenza di Bruno è notevole.
La fisica speculativa non è basata sui
rapporti di atomi materiali, ma su rapporti
di forze (produttrici e opposte), colti
attraverso l'intuizione intellettuale (di cui
già Kant nella Critica del giudizio, a
proposito del teleologismo della natura,
ma il termine è preso da Bruno).
Schelling estende a tutta la natura quello che Fichte aveva affermato per la vita dell'IO, e cioè che il principio
originario è "azione", non essere, non sostanza fissa e rigida, e che l'essere è il prodotto dell'azione. Non c'è
dunque sostanza materiale, né atomi o corpuscoli immutabili, e neppure un'estensione come modo di essere
originario della natura: questa in realtà è un gioco di forze, la materia è il risultato di energie duali e polari,
cioè opposte, che ad un certo punto raggiungono un equilibrio provvisorio, fonte di nuovi flussi energetici.
Tuttavia, l'intuizione di per sé non può produrre una sintesi concreta di soggetto e oggetto: ciò spetta all'arte,
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che è organo della filosofia (su questo avverrà il distacco da Hegel). Il poeta (o l'artista) produce ciò che il
filosofo pensa. L'opera d'arte sintetizza libertà e legge, spontaneità e tecnica, natura e spirito, conscio e
inconscio: essa è una rappresentazione finita e sensibile dell'infinito.
3.4.3 L'idealismo trascendentale
Vuole essere una sintesi dell'idealismo soggettivo di Fichte e del realismo che vede nella natura un limite
indipendente dall'IO. Mentre per Fichte il realismo si identificava immediatamente col dogmatismo, per
Schelling invece esso può conciliarsi col criticismo. La filosofia della natura deve spiegare l'ideale a partire
dal reale (la natura); l'idealismo trascendentale deve subordinare il reale all'ideale. Ciò in quanto la natura è
lo spirito non ancora conscio, mentre lo spirito è la natura giunta a consapevolezza.
Lo spirito teoretico determina il conscio (il soggetto) per mezzo dell'inconscio (o oggetto), servendosi
dell'intuizione intellettuale; lo spirito pratico (che è atto di volontà) fa il contrario, producendo la storia (che è
l'unione di libertà e necessità, di conscio volontario e inconscio involontario, in un progresso infinito che non
raggiunge mai la perfezione). In questo senso l'identità di natura e spirito non è mai pienamente raggiungibile: infatti nell'attività teoretica lo
spirito, che trova di fronte a sé la natura, si adegua ad essa e si ha la dipendenza del soggetto cosciente
all'oggetto inconscio; nell'attività pratica lo spirito opera liberamente imponendo leggi alla natura per
subordinarla a sé, adattando l'oggetto al soggetto. La verità sta nell'identità di spirito e natura (colta per
intuizione intellettuale o per intuizione estetica, che è quella intellettuale universalizzata, patrimonio di ogni
coscienza).
L'identità viene colta dall'arte, che è
il compimento della filosofia.
L'identità si pone anche fra Io e
non-IO, in quanto l'IO senza il nonIO non esisterebbe. Solo l'apparire
dell'autocoscienza differenzia l'uno
dall'altro: in origine l'unità era
indifferenziata.
Il principio di tutta la realtà è
l'Assoluto (ciò che non ha bisogno
di niente per esistere): esso è
identità indifferenziata di natura e
spirito, cioè tale che può essere
pensato indifferentemente come
oggetto e soggetto (è la filosofia
dell'identità). L'assoluto si pone
inconsciamente, in una prima fase,
come natura, e coscientemente, in
una seconda fase, come spirito (la
natura è la preistoria dello spirito).
La differenza non è qualitativa, ma
quantitativa e di grado
(dall'inferiore al superiore).
3.4.4 Filosofia ed estetica
L'ultima estetica che aveva tentato una considerazione globale dell'arte, puntando sul piacere disinteressato,
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era stata quella di Kant. Ora, nella concezione di Schelling si va molto più in là. Qui l'arte invade luoghi
(come la morale, la politica, l'educazione) che Kant non poteva neppure immaginare, né avrebbe mai
tollerato. L'arte cioè si connette col significato profondo dell'esistenza poiché costituisce un ideale di vita, un insieme
di valori alternativi al sociale. Sintetizzando magistralmente il pensiero di Hölderlin, secondo cui la poesia, essendo rivelazione dell'infinito,
ricompone la scissione uomo/natura e restaura la dignità dell'uomo; di Novalis, secondo cui il poeta è il mago
che svela la trasparenza del messaggio della natura; di F. Schlegel, secondo cui da un lato la forma
romantica della poesia è legata alla disposizione ironica, di gioco, che il poeta ha nei confronti della propria
creazione, mentre dall'altro l'arte può essere avvicinata al linguaggio del mito in quanto simboleggia la
realizzazione dell'infinito nell'oggetto estetico - Schelling ha fatto della bellezza il trait d'union della vita finita
dell'uomo con l'infinito.
Artefice di questa bellezza è più che il filosofo (la cui intuizione intellettuale non può essere socializzata in
quanto incomunicabile) è l'artista (poeta, pittore, musicista...), cioè colui che riproduce in un oggetto
determinato l'unità originaria di soggetto e oggetto. In questo senso è possibile raggiungere un'identità di
natura e spirito. Nella creazione estetica si riuniscono l'inconscio della natura, mediante la spontaneità
dell'ispirazione, e il conscio dello spirito, mediante l'elaborazione cosciente dell'ispirazione compiuta
dall'artista.
I romantici tedeschi preferiranno Schelling a Kant perché questi distingueva tra etica, estetica ed
epistemologia, mentre quello faceva dell'estetica (intellettuale) la forma più alta. Per Schelling infatti l'arte è
la rappresentazione dell'infinito nel finito e la mitologia è il soggetto principale dell'arte.
3.4.5 Filosofia e religione
Schelling approda agli studi sulla mitologia perché ad un certo punto si rende conto che l'identità di spirito e
natura lo ha portato a un vicolo cieco, cioè alla consapevolezza che l'identità viene a coincidere con
l'indifferenza, cioè con la mancanza di spirito. Avendo rigorosamente delimitato l'oggetto, la realtà, alla sola
natura, Schelling ha perduto le motivazioni che spiegano la contraddizioni del mondo umano. Egli è convinto
che l'origine del finito dall'infinito dipenda da un difetto dell'infinito.
Non riesce assolutamente a intravedere nel finito la
possibilità di un superamento delle sue stesse
contraddizioni. Di qui la riscoperta della religione e
in particolare della mitologia, che rifiuta il finito in
nome dell'infinito.
Schelling si convince che la mitologia non è
superstizione ma filosofia compiuta, seppure
espressa con una lingua prefilosofica, poetica. Ciò
che, al dire di Schelling, appare più concreto della
filosofia stessa, che astrae e sillogizza, cercando di
individuare la possibilità logica della cose, mentre
la mitologia, cioè la religione, tratta dell'esistenza
reale delle cose, essendo basata
sull'immaginazione collettiva: la prima filosofia è
negativa, questa invece è positiva.
Schelling cerca nella religione quell'assoluto che
non è riuscito a trovare in modo definitivo nella
natura e nella filosofia. Nel tentativo di superare i
vincoli del sensibile, egli si accosta all'UNO
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neoplatonico. Di qui la riscoperta del concetto di
rivelazione, che però Schelling estende a tutte le
religioni storiche, incluse quelle politeistiche.
L'arco storico delle religioni è per lui una rivelazione progressiva di Dio, ma di un Dio che vede lottare dentro
di sé il bene e il male, e la cui vita si esplica appunto come progressiva vittoria del positivo sul negativo. La
riscoperta della mitologia è anche inerente al fatto che Schelling, su posizioni romantiche, aveva
spiritualizzato la natura, miti, leggende e favole diventavano ora allegorie dello spirito della natura e il mondo
veniva concepito come un sogno dello spirito.
3.4.6 Politica in Schelling
L'esordio politico di Schelling è individualistico, di stile anarchico. L'entusiasmo per la Rivoluzione francese
costituisce una breve parentesi. Egli accetta la fichtiana libertà dell'IO ma solo per rivendicarne l'assolutezza
e l'irriducibilità, senza misurarla in un concreto impegno sociale.
Lo Stato gli appare come un organismo amministrativo, esteriore, che disciplina il sistema degli
egoismi. Sotto la sua falsa universalità, regna nella società il criterio dell'utile e del vantaggio materiale.
Schelling critica il costume sociale borghese, ma facendo indirettamente gli interessi del sistema
assolutistico-feudale, in quanto la sua critica resta puramente teorica e non intacca mai le contraddizioni
della società aristocratica del suo tempo.
Egli è disposto ad accettare uno Stato che abbia le sue radici in una tradizione linguistica e culturale, che sia
cioè già organicamente etico, storico, culturale, romantico e nazionale. Ma nella tarda maturità, rendendosi
conto dell'illusorietà di questa aspirazione, Schelling penserà di sostituire lo Stato con la chiesa, a condizione
che questa non imiti le forme organizzative proprie dello Stato (col che in pratica egli ricade in un'altra
illusione). La Chiesa a suo giudizio potrebbe essere migliore dello Stato in quanto possiede nella rivelazione
lo strumento spirituale per costituire il vincolo organico della comunità. Ovviamente Schelling non pensa a
una chiesa specifica, ma a una chiesa del futuro.
3.4.7 Le accuse di ateismo
Jacobi accusò Schelling di aver sostituito Dio con la Natura, cioè di aver fatto della Natura un UNO-TUTTO
indipendente, sufficiente in se stessa, capace di creare più dell'uomo, aldilà della quale non esiste che il
nulla (l'accusa in sostanza era quella di essere uno spinozista).
Schelling si difese distinguendo la Natura come identità assoluta non esistente, da Dio quale identità
assoluta esistente, cioè riaffermando il concetto di Dio creatore, che dà esistenza alle cose, mentre la natura
ha in sé il fondamento del proprio esistere, non derivato dall'uomo. In questo modo Schelling conferma il
proprio spinozismo, ma senza contraddire la concezione religiosa ufficiale.
3.4.8 Rilievi critici
1) Oggi l'elemento centrale del lavoro di
Schelling appare la sua ricostruzione di una
filosofia della natura di tipo rinascimentaleneoplatonico: la concezione della totalità
organica e vivente -la natura- che anima,
dall'interno, con intelligenza, le diverse forme
viventi, tra cui l'uomo, prodotto finale della
natura. Questo modo di vedere le cose rischia
però, se assolutizzato (come in effetti
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41
Schelling fece), di non far progredire la
scienza vera e propria della natura (quella
sperimentale), in quanto tende ad opporsi a
un'indagine razionalistica e matematica della
natura. Schelling in realtà ha una concezione
romantica, contemplativa della natura, la cui
realizzazione pratica è solo a livello artistico o
estetico. La sua fisica speculativa non può
avere alcun fondamento obiettivo, anche se
essa può aver stimolato, come alcuni credono,
lo studio di fenomeni come l'elettricità, il
magnetismo, il sogno, l'ipnotismo, la telepatia,
la morfologia comparata.
2) Se il non-IO di Fichte veniva ingiustamente assorbito nell'IO, in Schelling accade il contrario: il non-IO
ingloba tutto l'IO. In entrambi i casi si perde l'unità dialettica di soggetto/oggetto. Peraltro il non-IO di Fichte
non coincideva immediatamente con la sola natura, ma con tutto ciò che non è IO. Invece Schelling pone
una stretta coincidenza dei due termini, tralasciando così di considerare gli aspetti sociali, politici e storici.
Resta tuttavia il merito di Schelling di aver sottolineato un'oggettività esterna all'uomo, cui l'uomo deve tener
conto, adeguandovisi.
3) Il grande contributo che Schelling ha dato alla sviluppo dell'estetica e dell'idea artistica non può impedire
di cogliere nell'affermazione di un'assoluta autonomia dell'arte -più volte da lui ribadita- il rischio di una
estraneazione se non di un'opposizione di questa rispetto al contesto sociale in cui si sviluppa.
4) Da notare che in Schelling la libertà è vista come un elemento inconscio (nella natura, Fichte diceva
nell'IO) che va recuperato a livello di semplice consapevolezza, liberandolo dai condizionamenti esterni. La
libertà cioè è un già dato che va riscoperto, non è il frutto di una progressiva conquista degli uomini.
5) Del pensiero di Schelling si nutrì lo spiritualismo francese sino a Bergson; ad esso si ispirò anche la
filosofia esistenzialistica di Heidegger, Jaspers e Marcel; delle tracce si intravvedono anche nel marxista
revisionista E. Bloch; i teologi P. Tillich e W. Kasper hanno sottolineato la sua importanza teologica.
Schelling fece bene ad affermare l'esistenza di un mondo indipendente dal soggetto (la materia ha, in effetti,
una priorità cronologica sullo spirito, e l'idealismo oggettivo di Schelling ed Hegel è, sotto questo aspetto, più
realistico di quello fichtiano).
Tuttavia Schelling non seppe scorgere nella realtà materiale l'attività dialettica vera e propria. Per lui questa
realtà coincideva strettamente con la natura non con la società. L'unica dialettica ch'egli seppe scorgere fu
quella fisico-chimica dell'attrazione e repulsione degli opposti.
Paradossalmente, mentre sul piano teoretico Schelling è superiore a Fichte, perché comprende l'esistenza
d'un'oggettività che sovrasta l'uomo, che lo precede, sul piano pratico invece gli è inferiore, perché più
passivo, più intuitivo e contemplativo, più mistico.
In effetti, affermare che nell'attività teorica lo spirito si adegua alla materia o alla natura, ponendo il soggetto
cosciente alle dipendenze della natura inconscia, significa porre le premesse dell'irrazionalismo teorico.
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42
In realtà, il soggetto umano non può essere un prodotto naturale al pari di un ente di natura (animale,
vegetale, minerale...), proprio perché dotato di libertà e autocoscienza.
Il soggetto non è determinato dagli istinti, anche se gli istinti fanno parte della sua natura. Il campo d'indagine
più importante dello spirito teoretico deve restare l'uomo non la natura (su questo Hegel avrà sempre ragione
contro Schelling).
Così pure, sostenere che
nell'attività pratica lo spirito
impone leggi alla natura per
subordinarla a sé, significa dare
un risvolto concreto
all'irrazionalismo affermato in
sede teorica. Schelling, in tal
senso, è stato un fautore
(indiretto) dello sviluppo
capitalistico.
Tuttavia, avendo affermato,
teoreticamente, la subordinazione
del soggetto alla natura, egli poi
non riuscirà, sul piano operativo,
ad essere coerente col principio
che "la storia è filosofia pratica".
Cosicché sarà indotto ad
affermare che l'unica vera attività
pratica è quella artistica, quella
intuitiva nella tarda maturità dirà
addirittura quella "religiosa".
3.4.9 L’eredità
Per quasi tutto l’Ottocento Schelling venne interpretato alla luce di Hegel, come un momento determinante
dello sviluppo dell’Idealismo che trovi il suo compimento nel pensiero hegeliano. Tale linea interpretativa
tendeva a offuscarne le enormi differenze, e in particolare la sua seconda filosofia, che ebbe influenze
profonde, anche se spesso sotterranee, nelle correnti anti-positiviste e anti-marxiste della seconda metà
dell’Ottocento (parallelamente a Schopenhauer). L’interesse che Schelling aveva suscitato con
l’enunciazione della filosofia positiva era stato peraltro vivissimo; ad ascoltarla convenirono tra gli altri
Engels, Bakunin, e Kierkegaard, il quale ne recepì il richiamo all’esistenza, che per lui tuttavia sembrava non
tradursi mai concretamente nella scoperta della singolarità dell’uomo. Influssi più o meno sotterranei sono rintracciabili anche nell'antroposofia di Steiner, nonché nelle correnti
estetiche decadentiste e nell’irrazionalismo di Nietzsche, sebbene Schelling non volesse fare dell’assoluto e
dell’esistenza un fatto soltanto irrazionale e del tutto incomprensibile. Non si può trascurare neppure il rilievo
dato da Schelling alla nozione di inconscio, contribuendo alla formazione del contesto culturale in cui
sarebbe sorta la psicanalisi, e in particolare quella di Carl Jung. Dell’idealismo schellinghiano si nutrì inoltre il
pensiero francese fino a permeare soprattutto la filosofia di Bergson.
La sua filosofia della natura e il concetto di persona sviluppato nell'ultimo periodo ebbe poi un influsso
decisivo sull'antropologia filosofica di Max Scheler. A Schelling si ispirò anche la filosofia esistenzialistica di
Heidegger, Jaspers e Marcel. Sul piano teologico l’importanza di Schelling sta nell’aver recuperato la
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43
Rivelazione nella sua positività e storicità. La recente riscoperta dell’ultimo Schelling, infine, è stata
conseguenza dello sforzo di superamento del pensiero di Hegel e di un’interpretazione dell’idealismo
tedesco non più nell’ottica hegeliana.
4 Le Opere
1792 Antiquissimi de prima malorum humanorum origine philosophematis Genes.III. explicandi
tentamen criticum et philosophicum
1793 Sui miti, le leggende storiche e i filosofemi del mondo più antico
1795 Sulla possibilità di una forma della filosofia in generale
Sull'Io come principio della filosofia e sull'incondizionato nel sapere umano
1796 Lettere filosofiche su dogmatismo e criticismo
1797 Nuova deduzione del diritto naturale
Idee per una filosofia della natura
1798 Sull'anima del mondo: ipotesi di fisica
superiore per illustrare l'organismo universale
1799 Primo abbozzo di un sistema di filosofia
naturale
1800 Sistema dell'idealismo trascendentale
1801 Esposizione del mio sistema di filosofia
Bruno o il principio divino e naturale delle
cose
1804 Filosofia e religione
Filosofia dell'arte (edita post.)
1806 L'esposizione del vero rapporto della
filosofia della natura con la dottrina migliorata
di Fichte
1809 Saggi illustrativi sull'idealismo della
dottrina della scienza
Ricerche filosofiche sull'essenza della
libertà umana
1812 Monumento dello scritto sulle cose divine del Signor F.E.Jacobi
1827 Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna
Opere pubblicate postume
- Filosofia della mitologia
- Filosofia della rivelazione
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- Le età del mondo
4.1 I primi studi del giovane Schelling
I primissimi scritti di filosofia della natura di Schelling sono quelli che vanno dal 1796, anno di Das Ältestes
Systemprogramm al 1806, anno in cui Schelling scrive Über den wahren Begriff der Naturphilosophie (Circa
il vero concetto di Filosofia della Natura). Sul primo Scheling agirono le influenze scientifiche da parte di
scienziati e naturalisti dell'epoca nonché alcune ragioni che lo spinsero a occuparsi dei saperi scientifici
specialistici per realizzare il progetto di una Naturphilosophie. In altri termini, si può parlare di ragioni
'esterne' e ragioni 'interne' alla Naturphilosophie schellinghiana.
Tra le ragioni 'esterne' troviamo le
influenze di scienziati e medici
dell'epoca, da Berzelius a Haller,
da Kielmeyer a Bonnet, da Brown
a Blumenbach, che Schelling
studiò con attenzione critica,
accettando o meno le loro teorie
scientifiche e i loro presupposti
teoretici, articolando sempre le
critiche sullo sfondo di un
orizzonte antimeccanicistico e
antimaterialistico. E' indubbio però che nel realizzare
il progetto di una fisica dinamica e
di una concezione della natura
come organismo soggettivo furono
più specifici i contributi della
Critica del Giudizio teleologico e
alcune novità dell'Opus postumum
di Kant
della Filosofia della Natura di Goethe basata sul sentimento dell'unità, e della disputa con Fichte sulla
necessità di una riflessione filosofica sull'origine del non-io.
Con ciò siamo già nell'ambito delle ragioni 'interne' della Naturphilosophie schellinghiana.
Ragioni alle quali si può anteporre una linea interpretativa che parte dalla domanda: perché la filosofia della
natura di Schelling non sia una scienza della natura, né abbia una vocazione sperimentale o metodologica.
Questa domanda trova risposta nella tensione schellinghiana verso la riconduzione della natura al principio
della vita organica, principio che è deve essere rintracciato nella filosofia trascendentale di quegli anni prima
ancora che nella filosofia della natura, e nient'affatto nelle teorie scientifico-sperimentali elaborate allora.
Le stesure del System des transzendentalen Idealismus (1800) e del successivo Über den wahren Begriff
der Natuphilosophie (1801) risultano tappe decisive per comprendere il progetto complessivo della prima
Naturphilosophie di Schelling.
La costituzione di una filosofia trascendentale della natura pensa l'unità di uomo e mondo e, posta su uno dei
due rami di questa unità, la filosofia della natura diventa propriamente una Weltweisheit, una “saggezza
mondana”, piuttosto che un sapere più generale possibile del mondo reale determinato. Il compito di questa Weltweisheit sarebbe quello della riappropriazione della natura di un soggetto che
appartiene originariamente ad essa non in base alla categoria del volere o dell'agire particolari, ma sul
fondamento della libertà che fonda insieme la costruzione della natura e l'autocostruzione dell'Io. In tal senso
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vi sono motivi di ritenere la filosofia della natura schellinghiana di estrema attualità per il presente della
riflessione filosofica e per l'uomo futuro.
4.1.1 Filosofia della natura e idealismo trascendentale nel giovane Schelling
Le ragioni di fondo del progetto di Filosofia della Natura sono rintracciabili nel frammento del 1796: il
cosiddetto Ältestes Systemprogramm.
Scritto da Schelling in collaborazione con Hölderlin e con Hegel negli anni di Tübingen, il frammento è una
vera e propria illustrazione di intenti. In esso si affermava la necessità che fossero date risposte alle
questioni sollevate dalla scienza fisica. Questioni, però, come si dice nel frammento, che dovevano essere
affrontate a partire da un piano radicalmente etico, non epistemico.
La domanda che vi era posta è:”come deve
essere costituito un mondo per un ente
morale?”, ossia come può venire ad essere
un mondo, esterno ed oggettivo, in grado di
poter essere compreso da una scienza fisica
che non si fermi al fenomeno, ma che ne
interroghi la sfera della sua possibilità.
L'anticipazione di una risposta la troviamo nel
frammento: un mondo può esserci perché v'è
un principio che lo fa essere: il principio della
rappresentazione che, negli scritti
schellinghiani di filosofia trascendentale, è l'Io
incondizionato assolutamente libero, in grado
di essere colto nella intuizione di sé da una
scienza non fisica.
La seconda esigenza era quella che, a
partire dalla prima, "ridesse le ali alla fisica",
che la facesse progredire sollevandola dal
piano dello sperimentalismo che, a detta di
Schelling, è filosoficamente limitato.L'augurio
ivi inscritto era di costruire una fisica adatta
ad un'epoca più matura, un'epoca in cui, in
generale, fosse possibile dedurre dai principi
la possibilità della natura in quanto totalità del
mondo dell'esperienza.
Di lì a poco Schelling si metterà al lavoro per concretare tali progetti, studiando gli scienziati e i naturalisti
contemporanei e indirizzando i suoi studi verso le scienze dell'organismo in vista della costruzione della fisica
dinamica, ossia la fisica che si occupa delle condizioni di possibilità originarie dei fenomeni dinamici, (che
Schelling chiama il non-oggettivo) di contro alla fisica empirico-meccanicistica dell'oggettivo.
Dai suoi scritti è possibile individuare alcuni tra gli studiosi che lo influenzarono. In breve, possiamo
accennare a Karl Friedrich Kielmeyer (1765-1844), che insegnò a Stuttgart, dove nel febbraio1793 tenne una
conferenza, alla quale Schelling partecipò, sui rapporti tra le forze organiche.
In seguito nel 1796 tenne una lezione, proprio a Tübingen, in cui comunicò la sua teoria della unitaria
composizione e trasformazione dell'organismo. Kielmeyer lavorò sugli studi di George Cuvier (1769-1832)
sulla comparazione nel regno animale e sulle fasi dell'organizzazione dell'organismo, sui lavori di Albrecht
von Haller (1708-77) sulla irritabilità e soprattutto su quelli di John Brown sull'eccitabilità e sul concetto di
vita.
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Infine sulle ricerche proto-evoluzionistiche di Charles Bonnet (1720-93), del quale ritenne non solo la teoria
della catena infinita degli esseri e la relazione di finalità tra esseri inorganici e esseri organici, ma anche
l'orizzonte polemico nei confronti del materialismo meccanicista, che verrà ereditato da Schelling e da diversi
ambienti della cultura tedesca dell'epoca.
Il risultato raggiunto da Kielmeyer fu una complessa teoria dello sviluppo delle forme viventi, dalle inferiori
verso quelle superiori, basata su una dialettica tra qualità primarie organiche (irritabilità, sensibilità,
riproduzione) e circostanze esterne.
Per quel che riguarda i lavori di John Brown, questi erano considerati, in Germania, in due modi totalmente
opposti. Hegel lo criticò aspramente nella Fenomenologia. Altri ne trassero conseguenze diverse appuntando
le proprie critiche in particolare sulle pretese terapeutiche della medicina browniana.
Ma c'era anche chi ne fece la base
di partenza per un vero e proprio
sistema speculativo della natura. Tra
questi vi era Andreas Röschlaub che
sviluppò la teoria di Brown intorno
ad un punto che Schelling integrerà
nella sua filosofia della natura: il
concetto di vita basato sulla facoltà
della eccitabilità.
L'eccitabilità costituisce l'essenza
dell'organismo vivente e apre la
strada alla definizione di una
capacità insieme attiva e passiva:
l'organismo sarebbe affetto da
impressioni esterne e insieme
agirebbe compiendo l'azione propria
dell'auto-attività.
Röschlaub intese muoversi in un
orizzonte kantiano e considerò
l'eccitabilità la condizione interna e
necessaria per il sorgere e lo
svilupparsi della vita, avvicinandola
al principio della finalità interna
dell'organismo.
Che Röschlaub volesse essere
kantiano non vuol dire che ci sia
riuscito: Kant non intendeva la
finalità della natura come qualcosa
che fosse pertinente all'oggetto, ma
come un principio trascendentale, e dunque soggettivo, della facoltà del giudizio che consente di riflettere
sugli oggetti della natura al fine di ottenere un'esperienza in tutto coerente nel suo complesso. Di fatto sarà Schelling che, in uno spirito più autenticamente kantiano, eviterà di considerare il principio della
possibilità della vita un principio puramente oggettivo.
Infatti nell'Entwurf del 1799, a proposito dell'essenza dell'organismo e del principio dell'eccitabilità, egli scrive
che solo in quanto l'organismo è oggetto a se stesso, cioè è contemporaneamente soggetto e oggetto, esso
può auto-costituirsi. Copyright ABCtribe.com
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Ribadendo quanto aveva scritto nelle Ideen, Schelling pone a fondamento dell'organismo il suo essere per
se stesso, cioè il concetto di una relazione necessaria tra il tutto e le parti il cui movimento è l'autoorganizzazione. Questa auto-costituzione dell'organismo è la manifestazione della necessità di irrompere in direzione di un
mondo esterno formandolo in virtù della duplicità originaria (il vero e proprio principio trascendentale
dell'organismo) che, da un lato, è identità con se stesso e indifferenza nei confronti dell'esterno, e dall'altro è
passività nei confronti dell'esterno in quanto eccitabilità.
Dunque, l'organismo per Schelling è sempre soggetto e oggetto insieme, e il principio della sua finalità
interna resta sempre un principio formale soggettivo in rapporto col tutto della natura.
Il principio trascendentale della vita organica (la duplicità originaria), attraverso il gioco alternato di
indifferenza e differenza determinata, soggettività producente e oggettività prodotta, fa dell'organismo il luogo
ove si manifestano i principi di una teoria generale della natura.
In esso avviene la limitazione della produttività originaria, produttività che si limita da se stessa in quanto non
v'è qualcosa di esterno che la limiti.
L'auto-limitazione della produttività si concretizza nell'organismo che possiamo chiamare anche differenza
interna alla produttività, che, attraverso il cammino di riproduzione dell'organismo nella natura, tende a
reificare l'identità originaria, cioè l'indifferenza da cui era partito il processo di produttività (la vita).
Si comprende qui che capire cosa sia per il giovane Schelling 'filosofia della natura' e perché una filosofia
della natura piuttosto che una pratica scientifico-sperimentale o una metodologia critica, vuol dire interrogarsi
su che cosa è natura e come è possibile un sistema della natura in generale.
Il problema non è se e come esista fuori
di noi un insieme di fenomeni e la serie
di cause ed effetti, ma come esso
divenga reale per noi nella
rappresentazione.
Ciò implica il superamento dei limiti della
scienza sperimentale di una natura
semplicemente data e puramente
oggettiva, insomma di una scienza che
si occupa del mondo, in nome di una
scienza che si occupi di una totalità
produttiva e prodotta, dei fenomeni nella
loro totalità, insomma di una natura. Poiché il principio della duplicità
originaria sembra essere non solo il
fondamento dell'organizzazione
naturale, ma anche la proprietà
dell'incondizionato nella sua attività
assoluta, è necessario capire come
filosofia della natura e idealismo
trascendentale siano ricondotti ad unità
in un principio superiore, principio dal
quale si dipartono nelle loro rispettive
direzioni. In questo senso, proponiamo qui una
sintesi degli aspetti principali della
filosofia della natura del giovane
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Schelling, secondo i suoi principi.
1) L'antimeccanicismo schellinghiano è dovuto, da un lato, alla priorità data all'unità organica della natura, e
dall'altro, all'identità tra principio della natura e principio della sua sistematicità.
Il meccanismo naturale è ricondotto alle leggi dello spirito produttivo le quali sono conciliate con le leggi
oggettive della realtà empirica attraverso l'assoluta unità trascendentale dell'incondizionato. In questo senso,
la duplicità dell'organismo è espressione della duplicità originaria della natura in generale nel suo essere
insieme produttiva e prodotta. Questa, a sua volta, è l'oggettivazione della duplicità originaria del principio soggettivo assoluto: l'Io.
Dal canto suo, il meccanicismo osserverebbe la realtà naturale dall'esterno, per così dire, della natura,
prendendo come oggetto una realtà data e non interrogata nella sua possibilità. Lo stesso principio della materia si presenta con le stesse caratteristiche. In un passo delle Abhandlungen
(1796-97) Schelling osserva che “la materia è lo spirito che intuisce sé nell'equilibrio permanente delle sue
azioni, verso l'interno e verso l'esterno”; ciò vuol dire che la materia finita è il prodotto di un'azione che dà
senso, forma e con ciò limita oggettivamente.
Contemporaneamente, la materia è anche ciò che limita lo spirito, che nell'intuizione, sente sé limitato
partecipando così alla natura come finitezza permanente. In altre parole, a fondamento della materia sta la duplicità del legame che consente all'idea di riconciliarsi
con la realtà effettiva; ma compito della filosofia della natura è di risalire alla possibilità della materia fuori di
noi, cioè al limite dell'esperienza, al fatto che esista una natura, attraverso una riflessione sull'inseparabilità
di forma e materia, di necessità e contingenza, esemplarmente manifesta nell'organismo.
2) La copresenza di interno ed esterno nell'organismo corrisponde, nella filosofia trascendentale, al principio
dell'idealismo della duplicità originaria dell'Io. L'incondizionato, il non-oggettivo, agisce liberamente
conferendo al suo agire la sua sfera, cioè ritorna in se stesso attraverso un'intuizione di sé mentre agisce. L'agire dell'Io è sintesi, cioè formazione del prodotto. A sua volta l'Io può intuirsi in questo agire, ed in tal modo riconoscere che la sintesi è produttiva, solo se il
prodotto è effettivamente realizzato.
La natura diventa così espressione visibile dello spirito umano, il concreto della sintesi, il determinato nella
sua totalità che costituisce la materia dell'esperienza in vista della sua intuizione sensibile e della sua
concettualizzazione. Per questo Schelling può asserire in chiusura della Einleitung zu den Ideen (1797) che
“la natura deve essere lo spirito visibile, lo spirito la natura invisibile”.
3) Stando così le cose, la filosofia della
natura persegue perfettamente il compito
assegnatogli dal frammento del '96: essa non
si rivolge ad un mondo semplicemente
trovato e modellato secondo teorie
scientifico-naturali, ma lo interroga nella sua
possibilità; essa risponde alla domanda:
come la natura arrivi all'intelligenza o come
possa sorgere la coscienza nella natura, cioè
come la totalità reale possa divenire oggetto
di rappresentazione. Questa domanda, che
riconosce realtà al non-Io, all'alterità, e
comprende in sé l'avvio di un sistema di
filosofia della natura, deve essere risolta
tenendo presente contemporaneamente la
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domanda che parte dalla assoluta posizione
dell'Io, che comprende in sé l'avvio di un
sistema dell'idealismo
trascendentale. Questa seconda domanda,
uguale ed opposta alla prima, si interroga su
come la coscienza intellettiva e sensibile
giunga alla natura, ossia come il soggetto
trascendentale arrivi all'oggetto fuori di sé
concordando nella rappresentazione (il
problema della kantiana deduzione).
4) Su questo piano, Naturphilosophie e Tranzscendentalphilosophie sono ricondotte ad uno stesso principio
e rese complementari nei loro compiti.
Quando nelle pagine iniziali delle Abhandlungen Schelling propone gli intenti programmatici di una nuova
filosofia che dia ragione della totalità dell'uomo, osserva che questa filosofia deve possedere due qualità
straordinarie: “una originaria tendenza verso il reale, che impedisca di restare impigliati in vacue
speculazioni ideali, e la capacità di innalzarsi al di sopra del reale effettivo, pena il rischio di smarrirne il
senso, esaurendo la ricerca sul terreno degli oggetti determinati, cioè sul piano della sensibilità del
molteplice in generale”.
Schelling si richiama esplicitamente a Kant e a Fichte come a coloro che hanno eliminato il dualismo
pernicioso tra filosofia e esperienza, gettandole basi per una filosofia che pensi finalmente l'identità e l'alterità
secondo un comune principio interno. Qui Schelling sembra addirittura più vicino all'ultimo Kant che al suo
diretto maestro Fichte. Quest'ultimo non ha mai riconosciuto un valore 'positivo' alla natura, sempre
subordinata al principio trascendentale in quanto assolutamente posta e quindi non autonoma.
Sembra, invece, che Schelling respiri l'aria degli ultimi scritti kantiani: forse negli anni tra il '96 e il '99 egli non
aveva diretta conoscenza degli ultimi sviluppi dell'idealismo critico, ma nello scritto commemorativo del 1804
troviamo un esplicito riferimento all'Übergang kantiano.
5) Avviandoci a concludere, sembra si possa mettere a fuoco il perché di una filosofia della natura nel pieno
dell'elaborazione di un idealismo trascendentale.
Filosofia della natura che, pur influenzata dalle ricerche naturali dell'epoca, risponde a esigenze filosofiche
diverse da quelle di una scienza empirica o di una Weltanschauung scientifica del mondo.
La filosofia della natura schellinghiana si costituisce non partendo dall'esistenza di oggetti determinati in
funzione di una loro sistemazione secondo questo o quel modello teorico-sperimentale, ma dall'assunzione
di una totalità come produttività nella quale il principio di tutta la realtà trova oggettivazione nell'organismo.
In altre parole, nella natura si trova uno dei modi fondamentali nei quali la natura stessa diventa soggettooggetto determinato:
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l'organismo, appunto, il cui principio della
duplicità originaria di interno ed esterno,
corrisponde al principio stesso della natura
nella sua totalità, cioè l'incondizionato in
quanto produttività originaria.
La filosofia della natura esce essa stessa
da questo processo di autoformazione e il
suo possesso non equivale all'avere a che
fare con una particolare visione teorica del
dato fenomenico, quanto più ad una sorta
di Weltweisheit, una saggezza del mondo il
cui compito sarebbe quello di tradurre il
concetto di un tutto in un'immagine
originaria e di fare dell'uomo il possessore
di una saggezza che comprenda l'identità e
l'alterità, in una natura quale finitezza
organizzata e organizzante.
Il progetto giovanile schellinghiano di una
filosofia della natura si inquadra, all'interno
di un rigoroso disegno trascendentale, sul
piano di una ricomprensione generale del
rapporto fondamentale tra uomo e natura
entro il quale la sfera delle scienze
empiriche rappresentano un incompleto,
seppur decisivo, primo passo.
4.2 La filosofia della natura e l'idealismo trascendentale
L'ideale dei giovani studenti di Tubinga, l'affermazione dell'universale presenza di Dio, il vagheggiamento di
una nuova Chiesa di spiriti liberi, in cui l'umanità rigenerata celebri l'avvento del regno di Dio, si attua nel
primo Schelling con l'adesione alla nuova filosofia della libertà di Fichte, la cui interpretazione viene mediata
dal pensiero di Spinoza. Errore di quest'ultimo era stata l'identificazione dell'Assoluto con l'oggetto, la sua incapacità d'intendere
l'incondizionato come Io. Il principio fichtiano, l'Io, è il luogo in cui l'incondizionato si manifesta come libertà
assoluta, non determinata da alcun oggetto, ma precedente la posizione stessa degli oggetti.
Esso può essere colto nella sua infinità e nel suo carattere di autodeterminazione e autorelazione,
fichtianamente, solo dalla ragione pratica; la rilevanza che il libero agire dell'uomo assume per l'intero ambito
del finito, induce però Schelling a indagare la natura come premessa, quasi preistoria del mondo della libertà
umana. Il problema dei rapporti tra l'assoluta libertà e il mondo naturale, in cui essa appare alienata e come
cristallizzata in forme oggettuali, porta Schelling alla considerazione della presenza dell'ideale nel reale come
ricerca autonoma rispetto a quella, d'indirizzo trascendentale, che esamina la produzione dell'oggetto nella
coscienza.
L'oggettualità si mostra nella filosofia della
natura come arresto, termine provvisorio di
un processo di per sé infinito e
inarrestabile di cui la natura produttrice
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consiste, e che trae la sua origine dalla
scissione originaria dell'identità e dalla sua
ricomposizione a livelli sempre più alti. La processualità costituisce l'aspetto
sostantivo della natura e risolve
perennemente l'oggetto in un momento
d'equilibrio tra tensioni opposte, determina
il suo permanere interno tramite relazioni
con l'esterno e viceversa: all'atomismo
fondato sulla permanenza separata degli
elementi del reale, affermato dalla fisica
meccanicistica, si sostituisce un dinamismo
universale, in cui il singolo e il tutto si
condizionano reciprocamente in un
universo insieme unico e plurale. La natura
stessa assume così i caratteri propri di un
soggetto e la filosofia della natura ottiene
dignità di disciplina filosofica allo stesso
livello di quella
trascendentale (Ideen zur einer Philosophie der Natur, 1797; Idee per una filosofia della Natura; Von der
Weltseele, 1798; L'anima del mondo; Erster Entwurf eines Systems der Naturphilosophie, 1799; Primo
abbozzo d'una filosofia della natura). Si poneva così il problema della collocazione delle due filosofie,
parallele ma dotate di direzioni opposte, procedendo la prima dal polo oggettivo a quello soggettivo, dal
soggettivo all'oggettivo la seconda. L'egemonia della filosofia dell'Io e della coscienza, presupposto della Dottrina della scienza fichtiana, ne
risulta incrinata. Così nel System des transzendentalen Idealismus (1800; Sistema dell'idealismo
trascendentale) sono già contenuti i germi del conflitto con Fichte. La filosofia trascendentale stessa è per
Schelling la storia della coscienza di sé, in cui dalla dualità originaria dell'Io, che distingue in esso un'attività
reale, inconscia, producente gli oggetti, e una ideale che si riflette su di essi e distinguendoli da sé ne diviene
cosciente, si svolge un processo di riconoscimento dell'Io nelle sue produzioni, che conduce al suo culmine
in un atto assoluto di volere in cui l'Io diviene oggetto a se stesso come producente, cioè soggetto e oggetto
insieme.
Dalla filosofia teoretica si passa così alla filosofia pratica, dove l'Io appare come producente con coscienza,
realizzante, e alla filosofia dell'arte, che Schelling considera come l'organo universale della filosofia: nell'arte,
infatti, lo spirito ritrova alfine se stesso superando la scissione fra ideale e reale, conscio e inconscio,
soggettivo e oggettivo (Philosophie der Kunst, 1802-03; Filosofia dell'arte).
4.2.1 Il sistema dell'identità e la sua rottura
Il breve passo che Schelling doveva ancora compiere per superare definitivamente l'idealismo soggettivo di
Fichte è fatto nella Darstellung meines Systems (1801; Esposizione del mio sistema) cui fa seguito il
suggestivo dialogo Bruno oder über das göttliche und natürliche Prinzip der Dinge (1802; Bruno o sul
principio divino e naturale delle cose). Negli scritti della fase che ora inizia (tra cui Philosophie und Religion,
1804), l'unità assoluta d'ideale e reale, la radice unica di essere e sapere è raggiunta e posta
immediatamente al centro del sistema, che si qualifica come sistema dell'identità incondizionata. Il problema che ora tormenta Schelling è quello dello status e dell'origine del finito, e a esso sono dedicate le
Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit (1809; Ricerche filosofiche
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sull'essenza della libertà umana).
Di contro all'intatto riposare in sé, sottratto
a ogni mutazione e compromissione,
dell'Assoluto qual era riconosciuto nel
sistema dell'identità, le Ricerche mostrano
che in Dio stesso è presente un principio
oscuro e irrazionale, la sua natura, il
fondamento, principio della scissione e
radice di quell'egoità che è base della
finitezza. L'unione del principio luminoso e di quello
oscuro e la loro possibile separazione
danno ragione della presenza del bene e
del male, sorgendo quest'ultimo dal
resistere delle forze oscure del
fondamento contro il desiderio divino di
manifestarsi e realizzarsi in un universo. L'universo nasce come scissione e ha
storia come lotta tra i due principi, che si
acuisce nell'uomo e nella sua personalità
libera capace di scegliere il male per il
male, ed è destinata a servire da via per il
ritorno a Dio attraverso la totale
compenetrazione della creazione da parte
della sua luce.
Le Ricerche sono così ricche di fermenti capaci di portare ben oltre il sistema dell'identità. Questa storia della
manifestazione divina si arricchisce, nella fase del Weltalter, di un lavoro speculativo intorno al problema
della creazione. In quest'opera infatti Schelling giunge a cogliere l'atto creatore non più come conseguenza
dell'essenza divina, ma come assolutamente non necessitato, abbandonando l'identificazione di libertà e
necessità. Su questa base prosegue, negli anni di Monaco, l'edificazione di una filosofia positiva, che si contrappone al
razionalismo del sistema giovanile perché non riduce la realtà, il quod (Dass) al logico, all'essenza (quid,
Was), ma muove da un atto che precede qualsiasi potenza, qualsiasi determinazione logica dell'essenza ed
è perciò assolutamente libero. Solo da questo atto la ragione, che di per sé può dar luogo solo a una filosofia
negativa, è posta nel suo diritto.
L'essenza divina è definita da tre determinazioni (o potenze): la potenza pura o egoismo, l'essere puro o
volontà al di là di ogni egoità, l'essere libero di esserlo, che esprimono ciò che Dio è se egli è, se si realizza
con un atto insondabile. La filosofia, affermando questo atto originario di libertà divina, che giace al di là di
ogni necessità logica, esce così dal chiuso di un razionalismo unilaterale e diviene compiutamente storica,
accogliendo in sé il principio del divenire della storia cosmica nella sua irriducibile realtà.
Negli anni di Berlino il significato della filosofia negativa, come filosofia puramente razionale, quindi in sé
falsa e da escludersi dal sistema positivo, muta: essa diviene preparazione, ascesa all'atto assoluto,
rientrando così nel sistema stesso che si reduplica, constando di due filosofie, ascendente al principio reale
l'una, discendente da questo l'altra.
A questa, variamente atteggiata, dottrina dei principi seguono, nel sistema, due sezioni trattanti la storia della
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manifestazione divina: la Philosophie der Mytologie (postuma, Filosofia della mitologia), che mostra nello
sviluppo del politeismo il processo teogonico della coscienza, passato immemorabile che attraverso lo
smarrimento nella pluralità dei miti segna la preparazione alla manifestazione personale di Dio nel Cristo,
oggetto della Philosophie der Offenbarung (postuma, Filosofia della rivelazione).
4.3 Idee per una filosofia della natura: la struttura finalistica e dialettica del reale
La filosofia della natura di Schelling è una costruzione tipicamente "romantica" che prendendo spunto dai
problemi sollevati dalla critica del Giudizio di Kant (a proposito della finalità degli organismi viventi) e della
Dottrina della scienza di Fichte, si nutre di suggestioni disparate , che provengono sia dalla scienza
dell’epoca (in particolare dalla chimica e dagli studi sull’elettricità e sul magnetismo) sia dalla cultura
filosofica del passato (dal pensiero greco e cristiano, dal naturalismo rinascimentale, da Spinoza e da
Leibniz).
Alla base di tale filosofia c'è il rifiuto dei due tradizionali modelli esplicativi della natura: quello meccanicisticoscientifico da un lato e quello finalistico-teologico dall’altro. A questi due modelli Schelling contrappone il
proprio organicismo finalistico e immanentistico, ossia uno schema secondo cui:
1) ogni parte ha senso solo in relazione al tutto e alle altre parti (= organicismo);
2) l’universo non si riduce ad una "miracolosa collisione di atomi", poiché al di là del meccanismo delle sue
forze si manifesta una finalità superiore ("oggettiva e reale" ) che, tuttavia, non deriva da un intervento
esterno, ma è interno alla Natura stessa (=finalismo immanentistico). Infatti, argomenta Schelling, dal punto
di vista della sua terza via fra meccanicismo e finalismo tradizionale, sebbene in natura esista una
connessione preordinata fra parte e tutto, mezzo e fine, tale connessione non è prima conosciuta da una
mente e poi realizzata nelle cose, come accade nel caso delle produzioni artificiali o del Dio-Architetto.
Ora, parlare in termini di "organizzazione" e di "scopo" significa ammettere che la natura obbedisce ad un
"concetto", ovvero ad una "programmazione intelligente". Da ciò l’idea di uno "Spirito" o di una entità
spirituale inconscia immanente nella Natura a titolo di "forza" organizzatrice e vivificatrice dei fenomeni o
forza che Schelling, rifacendosi agli antichi, denomina anche con il termine di "Anima del mondo",
precisando che la natura costituisce un Tutto vivente, ovvero un immenso organismo in cui ogni cosa,
compresa la sfera inorganica, risulta dotata di vita.
Essendo spirito, sia pure inconscio, la
Natura presenta gli stessi caratteri di
fondo che Fichte aveva attribuito all’Io.
Essa è infatti un’attività spontanea e
creatrice, che esplica se stessa in una
serie infinita di creature. E come l’Io
fichtiano non poteva realizzare se
stesso se non a patto di dualizzarsi in
soggetto ed oggetto, così la Natura
schellinghiana non può fare a meno di
polarizzarsi o dialettizzarsi in due
principi di base: l’attrazione e la
repulsione. Difatti, ogni fenomeno è l’effetto di una
forza che è come tale limitata e perciò
condizionata dall’azione di una forza
opposta; ogni prodotto naturale si
origina da un’azione e da una reazione
e la natura agisce attraverso la lotta di
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forze opposte. Se la lotta fra le due forze opposte si considera nei rispetti del prodotto, sono possibili tre casi: che le forze
siano in equilibrio e si hanno allora i corpi non viventi; che l’equilibrio venga rotto e sia ristabilito, e si ha
allora il fenomeno chimico che l’equilibrio non venga ristabilito e che la lotta delle forze sia permanente, e si
ha allora la vita.
4.3.1 La natura come "preistoria" dello Spirito
Secondo Schelling, le tre manifestazioni universali della Natura, nelle quali si concretizza la polarità
attrazione-repulsione, sono il magnetismo, l’elettricità e il chimismo. Il magnetismo esprime la coesione
grazie alla quale le varie parti dell’universo gravitano le une verso le altre. L’elettricità esprime quella polarità
dialettica che fa del mondo la sede di un’opposizione di forze di segno contrari. Il chimismo esprime quella
incessante metamorfosi dei corpi che fa dell’universo una grande fucina in cui si fabbricano per sintesi le più
svariate realtà. A queste tre forze corrispondono, nel mondo organico, la sensibilità, l’irritabilità (che è la
proprietà di reagire agli stimoli del mondo esterno) e la riproduzione.
Con l’intento di ricostruire unitariamente la storia della natura, Schelling articola la storia dell’universo in tre
diverse "potenze" o livelli di sviluppo, sottolineando come in ognuna di esse operino le tre sopraccitate forze
del magnetismo, dell’elettricità e del chimismo. La prima potenza è rappresentata dal mondo inorganico; la seconda dalla luce, in cui la Natura si fa visibile a
se stessa, la terza dal mondo organico, nel quale, con la sensibilità, abbiamo il preannuncio aurorale
dell’autocoscienza.
Complessivamente riguardata, la Natura si configura quindi come uno spirito inconscio in moto verso la
coscienza, cioè come un processo in cui si ha una progressiva smaterializzazione della materia ed un
progressivo emergere dello Spirito. In altri termini, la Natura, lungo un percorso che va dai minerali all’uomo, appare coma la "preistoria dello
spirito" o come il passato trascendentale della coscienza, ovvero (per usare un’immagine già presente in
Schelling e che sarà cara a Ernst Bloch) come un’ "odissea" dello spirito il quale "si cerca" attraverso le
cose, per giungere finalmente presso di sé, con l’uomo. Ed ecco un passo meno noto, ma non meno significativo, tratto dalla Esposizione del mio sistema filosofico
(1801): "Come la pianta si chiude nel fiore, così tutta la terra si chiude nel cervello dell’uomo, che è il sommo
fiore di tutta la metamorfosi organica".
4.3.2 Fisica "speculativa" e pensiero
scientifico
Schelling ha definito la propria filosofia della
natura fisica "speculativa" o "a priori". Queste
espressioni non significano, come si intende
talora, che egli abbia voluto costruire
un’immagine della natura che prescinde
dall’esperienza. Infatti, nel linguaggio di
Schelling, dire che la fisica procede a priori
significa dire che essa procede
sistematicamente, ossia mostrando come
ogni fenomeno naturale testimoniato
dall’esperienza faccia parte di una totalità
organica da cui necessariamente deriva ed
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entro cui necessariamente si colloca.
In altri termini, la fisica speculativa di
Schelling non intende essere una deduzione
"a tavolino", incurante dell’esperienza, ma
uno sforzo di tradurre l’a posteriori in a priori,
ossia un tentativo di organizzare
sistematicamente e secondo necessità il
materiale offerto dall’esperienza e dalla
scienza.
Ovviamente, un procedimento di questo tipo cela il pericolo di una manipolazione arbitraria dei dati della
scienza. Questo è appunto il rilievo dei critici e degli scienziati, che hanno finito per accusare Schelling di
essersi sterilmente allontanato dalla metodologia galilleiano-newtoniana e di aver costruito una sorta di
"romanzo della natura".
Ciò non toglie che la fisica speculativa di Schelling abbia avuto taluni "meriti storici", su cui hanno insistito
soprattutto i critici odierni. Uno di essi è di essere riuscito a "stimolare nella gioventù tedesca all’epoca
l’interesse per i fenomeni naturali, specie per quelli allora meno conosciuti, come l’elettricità e il magnetismo,
e più ancora per i fenomeni totalmente trascurati dalla scienza illuministica, come il sogno, l’ipnotismo, la
telepatia ecc."
Un altro merito è di aver mostrato i limiti del meccanicismo tradizionale e di aver posto l’esigenza di studiare
la natura, in particolare il mondo organico, con schemi più appropriati. Un altro titolo è di aver contribuito ad
alimentare le ricerche di morfologia comparata (fra gli scienziati che subirono l’influenza diretta di Schelling in
questo settore di studi ricordiamo Lorenz Oken, che pubblicò nel 1809-1811 un Trattato di filosofia della
natura). Un altro pregio è di aver contribuito a preparare una mentalità "evoluzionistica" in senso lato.
Intendiamoci bene. Pur parlando di evoluzione e pur concependo la natura in modo "piramidale", ovvero
come una serie di grandi mettenti capo all’uomo, Schelling non può essere considerato un "evoluzionista".
Infatti, le "potenze" o le "epoche" della Natura di cui egli parla non sono, presumibilmente, dei gradi
temporalmente successivi dell’Universo, ma dei momenti ideali, e quindi simultanei, della sua eterna
dialettica ed organizzazione.
Analogamente, la natura e l’uomo non rappresentano due tempi successivi della storia del mondo, ma due
momenti ideali di un’unità originaria (l’Assoluto) che è da sempre natura e spirito. In altri termini, "Ad una
prima considerazione sembra che Schelling usi concetti (come quello di evoluzione) che saranno propri della
scienza del XIX secolo. Ma in realtà niente è più estraneo alla filosofia schellinghiana del concetto di
evoluzione".
Tuttavia, non bisogna neppur dimenticare che
"la teoria dell’evoluzione di quel tempo si è
appoggiata, presso una serie di ricercatori
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illustri, a questa concezione metafisica, e che
da essi è stata guidata alle sue scoperte più
importanti". Infatti, era sufficiente prospettare in termini
temporali ciò che in Schelling era ancora
pensato in termini ideali e metafisici, per
trovarsi in un sistema teorico di stampo
evoluzionista.
Infine è bene ricordare che l’idea di una finalità
immanente della natura, ossia l’originale
concetto di un fine inconscio interno ai
fenomeni maturali (senza che essi siano stati
consapevolmente ed esternamente
programmati in vista di uno scopo), continua a
suscitare l’interesse di quei filosofi e di quei
scienziati che, pur rifiutando l’ottica
meccanicistica, non accettano, per questo, il
finalismo teologico tradizionale (ossia la
nozione di un Dio-Artefice e Programmatore
del mondo).
4.4 Il sistema dell'idealismo trascendentale
Come la natura si evolve verso il principio intelligente, così lo Spirito percorre il processo inverso, che si
attua nella Storia: nel Sistema dell'idealismo trascendentale Schelling affronta così la "filosofia della
coscienza", parallela alla filosofia della natura, ricostruendo le attività dell'Io, al quale si accede soltanto con
un'intuizione immediata e interna, poiché esso non è un semplice sapere oggettivabile dall’esterno, ma è un
sapere del sapere.
La prima epoca di sviluppo della Coscienza è il momento dell'oggettività nel quale l'oggetto viene appreso
come estraneo al soggetto, perché in realtà esso è frutto di una produzione inconscia, che la coscienza non
riconosce ancora come tale. La seconda epoca è invece caratterizzata dal sentimento di sè: l'Io scopre come le sue categorie di pensiero
siano i prodotti della sua stessa attività, prendendo consapevolezza della propria produzione inconscia. Nella terza epoca l'Io si innalza al di sopra della conoscenza, costituita dalla corrispondenza tra forme
inconsce della natura e forme consce del pensiero, per manifestare la sua spontaneità pura. In quest'ultima
fase l'Io pone se stesso ed è essenzialmente volontà, non oggettivabile perché implica un superamento della
stessa fase conoscitiva.
Nella Storia agisce e si attua questa volontà. Schelling vede la storia, come già la natura, in un'ottica finalistica, come una
progressiva realizzazione del Soggetto trascendentale nell'assoluto; (trascendentale è un termine kantiano per indicare appunto
l'attività del soggetto nel suo rapportarsi all'oggetto, attività che si produce nella coscienza critica del filosofare stesso).
Ma la libertà dell'Io qui può apparire come arbitrio, perché la legge del dovere non è come la necessità naturale: l'Io può seguirla o
non seguirla. E tuttavia la libertà non è qualcosa di irrazionale, ma piuttosto di sovrarazionale, poiché essa si attua nella volontà di
scegliere la razionalità stessa dell'etica, divenendo condizione della sua realizzazione.
Per cui la storia non è un seguito sconnesso
di azioni puramente arbitrarie: essa è
paragonata da Schelling a un dramma in cui
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Dio è autore e l'uomo l'attore che collabora
all'invenzione del proprio ruolo. Nell'agire etico così la filosofia pratica da un
lato si avvicina progressivamente e
indefinitamente all'assoluto, ma come già in
Kant e Fichte, ha il limite di non poterlo
realizzare compiutamente. Essa è una "dimostrazione" mai conclusa
dell'assoluto, che come tale resta quindi
ancora (seppure in forme via via minori)
oggetto di fede.
A differenza di Fichte però, Schelling,
recuperando l'idea kantiana del bello di
natura, riconosce nel momento estetico
dell'arte il punto in cui lo scarto tra idea e
realtà, spirito e natura, attività conscia e
inconscia, si annulla in maniera definitiva. Nell'arte agisce infatti quell'intuizione
produttiva che la filosofia teoretica può solo
riconoscere, ma non realizzare.
L’azione estetica è paragonabile a una natura creatrice che obbedisce alle leggi che essa si dà. Il genio cioè
non opera in vista di un fine esterno, ma l’unico scopo del suo operare è l’operare stesso; guidato da
un’ispirazione profonda, che egli domina lasciandosene dominare, egli è consapevole e inconsapevole nello
stesso tempo.
L'artista nella sua attività creatrice realizza così l'unità di ideale e reale dopo che questi due, nella coscienza
dell'uomo, sono stati separati. Per questo l'intelletto non può mai esaurire la comprensione dell'opera d'arte:
essa infatti è un infinito, e non essendo finito non è oggettivabile. Solo con l'intuizione artistica la filosofia
raggiunge il suo scopo, perciò l'arte è per Schelling l'organo principe della filosofia.
Con Schelling la teoria romantica dell'arte ha ricevuto così la sua più profonda teorizzazione. Presentando
l'arte come manifestazione dell'assoluto in cui cogliere l'indifferenza degli opposti, Schelling è considerato il
maggior esponente della corrente dell’Idealismo Estetico.
4.4.1 L'assoluto
Schelling parte dagli stessi presupposti di Fichte: al dualismo di Kant contrappone il monismo, per cui
all'origine di tutto pone un principio unitario, al di fuori del quale non c'è nulla e che chiama assoluto. Questo assoluto presenta caratteri differenti dall'Io Infinito di Fichte. L'Io Infinito crea il soggetto (l'uomo
esistente) e l'oggetto (la natura = non io, necessario per superare gli ostacoli e realizzare la libertà). La
natura risulta essere uno strumento nelle mani dell'Io, del quale si serve per realizzare se stesso.
Schelling vuole riabilitare la natura, vuole
dimostrare che ha realtà propria ed
indipendente, essendo anch'essa attività
creatrice.
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L'assoluto, secondo Schelling, non è solo
soggetto nè solo oggetto, ma è un unità
indifferenziata di soggetto e oggetto, cioè di
natura e spirito, di Io e non Io. Quindi, in quanto unità indifferenziata, natura
e spirito non sono tra loro contrapposti, non si
limitano a vicenda, ma sono due
manifestazione dell'assoluto che presentano
tra loro solo una differenza di grado: la natura
è spirito inconsapevole. Lo spirito è natura
divenuta cosciente.
Entrambe sono manifestazioni dell'assoluto:
- Natura > Incoscienza;
- Spirito > Coscienza.
In quanto unità, per conoscere l'assoluto si
possono percorrere due strade:
1. Filosofia della natura;
2. Filosofia trascendentale.
4.4.2 Filosofia della natura
Schelling interpreta la natura, recuperando la concezione pre-socratica e rinascimentale per cui la natura è
una totalità vivente. Schelling utilizza le più recenti scoperte che sono state conseguite nella fisica, chimica e
biologia, da cui viene fuori un immagine della natura come energia, per rigettare la tradizionale concezione
meccanicistica e materialistica elaborata dalla fisica classica.
Più dettagliatamente, queste nuove scoperte lo portarono a rifiutare due concezione della natura elaborate
prima di lui:
1. Concezione meccanicistica = natura come materia in movimento regolata da leggi meccaniche;
2. Concezione finalistico-teologica = causa trascendente del mondo.
Egli oppone una visione della natura "organicistica", finalistica e immanentistica.
- Organicistica = organismo, totalità organica, all'interno della quale le parti hanno senso solo in relazione al
tutto.
- Finalistica e immanentistica = la natura ha una finalità non imposta dall'esterno (trascendente) ma
interna alla natura stessa (immanente). La finalità è di arrivare all'autocoscienza, cioè diventare spirito,
attuandosi nelle molteplici cose che lo compongono.
Prima di spiegare il processo di attuazione, bisogna spiegare perché la natura è attività auto-creatrice. Essa è una totalità vivente che ha in se
stessa la ragione della propria esistenza,
e in quanto vivente e in continua
trasformazione (non statica come la
natura di Fichte) è attività spontanea e
creatrice.
Essa crea gli oggetti della natura, quindi
se stessa, concretizzandosi in essi.
La natura si attua nelle forme concrete
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del mondo attraverso la lotta tra due
forse opposte presenti nella natura
stessa: Attrazione e Repulsione.
1. Quando queste si equilibrano hanno
origine le sostanza inorganiche;
2. Quando l'equilibrio si rompe e si
ricompone l'effetto è il fenomeno della
luce, attraverso la quale la natura
diventa visibile a se stessa;
3. Quando l'equilibrio si rompe e non si
ricompone si hanno le sostanze
organiche.
Questa lotta rappresenta il processo
attraverso il quale la natura tende a
divenire auto-cosciente, cioè spirito, e
questo avviene con l'uomo che è la più
perfetta delle sostanze organiche.
Schelling dice che la natura è la
preistoria dello spirito.
4.4.3 Filosofia trascendentale
La filosofia trascendentale è complementare a quella della natura, perché entrambe vogliono dimostrare la
stessa tesi, ovvero che l'assoluto è unità di natura e spirito.
Esse però si muovono in due direzioni opposte in quanto la filosofia della natura parte dall'oggetto per
arrivare al soggetto, mentre la filosofia trascendentale va dal soggetto all'oggetto.
Quindi, l'autocoscienza, che nella filosofia della natura era il fine ultimo, qui è il punto di partenza.
L'autocoscienza era presente anche in Fichte, ma con un significato diverso: per Fichte l'autocoscienza è
riferibile solo al soggetto (l'io), mentre per Shelling è sintesi di due attività dialetticamente opposte.
L'autocoscienza contiene un'attività limitata la quale produce inconsapevolmente l'oggetto, il quale viene
perciò sentito dal soggetto come limite. Questa attività limitata viene chiamata anche attività reale per dire
che l'io produce non solo la forma del mondo ma anche la realtà nel suo contenuto materiale.
L'autocoscienza contiene anche un'attività illimitata e limitante, la quale consapevolmente oltrepassa il limite
rappresentato dall'oggetto riconoscendolo come un proprio prodotto. Questa attività è detta anche attività
ideale per dire che questa riconduce a sé l'oggetto.
Queste due attività sono dunque due aspetti di una stessa attività, ovvero dell'autocoscienza, che è sintesi
dell'una e dell'altra. Questa sintesi non è statica, ma dinamica, in quanto continuamente l'attività reale
produce l'oggetto e l'attività ideale lo oltrepassa.
In questa sintesi assoluta consiste l'intuizione intellettuale che l'io ha di se stesso, come unità indistinta di
soggetto e oggetto, di natura e spirito, ciò vuol dire che l'intuizione intellettuale viene intesa da Shelling in
modo diverso:
Fichte > L'io si intuisce come soggetto;
Shelling > L'io si intuisce come unità di oggetto e soggetto;
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Ciò significa che nell'autocoscienza la natura
ha lo stesso valore dello spirito.
Questa autocoscienza si sviluppa per gradi
successivi, l'io non diventa autocosciente in
modo immediato, ma prende coscienza
progressivamente attraverso tre tappe che
Shelling chiama "epoche".
- La prima epoca va dalla sensazione
all'intuizione produttiva.
La sensazione è il momento in cui il soggetto
sente l'oggetto come esterno e quindi assume
un atteggiamento passivo, nel senso che si
lascia influenzare dall'oggetto.
L'intuizione produttiva è invece il momento in
cui l'io comincia a prendere coscienza di
essere attività, però in questa fase il soggetto
è ancora immerso nelle cose.
- La seconda epoca va dall'intuizione alla
riflessione; la riflessione è il momento in cui
l'io riflettendo su di se si riconosce altro
dall'oggetto. Comprende cioè che non è solo
materia.
- La terza epoca va dalla riflessione alla volontà e in quest'epoca viene portato a compimento il processo
avviato nella seconda epoca.
La volontà è il momento in cui l'io non si sente più condizionato dal non io e si scopre libero.
Infatti l'io dopo essersi distinto dall'oggetto, si coglie come attività e come volontà, cioè come attività
autoproduttrice, quindi come attività produttrice dell'oggetto. Nel momento in cui ha compreso ciò prende anche atto di non essere influenzato dal mondo esterno,
capisce che il mondo ad essere sotto posto alla sua volontà.
Con la volontà si passa dall'attività teoretica all'attività pratica.
Questo spiega lo sdoppiamento della filosofia trascendentale in filosofia teoretica e filosofia pratica.
La filosofia pratica si articola in morale, diritto e storia. La morale è la sfera della libertà, il diritto è la sfera
della necessità, la storia è sintesi di libertà e necessità.
La morale coincide con la libertà in quanto, secondo Shelling, nel momento in cui la morale impone all'uomo
il dovere, presuppone la libertà dell'uomo, la libertà di scegliere se agire o meno in conformità di quel dovere.
Solo l'uomo, quindi, può essere un soggetto
morale, in quanto gli animali non hanno
libertà di scelta ma seguono l'istinto; l'uomo
invece è libero di dire si o no a quel dovere
imposto dalla morale.
Ogni uomo però trova di fronte a se altri
uomini liberi: come si armonizzano le libertà
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dei diversi uomini? A renderle compatibile
provvede il diritto, che limita il singolo
individuo per garantire la libertà di tutti gli
altri.
Questa unità di libertà e necessità si
realizza nella storia, perché nella storia gli
uomini agiscono liberamente in vista dei
propri scopi, ma obbediscono
inconsapevolmente ad un piano razionale e
provvidenziale; proprio come in un dramma,
la storia è il dominio dell'assoluto.
E' nella storia che l'assoluto si realizza
come unità indifferenziata di natura e
spirito.
Se è nella storia che si concretizza,
l'assoluto può essere colto solo dall'arte. L'arte infatti è la vera filosofia, perché nell'opera d'arte si fondono l'ispirazione che è inconsapevole e
l'elaborazione dell'opera d'arte che è consapevole. Per questo non si può trovare in un opera un solo
significato, perché l’assoluto è illimitato.
Alcuni significati sono inconsapevoli anche all'artista, perché inconsapevolmente la sua mano è stata guidata
dall'assoluto.
Perciò l'idealismo è detto oggettivo e estetico: oggettivo perché rivaluta la natura ed estetico perché
considera l'arte come unico strumento con cui è possibile cogliere l'assoluto.
4.5 La Filosofia della Rivelazione
4.5.1 Prima lezione
La prima lezione della "Filosofia della Rivelazione o fondazione della filosofia positiva" tratta della filosofia in
generale. Ponendosi nei panni del principiante, Schelling, quasi rimettendosi in gioco, comincia col dire che
lì, in quell'aula, dovrà esser data risposta a tutte quelle domande che "scuotono ogni spirito retto". Egli soffia
sul fuoco delle aspettative dei suoi numerosissimi discepoli e contemporaneamente sul fuoco delle sue
convinzioni già maturate e vagliate. Dopodiché comincia a tessere la sua tela. L'uomo, punto d'arrivo e meta
di ogni divenire e di ogni creazione, è anche "punto, nel quale la natura, fin qui cieca, sarebbe giunta
all'autoconoscenza". Con questi brevi ma efficaci concetti, egli fornisce a ogni studente uno "scudo" per difendersi dal deprimente
spettacolo che offre uno sguardo attento alla storia di questo mondo: "Questo mondo della storia presenta
uno spettacolo così sconsolante da farmi disperare di poter riconoscere un fine, e a maggior ragione, di
conseguenza, una vera ragione del mondo. Tuttavia offre al discepolo anche una "spada" per combattere
tale stato d'animo:"Io intendo una filosofia forte, che sia in grado di misurarsi con la vita e che, ben lungi dal
sentirsi impotente di fronte alla vita e alla sua prodigiosa realtà e di occuparsi della triste faccenda della
semplice negazione e distruzione, tragga dalla realtà stessa la sua forza e perciò anche, di nuovo, produca
qualcosa di operante e consistente".
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La filosofia di Schelling è dunque fondamentale: crea le fondamenta per pensieri che sappiano dirigersi
verso l'"alto", e dà la possibilità di creare "materia vivente" e non "cadaveri". E' dunque anche una filosofia del bello e del buono, del vivo. Schelling conclude la lezione con due
considerazioni, una della quali ci riporta ai nostri giorni, per farci vedere come anche oggi si ripresentino a
volte gli stessi problemi di allora: "in molti circoli la filosofia è divenuta a poco a poco affare di parte, dove non
si ha più a che fare con la verità, ma con la difesa di un'opinione". Chiude la lezione ripromettendosi di partire da Kant, il ripropositore dell'antica metafisica, e anticipando che
la filosofia nel suo sviluppo si è distinta in negativa e positiva, e che l'unione di questi due lati consegnerà il
vero volto della completa filosofia. Ma poiché questo tema l'ha già trattato, si soffermerà sulla filosofia
negativa o razionale solo per quel che riguarda la sua fondazione generale. 4.5.2 Seconda lezione
In questa seconda lezione continua il
discorso sulla filosofia in generale. Si comincia con una considerazione: il vero è
facile, per tanto è meglio non fidarsi dei
discorsi difficili e oscuri. In effetti
l'esposizione schellinghiana è abbastanza
"semplice" per quanto può esserlo un parlare
filosofico. Per sua stessa ammissione il contenuto delle
sue esposizioni non riposa su assiomi
predeterminati, ma ha il carattere del
dinamismo, del movimento che dà vita al loro
sviluppo incessantemente. Una cosa che va sottolineata, e che a noi sta
molto a cuore, è l'invito ad usare il proprio
pensiero: "il punto fondamentale dev'essere il
proprio spontaneo pensiero, la propria
intelligenza, che è ciò che bisogna usare. Non solo siamo invitati ad usare il nostro
pensiero, ma dobbiamo farlo in maniera
spontanea.
Qui sicuramente viene messa in evidenza l'autonomia della scelta d'un pensiero. E quando si può essere
autonomi? Allorché non esiste alcun condizionamento fisico, emotivo o mentale, cioè quando si gode di totale libertà. Solo allora si ha l'opportunità di "spiccare il volo" tramite l'intelletto; solo allora ci si può dedicare alle cose
"alte", supreme. Uno studio della sola materia cristallizza lo spirito. Se noi ancora oggi parliamo di Aristotele è perché
riconosciamo in lui sia lo "scienziato" , sia il metafisico, colui che con slancio mentale va oltre la pura fisicità.
Non per nulla Schelling ammonisce i suoi: "Non ha goduto della vita accademica colui per il quale essa non è
trascorsa in intimo legame con persone di uguale sentire, in una comune fatica per raggiungere convinzioni e
luci sulle cose supreme". Quell’intimo legame con persone di uguale sentire ci riporta ancora una volta al problema della scelta delle
persone giuste con cui accompagnarci. Su questo tema Schelling torna spesso, perché sa quanta
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importanza riveste per i giovani una compagnia sana. E bacchetta spesso i falsi maestri che indirizzano sovente la gioventù, anziché verso metodi che possano
procurare forza e strumenti per convinzioni che siano da guida, verso i soli problemi politici: "non è amico
della gioventù chi cerca di riempirla della pena e della cura del mondo o dell'andamento del governo dello
Stato, mentre essa deve innanzitutto procurarsi la forza per dei sentimenti e delle convinzioni che la guidino".
Quindi porre prima le fondamenta, la base, e poi "costruire" il proprio pensiero, o meglio farsi "innalzare"
dalla spontaneità del proprio pensiero con le ali della metafisica. Lo studio di essa deve essere centrale. E noi
auspichiamo che si ritorni a studiarla con nuovi
slanci, perché l'attuale momento nichilista deve
in qualche modo essere fronteggiato, non per
partito preso, ma perché toglie ogni senso al
tempo, al futuro, alla storia, e rende vana la vita
diffondendo un senso di vanità e disperazione
che porta al caos e all'anarchia. Ma per costringerci a quel confronto con la
realtà di cui parlava prima, Schelling ci ricorda
che metafisica non è solo religione, e anche la
virtù, anche la venerazione per la legge e
l'amore per la patria.
Quanto suonano d'attualità tali parole, e come
farebbero bene ai nostri giovani, se qualcuno di
buon senso le pronunciasse nelle aule
universitarie di tanto in tanto. Senza metafisica, conclude il suo discorso
Schelling, sarebbe un disastro, ed il risultato
sarebbe la morale di Falstaff espressa prima di
una battaglia: "…è l'onore che mi sprona.
Già, ma se l'onore mi spunta dalla lista mentre io sto avanzando, e allora? L'onore può rimettermi a posto
una gamba? No. O un braccio? No. O a farmi passare il dolore di una ferita? No. L'onore non è forte in
chirurgia, allora? No. Che cos'è l'onore? Una parola. E che cosa c'è in quella parola onore? Che cos'è
quell'onore? Aria. Un gran bell'affare! Chi ce l'ha? Quello che è morto Mercoledì. Se lo sente? No. Lo
ascolta? No. E allora, é qualcosa che i sensi non percepiscono? Sì, è per i morti. Ma non vive con i vivi? No. Perché? La
calunnia non lo può permettere. Perciò non me ne faccio niente. L'onore è solo un blasone buono per i
funerali. E così finisce il mio catechismo". Credo che Shakespeare non abbia bisogno di commenti, ma sono
sicuro che un cattivo maestro saprà trovare delle giustificazioni al comportamento di Falstaff. Noi, lo
confessiamo, non sappiamo andare oltre una comicità che fa riflettere. Il grande drammaturgo con tale
personaggio mette a nudo uno dei tanto caratteri umani, mette a nudo l'anima di chi riesce a giustificare la
propria meschinità, il proprio egoismo, il proprio tornaconto.
Ben altro esempio quello di Socrate, che pur di non disubbidire alle leggi di Atene preferisce morire!
Purtroppo, di Falstaff in giro per il mondo ce n'è parecchi, ed alcuni si spacciano pure per maestri. In
democrazia è permesso pure questo, e non sarebbe grave di per sé.
La cosa comincia a preoccupare quando riescono ad accalappiare qualche discepolo di poca volontà.
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E ancora una volta invitiamo tutti ad usare la ragione, e soprattutto a compiere il proprio dovere. Se si è
insegnanti, si ha il dovere di insegnare; se discepoli, di apprendere; e così via. Tutto questo è anche
metafisica. Ma ecco che Schelling, ancora una volta, invita, sprona i suoi discepoli a porre ciascuno le basi, le
fondamenta della propria esistenza: "Nelle ore sane di questa età felice vengono prese le grandi decisioni,
concepite le idee che poi devono calarsi nell'esistenza: qui ciascuno deve trovare e riconoscere il compito
della sua vita", e poco dopo aggiunge:"Mi sono assunto il dovere di essere per loro, non solo un maestro, ma
anche un amico e un consigliere.
Chi ha già superato "il mezzo del
cammino" della propria vita, sa quanto
sono vere queste parole. Le grandi scelte, quelle che poi
caratterizzeranno il resto della vita si
fanno proprio in quell'età, e chi non ha
provveduto a darsi la rotta, sarà costretto
a navigare nell'oceano della vita su una
barchetta di carta. Schelling è davvero un amico e un
consigliere sincero, e non ci meraviglia
che anche grazie a lui la scuola filosofica
tedesca continuerà per secoli la sua
missione. Ma i consigli in questa lezione
non finiscono qua. Perché egli invita i suoi apprendisti
filosofi ad attingere l'antica filosofia
direttamente alle fonti: leggere
direttamente Platone è mille volte più
proficuo che spulciare diecine di
commentatori. Conclude questa seconda
lezione invitando chi vuol fare della
filosofia il suo studio particolare, a
incominciare da Kant.
4.5.3 Terza e quarta lezione
Schelling, parte da Kant e dalla sua Critica della ragion pura che a sua volta si rifà all'antica metafisica.
Giunto ai concetti universali, agli a priori kantiani, ci ricorda con Aristotele che usare l'intelletto è una sorta di
patire, nello stesso modo in cui ciò che "riceviamo dall'esperienza è qualcosa che prendiamo, ma non
produciamo. E procedendo a ritroso arriviamo all'Iliade ottenuta per caso lanciando in aria le lettere dell'alfabeto. Se tutti i
grandi fondatori di religione parlano di anima per diretta esperienza, se milioni di santi di ogni fede hanno
avuto esperienze che confermano l'anima, se Plotino volava con essa, se Paolo veniva rapito nei cieli, se
migliaia di gente comune asserisce di avere avuto strane esperienze, tutto questo un pensatore coi piedi per
terra, secondo loro, lo deve solo ignorare.
Se poi qualcuno come Jung, medico psichiatra, afferma di essersi trovato alto nel cielo e di essere stato
cosciente, viene subito accusato quasi con compassione e con disprezzo, di essere un mistico, come se
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essere mistico significasse essere idiota. Ce l'abbiamo con la scienza? No. Critichiamo solo alcuni boriosi, e
a nostro parere miopi uomini di scienza. Scienza e filosofia devono andare di pari passo, ma l'una non può, non deve trascurare
l'altra. Come esempio vogliamo ricordare come tanti altissimi ingegni hanno attinto ad alchimia e cabala,
forme di misticismo. Quindi lasciateci porre una domanda provocatoria: non è che senza certe speculazioni
cosi dette mistiche certi scopritori non avrebbero scoperto un bel niente? Chiusa la parentesi.
L'esperienza, dunque, "è qualcosa che
prendiamo", essa ci offre quanto stava lì
in attesa d'esser preso. L'esperienza,
diremmo quasi, è un incontro. Schelling
si soffermerà dopo sulle categorie a
priori di Kant, per giungere poi
attraverso Fichte al suo tempo: "Kant
riteneva che si desse una conoscenza a
priori delle cose, ma da questa
conoscenza a priori escluse la cosa più
importante, e cioè l'esistente stesso, l' in
sé, l'essenza delle cose, ciò che in esse
propriamente E' ". La prospettiva era
che l'esistente stesso si facesse
conoscere a priori. Qui affondò il suo
genio Fichte, che per primo accolse
l'idea di "una scienza totalmente a
priori": tutto deve essere dedotto da un
Prius Assoluto: è l'Io di Fichte: l'Io sono
è atto fuori del tempo attraverso cui
soltanto si giunge alla conoscenza. Per
lui la Natura era nell' Io, era il limite di
esso, quindi puro Non-Io. Fichte
sostenne inoltre la necessità di una
"deduzione generale di ogni conoscenza
a priori da un Principio", e che questa
nesessità doveva essere ricondotta alla
ragione assoluta.
La ragione è dunque soggetto di ogni essere. Ora, "secondo Kant Dio è il concetto supremo della ragione",
ma la domanda è: può la ragione provare che Dio esiste, attraverso l'esperienza? No. Se, come dice Kant, la
ragione è facoltà di conoscere in generale, essa è "infinita potenza di conoscere",a cui non può che
corrispondere " l' Infinita potenza dell'essere". Quindi, poiché la ragione sta prima di ogni essere, si può
affermare che "le cose sono soltanto le particolari possibilità individuate nell'infinita, cioè nell' universale
potenza"
Schelling ci sta introducendo alla Rivelazione. Ma fin da ora comincia a farci comprendere il meccanismo
attraverso cui, un bel giorno Dio decise di rivelar Si.
Lo testimoniano questi passaggi:" La potenza che si muove verso l' essere, finché non si è ancora mossa, è
ancora soggetto dell'essere, uguale a ciò che E'; essa, però, ha soltanto l'apparenza di ciò, perché si
manifesta come ciò che non è, in quanto diviene un altro"…"nella misura in cui esce fuori dalla sua mera
potenza, con ciò esce anche fuori della sfera di ciò che è, entra nella sfera del divenire, ed è perciò l'ente e
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non lo è". Ma in ultima analisi, dice Schelling, l'ente non è ciò che è e ciò che non è, ma ciò che E'. A suo
avviso, con Hegel si è raggiunta l' "apparenza della conoscenza": un concetto era scambiato per esistenza.
Se Dio in Kant era il più alto concetto, rimaneva pur sempre idea. In Hegel divenne pensiero.
4.5.4 Quinta lezione
L' ente, nel senso di archetipo di ogni essere, deve innanzitutto essere il soggetto dell'essere, di ciò che può
essere; deve insomma essere la potenza dell'essere, e non di ciò che ancora dev'essere: la potenza di "ciò
che esso è già". Questo ente che è innanzitutto soggetto, ha con sé il proprio compimento (il soggetto è in sé
un vuoto che deve essere riempito attraverso il predicato). L'ente è perciò tanto immediatamente essente
quanto potenza di essere, ed è proprio il puramente essente , che è pienamente e totalmente oggettivo".
Insomma, nel soggetto, come potenza di essere, l'ente è anche oggetto: è un soggetto-oggetto. Ora, però, soggetto, oggetto e soggettooggetto, non sono l'ente stesso nella sua
purezza, pertanto sono accidentali: tolti
essi, abbiamo il puro ente "la scienza che
compie questa eliminazione dell'
accidentale nel primo concetto dell'ente è
scienza critica, è di specie negativa, e ha
solo nel pensiero, nel suo risultato, ciò che
noi abbiamo chiamato l'ente stesso.
Riconoscere però che quest'ultimo esista
anche nella sua purezza con l'esclusione
dell'essere meramente accidentale, al di là
di quell'essere, non può più essere affare
di quella scienza negativa, ma soltanto di
un' altra che in opposizione a quella dovrà
chiamarsi positiva. Quindi la filosofia negativa, cerca il
suo supremo oggetto, ma di esso, col
pensiero giunge al solo concetto. La
filosofia positiva " invece si rapporta
immediatamente a questo oggetto, all'ente
che si eleva oltre ogni dubbio".
Ovviamente entrambe le scienze, le
filosofie, sono necessarie: è vero filosofo
chi le pratica entrambe.
Schelling precisa che con "negativa" non intende la filosofia di Hegel: "non posso farle tale onore, non poso
concederle di essere negativa, il suo errore base sta pittosto nel fatto che essa vuole proprio essere
positiva. La filosofia esposta da Hegel è la filosofia negativa spinta oltre i propri limiti; essa non esclude il positivo, ma
lo ha, a suo parere, in sé, come a sé sottoposto. Il grande Verbo addotto ripetutamente dagli scolari era: la
piena e reale conoscenza dell'esistenza di Dio che Kant aveva negato alla ragione umana era garantita
attraverso la filosofia Hegeliana; anche i dogmi cristiani erano per essa soltanto un'inezia. Questa filosofia io
l'ho combattuta a lungo nelle mie dissertazioni e continuerò a combatterla".
Schelling ha appena spalancato le porte e le finestre della sua filosofia alla mitologia e alle religioni, cioé alla
Rivelazione. Questa quinta lezione è molto importante per ciò che abbiamo sottolineato: Il Divino della storia
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non può più essere ignorato dalla filosofia, perché è divenuto storia. Schelling, con la sua filosofia positiva, va
oltre il principio kantiano secondo cui non vi è altra filosofia che quella razionale. In ultima analisi, la filosofia
negativa mira al "puro che cosa, all'essenza delle cose; quella positiva, all'esistenza effettiva delle cose.
Certo qualcuno potrebbe accusare Schelling di sentimentalismo, ma è egli stesso a chiarire ogni dubbio: "Io
non sono di coloro che cercano la fonte della filosofia in generale nel sentimento, però per il pensare e lo
scoprire filosofico, come per quello poetico e artistico, il sentimento deve essere la voce che ci ammonisce
su ciò che è innaturale e non è chiaro". Schelling conclude questa importante lezione, con una frecciatina ad
Hegel e con una considerazione finale sulla filosofia positiva. Eccole.
"Per quanto riguarda Hegel, questi si vantava proprio di avere Dio come Spirito Assoluto a conclusione della
filosofia.
Ora, si può pensare uno Spirito Assoluto che non sia al contempo assoluta personalità, un essere
assolutamente consapevole di sé?".
"La filosofia positiva, infatti, può incominciare puramente di per sé , anche soltanto con la semplice
affermazione: io voglio ciò che è sopra l'essere, che non è il semplice ente, ma è più di questo, è il Signore
dell'essere.
4.5.5 Sesta lezione
La Filosofia Positiva ha, secondo
Schelling, origini remote. Aristotele
rimprovera agli Eleati (si tratta in pratica
di Parmenide e Zenone, entrambi di
Elea, colonia Focese in Lucania) che
essi, mentre la loro scienza è solo
logica, ciononostante vogliono lo stesso
dare con essa spiegazioni reali.
La filosofia eleatica provoca solo vertigini
e "non assicura alcun aiuto…esclude
ogni accadimento effettuale".
Quindi per Aristotele con la sola ragione,
con la sola logica si può arrivare fino a
un certo punto e non oltre.
Schelling poi esamina il non sapere
famoso di Socrate: egli "non svaluta ogni
sapere, ma proprio quel sapere di cui gli
altri si vantavano ed in virtù del quale
essi credevano di sapere; anch'egli si
attribuisce quest'ultimo sapere, ma
aggiunge che gli è noto che esso non è
un sapere reale.
Senza un precedente grande sapere, l'affermazione che non si sa nulla è semplicemente ridicola; infatti cosa
c'è di notevole nel fatto che colui che non sa niente assicuri che non sa niente?". Il sapere che egli ha in comune con gli altri "potrebbe essere la pura scienza della ragione".
Noi condividiamo quanto Schelling propone: sarebbe davvero ridicolo esaltare quel non sapere come
qualcosa di straordinario, senza la spiegazione schellinghiana. Certo la cosa è stata interpretata in mille modi diversi, ma nessuno fino ad oggi ci aveva convinto.
Sicuramente Schelling parlava di Aristotele e di Socrate, perché di Hegel s' intendesse. Passa poi a parlare
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di Platone, che, secondo il suo punto di vista, nel Timeo si fa storico ed irrompe nel positivo. Socrate e Platone si comportano entrambi , nei confronti di questo positivo, come di fronte a qualcosa di
futuro, si rapportano a esso profeticamente". Ma Aristotele, dice Schelling, "si è staccato dal Meramente
logico e, al contrario, si è applicato al positivo per lui raggiungibile, all'empirico nel senso più lato della
parola.
E qui Schelling arriva a ciò che gli sta più a cuore, e cioè "screditare" la filosofia di Hegel: "L' a priori non è ,
come lo prese Hegel, una vacuità logica, un pensare che a sua volta ha a proprio contenuto soltanto il
pensare. Il vero logico, il logico nell'effettivo pensare, ha in sé un rapporto necessario all'essere, esso si
porta al contenuto dell'essere e trapassa necessariamente nell'empirico.
La filosofia negativa, di conseguenza, in quanto aprioristica, non è filosofia meramente logica nel senso che
essa esclude l'essere. Soltanto come potenza, infatti, l'essere è contenuto nel puro pensare. Ciò che però è potenza, è secondo la
sua natura portato a saltare nell'essere. Per la natura del suo contenuto , dunque, il pensare è attratto fuori di
sé". I cardini della rivelazione sono tutti qui, e quando affronteremo l'ultima parte, ci ricorderemo di tali
"premesse". La filosofia razionale non può dunque andare oltre l'esperienza, per cui il limite di questa
filosofia rimane inconoscibile. Man mano che la fine s'avvicina, la potenza viene vinta dall'atto. Quindi
l'essenza, il che cosa delle cose, è l'atto finale.
La filosofia negativa ha pertanto il
suo limite nell' "Ultimo", nell'atto
puro. Quindi, l' Ultimo, Dio, è per
Aristotele la fine, e non l'inizio di
"una manifestazione reale".
E' sì causa del movimento, ma E'
immobile. Come un amante verso
cui tendiamo, Dio, pur restando
fermo, ci muove verso di Lui. A
questo punto, Schelling, dopo avere
paragonato Leibniz e Bohme
rispettivamente a Pitagora ed
Eraclito, afferma che Kant rimane
l'Aristotele tedesco, nonostante
certa filosofia moderna, pretende di
passare per aristotelica. Si riferisce
ancora una volta ad Hegel, la cui
filosofia proponeva di un Dio che,
con movimento circolare, si cala
nell'essere più basso e qui
rimarrebbe chiuso, cieco e
sordo, "ma Dio scende
perpetuamente per salire poi
ininterrottamente attraverso gradini
sempre più alti fino alla coscienza
umana, in cui egli, estenuando o
eliminando la propria soggettività,
diviene Spirito Assoluto, soltanto
ora, cioè, propriamente Dio. Tale
movimento circolare sembra a
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Schelling completamente antiaristotelico e inaccettabile.
In ogni caso fermarsi al concetto aristotelico di Dio significherebbe accogliere una Divinità vista più come fine
cui tutto tende, che come principio e causa di tutto. Quindi Schelling, per certi versi, vede in Aristotele un
ateo. Meglio Platone. Ma allora perché la chiesa ha "sposato" la filosofia aristotelica piuttosto che quella
Platonica? Risposta velata: la chiesa ha bisogno di censurare qualcosa; se accoglie un'altra filosofia deve
ammettere che la ragione, e non altro, sia l'origine del cristianesimo. La fine della lezione è dedicata all'empirismo e al razionalismo nati dalla dissolta metafisica scolastica.
Pensiero ed esperienza si compenetrano, dice Schelling: "è erroneo limitare l'empirismo a ciò che
semplicemente cade sotto i sensi" " nessuno sa che cosa c'è in un uomo, se questi non si esprime: nel suo
carattere intellettuale e morale egli è conoscibile soltanto a posteriori , cioè attraverso le sue manifestazioni e
azioni ".
" L'empirismo come tale non esclude dunque affatto ogni conoscenza del sovrasensibile, come di solito si
ritiene e anche Hegel presuppone". " La filosofia positiva ..é appunto capace di conoscere ciò che non può cadere nell'esperienza, ciò che è al di
sopra dell'esperienza". 4.5.6 Settima lezione
Qui si parla dei vari gradi di empirismo filosofico, uno dei quali è il teosofismo come misticismo speculativo:
l'estasi può trasportare a Dio, e con ciò la reale intuizione, sia dell' esperienza divina, sia dei processi della
creazione. Schelling, quando parla di teosofismo, si riferisce propriamente a quello bohmiano: le cose
scaturiscono da Dio "come un procederne reale": la divinità è "impegnata in una specie di processo
naturale".Per la filosofia positiva, invece, Dio non può essere risultato reale di un processo.
Su questo punto, al contrario,Hegel è
totalmente teosofico, e Schelling non
perde occasione di attaccarlo: se la
natura viene "licenziata" da Dio, la
materia esce direttamente da Lui; allo
stesso modo, il Dio di Hegel che nella
logica è chiuso nell'eternità, da essa è
uscito. Ora, per Schelling, "Tutto questo è
tanto teosofico quanto qualcosa può
esserlo in J. Bohme, con la sola
differenza che tale elemento
fantastico in J. Bohme è qualcosa di
originario e di realmente prodotto da
una grande intuizione, mentre qui è
legato a una filosofia il cui indubitabile
carattere è di essere la più pura
prosaicità e un' insipidezza
assolutamente priva di intuizione ".
Quindi esalta la figura di Bohme:
"apparizione miracolosa nella storia
dell'umanità"; "sublime nella sua
specie"; "natura teogonica"; "sempre
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ammirevole".
Tuttavia, alla fine, della teosifia
bohmiana trova il limite: tale
teosofismo è astorico tanto quanto il
razionalismo.
"Il Dio di una filosofia veramente storica e positiva, viceversa, non si muove: agisce "..."Il movimento
sostanziale in cui il razionalismo è chiuso parte da un Prius negativo, cioè da un non essente che deve
anzitutto muoversi verso l'essere. Viceversa, la filosofia storica parte da un positivo , cioè dal Prius essente,
che non deve anzitutto muoversi verso l'essere e che pone dunque un essere soltanto con piena libertà,
senza esservi costretto da se stesso, e pone un essere che non è immediatamente il proprio, ma un essere
distinto dal proprio essere, in cui quest'ultimo è negato o sospeso piuttosto che posto…".
Dunque , la filosofia positiva non parte da un essere presente nell'esperienza, essa parte da qualcosa che è
prima e al di fuori di ogni pensare, dunque dall'essere, però non da un essere empirico…" parte da
un essere assolutamente trascendente. Che la filosofia positiva non parta dall'esperienza, non esclude però
che essa tenda all'esperienza e provi a posteriori il "suo" Dio.
Ora noi diciamo: se questo è un andare indietro, un limite della filosofia schellinghiana, beh!, ben vengano i
limiti. Siamo così arrivati ad un punto importante. Se il Prius della filosofia positiva è assoluto e non ha
necessità di procedere verso l'essere, Se esso trapassa nell'essere, questo può essere solo conseguenza di
un' azione libera di un'azione conoscibile solo a posteriori.
E' così delineato il percorso della Rivelazione che attraverso la storia che dall'Antico Testamento, attraverso
il paganesimo, giunge al Nuovo Testamento e alla figura di Cristo. Quindi, questo Dio realmente esistente
offre alla filosofia l'opportunità di riprendere una ricerca infinita su un regno dell'esistenza incompiuto e
inconcluso. Ecco perché auspichiamo, con Schelling, un ritorno alla metafisica: essa, votata a tale ricerca,
non finirebbe mai. Insomma, sintetizzando quanto finora detto, la filosofia negativa si occupa dell'ente, quella positiva del
Sovraessente. La prima è filosofia conclusa, la seconda, no. Infine, Schelling chiude questa settima lezione
giustificando l'invito a partire da Kant: la filosofia kantiana finiva con il postulato di un Dio realmente
esistente, "dunque con l'esigenza di una filosofia positiva”.
Con l'ottava lezione finisce il libro primo (Introduzione alla filosofia della rivelazione o fondazione della
filosofia positiva), e con la IX lezione comincia il libro secondo, e cioè la prima parte della filosofia della
rivelazione.
4.5.7 Nona lezione
La filosofia della rivelazione scaturisce
dalla filosofia della mitologia. Per
Schelling il paganesimo è un
cristianesimo "rovesciato e deformato", ed
il cristianesimo è prima di Cristo. Più tardi
capiremo queste affermazioni. Quando si
ha un movimento, bisogna considerare
tutti i momenti di esso come parti del fine,
e se la meta costituisce la sua verità, ogni
singolo momento è vero. Il paganesimo è,
in un certo senso, un momento del
cristianesimo, il suo presupposto. La meta
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di tutta la Natura è ciò che sta al di sopra
di essa: l'uomo come spirito: l'uomo "è la
verità dell'intera natura".
A proposito del cristianesimo dice
Schelling: "Non è giusto, in generale,
parlare solo della dottrina di Cristo. Il
contenuto fondamentale del Cristianesimo
è appunto Cristo stesso, non ciò che Egli
ha detto, ma ciò che Egli è, ciò che Egli
ha fatto. Il Cristianesimo non
è immediatamente una dottrina, Esso è
una realtà…".
Sicuramente è questo un punto di vista originale, e lascia intendere come la filosofia della rivelazone si
occuperà di Cristo fin dalla sua scaturigine, vissuta nel paganesimo in un certo modo, e nel così detto
cristianesimo in un altro. L'elemento "storico più alto" del cristianesimo è per Schelling l'incarnazione, l'idea di
un Figlio di Dio che si fa uomo.
Di tale lezione diciamo poco, perché in essa vengono ribaditi e approfonditi concetti già espressi. 4.5.8 Decima e undicesima lezione
In questa lezione Schelling accosta filosofia e morale. Una dottrina immorale non potrà mai essere chiamata
filosofia. Per quanto essa possa essere "prodotta con inconsueta acutezza", per quanto possa avere
apparenza di verità, non potrà mai essere filosofia, perché questa dirige la mira più alla morale, che al
razionale. Tanto è vero che, quel filosofo la cui filosofia viene criticata non si sente attaccato solo
nell'intelletto ma si sente anche "diminuito nel suo valore morale e nella sua volontà. Sì, perché la filosofia è
prima di tutto un "volere", uno sforzo titanico verso la vera saggezza che altro non è che la fine permanente,
la cui non conoscenza preclude la stessa saggezza. Ma la ricerca di essa presuppone anche un abbandono
al senso del mondo: l'uomo, all'inizio della sua esistenza si ritrova immerso in un fiume il cui flusso lo
costringe. Egli deve sapersi abbandonare ad esso, non deve resistergli.
Tuttavia non deve farsi travolgere, ma "deve imparare a comprendere il senso di questo movimento" e
distinguere ciò che è modificabile da ciò che non lo è, "per cambiare laddove è possibile il cattivo in buono".
Il filosofo non può dunque procedere come capita, ma fin dall'inizio deve alzare con libertà e previsione le
vele della saggezza.
"La Via del Cielo è di non lottare, e nondimeno saper vincere; di non parlare, e nondimeno saper rispondere;
di non chiamare, e nondimeno far accorrere; di essere lenti, e nondimeno saper fare progetti". L'abbandono dev'essere dunque vigile,
dev'essere come un silenzio prima dell'intuizione,
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una terra vergine pronta ad essere seminata e a
dar frutto, e questo è saggezza. Ma per quanto si
è detto precedentemente, la filosofia deve partire
non dal già essente, ma da cio che sarà, "ciò che
immediatamente può essere". Ciò che sarà è solo
il prodotto di un volere, null'altro.
Viene fatta ora una considerazione importante:
La volontà di essere, una volta avviata, accesa,
non è più la stessa, e siamo di fronte al
"necessariamente essente". Ciò, quella potenza che poteva scegliere fra
essere e non essere, adesso non è più padrona di
sé nello stesso senso "in cui si dice che un uomo
è fuori di sé". Così l'immediata potenza di essere
non ha potere su se stessa. E Schelling coglie
l'occasione per rivolgerci una raccomandazione:
"Con nulla (sia detto di passaggio) l'uomo
dev'essere tanto economo quanto con il suo
potere, poiché lì risiedono la sua vera potenza e la
sua forza, e ciò che egli conserva in sé come
potere, ciò appunto costituisce il suo immortale
tesoro da non perdere, dal quale egli deve
attingere, ma che egli non deve esaurire". Quindi si può dire che, quanto pensiamo prima e sopra dell'essere, non è nulla, ma E' e basta, "esso E',
soltanto non nel senso di ciò che in seguito sarà". Siamo davanti all' "essere puramente essente", che altro
non è che volontà capace di volere, ed è come nulla". Insomma, potenza di essere e puramente essente non sono sostanza, ma soltanto determinazioni dell'Uno
sovra reale". Conclusione: quest' Uno è entrambi; entrambi sono la stessa sostanza. Quando parleremo del Padre e del Figlio, e del problema del bene e del male, nella rivelazione, capiremo
meglio questi concetti, che già qui aprono vasti orizzonti. Per ora accontentiamoci del fatto che l'oggetto non
è questo o quella, ma L' Uno.
A questo punto, se si pone come soggetto la potenza di esser e come oggetto il puramente essente,
otteniamo un "terzo" che è un inscindibile: soggetto-oggetto…che non può perdere se stesso. Possiamo dunque dire che il "non dovente essere" è celato nel "dovente essere", come il male del bambino
è celato nel bene. Però non si deve pensare ad un "non dovente essere" come principio del male". Male può
chiamarsi solo un "non dovente essere" esplicato: …, per tanto "il male come tale è possibile solo nella
creatura".
Schelling conclude l'undicesima lezione affermando che questo Uno è universale totalità, e che ciò-che-sarà,
il soggetto di ogni essere, è "necessariamente" totalità universale. Quindi la sua filosofia tratta del tutto: la
parte è il tutto ed il tutto è la parte. "Ora, questo è il carattere della perfetta spiritualità. Nello spirituale l'inizio
non è fuori della fine, ne la fine fuori dell'inizio, l'inizio è appunto là dove è anche la fine, e la fine appunto là
dove è anche l'inizio - come Cristo descrive lo spirito paragonandolo al soffio del vento: il vento spiria dove
vuole (cioè ogni punto è per Lui uguale), e tu senti bene il suo sibilo, però non sai da dove venga e dove
porti, tu non puoi cioè separare in esso l'inizio dalla fine, esso è ovunque inizio e ovunque fine…". Ciò-chesarà è dunque Spirito compiuto e assoluto.
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4.5.9 Dodicesima, tredicesima e
quattordicesima lezione
Schelling può adesso dichiarare di
aver trovato "ciò che è prima e
sopra dell'essere"; che la vecchia
filosofia relazionava Dio e il mondo
tramite concetti, e che con la
filosofia oggettiva inaugurata da
Kant, la relazione deve avvenire
tramite rapporto reale; e che
principio della filosofia è lo Spirito
perfetto, di cui l'intelletto può
esprimere qualcosa soltanto
tacendo, perché esso è assoluta
trascendenza, entusiasmante
libertà.
"La libertà è il nostro punto più
alto, la nostra divinità, è essa che
noi vogliamo come causa di tutte
le cose".
I momenti "del compiersi di tale Spirito sono: il puro essere in sé; l'uscire da sé; ritornare in se stesso". Più
tardi vedremo che queste tre fasi sono proprie della rivelazione: 1) Dio; 2) Figlio, 3) attraverso cui l'uomo torna a Dio. Si passa poi a parlare della creazione. "Le idee esistono come visioni del creatore, prima ancora di esistere
effettivamente".
Ecco quella potenza originaria, quella Fortuna primigenia dei romani, quella Maja indiana che stende davanti
al Creatore le reti dell'apparenza…per avvincere in qualche modo il Creatore e indurlo all'effettiva creazione.
Ecco la Sapienza dell' Antico Testamento. Ma nel suo uscire da Dio questo principio è piuttosto ciò che nega
Dio o l'unità divina, e nel suo ritornarvi è ciò che Lo conosce. E' ciò che era prima, ma al ritorno è cosciente
di se stesso, l'intelletto di tutto il movimento. L'intelletto è dunque la fine del "cieco volere". Siamo di fronte all'umana coscienza. Ma siamo davanti anche
alle vere eterne idee..che come montagne dei tempi più antichi, si levano al di sopra della banalità e della
meschinita…". Queste banalità e meschinità vanno riferite ancora una volta alla filosofia di Hegel che il
tempo (secondo Schelling) spazzerà via presto.
4.5.10 Dalla Quindicesima alla Diciottesima lezione
Questa unità spirituale che tutto può compiere è il Padre, la Autore. Dal Padre alla Trinità il passo è breve:
essa non è dottrina esclusivamente cristiana, è un'idea che precede il cristianesimo, il quale è uno sviluppo
di essa, che è anche premessa ad una filosofia della rivelazione. Schelling ci riepiloga quanto finora detto:
Prima si ha un Dio come Spirito Assoluto e Perfetto, che non ha alcuna necessità di passare all'essere; in un
secondo momento. Gli si prospetta la possibilità di un essere fuori di esso, e tale possibilità fa sì che lo
Spirito si concepisca come Signore di tale essere: passiamo così da Dio a Padre. Copyright ABCtribe.com
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Tale essere è la possibilità di un futuro Figlio, il
quale, per la sola sua possibilità d'essere, fa sì
che il Padre senta la libertà che ha di esternarlo. Ora, siccome tale essere, tale Figlio, fin
dall'eternità è dentro il Padre, ecco che
possiamo affermare la co-eternità del Figlio
fintanto che Egli rimane dentro. Ma la forza
generatrice del Padre, non è il Padre: è solo la
sua potenza. Nel momento in cui la volontà del Padre è in
tensione, "anche la terza forma dell'essere divino
(lo Spirito) sia posto in uno stato potenziato…e
l'essere le è mediato dal Figlio". Il Padre è causa, il Figlio crea, lo Spirito porta a
compimento. A proposito della creazione,
Schelling sottolinea come "la massima creatura
è un vero quarto chiuso fra le tre cause, da esse
per così dire conservato e custodito in comune e appunto questa suprema creatura è l'uomo,
l'uomo nel suo primo essere…". Da qui l'importanza che i pitagorici attribuivano
al numero quattro, alla Tetraktys: il numero della
creatura. Il nostro grande filosofo ci parla poi del
Male. Dopo averci ricordato che l'apostolo Paolo
descrive la caduta dell'uomo come una
sottrazione, una perdita dell'essere," non perdita
della dignità che dovrebbe avere davanti a Dio
(come comunemente vien detto), ma della
qualità del Signore che è propria di Dio.
Insomma l'uomo voleva operare con le potenze di Dio, ma scacciato dall'interiorità in cui era stato posto
rispetto alle potenze, cade sotto il regime esterno di quelle potenze, ed invece d'esser lui a impadronirsi di
esse, che nell'unità non era percepibili, sono le potenze ad impadronirsi della coscienza sua. Il contrasto
delle potenze prima era impercettibile, adesso non più, ed il contrasto di esse diviene una "distinzione di
bene e male". L'uomo credeva che il principio che è causa di ogni tensione e che gli era stato affidato per esser custodito,
estrinsecato e acceso da lui rimanesse in suo potere, e di ottenere per suo tramite la vita eterna. "Ma quel
principio è il fondamento, la base dell' umana coscienza, è cioè soggetto all'umana coscienza soltanto in
quanto resta nel suo in-sé. Se però esce da questo in-sé, esso è una forza che trascende l'umana
coscienza, la supera, in qualche modo la disgrega e la distrugge, un principio al quale ora è piuttosto
soggetta la coscienza".
Se tale principio viene eccitato dall'uomo si trasforma in "qualcosa di vivente autonomamente", non è più
posto da Dio, e pertanto è "non dovente essere". Ecco il principio della morte, il distruttore di ogni cosa
creata. Esso è venuto al mondo attraverso l'uomo. Schelling dà ragione a Fichte quando questi dice che
l’uomo ha posto il mondo fuori di Dio. Ed ecco che questo mondo "staccato dal suo vero futuro, inutilmente
cerca la propria fine, e generando quel tempo falso, puramente apparente, ripete sempre soltanto se stesso
in una triste uniformità".
Quindi è dipeso dalla volontà dell'uomo che l'unità voluta da Dio permanesse o meno. Ciò detto, Schelling
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apre una parentesi alchemica, riportando un pensiero di Goethe tratto dall sua Teoria dei colori. Questi a
Dio, Virtù e immortalità fa corrispondere oro, salute e lunga vita.
Se desiderare quelle tre più alte
idee è cosa nobile, è desiderabile
anche impadronirsi del
corrispettivo terreno. Il nostro filosofo accetta il paragone
ma fino a un certo punto. Secondo
lui il tutto è riconducibile al fatto
che l'uomo: 1) è convinto di potere, a certe
condizioni e in certi casi, influire
sulla natura con la sua sola volontà
(credenza nella magia); 2) è convinto di poter trasmutare i
metalli, liberando così la natura
dalla maledizione della corruzione; 3) è convinto di poter ringiovanire
se stesso tramite la stessa tintura
che trasmuta i metalli. Queste tre
cose sono le rovine, i ricordi
appannati di una coscienza
originaria, che si vorrebbe
riconquistare tramite tali procedure.
In effetti il primo rapporto che l'uomo ha avuto con la natura è stato di natura magica, ma la parola magia
significa potenza, e siccome la più alta potenza è la volontà, pertanto ciò che egli fa col "suo solo silenzioso
potere…viene pensato come fatto da lui magicamente". Ma l'uomo s'è posto fra Dio e Natura, e quest'ultima,
non potendosi più elevare, s'è dovuto costruire un mondo separato da Dio, ed ogni cosa si manifestò nella
propria individualità, e, come dice l'Apostolo Paolo, fu costretta alla vanità. L'egoismo si impadronì della
natura.
Insomma l'alchimia, coi suoi principi, testimonia di un "essere originario che venne mutato". Ora, l'alchimista
vorrebbe, coi fatti, ricostruire quella distrutta coscienza, mentre il filosofo s'accontenta di ricostituirla
idealmente. Proprio questa è la concezione "che sta alla base del mio sistema dell'idealismo". Ecco perché
nei vangeli si parla di "Figlio dell'Uomo": la seconda personalità è posta solo dall'uomo, perché fuori di Dio.
Nonostante ciò, il mondo rimane lì, perché la Volontà continua ad operare ancora "ma come sdegno, come
ira divina".
Chi ha una minima conoscenza di Bohme, sa che il mistico tedesco qui ha influenzato il pensiero di
Schelling. Per Bohme "il manifestarsi di Dio è un movimento, ed il prodursi di questo movimento comporta
che l'Uno si apra al Due. Con ciò è data una possibilità: che il Due dimentichi di essere l'apertura dell'Uno e,
riflettendo, si consideri altro dall'Uno".
Anche se in Dio non c'è vera separazione: Luce e Fuoco, Sì e No, sono una cosa sola: "La volontà centrale
eterna del Fuoco, ossia la collera divina, si separò in qualcosa di proprio". "Quando il fuoco centrale del
volere appropriante si mosse, contraendosi per un maggior desiderio di contemplarsi in una forma, prese
avvio la creazione…". Nasce un principio limitante illusoriamente autonomo, un "volere proprio". "La
creazione non è altro che una rivelazione di Dio”.
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Dio - dicevamo - continua dunque ad operare ma con ira, con sdegno: Egli si comporterà ancora come
Padre, ma solo attraverso il Figlio.
Se potevamo distinguere un
tempo del Padre ed uno del Figlio,
quest'ultimo è distinto in tempo
della sofferenza: paganesimo,
durante il quale Egli "deve, in
quanto potenza esclusa
dall'essere, rendersi di nuovo
dapprima soltanto signore
dell'essere non-divino"; e tempo
del suo apparire nel Cristianesimo
dopo essersi reso padrone
dell'essere e avere ripristinato la
sua volontà divina. "Qui sta il
punto di passaggio alla filosofia
della mitologia". La coscienza
mitologica che sta nei misteri dei
greci rappresenta il punto di
passaggio alla filosofia della
rivelazione.
Ma ora vorremmo sottolineare un passo sicuramente letto da Jung: "Le rappresentazioni mitologiche non
entrano da fuori nella coscienza, sono prodotti di un processo vitale, per quanto errato; infatti, come
potrebbero altrimenti rivelarsi così intessute con la coscienza, quali le ritroviamo, in modo tale che interi
popoli si impongono i più dolorosi sacrifici piuttosto che rinunciare ad esse?". Quelle rappresentazioni sono
prima del pensiero e spingono immediatamente all'agire, aggiunge Schelling. Con un piccolo sforzo
possiamo riuscire a vedere gli archetipi dell'inconscio collettivo di Jung: non sono fuori ma dentro, e quando
irrompono costringono immediatamente all'azione. "Le mitologie dei popoli sono prodotti dello stesso
processo che passa attraverso tutta l'umanità".
Tornando ora a quel Principio che all'inizio era destinato a rimanere dentro e che invece l'uomo ha messo in
azione, esso, nella mitologia greca è Persefone, una figura che già i pitagorici definivano "diade". Facendo
un parallelo col Genesi, essa è la donna che seduce l'uomo, ed il serpente, che se rimane arrotolato è
simbolo della quiete, se invece si drizza agisce per corrompere. Nei misteri greci Zeus si avvicina a
Persefone in forma di serpente e lei"viene rappresentata come trattenuta in una roccia inaccessibile (in una
custodia impenetrabile). Zeus le si avvicina per sedurla… per renderla principio generante di un nuovo
processo". In una nota Schelling ricorda che il Vaso di Pandora è rinchiuso nella dimora indistruttibile degli
uomini, ed i mali chiusi in esso si scatenano non appena la donna alza il coperchi.
L'analogia col racconto biblico è notevole. Ma ritorniamo a quel Principio, e a come esso, frazionandosi in
innumerevoli esseri, abbia mantenuto in ciascuno di essi la sensazione di essere centro. Quindi nasce una
lotta fra il Principio che vuole ancora esser centrale "e la più alta necessità che lo caccia dal centro e lo
abbassa alla materia". La terra è sopraffatta dal cielo. Schelling fa corrispondere a questa lotta la nascita
dello Zabismo (da Zaba, l'esercito, quello celeste). E' tempo di nomadismo, e "nel deserto dell'etere quell'umanità vedeva soltanto il supremo prototipo della
propria vita". Dapprima questo principio sidereo era maschile: Urano; ma nel momento in cui si rende
accessibile alla potenza più alta, diventa femminile: Urania.
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Ecco che col passaggio dal maschile al femminile del primo dio, è prossimo il sopraggiungere del secondo
dio, Dioniso. In esso però non dobbiamo vedere altro che il 2° Dio, e non il corrispondente greco. Ora,
siccome il compito di Dioniso è di soggiogare quel principio che pone l'uomo fuori di sé, Schelling lo
chiamerà Liberatore. Egli, dunque, inizia una lotta con il cielo. Questi tre dei sono le cause del processo mitologico. Lo stesso
accade nella mitologia egizia: All'inizio c'è Tifone indiviso; poi spunta Osiride che lo combatte; ma solo con
l'avvento di Horos Tifone è vinto.
Quanto a Iside, essa è la coscienza attaccata al dio. Quindi possiamo porre Tifone=invisibile;
Osiride=puramente essente; Horos=dovente essere. In India abbiamo invece Brahma, Siva e Visnu. Ora
accade che, nella mitologia greca, il dio sottomesso non viene respinto, ma lo si mantiene come spirituale.
La cosa da sottolineare però è che le potenze alla fine
eliminano la tensione che vi era fra di loro e si
ricostituiscono in unità: il dio ritornato nel suo in-sé,
quello che si rende così invisibile, è Ade. A questo punto soltanto possono nascere gli dei
dell'Olimpo con a capo Zeus, ed essi riposano tutti su
di lui. Se Ade fosse visibile, essi scomparirebbero. Ecco perché - ci ricorda Schelling - nell'Iliade tutti gli
dei, davanti alla dimora di Ade, sono presi da terrore.
Quindi Ade è l'in-sé di tutti gli dei, oltre che il dio
invisibile. Gli dei materiali sono l'essoterico, quelli spirituali sono
l'esoterico. Ed ecco perché accanto alla mitologia, in
Grecia esistevano anche i misteri.
"La religione segreta dei greci è stata sempre
considerata come la più vicina al Cristianesimo".
I misteri greci sono il naturale passaggio dal
paganesimo al Cristianesimo.
4.5.11 Dalla diciannovesima alla ventiduesima lezione Tra mitologia e misteri vi sta Demetra, ed essa fa parte sia dell'una che degli altri. Dei misteri essa è l'oggetto
principale, il punto attorno a cui ruota la coscienza. All'inizio sta tra il dio reale e quello liberatore, ma un
particolare legame la lega al primo. Il principio che la tiene legata a tale dio esce da lei sotto forma di
Persefone. Ecco perché questa parte della coscienza (Persefone) deve seguire Ade nel regno dell'invisibile: essa era
stata destinata a lui fin dall'inizio. Tuttavia, per Demetra, tale separazione non è indolore. Occorre che avvenga la conciliazione fra lei ed Ade.
Fin qui arriva la mitologia essoterica. Demetra era ilfondamento dei misteri. Essa era la dea dell''agricoltura,
e Persefone rappresentava il seme da interrare perché desse frutto. La cosa più importante di tutto questo,
però, è un'altra.
Siamo davanti all'introduzione dell'agricoltura: con essa scomparve la vita errante tipica degli animali,
subentrarono le leggi, i costumi, una vita veramente umana. Era la fine dello zabismo. Detto ciò occorre però
tener presente un altro fatto importante: i misteri, che venivano chiamati "i misteri di Demetra", venivano
anche chiamati "misteri di Dioniso". Nelle antiche religioni la presenza di tale dio si manifestava dapprima
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con un insensato entusiasmo detto orgasmo. Ecco pertanto spiegate le manifestazioni di contegno sfrenato: la coscienza, ormai libera dall'opprimente
dominio del dio reale, diventava ebbra. Ma tutto questo aveva un oppositore in Orfeo che rappresentava la
coscienza opposta al dio liberatore.
Ma l'ebbrezza dionisiaca vince, e tale
coscienza viene lacerata e dispersa in
una pluralità. Quindi il carattere dei cortei bacchici era
"una sorta di ebbrezza dell'animo, nella
quala però si esprimeva innanzitutto
soltanto il benessere della coscienza che
si sentiva liberata dalla potenza
opprimente del principio precedente".
Quanto ai Satiri e i Titiri, essi
rappresenterebbero la vita animale "dalla
quale l'umanità fu liberata da
Dioniso". Quindi i misteri concludevano la
storia esoterica della mitologia così come
Schelling l'ha esposta. "L'iniziato viene dunque liberato dalla
necessità del processo mitologico": la
coscienza ha a che fare non più con dei
materiali, ma con dei spirituali o causanti.
Platone paragona i misteri allo stato
dell'anima
"pre-materialità".
Quindi l'iniziazione liberava dalla materialità (Fedone). Gli dei dei misteri samotraci erano chiamati dei degli
dei: dei causanti, dunque. La cosa più importante, però, è riuscire a vedere in questi dei causanti delle
personalità successive di uno stesso dio, momenti diversi di questo dio.
Dunque Ade e Dioniso sono la stessa cosa: "Dioniso è il nome comune di quelle tre forme passando
attraverso le quali il dio sorge e si genera per la coscienza". Ma se i tre Dioniso sono tre momenti dello stesso dio, le tre divinità femminili sono tre momenti della stessa
coscienza: Zagreo, bacco e Jacco da una parte, e Persefone, Demetra e Core dall'altra. Durante i misteri, alla fin fine, nella coscienza accadeva quanto era accaduto nella natura, quindi in un certo
senso la dottrina dei misteri era…storia. Arrivati a questo punto Schelling sottolinea come le sue non sono
spiegazioni allegoriche: misteri e mitologia vanno presi" in senso proprio, rigoroso".
Possiamo ora affermare che il monoiteismo era già contenuto nei misteri, in quanto "la storia degli dei
diventava storia del dio. Ma questo dio nonsignoreggiava solo nel presente,era soprattutto futuro "un terzo
Signore avrebbe liberato la coscienza dal risultato del processo mitologico".
4.5.12 Ventitreesima…trentaduesima lezione
Un terzo Dioniso avrebbe così dominato un tempo futuro. Quanto poi al silenzio assoluto che circondava i
misteri c'è da considerare che l'esistenza dello Stato poggiava interamente sulla realtà, ed una divulgazione
dei misteri poteva metterne a rischio l'esistenza.
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Il Vaglio era la culla di Jacco, che era designato come il sopraggiungente. Lo stesso nome Eleusis significa il
venire. Tale culla più tardi diventerà così mangiatoia. Il massimo oggetto dei misteri era dunque la venuta del dio. Il
terzo Dioniso trascende dunque la coscienza mitologica. La religione futura sarebbe stata universale e
avrebbe riunificato tutta l'umanità.
Quindi se Demetra era l'inizio dei misteri, Dioniso ne
era la fine. Qui finisce il libro secondo e comincia la
seconda parte della filosofia della rivelazione. "Ora, il
contenuto proprio del Cristianesimo è interamente la
persona del Cristo.". In queste lezioni Schelling
riprende i concetti con cui ha iniziato la trattazione
per concludere alla fine la lezione ventiseiesima con
queste parole: "L'intera creazione, l'intero grande
svolgimento delle cose, esce dal Padre - attraverso il
Figlio - verso lo Spirito. Il Padre era prima, cioè
prima di ogni tempo, il Figlio è nel tempo…, lo Spirito
sarà dopo il tempo come l'ultimo Signore della
creazione compiuta, ritornata nel suo principio,
dunque rientrata nel Padre”. In queste ultime lezioni partendo da citazioni del Nuovo testamento (Vangelo di Giovanni, lettere di Paolo e
di altri apostoli) Schelling focalizza la sua attenzione sulla figura di Cristo, cominciando con scorgerlo anche
nell'Antico Testamento, e sul termine Logos usato da Giovanni nel prologo del suo Vangelo.
L'interpretazione che Schelling dà dell'inizio di tale Vangelo è originale e interessante. Prima però di
spiegarlo ci dà e si dà un avvertimento, e sottopone alla nostra attenzione una interpretazione di Fichte. A
suo parere, il detto "Cercate innanzitutto il Regno dei Cieli ecc." va applicato anche allo studio del Vangelo:
"cercate anzitutto il Tutto, il complesso delle disposizioni divine nel Nuovo Testamento, e il resto vi verrà da
solo…".
Quello che Fichte ha fatto è un tentativo di far "cantare" all'unisono la sua filosofia ed il prologo del Vangelo
di Giovanni. Prima egli afferma che il mondo esterno esiste solo nel sapere e quindi le cose non hanno
alcuna realtà fuori della coscienza, poi però per reintrodurre Dio dice che, sì, tutto è nel sapere, ma tale
sapere è=esistenza divina. Questa a sua volta è diversa dall'essere ma inseparabile da lui, quindi uguale
all'essere. Pertanto il mondo è divenuto attuale grazie a questo sapere. Insomma, per Fichte il Logos
giovanneo è il sapere. Infine, per passare dal sapere universale al Cristo storico, Fichte propone tale
ragionamento: in ogni tempo, chiunque riesce ad abbandonare la propria vita individuale in quella divina, fa
sì che l'eterno Logos assuma natura umana.
E siccome Cristo è stato il primo a fare ciò, è divenuto mediatore fra noi e il Logos. E questo fa sì che Gesù
sia l'unigenito figlio di Dio. In principio era il Logos. Schelling sottolineando "era" suggerisce che, anche
prima che Dio si rivelasse "come tale" , egli era silmpliciter, era nel puro essere, egli era il "puramente
essente di Dio". Quindi questo soggetto era presso Dio prima della creazione, è presso Dio anche nella
creazione, e, terzo momento, era Dio. Insomma: "La più rigorosa determinazione della vera divinità di Cristo
e la seguente: Il Figlio è tanto essenzialmente Dio, che il Padre stesso non sarebbe Dio senza il Figlio",
quindi "il Figlio appartiene all'essenza di Dio".
Schelling, passo passo interpreta il prologo di Giovanni, ed il brano relativo alla Luce che appare nelle
tenebre e queste non l'hanno compreso, lo spiega così: Cristo (e questo l'aveva già detto) era presente
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anche nel paganesimo, ma non è stato riconosciuto, accolto. "Per i pagani Cristo è semplicemente potenza
naturale", essi non lo compresero. Poi passa a parlare dei compiti del popolo ebraico, il quale, secondo lui,
avendo travisato il Cristianesimo, avendo "omesso il passaggio ad esso", si escluse dal movimento della
storia. Poi andando oltre Eutiche e Nestorio Schelling dichiara che il Logos non è né Dio né uomo, ma un
intermediario.
E' Dio, in quanto questo soggetto è fuori di
Dio, ma nell'atto dell'incarnazione si
pone insieme come divino e come
umano. "Dopo che Egli è divenuto uomo,
la preghiera al Padre è l'atto più profondo del
suo riconoscersi come uomo, e, in quanto egli
si priva di ogni divinità (egli produce attraverso
il suo volere, per così dire, un vacuum) attira
in sé la volontà divina,e in virtù di questo
divino attirato in sé Egli opera miracoli". In
sostanza quello che Schelling cerca di fare, è
spiegare il Cristianesimo allo stesso modo con
cui ha spiegato il paganesimo: attraverso gli
atti accreditati. Non mancano citazioni
dell'Antico e soprattutto del Nuovo
Testamento, a cui s'accompagnano profonde
intuizioni, che per la brevità del saggio non
possiamo riportare. Piano piano arriviamo alle
conclusioni. L'uomo si era distaccato dalla vita
universale in cui era stato creato e si era
tuffato in quella particolare ove godeva di
assoluta libertà. Ora, grazie al Figlio, egli può
essere ripreso nella vita universale. Cio può
accadere perché Cristo non si è fatto uomo e
poi ha finito di esserlo: Egli è rimasto uomo.
Ecco perché Dio ora ci giustifica. Se dalla storia tagliamo via questa parte interiore, essa appare "desolata,
vuota e morta. Quella storia interna, divina, trascendente, è la vera storia. La filosofia della rivelazione è
proprio questo: "non già dissolvere la storia esterna in quella più alta, ma guadagnare il suo rapporto con
essa". Dunque, Cristo divenne uomo senza riservarsi un ritorno, costringendo Dio ad accogliere l'uomo in
Lui.
4.5.13 Dalla trentatreesima alla trentasettesima lezione
Schelling ripete concetti già epressi: il Cristianesimo non è da considerarsi dottrina ma "fatto", ed il vero
contenuto di esso è Cristo e la sua storia. Ma qui puntualizza: "non quella meramente esterna delle sue
azioni e sofferenze durante il tempo della sua umanità visibile, ma quella più alta in cui la sua vita come
uomo è solo un passaggio, e perciò solo un Momento". Pertanto, contenuto del Cristianesimo non è la
Religione Universale, ma la particolare Personalità fuori di Dio sin dall'inizio, e quindi autonoma, anche se
tale autonomia non è da considerare eroica.Il Cristianesimo, insomma, come fatto storico incancellabile e
perciò da rendere comprensibile. Non si può dunque esaurire l'impegno di cristiano con la sola devozione, perché, se è vero come è vero che
"in Cristo sono nascosti tutti i tesori della conoscenza" i tesori non possono essere ridotti a quello. Il
Cristianesimo, come ogni altro significativo fenomeno, la chiave della sua comprensione.
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A ben osservare la morte di Cristo sulla terra serve solo a far passare quella Potenza Mediatrice che appunto
si è incarnata, per permettere allo Spirito Santo (la terza Potenza), finalmente, di venire. E' proprio quello che
comincia ad accadere con la morte del maestro Gesu Cristo: gli apostoli suoi vengono toccati da tale Spirito
Consolatore.
In quel tempo, ci ricorda Schelling, Pan "muore". Ora, Pan altri non è che lo stesso principio cosmico cieco
che dominava nel paganesimo: con la morte di Cristo moriva il paganesimo e il giudaesimo. Noi, sul
paganesimo siamo d’accordo, sul giudaesimo no, per il semplice fatto che ancora oggi nelle sinagoghe del
mondo e fra il popolo israelitico vige la legge di Mosé.
Giunto a questo punto Schelling comincia a
parlare del male, di satana. In ebraico il
verbo satan significa "fermare", opporsi o
ostacolare un movimento. Né nel l'antico né
nel Nuovo Testamento vi è traccia di un
satana creato. In Giobbe egli appare come "una forza, per
così dire, necessaria affinché ciò che è
incerto divenga certo…affinché la
disposizione dell'animo venga verificata".
Una forma dunque non necessariamente
malvagia, la quale serve a portare alla luce
il male nascosto.E' una forza, dunque, che
può anche esser chiamata "invidiosa", allo
stesso modo in cui Aristotele chiamava
Nemesi.
Satana è anch'egli un essere storico che nel corso del tempo cambia. Egli è il permanente accusatore
dell'uomo presso Dio. "Satana…è la Grande Potenza di Dio nel mondo decaduto". Ecco perché Cristo lo può incontrare, perché riconosce in lui "una forza della sua stessa condizione", quel
Principio a cui Cristo incarnandosi si era sottomesso esternamente - non per adorarlo ma per vincerlo. Esso
è uno spirito suscitato dall'uomo, che originariamente fu abbracciato dalla coscienza umana, e che ora la
oltrepassa, minacciandola di superarla. Come un serpente egli si insinua piano piano fino a che corrompe e
fa scaturire il male che era nascosto nel bene.
Ancora una volta notiamo le influenze di J. Bohme, ma sarebbe lungo volere qui introdurre passi del mistico
tedesco: ci allargheremmo troppo. Tornando a satana, Schelling definisce così la sua natura: "la sua natura è
di essere il non essente. C'è in lui verità solo per il non-essere. Se dunque E’, egli è fuori della verità.". E qui
invitiamo i lettori a ripercorre le fasi iniziali dell'opera (e quindi di questo saggio, laddove si parlava di una
Potenza che non doveva uscire dal Padre ecc. Egli dunque è menzogna. Relativamente all'uomo, questo
principio "chiede con insistenza all'uomo di aiutarlo ad essere".
Egli dunque dipende dall'uomo, che a sua volta s'illude di poterne diventare il padrone. Ma ciò che accade è
proprio il contrario: l'uomo ne diviene schiavo. Cristo è venuto per privarlo della forza con cui fino al momento
della sua incarnazione operava. Quindi, fino a tutto il paganesimo egli ha imperversato indisturbato. Ma
come si diceva prima esso muta: "vinto in un certo dominio, rispunta fuori in un altro"…"in quanto esso è
questa inesauribile fonte di possibilità, che sono diverse, nuove e mutevoli…è l'incessante suscitatore e
movimentatore della vita umana, il principio senza il quale il mondo si addormenterebbe, resterebbe
immobile".
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Esso vuole, attraverso la volontà umana, realizzare quanto in lui è mera possibilità. Ecco perché l'apostolo
Pietro lo paragona d un leone famelico ed avido. La caduta dell'uomo è così chiamata perché egli è caduto
sotto il dominio di quel principio . E qui Schelling sottolinea un fatto importantissimo e ci costringe a riportare
in maiuscolo le sue parole che molti nichilisti dovrebbero ben considerare: Filosofia, ricerca della verità. Ecco
perché Padre Pio parlava della parte di sotto del ricamo come "necessario", ecco perché alla corte di Dio, nel
libro di Giobbe, fra gli angeli del Signore, vi era anche satana, ecco perché vien detto che questo principio è
necessario. Ecco come in qualche modo ci spieghiamo l'origine del male.
Poi a proposito delle malattie, ci viene detto
che epidemia ha la medesima etimologia di
"bramosia": ogni malattia cosmica è una
bramosia, "una potenza scatenata che cerca di
realizzarsi a spese dell'attuale stato delle cose
e del genere umano, e come spinta dalla fame
della realtà attuale, cerca se le riesca di
appropriarsene". Quindi come la menzogna,
anche la malattia è entrata attraverso satana.
Quanto agli angeli, con la caduta l'uomo ha
posto fuori di sé il suo angelo, se ne è
separato, ed esso è rimasto mera possibilità,
semplice potenza. Alla morte ci dovrebbe
essere la riunificazione: l'uomo che riesce a
riunirsi al proprio angelo ed "è capace di quella
vita universale dell'angelo, sarà nella luce,
viceversa saranno le tenebre. Ecco perché i
bambini ancora non sono separati dal Padre: il
male in loro non è stato ancora risvegliato.
"Ogni angelo è la potenza - idea - di una
determinata creatura o individuo…Il rapporto
che l'uomo mantiene con il suo angelo buono è
l'unica relazione con Dio che ancora gli
rimanga anche nella esternazione".
Nella rivelazione vetero-testamentaria Dio parlava attraverso l'angelo, durante la manifestazione di Cristo
parlava attraverso di Lui. Nella chiesa vengono distinti tre momenti: quello di Pietro, quello di Paolo ed infine
quello di Giovanni. Ai quali, nei tempi precedenti corrispondevano Mosé, Elia e Giovanni Battista.
Se Mosé é il fondamento, la stabilità, la realtà e sostanzialità, Elia rappresenta lo spirito ardente che spinge
verso il futuro. Il Battista chiude l'Antico Testamento. Pietro leggifera come Mosé, Paolo, ardendo come Elia,
è il movimento, lo sviluppo della Chiesa, Giovanni evangelista è il futuro. Se protestante vuol dire non
sottomettersi all'autorità di Pietro, Paolo può esser considerato il primo protestante della storia del
Cristianesimo, e la riforma si è resa libera dall'autorità di Pietro. Ora, la Chiesa non è esclusivamente l'una o
l'altra, ma tutte tre. Qui giunto Schelling definisce il ruolo che i tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni hanno avuto nella
Chiesa, e per farlo si serve di un passo (Re: 19, XI-XIII): "Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e
gagliardo da spaccare i monti e spazzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo
il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il
Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero…".
Questi tre momenti sono: Pietro che ha un'energia irrompente propria di chi inizia; Paolo che è la capacità di
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scuotere, il fuoco; Giovanni che è il venticello leggero, uno Spirito dolce, celeste. Questo Spirito, nel Vangelo di Giovanni (che è molto diverso dagli altri tre) è palpabile, ed esso, ci dice
Schelling è stato scritto sicuramente per il futuro. Insomma: Pietro è l'apostolo del Padre, Paolo è l'apostolo
del Fiflio, e Giovanni quello dello Spirito Santo.
E' nel Vangelo di Giovanni che si parla dello Spirito della verità che esce dal Padre. Giovanni è dunque
l'apostolo della nuova Gerusalemme, della Chiesa futura aperta a tutti, di quella Chiesa che anche Gioachino
da Fiore pose sotto l'ala dello Spirito Santo. Siamo convinti che da qualche tempo il "mormorio del vento
leggero", a "sentirlo" sono stati in parecchi. Speriamo solo che non succeda quello che è sempre successo, e
cioè che i toccati dallo Spirito non vengano perseguitati. Nessuno può avere l'esclusiva…dei venticelli: Il
vento soffia dove vuole.
5 Brani antologici
5.1 Filosofia della mitologia in F. W. J. Schelling, Filosofia della mitologia
Non siamo stati noi, ma è la mitologia che ci ha posto nella prospettiva da cui la tratteremo. Da qui in poi,
dunque, il contenuto di questa conferenza non è la mitologia spiegata da noi, ma la mitologia che spiega sé
stessa.
In quest’auto-spiegazione della mitologia non saremo costretti ad evitare le espressioni mitologiche, in gran
parte le lasceremo parlare il suo stesso linguaggio, dal momento che ci è reso comprensibile a partire dalla
posizione che abbiamo conquistato. Le espressioni della mitologia, si dice, sono immaginose. Ciò è in certo
senso vero, ma esse non sono più improprie per la coscienza mitologica di quanto non siano improprie le
nostre espressioni altrettanto immaginose per la coscienza scientifica.
5.2 La teoria dell'arte in Sistema
dell’idealismo trascendentale
Se l’intuizione estetica non è se non l’intuizione
intellettuale divenuta oggettiva, s’intende da sé
che l’arte sia l’unico vero e eterno organo e
documento insieme della filosofia, il quale
sempre e continuamente di nuovo attesta quel
che la filosofia non può rappresentare
esternamente, cioè l’inconscio nell’agire e nel
produrre e la sua originaria identità con il
conscio.
L’arte appunto perciò è per il filosofo quanto vi
è di più alto, poiché essa gli apre per così dire
il santuario, dove in eterna e originaria unione
arde come in una sola fiamma ciò che nella
natura e nella storia è separato, e ciò che nella
vita e nell’azione e nel pensiero deve fuggire
se stesso eternamente. La visione che il filosofo si fa artificialmente
della natura è per l’arte la visione originaria e
naturale.
5.3 Filosofia della mitologia
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Alla fine del suo itinerario filosofico Schelling arriva al mito. Egli afferma che i miti non sono favole senza
senso ma l’espressione di una verità primordiale e quindi profonda. L’uscita dell’uomo dalla quiete cioè dal
paradiso originario è l’oggetto specifico dei racconti mitici e l’inizio della storia.
Ricollegando l’inizio del processo mitologico a questo che è il primo di tutti gli avvenimenti a questa
catastrofe originaria della coscienza umana noi spieghiamo nello stesso tempo il processo mitologico come
un destino universale al quale proprio perciò era soggetto l’intero genere umano. La mitologia non è nata da presupposti accidentali empirici per esempio invenzioni di singoli poeti o filosofi
cosmogonici che ci si permette di trasferire nei tempi piú antichi neppure da confusioni o fraintendimenti
casuali: essa si perde con le sue piú lontane radici in quel fatto originario o piuttosto in quell’atto
immemorabile senza del quale non ci sarebbe in generale storia alcuna. Infatti la storia in quanto è un nuovo
mondo del movimento non avrebbe certo potuto esser posta se l’uomo non avesse mosso e scosso di nuovo
quel fondamento della creazione mercé il quale tutto doveva pervenire alla quiete e ad uno stato eterno.
Senza un’uscita dal paradiso originario non ci sarebbe storia: è per questo che quel primo passo dell’uomo è
il vero avvenimento originario l’avvenimento che solo ha reso possibile una successione di altri avvenimenti
cioè la storia.
5.4 Filosofia della rivelazione
L’altro elemento importante dela riflessione dell’ultimo Schelling è il confronto con la rivelazione cristiana.
Dopo aver definito l’apparire di Gesú Cristo nel mondo come la manifestazione del cuore di Dio cioè la
rivelazione del fatto che Dio è persona e non una pura mente come spesso la filosofia lo aveva interpretato
egli passa a commentare il Prologo di Giovanni. Nella seconda parte della lettura è evidente la polemica con
i giovani della Sinistra hegeliana.
F. W. J. Schelling Filosofia della rivelazione III Si può già vedere una divina follia
nel fatto che in generale Dio si sia
impicciato con un mondo dal
momento che egli potrebbe in
eterna autosufficienza godere
della semplice contemplazione del
mondo ch’è possibile in virtú sua.
Ma la debolezza di Dio — la si può
riconoscere particolarmente nella
sua debolezza per l’uomo. Ma in
questa debolezza egli è piú forte
dell’uomo. Il suo cuore è grande
abbastanza per essere capace di
tutto. Nella creazione egli mostra
prevalentemente solo la potenza
della sua mente nella redenzione
la grandezza del suo cuore.
Questo io intendevo quando
dicevo che la rivelazione — o
l’azione ch’è il contenuto della
rivelazione — è la sua azione più
personale. Infatti come non pensiamo di conoscere un uomo nella sua piú autentica personalità se ne conosciamo
soltanto la mente (giacché questa quanto piú è potente tanto piú è qualcosa che in certo modo è
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impersonale qualcosa di indipendente da lui e dalla sua volontà) come riteniamo di conoscere un uomo in sé
stesso solo se abbiamo imparato a conoscere le manifestazioni del suo cuore cosí Dio è diventato
veramente personale per l’uomo soltanto nella rivelazione.
Quel soggetto che era en morfe theou [nella forma di dio] si è ora fatto uomo hominem se fecit. Ma poiché
esso si è fatto uomo solo in forza della sua vera divinità cioè in forza della sua unità con Dio ossia con il
Padre cosí il soggetto divenuto-uomo appare ora proprio nella sua umanità come il soggetto che discende
dalla vera divinità dal cielo secondo quanto dice la Scrittura che originariamente era presso il Padre e quindi
era Dio stesso; e proprio perciò vien visto nell’umanità come Dio e non come se avesse rinunciato alla
divinità; e invero essendo non due distinte personalità ma una sola e medesima persona quella che era en
morfe theou e che appunto si mostra nella volontaria e libera manifestazione come una col Padre e quindi
come tale che è Dio stesso abbiamo qui una perfetta identità personale tra colui che si è fatto uomo — che
ora è uomo — e colui che è Dio. Un unico e medesimo soggetto è Dio e uomo: egli infatti è uomo solo in
forza di ciò che in lui è divinità unità col Padre.
Col che tuttavia rimane poco meno che assurdo parlare indeterminatamente di una incarnazione
(Menschwerdung) di Dio come oggi usa fare; questa è una di quelle grandi frasi con cui si cerca di procurare
un significato a proposizioni che non dicono nulla o che sono del tutto banali: quanto piú le espressioni sono
esagerate tanto più facilmente esse si prestano a quella superficiale spiegazione secondo la quale
l’incarnazione (Menschwerdung) deve solo rivelare all’uomo che egli è tutt’uno con Dio (cioè propriamente
egli stesso Dio). Se è gente ignorante che cerca di darsi delle arie con queste belle frasi possiamo anche
permetterglielo.
Ma che dire di dotti teologi i quali sono per accordarsi con questo preteso tono sublime parlano in questo
modo di un’incarnazione di Dio! Costoro dovrebbero pur sapere che anche la piú rigorosa teologia non ha
mai parlato propriamente di un’incarnazione di Dio ma solo dell’incarnazione di una persona divina. Dico che
secondo la nostra veduta resta non meno assurdo parlare di un’incarnazione di Dio poiché non è Dio che è
divenuto uomo sebbene colui che è divenuto uomo sia Dio.
Dio è divenuto uomo significa: il divino
è divenuto uomo ma non il divino bensí
piuttosto l’extra-divino proprio del divino
è divenuto uomo. Non ci sono qui
inizialmente due personalità delle quali
una deve in seguito esser soppressa:
c’è fin dall’inizio soltanto una persona
quella divina che abbassa il suo essere
extra-divino a quello umano ma che
appunto perciò appare come divina. L’essere umano è il suo essere; essa lo
ha voluto e se lo è dato; ma proprio
perciò essa è sopra questo essere e se
da una parte noi affermiamo l’unità del
soggetto dall’altra parte bisogna
ammettere che la natura divina e quella
umana non sono affatto state
mescolate: l’identità fra il divino e
l’umano non è identità sostanziale ma
unità soltanto – e per l’appunto –
personale.
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5.5 Filosofia negativa e positiva
Nell’ultima parte della sua speculazione filosofica Schelling prende decisamente le distanze dall’idealismo
ponendo la distinzione fra filosofia negativa e positiva. La filosofia negativa è la filosofia puramente razionale
la quale determina il modo in cui si debba pensare la realtà. La filosofia positiva affronta concretamente il fatto dell’esistenza e della storia.
F. W. J. Schelling Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna
La scienza che compie questa eliminazione dell’accidentale nei primi concetti dell’esistente e con ciò questa
separazione dell’esistente stesso è critica è di specie negativa ed ha nel suo risultato — però soltanto nel
pensiero — ciò che noi abbiamo chiamato l’esistente stesso. Ma riconoscere che quest’ultimo esista anche
nella sua purezza con esclusione dell’essere meramente accidentale al di là di questo essere non può più
essere assunto di quella scienza negativa ma soltanto di un’altra scienza che in opposizione a quella dovrà
chiamarsi positiva e per la quale la scienza negativa ha solo ricercato l’oggetto proprio e autentico l’oggetto
più alto.
Io vi ho di nuovo ricondotti al punto ove si fronteggiano da un lato la filosofia in quanto cerca ancora il suo
supremo e più alto oggetto — ottenendone però solo il concetto mediato logicamente (nel pensiero) senza
poterne provare l’esistenza — e la filosofia in quanto si rapporta immediatamente a questo oggetto
all’esistente superiore ad ogni dubbio.
Ed è proprio in ciò — nel non aver distinto filosofia negativa e filosofia positiva e nell’aver voluto raggiungere
con una filosofia che rettamente intesa poteva avere solo un significato negativo ciò che è possibile soltanto
per la filosofia positiva — che sta come ho detto il motivo della confusione e dell’essere selvaggio e deserto
in cui si è andati a finire cercando di rappresentare Dio come compreso in un processo necessario col
risultato che non potendo in tal modo procedere oltre si è trovato il proprio rifugio in uno spudorato ateismo. Questa confusione ha persino impedito una benché minima comprensione di quella distinzione.
La filosofia negativa rettamente intesa porta con sé quella positiva e viceversa la filosofia positiva è possibile
soltanto nei confronti di quella negativa rettamente intesa. Quest’ultima se circoscritta nei suoi limiti rende
quella positiva anzitutto conoscibile e poi non solo possibile ma necessaria.
5.6 Gli elementi fondamentali del sistema filosofico
Esiste un modo di essere della ragione che riesce ad astrarsi completamente dalla dimensione soggettiva ed
oggettiva. Esso rappresenta per Schelling il punto di vista della filosofia che deve eliminare le differenze e le
contrapposizioni. Al di fuori della ragione non deve rimanere nulla perché essa è l’Assoluto.
F. W. J. Schelling Esposizione del mio sistema filosofico 1. Spiegazione. Chiamo ragione la ragione assoluta o la ragione in quanto è pensata come indifferenza
totale del soggettivo e dell’oggettivo. Non è qui il luogo di giustificare il termine qui usato giacché importa
solo di far sorgere in generale la idea che congiungerò con questa parola.
Dunque importa soltanto di indicare brevemente come in generale si arrivi a pensare la ragione. Vi si
perviene col riflettere a quello che nella filosofia prende il posto fra soggettivo e oggettivo e che deve essere
evidentemente una cosa in rapporto indifferente con tutte due. È certo che ognuno si può far un concetto
della ragione; per pensarla come assoluta per arrivare dunque al punto di vista che io richiedo si deve
astrarre da colui che pensa.
Per colui che fa questa astrazione la ragione
cessa immediatamente di essere qualche
cosa di soggettivo come è presentata dalla
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maggior parte; anzi essa non può essere più
pensata neanche come qualche cosa di
oggettivo giacché una cosa oggettiva o
pensata diventa possibile solo in antitesi con
un soggetto pensante e di questo è stata
fatta astrazione completa; diventa dunque
per quella astrazione il vero in sé che cade
proprio nel punto d’indifferenza del soggettivo
e dell’oggettivo.Il punto di vista della filosofia
è il punto di vista della ragione la sua
conoscenza è una conoscenza delle cose
come sono in sé cioè come sono nella
ragione. Sta nella natura della filosofia di
eliminare totalmente tutte le cose che stanno
le une dopo le altre e le une lontane dalle
altre ogni differenza del tempo e in generale
ogni differenza che solo l’immaginazione
inserisce nel pensiero in una parola di vedere
nelle cose soltanto quello per cui esse
esprimono la ragione assoluta non però in
quanto esse sono oggetti semplicemente di
quella riflessione che si attacca alle leggi del
meccanismo e procede nella serie temporale.
2. All’infuori della ragione non v’è nulla e tutto è in essa.
Se la ragione è pensata così come l’abbiamo domandato nel 1 si scorge immediatamente che nulla può
essere fuori di essa. Posto difatti che ci sia qualche cosa fuori di essa allora ciò o è qualche cosa per se stessa fuori di essa ed
essa è dunque in questo caso il soggettivo la qual cosa è contro il presupposto; oppure non è qualche cosa
per se stessa fuori di essa e allora essa sta a questo qualcosa fuori di essa come oggettivo a oggettivo ed
essa è dunque oggettiva la qual cosa però è di nuovo contro il presupposto. Nulla dunque è fuori di essa e
tutto è in essa.
Annotazione. Non vi è nessuna filosofia se non dal punto di vista dell’Assoluto; di questo non è espresso
nessun dubbio in tutta questa esposizione; la ragione è l’Assoluto tostoché è pensata come l’abbiamo
determinato (1): la proposizione presente vale per conseguenza solo sotto questo presupposto.
Spiegazione. Tutte le obiezioni contro questa proposizione potrebbero provenire solo da ciò che non si è
abituati a vedere le cose così come sono nella ragione ma così come appaiono.
Perciò non ci occupiamo della confutazione di tali
obiezioni giacché in seguito deve essere dimostrato
che tutto ciò che “è” è quanto all’essenza uguale alla
ragione e con essa una sol cosa. Ed in generale la proposizione sostenuta non avrebbe
bisogno affatto di una dimostrazione o d’una
spiegazione anzi passerebbe per un assioma se a
moltissimi non fosse del tutto ignoto che generalmente
solo per questo può esistere qualcosa fuori della
ragione in quanto che essa stessa questo “qualcosa”
potrebbe fuori di sé; questo però non lo fa mai la
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ragione ma solo il falso uso della ragione il quale è
congiunto con l’impotenza di fare l’astrazione sopra
richiesta e di dimenticare il soggettivo (separante
individuale) in se stesso.
3. La ragione è semplicemente una e semplicemente
uguale a se stessa.
Se difatti questo non fosse dell’essere della ragione dovrebbe esservi ancora un altro fondamento che non
essa stessa giacché essa contiene soltanto il fondamento per cui essa stessa è ma non quello per cui c’è
un’altra ragione. La ragione non sarebbe con ciò assoluta: ciò che è contro il presupposto. La ragione è dunque una nel
senso assoluto.
Ma posto il contrario del secondo punto cioè che la ragione non sia uguale a se stessa allora quello per cui
essa non è uguale a se stessa dovrebbe pure non essendovi niente all’infuori di essa (praeter ipsam) (2)
esser posto nuovamente in essa: dovrebbe dunque esprimere la essenza della ragione e poiché inoltre ogni
cosa è in sé soltanto in virtù di quello per cui essa esprime la essenza della ragione (1) anche questa cosa
considerata in sé o riguardo alla ragione stessa sarebbe di nuovo uguale a essa una sola cosa con essa. La ragione è dunque una (non solo ad extra ma anche ad intra o) in se stessa cioè è semplicemente uguale
a se stessa.
4. La suprema legge per l’essere della ragione e giacché nulla è fuorché la ragione per tutto l’essere (in
quanto è compreso nella ragione) è la legge dell’identità; la quale riguardo a tutto l’essere è espressa da
A=A. La dimostrazione si deduce immediatamente dal § 3 e dai precedenti.
5.7 I tre periodi della storia
Schelling come idealista riteneva che lo schema generale della storia fosse deducibile razionalmente a priori.
Egli distingue tre periodi: il primo è stato vissuto come tragedia e destino il secondo è quello nel quale la
storia appare come le leggi della natura il terzo si rivelerà come provvidenza.
F. W. J. Schelling Sistema della filosofia trascendentale
Ora da quanto detto finora risulta da sé quale veduta della storia sia l’unica vera. La storia nel suo
complesso è una rivelazione e una manifestazione graduale e continua dell’assoluto. Dunque nella storia
non si può mai indicare una singola parte in cui sia quasi visibile la traccia della provvidenza o Dio stesso.
Infatti Dio non è mai se essere è ciò che si rappresenta nel mondo oggettivo; se egli fosse noi non saremmo;
ma egli si rivela di continuo. L’uomo reca per mezzo della sua storia una continua prova dell’esistenza di Dio
una prova che tuttavia può esser portata a compimento solo da tutta quanta la storia. Tutto dipende
dall’intendere quell’alternativa.
Se Dio è ossia se il mondo
oggettivo è una perfetta
rappresentazione di Dio o ciò che
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è lo stesso della compiuta
coincidenza del libero con
l’inconscio allora nulla può essere
altrimenti da quello che è. Ma il
mondo oggettivo non è tale. O
forse ch’esso è realmente una
compiuta rivelazione di Dio? Ora
se il fenomeno della libertà è
necessariamente infinito allora
anche il completo svolgimento
della sintesi assoluta è infinito e la
storia stessa è una rivelazione mai
esaurita di quell’assoluto che ai fini
della coscienza e quindi anche
solo ai fini del fenomeno si scinde
nel conscio e nell’inconscio nel
libero e nell’intuente essendo però
esso stesso nella luce
inaccessibile in cui dimora l’eterna
identità e l’eterno fondamento
dell’armonia fra l’uno e l’altro.
Noi possiamo ammettere tre periodi di quella rivelazione e quindi anche tre periodi della storia. Il principio
della divisione ce lo danno i due opposti il destino e la provvidenza tra i quali sta nel mezzo la natura che
effettua il trapasso dall’uno all’altro.
Il primo periodo è quello in cui ciò che è dominante ancora come destino cioè come forza totalmente cieca
distrugge freddamente e inconsciamente anche le cose più grandi e magnifiche; a questo periodo della storia
che possiamo chiamare il periodo tragico appartiene il tramonto dello splendore e delle meraviglie del mondo
antico la caduta di quei grandi imperi dei quali ci è rimasto a stento il ricordo e la cui grandezza possiamo
argomentare solo dalle loro rovine il tramonto dell’umanità più nobile che sia mai fiorita e il cui ritorno sulla
terra è solo un eterno desiderio.
Il secondo periodo della storia è quello in cui ciò che nel primo appariva come destino cioè come forza del
tutto cieca si rivela come natura e l’oscura legge che in quello dominava appare mutata almeno in una
manifesta legge naturale che costringe la libertà e l’indomato arbitrio a servire ad un piano della natura e così
a poco a poco introduce nella storia almeno una legalità meccanica.
Questo periodo sembra cominciare dall’espansione della grande repubblica romana a partire dalla quale il
più sfrenato arbitrio che si manifesta nell’universale brama di conquista e di assoggettamento legando per la
prima volta in generale i popoli fra di loro e portando in mutuo contatto quanto di costumi e di leggi di arti e di
scienze s’era sino allora conservato solo
separatamente fra i singoli popoli
inconsciamente e persino contro la sua
volontà fu costretto a servire ad un piano
della natura che nella sua compiuta
evoluzione deve produrre la lega
generale dei popoli e lo stato universale.
Tutti gli avvenimenti che cadono in
questo periodo sono dunque anche da
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considerarsi come semplici risultati
naturali allo stesso modo che la caduta
dell’impero romano non ha né un lato
tragico né un lato morale ma fu
necessaria secondo leggi naturali e fu
propriamente soltanto un tributo pagato
alla natura.
Il terzo periodo della storia sarà quello in
cui ciò che nei periodi precedenti
appariva come destino e come natura si
svilupperà e si rivelerà come provvidenza
si che anche quanto sembrava mera
opera del destino o della natura era già il
principio di una provvidenza rivelantesi in
maniera incompleta.
Quando comincerà questo periodo non
sappiamo dirlo. Ma se questo periodo
sarà allora sarà anche Dio.
5.8 Idealismo e dogmatismo
Schelling in piena sintonia con la svolta fichtiana ribadisce la superiorità dell’idealismo sulla filosofia
dell’essere perché originario non è l’essere ma il sapere.
F. W. J. Schelling Sistema della filosofia trascendentale
Poiché il filosofo trascendentale fa sempre soltanto del soggettivo il proprio oggetto egli si limita ad affermare
che soggettivamente cioè per noi esiste un qualche primo sapere; se poi fatta astrazione da noi al di là di
questo primo sapere esista in generale ancora qualcosa per ora non lo preoccupa e sarà il seguito a
deciderne.
Ora questo primo sapere è per noi senza dubbio il sapere di noi stessi o l’autocoscienza. Se l’idealista fa di
questo sapere il principio della filosofia ciò è conforme alla limitatezza del suo compito che all’infuori della
parte soggettiva del sapere non ha altro per oggetto. Che l’autocoscienza sia il punto fermo a cui per noi
tutto è collegato non abbisogna di dimostrazione alcuna.
Ma che quest’autocoscienza possa poi essere a sua volta solo la modificazione di un essere superiore (forse
di una coscienza superiore e questa di una ancor superiore e così via all’infinito) in una parola che anche
l’autocoscienza possa ancor essere in generale qualcosa di spiegabile di spiegabile con qualcosa del quale
niente possiamo sapere poiché appunto e soltanto con l’autocoscienza si realizza l’intera sintesi del nostro
sapere è cosa che in quanto filosofi trascendentali non ci tocca; giacché l’autocoscienza è per noi non già un
modo dell’essere ma un modo del sapere e più precisamente il modo supremo ed estremo che per noi ci sia
in generale.
È persino possibile dimostrare per andare ancor più avanti ed in parte è già stato dimostrato sopra che
anche quando arbitrariamente si pone come primo l’oggettivo noi tuttavia non usciamo mai dalla sfera
dell’autocoscienza. Noi allora nelle nostre spiegazioni o siamo ricacciati all’infinito dal fondato al fondamento
o dobbiamo rompere arbitrariamente la serie per il fatto che poniamo un assoluto che è di per sé stesso la
causa e l’effetto – soggetto e oggetto – col che essendo ciò originariamente possibile soltanto mediante
autocoscienza poniamo di nuovo come primo un’autocoscienza; questo accade nella scienza della natura
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per la quale l’essere è così poco originario come per la filosofia trascendentale e che ripone l’unica realtà in
un assoluto che è di per sé causa ed effetto nell’assoluta identità del soggettivo e dell’oggettivo che noi
chiamiamo natura e che nella sua più alta potenza non è di nuovo altro se non autocoscienza.
Il dogmatismo per cui l’essere è l’originario
non può in generale offrire la sua
spiegazione che con un regresso all’infinito
giacché la serie di cause e di effetti che la
sua spiegazione percorre potrebbe esser
chiusa soltanto per mezzo di qualcosa che
sia ad un tempo causa ed effetto di sé ma
proprio perciò si trasformerebbe in scienza
della natura la quale a sua volta nel suo
compimento ritorna al principio
dell’idealismo trascendentale. (Il dogmatismo conseguente esiste nello
spinozismo; a sua volta però lo spinozismo
può continuare ad esistere come sistema
reale solo come scienza della natura il cui
risultato finale ridiventa principio della
filosofia trascendentale).
Da tutto ciò è evidente che l’autocoscienza
circoscrive tutto l’orizzonte del nostro
sapere anche esteso all’infinito e in ogni
direzione resta ciò che v’ha di supremo.
5.9 Il male in Dio
Anche questa lettura tratta del problema del male che è centrale nella riflessione di Schelling del secondo
periodo. Egli ispirandosi a Jacob Böhme (1575–1624) ritiene si debba operare una distinzione fra Dio come
natura (principio oscuro) e Dio come spirito (principio luminoso). Dio non è sistema ma vita ed il distacco
della natura dallo spirito è il male di Dio. Il bene invece consiste nel recupero della natura nello spirito.
F. W. J. Schelling Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi
Dunque per spiegare il male non ci è dato altro all’infuori dei due principi in Dio. Dio come spirito (l’eterno
legame di entrambi) è l’amore purissimo ma nell’amore non può mai esserci una volontà del male e cosí
nemmeno nel principio ideale. Ma Dio stesso per poter essere abbisogna di un fondamento se non che
questo non è fuori di lui ma in lui; e Dio ha in sé una natura la quale benché appartenga a lui stesso è
diversa da lui…
Nell’intelletto divino vi è un sistema ma Dio stesso non è un sistema bensì una vita ed è in ciò che risiede la
risposta alla questione circa la possibilità del male in relazione a Dio. Ogni esistenza richiede una condizione
per divenire esistenza reale cioè personale. Anche l’esistenza di Dio senza una tal condizione non potrebbe
essere personale; se non che egli ha questa condizione in sé non fuori di sé.
Egli non può abolire la condizione
altrimenti dovrebbe abolire sé stesso:
può soltanto dominarla con l’amore e
subordinarsela a sua glorificazione.
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Anche in Dio vi sarebbe un
fondamento dell’oscurità se egli non
facesse propria la condizione se non
si unisse con essa a formare un
tutt’uno in una personalità assoluta. L’uomo non ottiene mai la condizione
in suo potere quantunque vi aspiri nel
male; essa gli è soltanto imprestata ed
è indipendente da lui; perciò la sua
personalità e ipseità non può mai
elevarsi all’atto perfetto. Questa è la
tristezza inerente ad ogni vita finita e
se in Dio v’è una condizione almeno
relativamente indipendente anche in
lui v’è una sorgente di tristezza che
non perviene però mai a realtà ma
serve unicamente all’eterna gioia del
superamento.
Donde il velo di mestizia che di
distende sulla natura tutta la profonda
ineluttabile malinconia di ogni vita. La
gioia deve accogliere il dolore il dolore
dev’essere trasfigurato in gioia.
5.10 Il programma della vera filosofia
L’idealismo è la “vera” filosofia: esso utilizza come strumento la separazione fra attività teoretica e attività
pratica ma ricompone in sé l’unità delle tappe storiche di queste attività e della loro conoscenza. Filosofia
teoretica e filosofia pratica si dissolvono nell’unità dell’idealismo.
F. W. J. Schelling Sistema della filosofia trascendentale
Il mezzo con cui l’autore ha tentato di conseguire il suo scopo cioè quello di esporre l’idealismo in tutta la sua
estensione è consistito nel trattare tutte le parti della filosofia in una sola continuità e l’intera filosofia come
ciò che essa è vale a dire come storia progressiva dell’autocoscienza storia a cui il dato dell’esperienza
serve soltanto come monumento e documento. Per abbozzare con esattezza e compiutezza questa storia
importava soprattutto non solo distinguere esattamente le singole epoche e in queste poi i singoli momenti
bensì anche presentarli in una successione in cui grazie al metodo stesso con cui era stata trovata si
potesse essere certi di non avere omesso nessuno degli anelli necessari sí da conferire al tutto un’intima
connessione intangibile dal tempo e permanente per ogni ulteriore rielaborazione come l’immutabile
impalcatura su cui tutto dev’essere appoggiato.
Ciò che principalmente ha mosso l’autore ad applicarsi con particolare diligenza all’esposizione di quella
connessione che è propriamente una serie graduale di intuizioni attraverso cui l’io si eleva fino alla coscienza
nella piú alta potenza è stato quel parallelismo fra la Natura ed il principio intelligente al quale egli era stato
condotto già da lungo tempo e che non è possibile esporre compiutamente né alla filosofia trascendentale né
alla filosofia della Natura isolatamente prese ma soltanto ad entrambe le scienze che proprio perciò devono
restare in una perpetua opposizione senza potersi mai fondere in uno.
La prova convincente dell’affatto identica natura delle due scienze sotto l’aspetto teoretico che fin qui l’autore
ha soltanto affermata va pertanto cercata nella filosofia trascendentale e in particolare nell’esposizione che di
essa contiene l’opera presente la quale va perciò considerata come un necessario complemento degli scritti
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sulla filosofia della Natura.
Proprio tramite quest’opera si palesa infatti che le stesse potenze dell’intuizione che si trovano nell’io
possono essere mostrate fino a un certo limite anche nella Natura e poiché quel limite divide appunto la
filosofia teoretica dalla pratica è pertanto indifferente dal punto di vista meramente teoretico porre come
primo l’oggettivo o il soggettivo in quanto su questo punto può decidere soltanto la filosofia pratica (che però
in quella considerazione non ha alcuna voce in capitolo) e quindi l’idealismo non ha un fondamento
puramente teoretico in quanto che se si ammette soltanto l’evidenza teoretica non si ottiene mai
quell’evidenza di cui è capace la scienza della Natura il fondamento e le prove della quale sono del tutto e
affatto teoretiche.
Da tali chiarimenti anche i lettori ai quali è familiare la filosofia della Natura trarranno la conclusione che v’è
un motivo abbastanza profondo ed intrinseco alla cosa stessa per cui l’autore ha contrapposto questa
scienza alla filosofia trascendentale distinguendola totalmente da essa poiché se il nostro compito si
riducesse unicamente a spiegare la Natura non saremmo certo mai stati spinti all’idealismo.
5.11 Il superamento del male
come scopo della creazione
All’inizio della lettura Schelling si
pone una serie di domande che
hanno sempre tormentato gli
uomini: il male è destinato a
scomparire? La creazione esiste
per uno scopo? La risposta sta nel
fatto che Dio essendo vita e
persona si è voluto assoggettare al
destino che è riservato a ciò che si
stacca dall’essere e si sottopone al
divenire. Il male è cosí divenuto
necessario alla rivelazione del bene
che alla fine prevarrà.
F. W. J. Schelling Ricerche
filosofiche sull’essenza della libertà
umana e gli oggetti che vi sono
connessi. Dopo tutto ciò rimane
sempre la domanda: finisce il male
e come? La creazione ha in
generale uno scopo? Se sí perché
questo non è raggiunto
immediatamente? Perché la
perfezione non è già fin dall’inizio?
A ciò non vi è altra risposta che quella già data: perché Dio è una vita non solo un essere. Ma ogni vita ha un
destino ed è soggetta al patire ed al divenire. A questo destino si è dunque liberamente assoggettato anche
Dio dacché primieramente separò il mondo della luce da quello delle tenebre per divenir personale. L’essere
diventa accessibile solo nel divenire. Certamente nell’essere non vi è divenire; piuttosto il primo è posto
come eternità nel secondo; ma nel processo di realizzazione per antitesi vi è necessariamente un divenire.
Senza il concetto di un Dio che soffre umanamente comune a tutti i misteri e a tutte le religioni spirituali del
passato l’intera storia rimane incomprensibile…
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Al di sopra del verbo sorge lo spirito e lo spirito è il primo essere che unisce il mondo della tenebra a quello
della luce e subordina a sé i due principi per realizzarsi e divenir personale. Contro questa unità reagisce
tuttavia il fondamento e afferma la dualità iniziale ma solo in vista di un sempre maggiore incremento e della
finale separazione del bene dal male. La volontà del fondamento deve rimanere nella sua libertà sino a che
tutto sia compiuto sino a che tutto sia divenuto reale. Se fosse sottomessa prima in essa resterebbe
nascosto il bene insieme con il male. Ma il bene dev’essere elevato dalla tenebra all’attualità per vivere
eternamente con Dio; il male invece dev’esser diviso dal bene per venir ricacciato eternamente nel nonessere. È ben questo infatti lo scopo finale della creazione…
5.12 La libertà e il male
Il tema del male è fondamentale nel secondo periodo della riflessione schellingiana. In modo molto efficace il
filosofo delinea gli aspetti devastanti che una vera dottrina della libertà è in grado di produrre su di un
sistema filosofico idealista e su qualsiasi tipo di sistema monistico. Schelling definisce il male come il
desiderio dei particolarismi di affermarsi come un disordine fra il centro e la periferia. Franz Baader (17651841) filosofo ed amico personale di Schelling aveva recuperato alla filosofia il pensiero dei mistici tedeschi a
cominciare da J. Böhme.
F. W. J. Schelling Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi
Ma lo stesso idealismo malgrado
l’elevatezza del livello a cui ci ha
innalzati e la certezza del primo
concetto perfetto ch’esso ci ha dato
della libertà formale tuttavia in sé e per
sé è tutt’altro che un sistema compiuto e
non appena vogliamo addentrarci nella
sua esattezza e determinatezza ci lascia
quanto alla dottrina della libertà piuttosto
perplessi. L’idealismo infatti da una
parte dà soltanto il concetto piú
generale della libertà e dall’altra il
concetto meramente formale di essa.
Ma il concetto reale e vivente della
libertà è che essa sia una facoltà del
bene e del male.
Questo è il punto della piú profonda
difficoltà in tutta la dottrina della libertà
difficoltà che da sempre è stata avvertita
e che non riguarda solo questo o quel
sistema bensí piú o meno tutti e che
riguarda certo in modo particolarmente
spiccato il concetto dell’immanenza.
Infatti o si ammette un male reale e
allora è inevitabile porre il male
nell’infinita sostanza o nello stesso volere originario col che si distrugge interamente il concetto di un essere
perfettissimo; oppure bisogna negare in qualche modo la realtà del male ma con ciò svanisce insieme il
reale concetto della libertà…
Se la libertà è realmente ciò ch’essa dev’essere secondo questo concetto (ed essa lo è immancabilmente)
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non si è allora piú in ordine con la sopra tentata derivazione della libertà da Dio; ché se la libertà è un potere
di fare il male deve avere allora una radice indipendente da Dio. Cosí incalzati si può esser tentati di gettarsi
in braccio al dualismo. Ma questo sistema se è realmente pensato come la dottrina di due princípi assolutamente diversi e
reciprocamente indipendenti non è se non un sistema dell’autodistruzione e della disperazione della ragione.
Se invece il principio cattivo è pensato in qualche senso come dipendente dal buono tutta la difficoltà della
derivazione del male dal bene è sí concentrata in un solo essere ma è in tal modo accresciuta anziché
diminuita.
Anche supponendo che questo secondo essere sia stato da principio creato buono e si sia staccato per
propria colpa dall’essere originario resta sempre inesplicabile in tutti i sistemi che si sono avuti finora la prima
facoltà di un atto di ribellione a Dio…
Che quella sollevazione della volontà particolare sia il male si chiarisce da quanto segue. La volontà che
esce dalla sua sovrannaturalità per farsi particolare e creaturale pur in quanto volontà universale si sforza di
sovvertire il rapporto dei princípi di innalzare il fondamento sopra la causa di usare lo spirito ch’essa ha
ottenuto solo per il centro fuori di questo e contro la creatura onde segue disordine in lei stessa e fuori di lei.
La volontà dell’uomo è da considerarsi come un fascio di forze viventi; finché essa stessa rimane nella sua
unità con la volontà universale anche quelle forse permangono in divina misura e in divino equilibrio. Ma non
appena la stessa volontà particolare si è scostata dal centro che è il suo luogo si scioglie anche il vincolo
delle forze; al suo posto domina una mera volontà particolare che non può piú unificare come la volontà
originaria le forze sotto di sé e che deve perciò tendere a formare o a comporre una vita propria e isolata con
le forze staccatesi l’una dall’altra con l’esercizio ribelle delle brame e delle voglie (essendo ogni singola forza
anche un desiderio e una voglia) il che in tanto è possibile in quanto anche nel male continua a sussistere il
primo vincolo delle forze il fondamento della natura.
Non potendo però esserci altra vera vita che
quella che poteva sussistere nel rapporto
originario nasce cosí una vita propria ma falsa
una vita della menzogna una propaggine
dell’inquietudine e della corruzione […].
Questo concetto del male ch’è il solo giusto e
secondo il quale il male si basa su un positivo
pervertimento o sovvertimento dei principi è
stato messo in rilievo nei tempi moderni
particolarmente da Franz Baader e da lui chiarito
con profonde analogie fisiche segnatamente
quelle della malattia.
5.13 La positività del male
Il problema del male è al centro della riflessione
di Schelling nel secondo periodo. Egli afferma
che dall’angoscia della vita si è spinti al desiderio
di uscire dal “centro” per scoprire la propria
“inseità”. In ciò sta la positività del male ma
anche il dramma del destino umano.
F. W. J. Schelling Ricerche filosofiche
sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che
vi sono connessi
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L’angoscia stessa della vita incalza l’uomo a uscire dal centro in cui è stato creato poiché questo centro in
quanto è la piú genuina essenza di ogni volontà è per ciascuna volontà particolare un fuoco divoratore: per
poter vivere in esso l’uomo deve morire ad ogni particolarità ond’è un tentativo quasi necessario l’uscire da
esso verso la periferia per cercarvi un riposo alla propria ipseità.
Di qui la generale necessità del peccato e della morte come del reale morire della particolarità attraverso cui
ogni volontà umana deve passare come attraverso ad un fuoco per esserne purificata. Nonostante questa
universale necessità il male rimane sempre una scelta propria dell’uomo: il male come tale non può costituire
il fondamento e ogni creatura cade per propria colpa…
L’inizio del peccato è che l’uomo si converte dall’essere autentico al non-essere dalla verità alla menzogna
dalla luce alla tenebra per diventare egli stesso principio creatore e regnare su tutte le cose con la potenza
del centro che ha in sé. Infatti anche a colui che si è ritratto dal centro resta pur sempre il sentimento che egli
è stato tutte le cose cioè in e con Dio: perciò egli vi tende di nuovo ma per sé non là dove potrebbe esserlo
cioè in Dio. Di qui nasce la fame dell’egoismo il quale nella misura in cui si stacca dal tutto e dall’unità diventa sempre
piú misero piú povero ma appunto per questo piú cupido piú famelico piú velenoso. V’è nel male la
contraddizione che sempre consuma ed annienta sé stessa che cioè tende a farsi creaturale proprio mentre
distrugge il vincolo della creaturalità e per l’arroganza d’esser tutto cade nel non-essere.
5.14 Perché il male è necessario
Ancora una lettura sul problema del male fondamentale nella filosofia di Schelling del secondo periodo. Egli
presenta nella lettura un tentativo di giustificazione razionale dell’esistenza del male. Il bene ed il male sono
fra di loro contrari ed il loro rapporto è dialettico per cui non si può dare l’uno senza l’altro né eliminare l’uno
senza che venga eliminato anche l’altro.
F. W. J. Schelling Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi
Non può esservi alcun dubbio
che il male è stato necessario
per la rivelazione di Dio. Infatti
se Dio come spirito è l’unità
indivisibile dei due princìpi e se
questa stessa unità è reale solo
nello spirito dell’uomo nel caso
che questa unità fosse nello
spirito umano altrettanto
indissolubile quanto in Dio
l’uomo non sarebbe per niente
diverso da Dio: l’uomo si
risolverebbe in Dio e non ci
sarebbe né rivelazione né moto
d’amore. Infatti ogni essere può
rivelarsi solo per mezzo del suo
contrario: l’amore solo nell’odio
l’unità solo nella lotta.
Se non ci fosse separazione dei
princípi l’unità non potrebbe
mostrare la sua onnipotenza: se
non ci fosse la discordia l’amore
non potrebbe diventar reale.
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L’uomo è collocato a un livello cosí alto che ha in sé stesso l’origine del suo spontaneo movimento verso il
bene o verso il male indifferentemente: il legame dei princípi in lui non è necessario ma libero.Egli sta nel
punto decisivo: qualunque cosa egli scelga l’azione sarà sua ma non può restare nella indecisione perché
Dio deve rivelarsi necessariamente e perché nella creazione in generale non deve rimanere nulla di
equivoco…
Si è spesso creduto che chi ha voluto il mondo abbia dovuto volere anche il male. Ma quando Dio
riconduceva all’ordine i disordinati parti del caos ed esprimeva nella natura la sua eterna unità egli con ciò
operava piuttosto contro le tenebre e opponeva allo sregolato movimento del principio irrazionale il verbo
come centro stabile e lume eterno. La volontà di creare era dunque immediatamente solo una volontà di far
nascere la luce e quindi il bene; in questa volontà il male non venne in considerazione né come mezzo né
come conditio sine qua non per la massima perfezione possibile del mondo come dice Leibniz.
Il male non fu oggetto né d’un decreto divino né tanto meno d’una concessione divina. La domanda perché
Dio pur avendo necessariamente previsto che il male sarebbe derivato almeno in modo concomitante
dall’auto-rivelazione non abbia preferito non rivelarsi affatto non merita risposta. Sarebbe come dire che
perché non ci sia l’antitesi dell’amore non dev’esserci neanche l’amore… Se Dio per evitare il male non si
fosse rivelato il male l’avrebbe vinta sul bene e sull’amore… Sarebbe come se Dio sopprimesse la
condizione della sua esistenza cioè la sua propria personalità. Insomma perché non ci fosse il male
bisognerebbe allora che Dio stesso non ci fosse…
5.15 Sistema dell'idealismo trascendentale
Ciò che noi chiamiamo natura è un poema chiuso in caratteri misteriosi e mirabili. Ma se l'enigma si potesse
svelare noi vi conosceremmo l'odissea dello spirito, il quale, per mirabile illusione cercando se stesso, fugge
se stesso; poiché si mostra attraverso il mondo sensibile solo come il senso attraverso le parole, solo come,
attraverso una nebbia sottile, quella terra della fantasia, alla quale miriamo.
Ogni splendido quadro nasce quasi per il fatto che si toglie quella muraglia invisibile che divide il mondo
reale dall'Ideale, e non è se non l'apertura, attraverso la quale appaiono nel loro pieno rilievo le forme e le
regioni di quel mondo della fantasia, il quale traluce solo imperfettamente attraverso quello reale.
La natura per l'artista è non piú di quello che è per il filosofo, cioè solo il mondo ideale che apparisce tra
continue limitazioni, o solo il riflesso imperfetto di un mondo, che esiste, non fuori di lui, ma in lui.
5.16 Schelling, Il finalismo è nelle cose, cosí
come l'unità di Spirito e Natura
F. W. J. Schelling, Primo abbozzo di un sistema della
filosofia della Natura, Introduzione
Ora, il meccanicismo è però lungi dal costituire da
solo la Natura. Infatti non appena entriamo nel
campo della natura organica ogni collegamento
meccanico di causa ed effetto viene meno. Ogni
prodotto organico sussiste per se stesso, la sua
esistenza non dipende da nessun'altra esistenza.
Ora, la causa non è però mai identica all'effetto: un
rapporto di causa ed effetto è possibile solo fra cose
affatto diverse. L'organismo, invece, produce se
stesso, scaturisce da se stesso: ogni singola pianta
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non è che il prodotto di un individuo della sua specie,
e cosí ogni singolo organismo produce e riproduce
all'infinito soltanto il proprio genere [...].
Soltanto nell'essere organizzato le parti sono reali; ed esistono senza il mio intervento, poiché tra esse e il
tutto v'è un rapporto oggettivo. A fondamento di ogni organismo sta quindi un concetto, giacché là dove vi è
relazione necessaria del tutto con le parti e delle parti col tutto, ivi c'è il concetto. Ma questo concetto abita
nell'organismo stesso, e non ne può venire separato: l'organismo organizza se stesso, e non è soltanto
un'opera dell'arte, il cui concetto si trova fuori di essa, nella mente dell'artista. Non solo la forma, ma anche
l'esistenza dell'organismo è conforme a scopi. Esso non potrebbe organizzarsi se non fosse già organizzato
[...].
Ogni organismo è dunque un tutto: la sua unità si trova in lui stesso, e non dipende dal nostro arbitrio
pensarlo come un'unità o come una molteplicità. Il rapporto di causa ed effetto è qualcosa di transitorio, di
dileguante, mera apparenza, nel senso comune del termine. L'organismo invece non è mera apparenza, ma
esso stesso oggetto, e piú precisamente un oggetto sussistente di per se stesso, in se stesso intero ed
indivisibile; e poiché in esso la forma è inseparabile dalla materia, l'origine di un organismo in quanto tale non
è piú spiegabile meccanicisticamente di quanto non lo sia l'origine della materia stessa.
Qualora dunque si debba spiegare il finalismo dei prodotti organici, il dogmatico si vede del tutto
abbandonato dal suo sistema. Qui non giova piú a nulla separare a nostro piacimento concetto e oggetto,
forma e materia. Infatti per lo meno qui l'una cosa e l'altra non sono unite nella nostra rappresentazione, ma
lo sono già originariamente e necessariamente nell'oggetto [...].
La prima cosa, dunque, che voi ammettete è questa: ogni concetto di finalismo può sorgere soltanto in un
intelletto, e solo in relazione a un tale intelletto una cosa può esser definita conforme a scopi.
Egualmente siete non meno costretti ad ammettere che il finalismo dei prodotti naturali risiede in essi stessi,
che esso è oggettivo e reale, che dunque non appartiene alle vostre rappresentazioni arbitrarie, ma a quelle
necessarie. Siete infatti in grado di distinguere molto bene ciò che nelle connessioni dei vostri concetti è
arbitrario e ciò che è necessario. Ogni volta che raccogliete in un'unità numerica cose che sono separate
dallo spazio, voi agite affatto liberamente; l'unità che conferite loro, non fate che trasferirvela dai vostri
pensieri; nelle cose stesse non vi è ragione alcuna che vi necessiti a pensarle come un'unità. Ma del fatto che pensate ogni
pianta come un individuo in
cui tutto cospira a un unico
scopo, dovete cercare la
ragione nella cosa fuori di voi:
vi sentite necessitati nel
vostro giudizio, e dovete
quindi ammettere che l'unità
con cui pensate ciò non è
soltanto logica (soltanto nei
vostri pensieri), ma reale
(effettiva fuori di voi).
Vi si chiede ora di rispondere
a questa domanda: come
avviene che un'idea, la quale
evidentemente non può
esistere che in voi e perciò
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avere realtà soltanto in
relazione a voi, debba
ciononostante venir intuita e
rappresentata da voi stessi
come reale fuori di voi? [...].
Questa filosofia deve dunque ammettere che nella Natura ci sia uno sviluppo di gradi della vita, che anche
nella materia meramente organizzata ci sia vita, solo una vita di specie limitata. Quest'idea è cosí antica, e
nelle piú varie forme si è mantenuta fino ad oggi cosí costantemente (già nei tempi piú antichi si riteneva che
tutto quanto l'universo fosse compenetrato da un principio vivificante detto anima del mondo, e la piú recente
epoca di Leibniz assegnò ad ogni pianta la sua anima), che si può a ragione presumere che nello stesso
spirito umano si trovi una qualche ragione di questa credenza sulla Natura. E cosí stanno veramente le cose.
Tutto il fascino che circonda il problema dell'origine dei corpi organici dipende dal fatto che in queste cose
necessità e contingenza sono intimamente unite.
La necessità, perché la loro stessa esistenza, e non solo (come nell'opera d'arte) la loro forma, è conforme a
scopi; la contingenza, perché questa conformità a scopi è reale soltanto per un essere che intuisca e che
rifletta. Da ciò lo spirito umano fu sin dall'antichità condotto all'idea di una materia organizzante sé stessa, ed
essendo l'organismo rappresentabile soltanto in relazione a uno Spirito, all'idea di un'unione originaria dello
Spirito e della materia in queste cose. Esso si vide necessitato a cercare la ragione di queste cose per un
verso nella Natura stessa, e per l'altro in un principio superiore alla Natura, e perciò pervenne assai per
tempo a pensare Spirito e Natura come un'unità.Qui per la prima volta si fece innanzi dalla sua sacra oscurità
quell'essenza ideale in cui esso pensa come una sola unità concetto e atto, progetto ed esecuzione. Qui per la prima volta l'uomo fu colto da un presentimento della sua propria natura, nella quale intuizione e concetto, forma e
oggetto, ideale e reale sono originariamente una sola e medesima cosa. Di qui il particolare mistero che avvolge questi problemi:
un mistero che la filosofia meramente riflessiva, mirante solo alla separazione, non è mai in grado di svelare, mentre la pura
intuizione, o piuttosto l'immaginazione creatrice, ha ormai da lungo tempo scoperto il linguaggio simbolico, che basta interpretare
per accorgersi che la Natura parla tanto piú intelligibilmente quanto meno la si pensa in maniera meramente riflessiva.
6 Aforismi
1 La Natura deve essere lo Spirito visibile, lo Spirito è Natura invisibile.
2 La natura è vita che dorme.
3 L'arte deve iniziare con consapevolezza e terminare nell'inconscio, cioè oggettivamente; l'Io è consapevole
rispetto alla produzione, inconscio rispetto al prodotto.
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4 Nulla, assolutamente nulla è in sé imperfetto, ma tutto ciò che è appartiene, in quanto è, all'essere della
sostanza infinita... Questa è la santità di tutte le cose. La più piccola è santa come la più grande sia per
l'infinità interna sia per il fatto che non potrebbe essere negata, secondo il suo eterno fondamento ed essere
nel tutto, senza che lo stesso infinito tutto fosse negato.
5 Solo nella personalità è la vita e ogni personalità riposa su un fondamento oscuro, che deve quindi essere
anche il fondamento della conoscenza.
6 Questa è la tristezza connessa ad ogni vita finita. [...] Essa però non arriva mai a realizzarsi, e serve
soltanto all'eterna gioia del trionfo. Donde il velo di tristezza, che si stende su tutta la natura, la profonda,
insopprimibile malinconia di ogni vita.
7 Ciò che noi chiamiamo natura è un poema chiuso in caratteri misteriosi e mirabili. Ma se l'enigma si
potesse svelare noi vi conosceremmo l'odissea dello spirito, il quale, per mirabile illusione cercando se
stesso, fugge se stesso; poiché si mostra attraverso il mondo sensibile solo come il senso attraverso le
parole, solo come, attraverso una nebbia sottile, quella terra della fantasia, alla quale miriamo. Ogni
splendido quadro nasce quasi per il fatto che si toglie quella muraglia invisibile che divide il mondo reale
dall'Ideale, e non è se non l'apertura, attraverso la quale appaiono nel loro pieno rilievo le forme e le regioni
di quel mondo della fantasia, il quale traluce solo imperfettamente attraverso quello reale.
La natura per l'artista è non più di quello che è per il filosofo, cioè solo il mondo ideale che apparisce tra
continue limitazioni, o solo il riflesso imperfetto di un mondo, che esiste, non fuori di lui, ma in lui.
8 Il tempo è l'angelo dell'uomo.
9 L'architettura è musica nello spazio, una sorta di musica congelata.
10 La pace raramente è negata ai pacifici.
11 L'uomo ha storia solo perché ciò che farà non si può calcolare precedentemente secondo nessuna teoria.
12 Il riconoscere la verità con piena convinzione è un bene così grande che, al confronto, ciò che viene
chiamato reputazione, opinione degli uomini e tutte le vanità della terra non valgono nulla.
7 Filosofi correlati
7.1 L'idealismo di Fichte e Schelling
Fichte dice, che filosofico può essere chiamato quell’ unico punto di vista capace di ricondurre il molteplice in
un’ unità, il filosofo quindi deve poter descrivere a – priori il tempo senza aver bisogno di alcun tipo di
esperienza, la sua metodologia è differente da quella del mero cronista di eventi, in quanto costruisce una
struttura dove vige un nesso causale – necessario, per comprendere anche una sola età umana, bisogna
possedere – scrive Fichte – uno sguardo sulla totalità del tempo e del piano cosmico.
Si tratta di una dialettica tra molteplicità ed unità, in cui la temporalità del mondo umano non è altro che una
partizione dell’ eternità, Fichte afferma l’ importanza di prendere in considerazione le specie umane e la loro
vita, piuttosto che i singoli individui, estranei alla sua analisi.
Il fine della vita umana sulla terra, è
quello di dirigere tutte le relazioni
secondo libertà e ragione, dove la
libertà va intesa sul piano dell’
umanità come specie, alla pari di
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una vera azione reale; in base a
questa premessa la vita umana
sulla terra, si divide in due momenti,
in un primo stadio in cui l’ umanità esisteva semplicemente
la ragione era legge e forza
naturale e si manifestava come
istinto, ed in un secondo,
organizzato razionalmente nella
libertà e mediante la coscienza.
Tra le due età, vi è un periodo
intermedio chiamato “ la coscienza
o scienza della ragione “.
Nella prospettiva fichteana vi sono cinque epoche della vita terrena umana: 1) l’ epoca del dominio incondizionato della ragione per mezzo dell’ istinto: lo stato di innocenza del genere
umano.
2) L’ epoca in cui l’ istinto di ragione è trasformato in una autorità esteriormente coattiva; l’ età dei sistemi
positivi della teoria e della vita, che in nessun modo possono risalire ai fondamenti ultimi e pertanto non
possono convincere, ma mirano invece a costringere ed esigono fede cieca e obbedienza incondizionata: lo
stato del peccato incipiente.
3) L’ epoca della liberazione, direttamente dall’ autorità coercitiva, indirettamente dalla signoria dell’ istinto di
ragione e dalla ragione in assoluto in ogni sua forma; l’età dell’ assoluta indifferenza verso ogni verità, e della
completa mancanza di vincoli, senza alcun filo conduttore dell’ esistenza: lo stato della completa
peccaminosità. 4) L’ epoca della scienza della ragione: l’ età in cui la verità viene riconosciuta come un bene sommo ed è
amata nel modo più elevato: lo stato della incipiente giustificazione.
5) L’ epoca dell’ arte della ragione, l’ età in cui l’ umanità educa se stessa, con mano sicura e infallibile, fino a
diventare immagine perfetta della ragione: lo stato della ragione completa giustificazione e santificazione.
Il percorso che l’ umanità compie è un ritornare all’ origine attraverso un’ erranza per il deserto della vita, l’
uomo allontanato dal paradiso è destinato a ricostruirsi sulla terra un mondo sul modello di ciò che ha
perduto: “ Resa più audace dalla necessità, si stabilisce infine in qualche misero angolo della terra e con
sudore della fronte strappa da terra le spine e i cardi dell’ imbarbarimento, per coltivare i dolci frutti della
conoscenza. Grazie al godimento di questi frutti le si aprono gli occhi e le si irrobustiscono le mani, ed essa
si costruisce da sé il suo paradiso secondo il modello perduto: cresce per lei l’ albero della vita, essa tende
la mano verso i frutti, ne mangia e vive in eterno.
Fichte pone a fondamento della storia il principio secondo cui tutto ciò che esiste, esiste necessariamente
per assoluta necessità, e non vi è altra modalità esistenziale oltre a quella reale. Il filosofo deve dare un fondamento e una base sicura allo storico, entrambi però nulla possono dire sull’
origine del mondo e dell’umana specie, in quanto non si presenta nessuna origine, ma “ c’è soltanto l’ essere
uno, intemporale e necessario. “
L’essere uno, necessario ed eterno è Dio, inteso come sapere se stesso ed dimensione suprema dell’
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autocoscienza che riposa su di sé, è quindi fondamento di sé.
Colui che si fa portavoce della filosofia deve dare conto “ delle condizioni dell’ esistenza reale “, occupandosi
della storia mediante una dimensione a – priori, e cercando tutti quegli eventi che testimoniano e non
dimostrano il percorso dell’ umanità verso il suo fine, in questo modo l’ attività speculativa è antitetica a
quella dello storico di professione.
Il filosofo può – se lo ritiene
opportuno – tacere relativamente
ai fatti accaduti, senza però
inventarsene di nuovo, riuscendo
però a spiegare un evento in
relazione all’ intero piano
universale: “ Riconoscere questo,
sottomettersi umilmente ed essere
beati nella coscienza di questa
nostra identità con la forza di
divina, è compito di ogni uomo;
comprendere nel chiaro concetto l’
universale, l’ assoluto, l’eterno e
immutabile nella guida del genere
umano, è compito del filosofo;
determinare di fatto la sfera
sempre cangiante e mutevole dei
fenomeni attraverso la quale
procede la sicura marcia della
specie umana, è compito dello
storico, le cui scoperte vengono
soltanto incidentalmente ricordate
dal filosofo “.
Lo stato assoluto è un’ istituzione artificiale che dirige tutte le forze individuali in una dimensione globale e di
specie, avvalendosi allo stesso modo di tutti gli individui, facendo in modo che ognuno presti la sua forza
senza riserva alcuna: “Elevarsi a poco a poco alla forma di questo stato assoluto, in quanto esso costituisce
un rapporto umano imposto dalla ragione, è la missione del genere umano “.
Nello stato delineato da Fichte, solo gli uomini liberi, capaci di provvedere a sé, sono una finalità interna al
corpo statale e possono quindi attenersi ad una volontà estranea: è un’ uguaglianza del diritto di tutti, ma in
nessuno dell’ uguaglianza dei diritti, sussiste una differenza dei ceti, ma tutti devono cooperare per la
totalità.
Lo stato in questo modo ha come fine il perfezionamento della specie umana, al di là degli interessi dei
singoli individui, nella sua epoca, lo stato avrebbe penetrato le forze dei singoli, dovendo però ancora
assurgere ad un piano globale.
La prima forma fondamentale di coscienza è l’ oscuro sentimento, l’ amore che l’ individuo nutre verso di sé,
si tratta della classe umana formatasi senza l’ educazione; la conoscenza chiara è la seconda modalità
coscienziale, la possibilità di estendere il dominio d’ azione dell’ amore è insita nell’ educazione, la
conoscenza assume un’ importanza estrema, nella misura in cui conduce a unità il mondo degli spiriti e
foggia nella libertà l’ umanità intera.
Fichte afferma che l’ umanità si trova tra la prima e la seconda forma coscienziale, e che spetti “ ai Tedeschi
prima di ogni altro dare inizio al nuovo tempo, precorrendo gli altri e diventando il loro modello “. Discorsi alla
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nazione tedesca.
Solo ai tedeschi spetta questa educazione superiore, proprio perché ne sono predisposti, parlando una
lingua viva alla radice, e non come gli altri ceppi germanici, mobile in superficie e morta nella sua essenza, il
fatto di parlare una stessa lingua dalle origini è un segno distintivo.
La lingua in sé accompagna il
singolo in tutte le più segrete
profondità del suo animo, nel
pensare e nel volere, imponendo o
togliendo limiti, è il punto di
convergenza tra i sensi e lo spirito;
in un popolo di lingua viva l’
educazione ha incidenza sulla vita,
prende in considerazione ogni
forma di cultura in relazione all’
esistenza, ed infine “ la gran
massa è educabile e gli educatori
di questa nazione sperimentano
sul popolo le loro scoperte e
vogliono avere influenza su di
esso “. Discorsi alla nazione
tedesca.Nel “ Sistema dell’
idealismo trascendentale “
Schelling afferma che il diritto è
una scienza teoretica ed un
ordinamento puramente naturale
sul quale la libertà ha un dominio
ristretto non potendo però essere
tutelato dal caso;
il primo ordinamento si forma a causa della necessità e del bisogno mediante la violenza e l’oppressione, la legalità di una costituzione inoltre si fonda sulla separazione dei tre poteri dello stato, con la
preponderanza di quello esecutivo.
Un’ organizzazione statale può essere al sicuro se e solo se principi comuni si sono diffusi tra gli stati quali
quelli di una vera costituzione giuridica, ciò però non può accadere attraverso la libertà.
Non tutto quello che accade rientra nella storia e a maggior ragione fenomeni spiegabili in termini periodici
ed a – priori, in questo senso teoria e storia, sono contrapposte e l’ arbitrio è l’ unico dio, inoltre un
accadimento privo di legge è storico, in quanto storico è fusione di libertà e conformità alla legge.
Schelling definisce la storia come l’ unione tra la libertà e la necessità, la costituzione giuridica è condizione
della libertà, la dimensione necessaria nasce inconsciamente solo mediante l’ intuizione, opponendosi alla
sfera del conscio, l’ autore del Sistema dell’ idealismo trascendentale parla dell’ azione non del singolo ma
“di tutta la specie“ nella storia.
L’ oggetto è lo stesso in tutte le intelligenze ma agisce in modo assolutamente libero, anche perché le azioni
umane possono essere opposte tra loro: l’ armonia prestabilita tra l’ oggettivo e il determinante, si spiega con
l’ identità assoluta di entrambi, non conoscibile con categorie gnoseologiche, ma solo mediante la fede.
“Se la nostra riflessione si volge solamente all’ inconscio od oggettivo, presente in ogni operare, dobbiamo
ammettere che tutte le azioni libere – e dunque l’ intera storia – sono del tutto predeterminate per mezzo di
una determinazione non già cosciente, ma affatto cieca, che è espressa nell’ oscuro concetto di destino:
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questo è il sistema del fatalismo.
Se la riflessione si volge soltanto al soggettivo, che determina volontariamente, sorge il sistema dell’assoluta
mancanza di legge, il vero e proprio sistema dell’ irreligione e dell’ ateismo, cioè l’ affermazione che in ogni
fare e agire non vi sia alcuna legge e alcuna necessità. Ma se la riflessione si eleva fino a quell’ assoluto,
che è il fondo comune dell’ armonia tra la libertà e l’ intelligenza, sorge il sistema della provvidenza, cioè
della religione nell’ unico significato della parola.
Nel Sistema dell’ idealismo trascendentale Schelling afferma che l’ Assoluto opera per mezzo di ogni singola
intelligenza, è il suo stesso operare assoluto, perciò la storia non è altro che rivelazione di tale Assoluto,
rivelazione infinita, dove si presenta la scissione tra oggettivo e soggettivo.
Vi sono tre periodi della rivelazione, tra il destino e la provvidenza collochiamo la natura come passaggio
intermedio.
Il primo periodo della storia è chiamato da Schelling “ tragico “ destino in quanto lo splendore, la fioritura dell’
umanità e le meraviglie del mondo antico tramontano con la caduta dei grandi imperi. Il secondo periodo è dominato della natura, la
libertà sembra servire un piano naturale, portando
nella storia una regolarità meccanica, va dall’
espansione romana fino alla sua caduta, in questo
lasso di tempo vari popoli e civiltà sono poste in
contatto tra loro, facendo sì che si realizzi una
struttura universale: “ Tutti gli avvenimenti che
cadono in questo periodo sono perciò da
considerarsi semplici conseguenze naturali, nello
stesso modo in cui la caduta dell’ Impero romano
non ha né un lato tragico né un lato morale, ma fu
necessaria secondo le leggi naturali e non fu che
un arbitrio pagato alla natura “ Sistema dell’
idealismo trascendentale, Schelling.
Infine con l’ avvento dell’ ultima fase, quella della
provvidenza, “ allora sarà anche Dio “.
Schelling distingue tre forme di considerazione
storica:
1) il punto di vista filosofico – religioso, considera la storia nell’ ottica dell’ idealità, trascurando le singole
determinazioni concrete
2) il punto di vista empirico finalizzato a cogliere il reale, e diviso in storiografia cronachistica che si limita a
raccogliere dati, e storiografia pragmatica che unifica il materiale storico
3) il punto di vista artistico, sintesi di libertà e necessità, reale ed ideale.
7.1.1 Johann Gottlieb Fichte
Il pensiero di Johann Gottlieb Fichte (Rammenau 1764 - Berlino 1814), professore nelle università di Jena e
di Berlino, parte dal proposito di rielaborare in maniera sistematica la filosofia di Kant ponendo l'idea pratica
della libertà come unico fondamento di un sistema unitario della filosofia (che diviene perciò "sistema della
libertà").
Per Fichte il principio del sapere non può essere un fatto della coscienza (come è l'esistenza della legge
morale per Kant), ma un atto, una azione spirituale originaria, che viene colta nell'intuizione intellettuale e
fonda il sapere deduttivo. La coscienza immediata della legge morale è una manifestazione di questa
intuizione intellettuale e ne garantisce la validità.
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La filosofia deve portare alla luce le "azioni originarie" che rendono possibile il sapere della coscienza, deve
chiarificare gli atti precoscienziali che fondano e accompagnano il fatto di sapere questa o quella cosa. Nel
realizzare ciò la filosofia deve essere consapevole del suo stesso modo di procedere, deve riflettere e
giustificare le asserzioni che avanza.
E’ questa l'idea del capolavoro di Fichte, la Dottrina della scienza (1794-95): una teoria della costituzione del
sapere della coscienza condotta attraverso una concomitante riflessione giudicativa sui passi propri della
coscienza. Si tratta perciò di una filosofia di tipo trascendentale.
Dottrina della scienza
Per Fichte l'espressione "dottrina della scienza" corrisponde fondamentalmente a quella di filosofia. In un
primo momento, che coincide con gli anni di insegnamento a Jena (1794-99), Fichte enuclea un circolo di
principi trascendentali: il primo principio ("l'io originariamente pone assolutamente il suo proprio essere")
dice che non è concepibile coscienza senza l'agire dell'io spirituale, senza l'essere in atto dell'intelligenza; il
secondo principio ("all'io è opposto assolutamente un non-io") afferma che il sapere richiede per esistere che
all'io spirituale si presenti una alterità da rappresentare e da configurare, una alterità che nella sua
concretezza non si può dedurre logicamente dalla posizione originaria dell'io;
il terzo principio ("io oppongo nell'io
all'io divisibile un non-io divisibile")
dice che il sapere effettivo è sempre
distinzione e sintesi di io e alterità,
cioè di una sfera soggettiva e di una
oggettiva. Fichte vede che nella
costituzione della coscienza non
operano soltanto fattori teoretici
(immaginazione, intelletto, giudizio,
ragione), ma anche e insieme fattori
pratici (sentimento, impulso,
volontà). D'altra parte la
spiegazione della coscienza non
può essere data soltanto dal fatto
che in essa agisce l'io spirituale, ma
richiede una azione (un "urto")
dall'esterno. Questa azione è per
Fichte, radicalmente, un "invito", un
"appello" alla libertà che proviene da
un altro essere libero. La "nascita" della coscienza rinvia
all'esserci di almeno un'altra
coscienza, ossia accade in un
orizzonte intersoggettivo. La
Dottrina della scienza contiene e
avanza perciò una teoria
intersoggettiva.
Dopo il suo trasferimento a Berlino, nel 1799, Fichte approfondisce un nuovo livello della "dottrina della
scienza" ed evolve da una posizione di umanesimo, in cui l'io è l'uomo, a una sorta di misticismo, in cui
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l'essere è Dio e la dottrina della libertà dell'uomo si trasforma in una teoria della grazia. Fichte affronta il
problema del rapporto fra il principio del sapere (cioè l'io, la ragione, che è sempre l'unità organica di una
dualità) e la radice ultima, l'unità pura sopra ogni distinzione e mediazione, cioè l'assoluto. Individua due movimenti fondamentali: l'uno ascendente, nel quale il sapere si autoapprofondisce fino a
"deporsi", sospendersi come sapere, e a riconoscere l'unità originaria di "essere e vita"; l'altro discendente e
"fenomenologico" nel quale il sapere, alla luce della evidenza conseguita, si conosce come manifestazione
originaria, "immagine", "esistenza", "schema" dell'assoluto. La compiuta "dottrina della scienza", la filosofia, è
il sistema dell'immagine dell'assoluto.
Discipline particolari
La coscienza originaria esiste in quattro "visioni del mondo" (la sensibilità, la legalità, la moralità, la
religione), forme fondamentali che corrispondono alle discipline filosofiche specifiche della dottrina della
natura, del diritto, dell'etica, della religione. La dottrina della natura enuclea i principi attraverso i quali la
natura può essere concepita a partire dalla riflessione intellettuale e vede il senso della natura nel suo
essere sede e ambiente del rendersi visibile della vita spirituale. La dottrina del diritto elabora quella
manifestazione della vita razionale che consiste nella limitazione reciproca delle libertà degli individui e ne
concepisce le forme giuridico-politiche di attuazione.
L'etica prende in considerazione i principi della vita morale come consapevolezza e pratica del dovere. La
dottrina della religione enuclea il rapporto unitivo di amore che collega la vita divina originaria e ciò che esiste
nel tempo. Oltre alle discipline particolari Fichte elabora una filosofia della storia: storia è edificare le relazioni
fra gli esseri umani in modo razionale e mediante la libertà. La filosofia politica di Fichte in un primo
momento esalta la libertà dell'individuo in connessione con gli ideali della rivoluzione francese, mai in fondo
ripudiati; successivamente sottolinea il ruolo dello Stato, ma sempre in funzione della creazione di uno
spazio per superiori attuazioni etiche.
7.1.2 Friedrich Wilhelm Joseph
Schelling
Schelling diviene a soli 23 anni professore
straordinario dell'università di Jena, dove
frequenta il circolo romantico e ne
costituisce uno dei rappresentanti più
illustri. Gli scritti più importanti di questo
periodo sono: Idee per una filosofia della
natura (1797), Sistema dell'idealismo
trascendentale (1800). Successivamente
si trasferisce a Monaco. Tutti i suoi ultimi
lavori tendono al superamento del
razionalismo metafisico individuato nel
pensiero di Hegel, e nel 1841 Schelling
succede proprio a Hegel all'università di
Berlino, ma le sue lezioni vengono
progressivamente disertate.
Natura, spirito, arte
Il pensiero di Schelling si caratterizza per
lo slancio verso l'unità ultima e indivisa del
sapere e dell'essere e si presenta
composto di "filosofia dello spirito" e
"filosofia della natura". Io, o spirito, e
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natura sono originariamente
complementari e opposti. Insieme
rappresentano due strutture coincidenti in
un organismo che si auto-produce e si
auto-organizza secondo meccanicità e
finalità, libero caso e necessità.
Nelle Idee per una filosofia della natura Schelling sostiene che la natura è un "organismo senziente", che si
auto-produce razionalmente in una sequenza di gradi sempre più complessa, pur in assenza di finalità
razionali esplicite. In natura l'uomo è certo una forza tra le forze naturali, ma il suo agire introduce un
finalismo nel mondo della necessità e casualità naturali.
Le forze di attrazione e repulsione operanti negli enti della natura sono gli stessi principi attivi nell'intuizione
dello spirito umano: in natura appaiono dal punto di vista oggettivo dell'"inconscio", nell'intuizione viceversa
da quello spirituale-soggettivo della coscienza.
Necessità e casualità della natura si riflettono nella necessità e casualità dell'arte, sicché il linguaggio del
mito e della poesia si presenta come il più idoneo a esprimere e pensare la natura stessa.
Nel Sistema dell'idealismo trascendentale l'arte, che permette di cogliere l'unione e l'identità originarie del
soggettivo e dell'oggettivo, dello "spirituale" e del "naturale", viene intesa come culmine extrafilosofico del
sapere e prassi comunicativa della filosofia.
L'"intuizione estetica" coglie nell'opera artistica, seppure istantaneamente e imprevedibilmente, il fondamento
ontologico in cui lo spirituale e il naturale sono l'Uno-Tutto originario.
Metafisica della "identità assoluta"
La speculazione immediatamente posteriore (Esposizione del mio sistema di filosofia, 1801; Sistema
di tutta la filosofia e della filosofia della natura in particolare, 1804) tenta di attribuire
permanentemente alla teoria filosofica ciò che prima era stato determinato quale proprio dell'opera
artistica: la visione dell'"identità assoluta". Questa identità ultima viene ripensata però come "abisso
di quiete e di inattività", come suprema "indifferenza". L'identità del fondamento comune si traduce
nell'originario annullamento delle determinazioni polarmente contrapposte (conscio-inconscio,
soggettività-oggettività, idealità-realtà, libertà-necessità), prima pensate costitutive della filosofia
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trascendentale. Questa fase del pensiero di Schelling viene comunemente definita filosofia
dell'identità.
Gli esiti mistici
A partire dalle Conferenze di
Erlangen del 1820-21 la filosofia
di Schelling si afferma
definitivamente come
rammemorazione di un
immemorabile "soggetto
assoluto" una "Oltredivinità"
che richiama la tradizione
mistica neoplatonica e come
esercizio razionalmente
"estatico". La ragione si arresta
stupefatta di fronte al dato puro
e semplice del reale, al fatto che
questo si presenti a essa, che
pure ne può cogliere le
articolazioni, in modo
inassimilabile, cioè indeducibile
a priori.
7.2 Schelling e Kierkegaard
7.2.1 Il maestro e l’allievo
I due pensatori di cui parleremo ora, Schelling e Kierkegaard, rivelano un peculiare legame fra di loro.
Schelling era uno dei precoci, geniali giovani usciti dai collegi protestanti della Svevia. Conobbe subito una
carriera brillante, divenne presto professore, occupò diverse cattedre, divenne alla fine membro
dell’Accademia di Monaco, ovvero dell’Accademia Bavarese delle Scienze, di cui fu per molti anni segretario
e presidente, e nel 1840, per motivi che interesseranno anche noi, ricevette un incarico a Berlino.
Proprio in quell’anno, nel 1840, tenne una lezione, alla quale Søren Kierkegaard, pensatore danese,
partecipò con altri uditori. Schelling era già un uomo anziano ed era ormai sfumato il motivo per cui era stato
chiamato alla cattedra di Berlino, in Prussia, ovvero la speranza che la tradizione cristiana si riaffermasse più
fortemente in campo filosofico, indipendentemente dagli altri problemi della filosofia. Schelling era già in là
con gli anni quando tenne questa lezione; ma ciò non toglie che l’impulso da lui trasmesso a Kierkeagaard, e
sviluppatosi in particolare nel 20º secolo, fosse del tutto confacente al clima spirituale di quegli anni.
Schelling apparteneva per così dire ai critici di Hegel. E con ciò si è già spiegato perché tanto Schelling
quanto Kierkegaard furono in un certo senso precursori della loro epoca. Essi hanno in larga misura
anticipato un lungo lavoro di prosecuzione di Hegel e di distacco dal suo pensiero, che interessò i Paesi
europei nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento. Da ciò deriva la loro peculiare vicinanza ai nostri
attuali problemi, della fine del 20º secolo. Sono aspetti interessanti, a mio parere, che certamente giustificano
l’opportunità di occuparci di entrambi questi pensatori un po’ più dettagliatamente.
7.2.2 La realtà e il limite del pensiero
Ho già parlato della brillante carriera di Schelling e della funzione critica che egli svolse. Possiamo forse
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comprenderla più facilmente considerando che questo pensatore (appartenente alla storia dell’Idealismo
tedesco, del quale rappresenta una delle stelle più fulgide) è stato d’altra parte il primo ad affiancare o
addirittura a contrapporre all’Idealismo una sorta di realismo.
E’ così invalsa la consuetudine di affermare che la vicenda spirituale dell’Idealismo tedesco fu alla fine
sostituita da un nuovo movimento, improntato al realismo, che conferì alla forma artistica del romanzo un
rilievo culturale e filosofico che la letteratura, in questo senso, non aveva da molto tempo per la storia della
filosofia. È quindi estremamente importante chiarire che cosa voglia dire “realismo” in questo contesto.
Naturalmente con questo termine non s’intende la banale convinzione che il mondo sia reale (e non soltanto
un sogno delle nostre idee e dei nostri pensieri).
Esso significa piuttosto che l’Idealismo tedesco,
pensato fino alle estreme conseguenze, finisce
necessariamente per imbattersi nel fatto che la
realtà costituisce sempre un limite del pensiero,
qualcosa che noi non possiamo anticipare, né
in qualche modo produrre con la mente.
L’intelletto reale, che secondo la metafisica
contempla la realtà nell’essere, cioè la realizza
con la sua parola creatrice, non è certo privo di
umanità: non lo ritennero nemmeno i grandi
pensatori di quest’epoca dell’Idealismo
tedesco, i quali hanno anche esercitato
un’influenza determinante sugli altri Paesi
d’Europa nei decenni successivi: Schelling, in
particolare (attraverso Victor Cousin,
l’intermediario francese del pensiero idealistico
nella prima metà del 19º secolo, che ebbe in
seguito un notevole ascendente, diretto e
indiretto, sulla figura epocale di Bergson). In
ogni caso, la critica di Schelling a Hegel ha
proprio questo significato: il possente spirito
hegeliano ha creato, con la forza logica del
concetto, una sorta di universo dello spirito. Ciò
vale per la Logica, ma anche, e soprattutto, per
il suo manuale a uso degli studenti, intitolato
Enciclopedia delle scienze filosofiche.
“Enciclopedia”: questa parola desta l’impressione di voler esaurire tutto ciò che riguarda le scienze
filosofiche. E in effetti assistiamo davvero al trionfo della logica,… che nel suo momento d’oro abbraccia ogni
cosa. Come abbiamo già avuto modo di osservare, questa logica ha dominato molto a lungo la filosofia
successiva, almeno in Germania,… in Italia,… in Inghilterra… e in Olanda, per ricordare soltanto i Paesi più
importanti nei quali l’hegelismo è sopravvissuto nel corso dei secoli successivi. Kierkegaard appartiene a un
novero di pensatori che dovranno fare i conti proprio con questa realtà: vedremo in che modo.
Il nocciolo della questione è il seguente: la realtà è impenetrabile per il pensiero. Tale affermazione non
equivale a un piatto irrazionalismo: essa sostiene piuttosto che la realtà possiede una densità di esistenza,
tale per cui la sfera della libera possibilità, costituita dai nostri pensieri e dalle nostre idee, ce la fa apparire in
immagini sempre distorte. Pertanto la realtà è invero l’oggetto dei nostri pensieri, ma non sarà mai possibile
istituire una reale identità fra pensiero ed essere, come sosteneva il giovane Schelling attraverso la sua
celebre filosofia dell’identità.
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7.2.3 L’enigma dell’esistenza
Noi dobbiamo scorgere un’evoluzione del cammino di pensiero di Schelling, che consiste proprio nel
superamento di questa identità di pensiero ed essere, che aveva trovato la sua glorificazione nell’Idealismo
tedesco e nello stesso Hegel, e che egli risolve conducendola fino ai suoi limiti estremi. Come ha potuto
realizzare tale obiettivo? Che cosa lo ha aiutato in quest’impresa? Si può certamente osservare che nel
pensiero di Hegel c’era un passaggio molto singolare e problematico dal pensiero di Dio, Spirito creatore
(cioè la sfera della “logica”) al mondo della realtà, dedotto dialetticamente da quello. L’idea (che in se stessa
è perfetta) trapassa nella realtà, e così comincia la filosofia della natura.
Ecco, abbiamo pronunciato la parola-chiave,
con la quale Schelling cerca di far risaltare
l’essenza della realtà di contro alle libere
possibilità del pensiero; e proprio questo è il
punto che induce a domandarsi (ponendo un
interrogativo che oggi appare ovvio) se la
filosofia della natura possa porsi accanto alle
moderne scienze, cioè alle cosiddette scienze
sperimentali della natura, accampando la
medesima pretesa di verità. È una questione
sulla quale occorre riflettere ancora, non solo
qui, in questa nostra serie di meditazioni, ma
anche nel futuro del pensiero. In ogni caso,
proprio questo motivo schellinghiano ha
offerto un impulso peculiare all’evoluzione
delle istanze dell’Idealismo tedesco. La realtà
è qualcosa di diverso dalle pure possibilità
del pensiero. Vedremo in seguito che proprio
in questo Kierkegaard fu allievo di Schelling,
e critico di Hegel: egli infatti ha introdotto il
concetto di esistenza per esprimere
l’impenetrabilità della realtà. Si tratta di una
cosa ben diversa dalla nozione di esistenza
vigente nella logica: è in gioco l’esistere
umano, quello di cui si parla in locuzioni
come queste: “ciascuno deve condurre la
propria esistenza”, oppure “la vita è tutta una
lotta per l’esistenza” o simili. Questo concetto
(“caricato” direi) di esistenza, è appunto
un’eredità di Schelling, è un motivo
schellinghiano, deliberatamente contrapposto
alla logica universale di Hegel.
Esso rappresenta una via d’uscita dalla tradizionale identificazione di pensiero ed essere, che dà impulso a
nuovi sviluppi.
Il concetto che viene così portato in primo piano è quello di “potenza”. Schelling ha presentato il regno della
realtà come una gerarchia di potenze, dal minerale (dotato di una misteriosa fissità e verità cristallina), alle
piante – nelle quali c’è già capacità di divenire, la crescita e la vita, un “potere”, in un certo senso – per
passare così al mondo animale, e infine a quello umano, in cui l’animalità nell’uomo ha una sua potenza,
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così come negli altri animali, e nella quale, non di meno (per usare una famosa espressione di Schelling), “il
fulmine dell’assoluto” ha squarciato il regno della libertà.
All’interno dell’Idealismo tedesco Schelling è diventato il celebre filosofo della libertà: a questa dedicò uno
degli scritti più importanti, del 1809, apprezzato per la sua profondità anche da Hegel (esso risale peraltro
proprio agli anni del primo grande capolavoro hegeliano, la Fenomenologia dello spirito). Questo scritto è
intitolato Sull’essenza della libertà umana. Hegel era però un tipo completamente diverso, un brusco maestro
di scuola svevo, dotato di una misteriosa forza di suggestione, con cui affascinò i suoi uditori a Berlino,
anche se parlava uno Svevo quasi incomprensibile. È pur vero che anche Schelling parlava Svevo (lui stesso era
Svevo), ma unendolo a una leggerezza ed eleganza del linguaggio che univa allo stesso tempo profondità e bellezza.
7.2.4 L’ansia di vivere
Voglio citare soltanto un’affermazione, che forse chiarisce quale sia la tematica affrontata da Schelling con la
dottrina delle potenze.
La frase dice: “l’ansia di vivere sospinge la creatura fuori dal suo centro”.… Davvero misteriosa! Ricordo che
Heidegger, credo nel 1925, durante un seminario citò improvvisamente queste parole, e rivolgendosi a noi
dichiarò: “Signori, questo è stato detto!” (Eravamo presenti in molti). “Signori, citatemi una sola frase
altrettanto profonda in Hegel”. Certo, vi riconosciamo anche una notevole valenza retorica, ma il pensiero qui
espresso è difficile da sviluppare, ed è connesso al concetto di potenza. Che cos’è la “potenza”? Potenza è
potere, possibilità.
E che cos’è potere? Certo, non è “fare tutto
ciò che si può”; potere è piuttosto un “saper
fare”, un saper esplicitare se stessi. Chi sa
fare, è un conoscitore; il “potere” è dunque
anche un modo d’essere: un saper attingere
da se stessi ciò di cui si è capaci, così da
essere, in ogni momento, conoscitori e
artefici di sé, realizzando le proprie
potenzialità. Che cosa vuol dire “l’ansia di
vivere sospinge la creatura fuori dal suo
centro?” La spiegazione che Schelling offre
di questa frase è purtroppo ancora più
complessa di ciò che intende chiarire. Ma
questo è il caso della maggior parte delle
spiegazioni che noi filosofi troviamo per le
nostre teorie. È sempre molto difficile
spiegare quello che si dice! Così anch’io mi
accontento di ricordare qui il significato delle
parole “ansia di vivere”: si tratta dell’intimo
impulso della vita a conservarsi. Schelling
dice espressamente: “sospinge la creatura
fuori dal suo centro”. Ogni essere vivente ha,
in un certo qual modo, questa pulsione a
svilupparsi, questa volontà di possesso, un
istinto all’autoconservazione, di cui non può
fare a meno.
Ecco che cos’è l’“ansia di vivere”: è quell’angustia che spinge la vita a svilupparsi; anche il bocciolo, alla fine,
fa saltare il suo involucro, per espellere il fiore e poi il frutto. Schelling dunque, riconoscendo all’“ansia di
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vivere” un ruolo di primaria importanza, descrive una fase nella storia della libertà.
L’ansia è certo tutt’altro che libertà: ci incatena. Nell’ansia, la libertà si sente oppressa. Questo è il modo
d’essere della natura, come ho cercato di chiarire con l’esempio del bocciolo, teso fino allo scoppio, per
sciogliere dalle catene questa libertà del “potere”, che nelle piante è il poter crescere. Quanto accade nelle
piante, si verifica in maniera analoga, anche se evidentemente a un livello superiore, nella vita dell’uomo; la
sua ansia è del tutto diversa (egli avverte quest’angustia, al di là della quale si spinge con la libertà e
l’audacia della sua immaginazione e del suo intelletto, trascendendo i propri limiti con la caparbietà del
pensiero).
Ho già menzionato “il fulmine dell’assoluto”, grazie al quale l’uomo ha coscienza della libertà, di quest’infinito
che fa anche della natura un peculiare mistero per gli esseri pensanti. Schelling parla addirittura del “brivido”,
di quel tremore davanti all’abisso, che coglie l’uomo di fronte a questa pulsione infinita che spinge la natura,
intorno a lui, ad affermarsi e a imporsi. E ciò coinvolge, chiaramente, anche l’uomo stesso. E si può già
presagire che, a partire da questa intuizione di una libertà che si sbarazza delle sue catene (ma che continua
a fare esperienza dei propri limiti) si sperimenta la vera e propria legge dell’uomo che vive e che pensa.
Con la filosofia di Schelling vediamo
operare un simile impulso già in seno
all’incredibile orgoglio dell’Idealismo
tedesco, che sempre medita su quelle
regioni oscure dalle quali affiorano la
chiarezza e la luce.
Vedremo in seguito come, accogliendo le
istanze di Kierkegaard, pensatori come
Heidegger o Jaspers abbiano formulato
nel nostro secolo questa intima
limitatezza del pensiero nei confronti di
una realtà impenetrabile. A Hegel
dobbiamo un’espressione meravigliosa:
“l’immemorabile”. Immemorabile è ad
esempio la terra natia. Che cos’è la terra
natia? Nessuno è in grado di tradurre
concettualmente l’immemorabile o di
spiegarlo. È qualcosa che è in noi e che
precede ogni pensiero, è qualcosa di
primigenio, di cui non c’è traccia nella
memoria. L’immemorabile è l’essenza
della nostra esperienza della realtà, cui si
accompagna l’acceso entusiasmo della
libertà.
7.2.5 Un teologo senza frontiere
Quando Schelling ricevette l’incarico a Berlino, ci si aspettava dalla sua critica a Hegel soprattutto un
rafforzamento della Chiesa cristiana protestante.
In effetti, la Prussia di quegli anni aveva una costituzione luterana. In altri termini: il sovrano politico era al
tempo stesso il sommo capo spirituale. Questa era la concezione protestante di Lutero. E così stavano le
cose anche in questo caso, tanto che il romantico monarca prussiano dell’epoca, Federico Guglielmo IV,
impose la chiamata di Schelling a Berlino per controbilanciare in questa maniera quello che egli temeva
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essere un pensiero filosofico troppo estraneo alla Chiesa, con risvolti teologici troppo speculativi.
E in un certo senso Schelling poteva davvero assolvere questa funzione, in quanto il suo pensiero teologico
più profondo era che Dio stesso, per così dire, si differenzia in sé (nel suo fondamento e nella sua esistenza)
cioè in questa realtà impenetrabile, che egli è, tale per cui da esso deriva ogni altra realtà: ad esempio quella
del Creato e quella di ogni essere vivente. Pertanto, la svolta teologica da lui operata, costituisce di fatto un
rafforzamento della religione cristiana di Stato (se è lecito esprimersi in questi termini).
Va detto però, che anche in Baviera (che era sostanzialmente un Paese cattolico) Schelling era stato
acclamato come uno che sapeva parlare di Dio e del divino, riuscendo al tempo stesso a celebrarne
l’impenetrabile profondità.
Indipendentemente da ciò, l’esigenza filosofica avanzata da Schelling (sul fondamento della realtà delle
potenze) era quella di produrre la cosiddetta “prova fisica dell’Idealismo”, che doveva spiegare come davvero
la libertà (ovvero il “riferimento di sé a sé medesimi”, il “conoscere se stessi”) rappresenti la suprema
possibilità dell’essere, e trovi quindi la sua perfezione e la sua vera manifestazione proprio nella realtà di Dio.
In questo senso Schelling è, per molti versi, una figura di confine nella filosofia dell’Idealismo classico
tedesco, animata dal pensiero della libertà.
Guardando a Kierkegaard riscontreremo la
grande attualità di questi motivi, che oggi
hanno assunto quasi la veste di un
teorema. Pensiamo, ad esempio, alla teoria
dell’evoluzione, che abbraccia l’immenso
arco di tempo che va dai primordi del
cosmo fino all’espansione dell’universo (al
di là di ogni possibile pensiero umano) e
consideriamo poi tutte le teorie che
risalgono a Darwin e alla moderna
astrofisica: in esse si riproduce, in un certo
senso, quel medesimo schema della
dottrina delle potenze che fu enunciato da
Schelling.
7.2.6 L’ironia
Con Kierkegaard, abbiamo a che fare con
una figura di tipo radicalmente diverso;
innanzitutto egli era relativamente più
giovane: studiava ancora, come dicevo,
quando Schelling era già vecchio, famoso e
incanutito. Ma pur con quel lieve ritardo,
che i Paesi confinanti mantengono sempre
nei confronti di un Paese leader, egli seppe
recuperare molti aspetti e realizzare
brillantemente certe istanze nascoste nella
filosofia del Romanticismo tedesco.
Nelle nostre conversazioni non abbiamo potuto affrontare nel dettaglio nessuno dei grandi esponenti della
letteratura romantica. Fra questi ci sono poeti come Novalis (o Hardenberg) e Ludwig Tieck e, ancora, i
fratelli Schlegel, in particolare Friedrich Schlegel, che recentemente è tornato a suscitare interesse per la sua
intima vicinanza all’ermeneutica e a Nietzsche.
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In ogni caso, un tratto importante di questo straordinario scrittore danese, che siamo abituati a leggere in
tedesco, è l’ironia: la celebre ironia romantica, con cui questa temperie culturale si contrapponeva (in tono
polemico e critico) alla mentalità troppo conciliante, oltremodo simmetrica e armoniosa, tipica del
Classicismo di Weimar.
L’ironia è una nozione che, come è noto, risale ai Greci, ed è legata alla figura di Socrate e al suo famoso
metodo: pretendere di “non sapere”, così da far emergere, di fatto, l’ignoranza di tutti gli altri. Dietro questa
“insipienza” si celava dunque un sapere superiore, una conoscenza dei limiti che sono imposti a ogni uomo,
da cui deriva la necessità di tenere a freno certe ambizioni del pensiero.
La gloriosa frase socratica, che anche Kierkegaard ha affrontato nella sua prima pubblicazione, è: “gnòthi
sautòn” – conosci te stesso! In altri termini: “riconosci di essere un uomo, e non un Dio”.
Questo motto può essere opportunamente applicato ad alcune eccessive aspirazioni teologiche della
filosofia, ad esempio alla “nòesis noèseos” (il dio filosofico di Aristotele) e alla corrispondente formulazione
dello spirito assoluto nell’Enciclopedia di Hegel, nella quale, a conclusione del suo sistema, egli cerca di
esprimere con parole greche una verità eterna sull’essere divino.
Propongo di tagliare l’ultima frase, perché poco chiara.
Può darsi che ricorrendo all’esistenza socratica si possa effettivamente superare la profondità dell’ironia
romantica, almeno per il versante produttivo dell’autocritica.
7.2.7 Aut - Aut
Il libro che decretò la fama di Kierkegaard (e che apparve solo nel 20º secolo per la prima volta in traduzione
tedesca) era intitolato Enten-Eller, ovvero Aut-Aut (come dicono gli Italiani, che hanno dato questo nome
anche a una rivista). È evidente che con questo motto si vuole anzitutto prendere di mira la dialettica
hegeliana. Il suo bersaglio è l’abilità di riconoscere in tutte le opposizioni e contraddizioni il tratto comune e la
superiore unità: questa incredibile potenza concettuale della riflessione totalizzante di Hegel è stata
chiaramente una sfida per un pensatore cristiano quale fu Kierkegaard (e del resto fu uno stimolo anche per
un pensatore politico come Karl Marx, che in questa continua conciliazione nel pensiero avvertiva la
mancanza di una conciliazione anche della realtà con se stessa).
In questo senso, comunque, Kierkegaard
ha elaborato Aut-Aut ricorrendo al brillante
accostamento di due posizioni tra loro
contrapposte: lo stadio estetico e quello
etico. Devo ammettere che questo è stato
il libro, grazie al quale per la prima volta ho
imparato a capire Hegel. Così va la vita
dello spirito: arriva un giovane, ha sentito
dire qualcosa di Hegel, ma
improvvisamente vede risplendere una
luce che ravviva in senso polemico tutto il
problema, rendendo comprensibile ciò
contro cui l’aggressione è rivolta.
Si tratta di un passaggio polemico molto
famoso: lo stadio estetico è quello della
contemplazione e della gioia di fronte a
possibilità d’essere che sono solo
immaginate. C’è però qualcosa di diverso,
oltre a questo labile gioco
dell’immaginazione, che può spingere il
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nostro animo fino alla disperazione. Ben
più saldo è quello che Kierkegaard chiama
lo “stadio etico”. A questo proposito
dobbiamo per un attimo ricordare (in
un’epoca nella quale non si conosce più il
greco) che cosa significhi “etico”.
Etico: in questo termine è racchiusa la parola “éthos”, “abitudine”, “consuetudine”. Insomma, c’è uno stadio
che risulta caratterizzato dalle nostre usanze. Altrimenti detto: si tratta di un certo “portamento”, di un “modo
d’essere”.
Ciascuno di noi ha un suo modo d’essere. Io, ad esempio, faccio continuamente questo movimento: è un mio
modo d’essere, e uno dei miei allievi se ne ricorda ancora, dopo aver seguito le mie lezioni per dieci anni.
Tutti quanti abbiamo un nostro modo d’essere, e questo “modo d’essere” si identifica con ciò che siamo.
Ecco dunque la tesi di Kierkegaard: la prima cosa è proprio questa: ciascuno si fa carico del proprio modo
d’essere, della propria esistenza, e non può far altro che accettare, di fronte alla molteplicità del possibile, la
propria limitatezza.
Kierkegaard descrive tutto ciò in una famosa storiella, quella di un uomo comune, l’assessore Guglielmo,
con una qualche carica, sposato. Di lui ci viene descritta questa scena: se ne sta seduto, e legge, e rilegge;
arriva la moglie e dice: “Ma che cos’hai? Hai l’aria così abbattuta!”.
– “Eh sì…”
– “E allora?”
– “Non capisco questa frase! C’è questo…segno… se non ci fosse, la capirei”.
Allora la moglie apre la bocca e soffia via la mosca morta che c’è sopra. Ebbene, l’uomo dipende sempre
dall’aiuto di questa “maestra della finitezza”.
7.2.8 Il possibile è sempre vero
Questo fu uno dei primi brillanti lavori di Kierkegaard, ai quali egli deve la sua fama di scrittore nel suo
Paese. In seguito egli si è espresso in maniera ancora più esplicita in molti saggi, operando anche una critica
alla mediazione dialettica totale della filosofia hegeliana. “Aut-aut”, ovvero prendere una decisione a cui
attenersi: ciò significa al tempo stesso escludere molte cose, ma anche conservare una continuità con se
stessi. E questa è l’esistenza. (Si può forse supporre che la Filosofia dell’esistenza, quando questo famoso
scrittore fu per la prima volta tradotto in tedesco nel 20º secolo, sia stata immediatamente accolta e abbia
contribuito in maniera decisiva all’approfondimento del nostro clima filosofico).
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Lo stesso Kierkegaard, come dicevo, ha quindi
assunto una decisa posizione critica, e se non si
può dire che egli discenda direttamente da
Schelling, è pur vero che ripropone quelle stesse
istanze critiche nei confronti di Hegel, che furono
già di Schelling. Facendolo in maniera ironica. Il
suo scritto scientifico, l’unico suo testo scientifico
(che non abbia cioè il carattere di un saggio
brillante) è intitolato: Postilla conclusiva non
scientifica. Una triplice ironia: è “conclusiva”, non
è scientifica, ed è una “postilla”.
In questo elaborato, in cui egli si richiama
peraltro ampiamente anche a Lessing, si
perviene a un’esplicita discussione del rapporto
fra possibilità e realtà.
Egli comincia col richiamare alla memoria un
famoso detto di Aristotele, secondo il quale la
storia sarebbe meno vera della poesia.
La storia riferisce infatti, nel migliore dei casi,
soltanto ciò che è realmente stato; la poesia,
invece, descrive ciò che sempre potrebbe
essere e sarà. Quindi la possibilità, che in essa
si esprime, è in un certo senso superiore, poiché
non possiede i limiti di ciò che è meramente
fattuale, ma al tempo stesso partecipa di ciò che
è sempre vero.
Ciò che rimane nell’ambito del possibile è incamminato verso la conoscenza della vera realtà, e le si
avvicina. Così Kierkegaard ha rimesso in discussione, a suo modo, il concetto di esistenza, e gli spiriti più
eminenti della cultura europea hanno lentamente riportato alla luce questo scrittore danese rimasto
sconosciuto. Tra coloro che hanno riscoperto Kierkegaard va ricordato anzitutto Miguel de Unamuno, che ha
imparato il danese per poter leggere Kierkegaard. Ci sono spunti molto belli e profondi in Unamuno, che
vanno in questa stessa direzione.
7.2.9 La comunicazione indiretta
Non voglio soffermarmi molto a lungo su Kierkegaard, poiché egli non apparterrebbe, al pari di altri nomi, ai
grandi classici della filosofia, se non ci fosse stata, nel ventesimo secolo, la rinascita della problematica
kierkegaardiana dell’esistenza, che ha avuto un ruolo decisivo in pensatori come Jaspers, Heidegger e molti
altri, anche in campo teologico.
C’è tuttavia ancora qualcosa che si potrebbe aggiungere, in conclusione, su di lui, anticipando già una
tematica che dovremo affrontare.
In effetti, dopo queste due figure inconsuete, la filosofia tornerà a essere una disciplina accademica. Ma
quello che dirò servirà anche ad apprezzare grandi ed eccezionali esponenti della filosofia dell’Ottocento
tedesco, come Schopenhauer e Nietzsche, cogliendo la loro vicinanza alle tematiche dell’Idealismo tedesco,
di cui rappresentano una prosecuzione. È dunque mia intenzione mostrarvi ancora uno di questi motivi. Che
cosa spinge Kierkegaard ad avere un atteggiamento così ironico nei confronti di se stesso e di tutti gli
argomenti che affronta? È quella che egli chiama “comunicazione indiretta”.
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In altri termini: per poter realmente
comunicare quel dramma
dell’esistenza che ciascuno può
vivere dentro di sé nella propria
singolarità, non è necessario
suscitare un grande pathos, ma
riuscire a parlare in maniera
indiretta di quell’inevitabile
interesse che ci lega a noi stessi.
L’operazione di Kierkegaard
appare chiara: egli riprende il
concetto kantiano di “piacere
disinteressato”, cioè la scioltezza
estetica con cui l’immaginazione e
l’intelletto giocano con il bello e
con l’arte. Egli si appropria di ciò
per contrapporvi la serietà
dell’etico, e al tempo stesso anche
la questione della fede, il
problema più serio che possa
presentarsi all’umanità: quello
della responsabilità nei confronti di
se stessi e degli altri. La
“comunicazione indiretta”, così, ha
conosciuto nella teologia del
Novecento una nuova dimensione:
non si può usare il discorso diretto
quando ci riferisce a Dio.
7.3 L’arte per Schelling, Aristotele, Kant e Schopenauer
Schelling sostiene che l’arte è in grado di attestare quell’unità profonda tra natura e spirito, che costituisce
l’essenza della realtà, in quanto nella produzione artistica viene meno la differenza tra forma e materia, tra
interno ed esterno, tra libertà e legalità.
Nell’arte ha luogo quell’intuizione produttiva che la filosofia teoretica può solo riconoscere e non ripetere,
essa inoltre realizza in un prodotto finito la conciliazione di principi infiniti, il momento reale e quello ideale,
che in natura appaiono come contrapposti.
L’arte è una attività intuitiva che produce da se il proprio prodotto, l’oggetto, realtà materiale che ha in sé allo
stesso tempo il principio ispiratore.
Nella creazione estetica, l’artista è mosso da una forza inconsapevole che fa si che la sua opera sia la sintesi
di un momento inconscio e spontaneo, l’ispirazione, e di uno conscio e meditato, l’esecuzione.
L’arte per Aristotele è l’imitazione della natura secondo verosimiglianza, è ricreare le cose secondo una
nuova dimensione; l’arte costituisce una nuova forma di conoscenza.
Il bello per Aristotele è un concetto quasi matematico, implica ordine e simmetria di parti, in una parola
proporzione. Aristotele nella Poetica prende in esame la poesia tragica ed epica, più specificatamente
prende in considerazione due concetti per comprendere il fatto artistico: Mimesi e Catarsi, la mimesi è
l’immedesimarsi dello spettatore nella vicenda che si sta svolgendo, la catarsi è la liberazione in senso
morale e fisiologico delle passioni.
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Kant pone arte e bellezza come problemi filosofici e sceglie di intraprendere una strada che riconosca al
giudizio estetico autonomia,e insieme lo distingue dalla conoscenza teoretica in quanto esso non ha come
obiettivo la valutazione di ciò che è vero e ciò che è falso. La bellezza non riguarda la costituzione degli
oggetti, bensì una nostra reazione soggettiva nell’atto di percepirli
.
Kant osserva inoltre che il giudizio estetico è in grado di svelare un’unità profonda tra la natura e l’esperienza
morale dell’uomo, permettendo ad esso di cogliere la natura come animata da quelle caratteristiche di finalità
ed armonia che egli sperimentava nell’uso pratico della ragione, nell’ambito della moralità.
La bellezza è ciò che attesta la corrispondenza tra il mondo della necessità, tipico della critica della ragion
pura e quello della libertà proprio della critica della ragion pratica, ciò è possibile grazie ad una facoltà, il
sentimento, il quale può essere del piacere o dispiacere, suscitato dal gusto. Tale sentimento è comune a
tutti gli uomini, dunque il giudizio estetico si basa su un principio soggettivo ed aspira ad un riconoscimento
comune, l’ universalità.
Kant elabora inoltre il concetto di
genio, esso è la sintesi di
immaginazione ed intelletto. L’artista
gode di una assoluta libertà creativa
dove l’intelletto è presente, ma non è
costrizione razionale, come avviene
nel campo della conoscenza, ma come
capacità di realizzare l’opera secondo
il proprio naturale gusto estetico.
L’opera d’arte è la sintesi di necessità
e libertà, per quanto libera e geniale
sia l’ispirazione dell’artista egli dovrà
tuttavia fare i conti con le rigide regole
del mondo della natura.
Schopenhauer sostiene che
l’essenziale del mondo è volontà
insaziabile. La volontà è conflitto e
lacerazione, quindi dolore, essa è
tensione continua, il tendersi si vede
sempre impedito, sempre in lotta, è
dunque sempre un soffrire. Ogni ente
naturale si sente incompiuto e
bramoso di superare la propria
determinatezza, ogni essere umano è
un essere inappagabile, egli manca di
qualcosa, di conseguenza tutto il suo
agire si esprime nella forma dolorosa
del continuo desiderio.
La vita è bisogno e dolore. Se il bisogno viene soddisfatto si piomba nella sazietà e nella noia, col possesso
svanisce ogni attrattiva, il desiderio rinasce in forma nuova e con esso il bisogno. Ci si può liberare dal dolore
e dalla noia e sottrarsi alla catena infinita dei bisogni attraverso l’arte.
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L’uomo nell’esperienza estetica si annienta come volontà, si trasforma in puro occhio del mondo, si immerge
nell’oggetto e si dimentica se stesso e il suo dolore. Questo occhio scorge le idee, modelli delle cose, al di
fuori di tempo e spazio.
L’arte esprime l’essenza delle cose e proprio per questo ci aiuta a distaccarci dalla volontà e dunque dal
dolore. Schopenhauer prende in esame le arti, le quali sono liberatrici in quanto il piacere che esse
procurano è la cessazione del bisogno, che si raggiunge con lo svincolarsi della conoscenza dalla volontà e
il suo porsi come disinteressata contemplazione.
7.4 La realtà e la natura in Schelling, Hegel, Fichte e Kant
Come sia pensabile un mondo fuori di noi, come sia concepibile una natura e con essa un'esperienza, sono
interrogativi che dobbiamo alla filosofia o meglio, con queste domande è nata la filosofia.
Inizialmente gli uomini erano in senso filosofico allo stato di natura. Allora l'uomo era ancora tutt’uno con sé e
con il mondo che lo circondava.
Dunque prima della filosofia l'uomo non si differenziava dalla natura, si sentiva e viveva con e nella natura, si
riteneva un’unica realtà con essa; non viveva lacerazioni e separazioni. Solo con la riflessione filosofica
l'uomo ha distinto e separato sé, come pensiero che può riflettere anche su se stesso, dalla realtà sensibile,
che non è dotata di questa capacità.
Questa divisione non è dovuta però alla volontà dell’uomo di staccarsi dalla natura, ma al desiderio
dell’uomo di togliersi dallo stato di connessione con la natura, importantissimo per lasciare lo spirito libero di
fare seguendo il suo libero arbitrio che è la prova della sua intelligenza.
Questa separazione poi non può essere definitiva perché l’uomo è nato per agire e se questa spaccatura tra
io e mondo fosse definitiva l’uomo non sarebbe più uomo perché non potrebbe più agire e si chiuderebbe in
se stesso e l’unica riflessione possibile per lui sarebbe sulla sua natura spirituale.
Secondo Kant la realtà è fatta da
fenomeno e noumeno: il fenomeno è ciò
che si mostra e che è percettibile dai
sensi mentre il noumeno è ciò che può
essere unicamente pensato e che non
può essere appreso tramite
l’esperienza.
La realtà o il mondo per Kant quindi è
ciò che ci si presenta, che è finito e
conoscibile tramite l’esperienza.
Per Fichte invece la realtà è il “non io”,
cioè tutto ciò che non è l’io e tutto ciò
che quindi è esterno a questo, la cui
esistenza è provata dal fatto che esiste
sicuramente un io e quindi esisterà
sicuramente qualcos’altro da sé. In
Fichte però la rottura tra io e non io
viene riempita dal superamento di
questa con l’umanizzazione del mondo
e cioè modellando la natura secondo i
nostri scopi. Schelling giunge, invece,
ad dichiarare che la natura è un
organismo universale nel quale opera
un unico principio vitale, l'anima del
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mondo. Quindi accrescendo le
riflessioni kantiane sul concetto di
organismo, Schelling arriva ad accettare
la stessa nozione rifiutata da Kant di
materia vivente.
La natura così non è materia inerte, ma vita universale intrinseca alla materia stessa, che continuamente si
plasma e si trasforma in un continuo divenire. Asserendo che la natura è vita, Schelling attribuisce ad essa,
come proprietà fondamentale,l'attività. Ciò equivale a riconoscere la sostanziale omogeneità tra natura e
spirito, il quale trova appunto nell'azione la sua determinazione principale.
Hegel invece, arriva ad affermare che la realtà è un organismo unitario di cui tutto ciò che esiste è parte e
manifestazione di questo. Quindi non ci sono divisioni per Hegel, ma tutto fa parte di un organismo infinito e
ciò che costituisce questo organismo cioè le cose reali sono “finite”.
7.5 Hegel e Schelling
In questo periodo Hegel si serve della filosofia di Schelling per emanciparsi da quella di Kant e soprattutto di
Fichte, cui si sentiva fortemente attratto. In particolare egli fa propria la critica di Schelling all'intelletto che
separa l'uomo dalla natura, il particolare dal generale, la libertà dalla necessità, ecc. L'esigenza di Hegel è
quella di mediare dialetticamente le opposizioni cristallizzate dall'intelletto e dimostrare che il processo di
unione degli opposti comprende tutti i molteplici aspetti della realtà, nessuno escluso, in quanto tutti
partecipano alla costruzione della totalità. Le contraddizioni cioè non vanno esasperate ma ricomprese nel
tutto. L'intelletto kantiano-fichtiano è per Hegel irrazionale in quanto parte da un'istanza contestativa che non può
trovare alcuna soddisfazione. Schelling inoltre aiuterà Hegel a passare dall'interesse teologico a quello
propriamente logico, anche se questo coinciderà nella sua opera con una serrata critica dell'Illuminismo
europeo.
Oltre all'attività di partner pubblicistico di
Schelling, Hegel nei corsi universitari di Jena
raccoglie ed elabora materiali (rimasti inediti
per oltre un secolo) organizzati in una
Logica e metafisica, Filosofia della natura e
Sistema dell'eticità. Politicamente Hegel
registra una notevole quantità di idee
consone alle istanze socio-economiche della
borghesia, ma le incorpora in una
prospettiva politica di vecchio tipo: l'ideale -a
suo giudizio- è una società di ceti retta da un
potere monarchico ereditario, non derivato
né limitato da alcuna forma di contratto
sociale.
Sul piano della critica della religione, Hegel
la prosegue, ma ridimensionando le
conquiste dell'Illuminismo, il quale, pur
criticando il dogmatismo e la superstizione,
non ha saputo fare altro -secondo Hegelche porre l'assoluto al di sopra della ragione,
rendendolo inaccessibile e incomprensibile
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(vedi Kant e Fichte).Il distacco da Schelling
avviene non sul terreno politico (ove non
c'era alcun vero disaccordo) ma su quello
filosofico.
L'opera che lo sanziona ufficialmente è la Fenomenologia dello spirito (1807). Il distacco avviene sul concetto
di contraddizione, che per Schelling è una semplice "polarità" di opposti (positivo-negativo, ecc.), colta nel
contesto della natura e riferibile a tutto l'universo, uomo compreso. Per Hegel invece la contraddizione è un
processo in cui la libertà (soprattutto quella umana) gioca un ruolo di primo piano. Questa contraddizione, per essere superata, ha bisogno, per essere efficacemente interpretata, di un
processo speculativo (la dialettica) molto più sofisticato dell'intuizione intellettuale (per la quale -dirà Hegell'identità è come la notte in cui tutte le vacche sono nere). Hegel esprimeva una consapevolezza più
profonda dei problemi del suo tempo: a differenza di Schelling egli vedeva la contraddizione nel suo
necessario sviluppo storico.
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