“Rapporto tra tecnica e politica” lezione del 24-11-2005, Cons. De Ioanna A cura di Natia Sità Le organizzazioni complesse, sia pubbliche che private, per esistere necessitano di regole scritte o tacite. I rapporti intersoggettivi sono regolati. A partire da tale considerazione è facile immaginare che in economie complesse, come la nostra, occorra applicare un gran numero di regole. Gli studiosi di "teoria delle regole" riconoscono le regole come depositarie del sapere relativo ai problemi che un’ organizzazione si trova ad affrontare quotidianamente. Questo sapere, proveniente dal passato, è responsabile della loro applicazione automatica. Un noto sociologo sosteneva che il mondo perfetto è quello in cui quando applichiamo una regola non ci chiediamo perché lo facciamo. La sua ragione interna è talmente radicata che gli individui la mettono in pratica automaticamente. Si può affermare che quanto più una organizzazione è complessa, tanto più gestisce regole e che queste sono tanto più sedimentate da quanto più tempo sono applicate, ovvero da quanto più tempo hanno assorbito una risposta procedimentalizzata ad un problema che l’organizzazione è chiamata a risolvere. Tale situazione, secondo questa linea di pensiero, spesso si trasforma in un rischio per le organizzazioni. Infatti, se le regole costituiscono un deposito di sapere, esse diventano una componente strutturale e un elemento di stabilità che introduce viscosità a qualsiasi tentativo di un loro cambiamento o rinnovamento. Il cambiamento delle regole genera sempre reazioni di chiusura, di conservazione. Dal punto di vista dell’analisi delle regole possiamo distinguere due tipologie di regole: regole che tendono a risolvere problemi politici (dedicate alla risoluzione di conflitti tra interessi); regole che tendono a risolvere problemi tecnici; Questa classificazione è utile da un punto di vista concettuale, tuttavia occorre precisare che non esistono problemi solo politici che non presentino aspetti tecnici, e non esistono problemi solo tecnici che non comportino problemi politici. Oggi l’intreccio tra regole politiche e regole tecniche è molto solido, inoltre le regole tecniche assumono una grande forza di persuasione attraverso la quale si impongono. La situazione odierna è caratterizzata da un evidente tentativo di neutralizzazione del conflitto politico e di spostamento del conflitto per interessi su un piano tecnico. In realtà quanto più si isolano gli elementi di conflitto, tanto più si tende ad escluderlo dall’area delle regole, politiche, con le quali deve essere affrontato e ad assorbirlo in un area “tecnica”. Le regole, in quanto luogo di risposta a problemi, disciplinano il funzionamento di istituzioni complesse. Le istituzioni sono tanto più complesse quanto più complessi sono i problemi a cui devono rispondere (es le calamità pubbliche, la sanità, la previdenza..). Il secolo che si è appena concluso ha lasciato in eredità la consapevolezza che quanto più le risposte sono complesse, tanto più coinvolgono interessi comuni, ovvero una responsabilità collettiva di cui i cittadini devono farsi carico attraverso una risposta fiscale. In altri termini entrano in gioco i principi che costituzionalmente sono definiti dagli articoli: art. 23 il principio di legalità dei tributi 1 art. 53 il principio di progressività delle imposte art. 117, II, secondo il quale lo stato ha la responsabilità esclusiva nella garanzia dei livelli essenziali, civili e sociali, su tutto il territorio nazionale. Gli articoli 23 e 53 della costituzione. L’art 23 (principio di legalità): Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge. contiene il sedimento di quel processo storico che ha portato alla nascita e allo sviluppo della democrazia rappresentativa e che è ben sintetizzato dall’espressione: No taxation without representation. La richiesta di un contributo fiscale ai cittadini implica la costituzione di un organo che rappresenti i loro interessi e determini i criteri della contribuzione. La democrazia occidentale nasce, essenzialmente, sulla base di un fattore economico finanziario, nasce come principio di autotutela dei patrimoni delle persone (prima dei patrimoni dei signori feudali, poi della borghesia e progressivamente di tutti i cittadini maschi e infine di tutti i cittadini, maschi e femmine) L’art. 53 Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività. dimostra che il vincolo di cittadinanza coincide con il vincolo fiscale e testimonia che lo stato moderno è uno stato fiscale, all’interno del quale è necessario dare risposte collettive per garantire un livello di cittadinanza ritenuto “il minimo essenziale”. Questi sono i capisaldi delle norme costituzionali che regolano il conflitto di interessi e che orientano tutto l’ordinamento giuridico. La Costituzione come super regola L’ordinamento giuridico ha al suo vertice le regole costituzionali come super regole sui conflitti, ovvero regole di procedura e regole di contenuto, subordinate alle quali si trovano leggi ordinarie, la produzione normativa di tipo regolamentare, circolari ... La costituzione è la prima regola, essa dirime i conflitti politici, fissando le procedure con le quali si innova l’ordinamento giuridico a valle (attraverso i procedimenti legislativi e le diverse tipologie di leggi ordinarie) e definendo i confini di potestà tra le norme. Le regole costituzionali, non hanno soltanto un valore di tipo tecnico-procedurale ma stabiliscono un confine tra poteri, tra soggetti, per cui appartengono a quel tipo di regole che tende a risolvere conflitti politici. Luhmann Le regole che risolvono conflitti politici sono regole sul procedimento: esse definiscono una procedura all’interno della quale gli interessi in gioco si confrontano, si quantificano e trovano un punto di sintesi. 2 Secondo il sociologo tedesco Niklas Luhmann i procedimenti che risolvono i conflitti politici sono “procedimenti di tipo innovativo primario” dell’ordinamento giuridico (ad esempio la costituzione e i procedimenti legislativi ad essa subordinati). Luhmann sostiene che il procedimento legislativo sia l’archetipo del procedimento, da lui definito, di “dimostrazione e sintesi degli interessi”. Infatti, ancor prima di fondare quel bene giuridico che si chiama certezza del diritto, esso svolge una funzione molto importante: rappresenta visivamente il conflitto degli interessi in gioco e consente ai cittadini, attraverso i loro rappresentanti, di discutere, confrontare, fondere le proprie opinioni, se necessario, o distinguerle. L’ innovazione dell’ordinamento, il cambiamento del contesto giuridico di riferimento per ogni cittadino, avviene sulla base di un procedimento il cui scopo fondamentale è dimostrare, in modo convincente, i motivi che inducono a cambiare una regola, fino a quel momento parametro di riferimento di un dato gruppo di individui. La sociologia del diritto contemporanea e perfino i teorici di una visione ultranormativa del diritto (quelli che dicono che il diritto è certezza, comando che si impone) non possono negare che il comando si imponga non in virtù della sola forza, ma in virtù di un procedimento di spiegazione e di convincimento. La differenza tra il mondo contemporaneo, fondato su regole che contengono in sé un sapere specialistico, e il mondo pre-moderno risiede proprio nel problema dell’autorità. Negli stati assoluti si aveva la certezza del diritto, ma non esisteva il problema della ragionevolezza dell’innovazione giuridica. Il signore feudale spiegava ai valvassori e ai valvassini che intendeva cambiare alcune regole, ma lo faceva in modo privatistico, non era tenuto a seguire una procedura formale. La democrazia rappresentativa contemporanea, invece, è fondata sulla procedimentalizzazione del conflitto. Dunque la funzione dimostrativa del procedimento legislativo innova l’ordinamento giuridico. Secondo Luhmann se l’ordinamento giuridico svolge la funzione dimostrativa, l’amministrazione, in senso weberiano, deve svolgere una funzione strumentale. Mentre il procedimento legislativo risponde ad una esigenza di trasparenza, di spiegazione, di monitorabilità, il procedimento amministrativo ha il compito di conseguire obiettivi prefissati (sebbene modernamente abbia, anche, incorporato elementi di consultazione democratica dei cittadini). L’amministrazione applica norme tecniche per raggiungere nel modo più efficace ed efficiente i suoi scopi: garantire le cure ai cittadini, dare giustizia in tempi ragionevolmente brevi, provvedere all’istruzione dei cittadini, ...etc. In altri termini Luhmann osserva che, sebbene non sia un’esigenza soltanto “tecnica” ma incorpori anche degli orientamenti valoriali, l' attività amministrativa è dominata dal principio di strumentalità. Anche i procedimenti giurisdizionali sono procedimenti di tipo strumentale, perché hanno un obiettivo pratico immediatamente percepibile dagli utenti della giustizia: garantire la certezza nell’applicazione del diritto. Le regole nel ragionamento di Finanza Pubblica Se le regole, politiche o tecniche, incorporano dei saperi specialistici e sono la sedimentazione di una fase storica di una organizzazione, si pone il problema dell’individuazione delle logiche in base alle quali esse cambiano. Le regole cambiano fondamentalmente per due ordini di motivi: 3 per influsso di una spinta interna da parte dei soggetti che le applicano, attraverso un processo di affinamento continuo delle regole stesse. a causa di pressioni del mondo esterno: le mutazioni del contesto storico ridisegnano le coordinate di riferimento e impongono il cambiamento. Il processo di innovazione proveniente dalle pressioni esterne richiede ristrutturazioni più complesse, implica modifiche più profonde nella mentalità degli operatori, quindi è un processo più lento e vischioso. Nel campo della finanza pubblica attualmente si è in una fase caratterizzata da un doppio binario: da un lato l’influenza del contesto europeo e l’evoluzione avvenuta nell’applicazione dell’articolo 81 della costituzione hanno chiarito meglio i canoni ermeneutici nel campo della nuova legislazione di spesa o di minore entrata; dall’altro l’introduzione di un robusto elemento di federalismo pone alcuni problemi nella definizione del confine dei livelli essenziali di cittadinanza, ovvero dei livelli di prestazioni pubbliche di cui i cittadini, in relazione al proprio senso di responsabilità collettiva, intendono farsi carico Si è di fronte ad un cambiamento delle regole, che sottende il passaggio da una situazione data ad una situazione altra. Quest’ultima dovrebbe fare emergere con maggiore esattezza le preferenze dei cittadini, accentuare le differenze nella capacità fiscale tra aree del paese, avendo cura di non scalfire gli elementi di unità della cittadinanza ai livelli essenziali. La questione relativa al percorso attraverso cui raggiungere questo obiettivo, modificando l’assetto fiscale, è abbastanza dibattuta. È un classico caso di cambiamento delle regole politiche per il quale non esistono norme che ne indichino la direzione. Il nuovo titolo V della costituzione è analitico nel riparto di competenze fra stato, regioni, principi quadro, interessi nazionali, principi sostitutivi; presenta una panoplia di poteri molto sofisticata, ma paradossalmente nell’unico punto in cui il federalismo assume un significato storico-politico -la struttura fiscale-, fornisce chiarimenti di tipo metodologico (affermando che le regioni hanno diritto ad una compartecipazione sui tributi erariali, hanno tributi propri e che esiste un fondo perequativo che garantisce livelli essenziali) e non offre nessun elemento di tipo contenutistico. In altri termini la costituzione ha cambiato il riparto di competenze legislative, ha innovato il processo di produzione normativa, equiordinando la legge regionale alla legge statale in tante materie, tuttavia non ha risolto in maniera precisa la questione dell’organizzazione del fisco. Se l’aspetto del titolo V che riguarda lo schema di finanziamento dei soggetti del federalismo è da definire, per quanto riguarda l’applicazione delle regole sulla copertura delle leggi di spesa e di minor entrata gli ultimi quindici anni presentano una evoluzione interessante. L’articolo 81 L’articolo 81, identificabile come lo statuto costituzionale del bilancio, incorpora un sapere storico. Contiene, nei sui commi, l’evoluzione dei rapporti tra governo e parlamento, l’esperienza storica delle democrazie liberali prefasciste (Belgio e Francia) e l’esperienza italiana dello stato liberale fino alla svolta autoritaria cui guardava il costituente nel 48. L’art 81 è una classica norma sui conflitti politici, è una norma sulla produzione di norme. E afferma che: Le Camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo 4 L'esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte. In altre parole dichiara che: il bilancio dello stato viene redatto dal governo che possiede le conoscenze tecnico- specialistiche per aggiornarne il progetto; se il bilancio dello stato non viene approvato prima dell’inizio dell’esercizio di riferimento, viene adottato con legge attraverso un meccanismo che si chiama “esercizio provvisorio”: il parlamento autorizza provvisoriamente il governo a esercitare il bilancio presentato. Tuttavia la costituzione prevede che il bilancio definitivo debba essere approvato entro quattro mesi; con la legge di bilancio non possono essere introdotte nuove entrate e nuove spese. Su questo comma si radica tutta la teorica del cosiddetto carattere formale della legge di bilancio. La costituzione impone alcuni limiti alla legge di bilancio, che si configura come “una legge a competenza limitata e a contenuto tipico”. La legge con cui le camere approvano il bilancio presentato dal governo non può attribuire all’amministrazione poteri giuridici di spesa che essa non abbia già in base alla legislazione precedente e non può introdurre nell’ordinamento (cfr. art. 23) nuove imposte e nuovi tributi. Il comma IV dell’art. 81, sancisce il principio di “copertura finanziaria” secondo cui ogni altra legge, che non sia quella di bilancio, che introduca nell’ordinamento nuove spese o minori entrate deve indicare i mezzi per farvi fronte. L’art 81 non fornisce un contenuto specifico della politica di bilancio ma, introducendo il principio di copertura finanziaria, indica un percorso metodologico che deve essere esplicitato attraverso l’interpretazione. A partire dal secondo dopoguerra il lavorio interpretativo e l’applicazione del art 81 hanno ruotato intorno alle modalità con cui deve essere inteso il rapporto tra il III comma, che è un limite contenutistico, e il IV comma che stabilisce il principio di copertura. L’art 81 è una norma che risolve un conflitto tra i vari stakeholders presenti in parlamento (attraverso la logica delle democrazie rappresentative), dunque è una regola politica. La risoluzione del conflitto di interessi è affidata ai principi che organizzano la decisione dei collegi portatori di interessi contrapposti (meccanismo già studiato dagli economisti di fine ‘800). Tuttavia sarebbe stato plausibile anche il ricorso al principio di supremazia del governo nella discussione parlamentare. A dire il vero il percorso interpretativo dell’art. 81, in particolar modo negli ultimi venti anni, ha portato ad un netto spostamento del pendolo verso il governo. Si è dinanzi ad un cambiamento di regola politica che ha interessato, in maniera più o meno preponderante, tutte le democrazie rappresentative d’ Europa. Nel corso del secolo che si è appena concluso le democrazie rappresentative europee, a fronte di una loro progressiva razionalizzazione, hanno mostrato la tendenza a riconoscere una posizione di guida del governo non solo nella fase di formazione, ma anche in quella di discussione della decisione di bilancio. Questo progressivo spostamento di rotta consente al governo (sostenuto dalla maggioranza) di mantenere un ragionevole dominio sul quadro delle scelte e sugli equilibri che esso intende sostenere. L’art 81 della Costituzione non consegna 5 formalmente al governo un potere di primazia, che è stato costruito per sedimentazione di esperienze attraverso i regolamenti parlamentari, la legge 468 del 1978 e le prassi. La soluzione a cui si è pervenuti, soprattutto negli ultimi 20 anni, attraverso l’interpretazione dell’art 81, affida il meccanismo di contenimento e di controllo ad una contrapposizione e ad una sintesi di interessi che si fondono e si confrontano nel procedimento legislativo. In altri termini il IV comma , il principio di copertura, e il III comma instaurano un rapporto sinallagmatico. In base a tale meccanismo il governo e l’opposizione sono “costretti”, nello stesso procedimento legislativo, che introduce nell’ordinamento giuridico nuove spese o minori entrate, a individuare la corrispettiva copertura attraverso il confronto sui benefici, veri o presunti, che si intende introdurre a favore di determinate categorie e sui costi fiscali associati a questi benefici. Tutto il meccanismo dell’art 81 funziona (o non funziona) nella misura in cui opera questo sinallagma. La separazione delle due parti della decisione è una delle strade attraverso cui i bilanci pubblici presentano dei disavanzi. Elementi sulla interpretazione dell’articolo 81 Si supponga di voler introdurre una spesa o uno sgravio fiscale attraverso una legge. La prima operazione da effettuare è la cosiddetta quantificazione, ovvero stabilire quali effetti ha, in termini finanziari, l’innovazione che si intende introdurre rispetto al quadro legislativo in vigore. Questa operazione non è neutra perché contiene in sé non solo elementi tecnico-analitici, ma anche elementi interpretativi di dati e di fatti. Effettuata la quantificazione bisogna indicare una copertura rispetto ad un equilibrio convenzionale, concettualmente staccato dallo strumento normativo che si innova. L’operazione di copertura definita dal nostro ordinamento è una operazione di confronto tra una innovazione puntuale introdotta nell’ordinamento e una situazione statica. L’equilibrio convenzionale rispetto al quale trovare la copertura è quello del terzo comma: l’equilibrio creato dai conti del bilancio dello stato. Oggi la questione della copertura è diventata più complessa perché il decisore politico ha a che fare con aggregati di finanza pubblica un po’ più complicati: l’innovazione normativa infatti produce effetti non solo sul bilancio dello stato, ma anche sul bilancio dell’insieme delle pubbliche amministrazioni (queste comprendono le regioni, che sono soggetti dotati di autonomia legislativa, le province etc). Il legislatore ha dovuto adeguare il procedimento a questa nuova situazione. La soluzione individuata prevede che gli strumenti normativi, che compongono la decisione di bilancio (bilancio, legge finanziaria, procedimenti collegati), vengano preventivamente discussi in parlamento. In questa soluzione normativa c’è stato anche il tentativo di aggirare parzialmente il limite contenutistico del III comma dell’art 81. Il confronto sui documenti normativi è preceduto da una discussione anticipata sulle ipotesi macrofinanziarie e di finanza di settore, dentro le quali il governo intende correggere gli andamenti in atto della finanza pubblica. Questo è stato organizzato in uno strumento di indirizzo politico, presentato dal governo al parlamento entro giugno, chiamato “documento di programmazione economico finanziaria”. Esso anticipa e definisce la cornice delle ipotesi macroeconomiche in cui verranno presentati, entro settembre, i documenti normativi che danno corpo alla manovra di bilancio e fornisce al decisore politico, al parlamento, ai cittadini un orizzonte triennale di correzione dei conti. 6 Questo anticipo risponde alla necessità di vincolare preventivamente i soggetti politici, rendendo esplicite le condizioni che portano il governo a proporre certe manovre di correzione. Attraverso la successiva discussione in parlamento si confrontano le ipotesi e si giunge ad alcune decisioni, non in forma di legge ma nella forma di indirizzo politico. La progettazione dell’equilibrio di bilancio (l’ equilibrio rispetto al quale si discute sulla copertura) fa i conti con alcuni parametri di riferimento, intorno a cui ruota tutta la discussione di finanza pubblica : saldo netto da finanziare finali al netto delle delle operazioni finanziarie, concettualmente corrisponde al fabbisogno o avanzo finanziario. Il saldo netto da finanziare è un valore di competenza giuridica non è un valore di cassa. fabbisogno di cassa del settore statale tesoreria dello stato. La tesoreria è il collettore di tutti i pagamenti effettuati dallo Stato sul territorio, fondamentalmente attraverso il circuito postale. Essa gestisce tutti flussi di cassa in entrata e in uscita. Gli sbilanci momentanei (giornalieri) di questi ultimi dovrebbero essere compensati con operazioni a breve (debito fluttuante) con cui lo stato chiede risorse al circuito finanziario. Tutte le operazioni di finanziamento effettuate per periodi inferiori a dodici mesi sono fluttuanti e compaiono solo nei conti finanziari dello Stato. Tutti i debiti che lo stato contrae per periodi superiori ai 12 mesi sono presenti nei conti patrimoniali e vanno a sostanziare il debito pubblico. Indebitamento netto delle PA cassa, che mostra il livello di indebitamento netto di tutto il settore delle pubbliche amministrazioni. In altri termini è un indicatore dell'ammontare di risorse che il settore delle PA, nel suo insieme, chiede al circuito finanziario. L’ avanzo primario un indicatore molto importante per i paesi che hanno uno stock di debito consistente, perché segnala il grado di copertura complessivo del bilancio prima del pagamento degli interessi. I rapporti di sostenibilità del flusso degli interessi Stato sul suo debito a medio, a breve e a lungo termine è indicato nel bilancio. Il bilancio dello Stato dunque attualizza, di anno in anno, il flusso di interessi relativo allo stock del debito. 7 “Il bilancio nel rapporto governo-parlamento” lezione del 30-3-2006, Cons. De Ioanna A cura di Natia Sità I Saldi di Finanza Pubblica Si può notare che dalla contrapposizione fra entrate correnti e spese correnti si ottiene un primo saldo rilevante: il saldo corrente, che è un indicatore strutturale del livello di equilibrio del bilancio pubblico. Le spese correnti fotografano l’attività istituzionale corrente (stabile) di un soggetto (es.: le spese correnti per il servizio sanitario nazionale sono composte da tutte le spese necessarie a far funzionare l’intero sistema sanitario: spese del personale, spese di approvvigionamento etc..). Se le entrate correnti pareggiano le spese correnti un dato servizio si presenta in condizioni di equilibrio. Questa situazione può durare un anno, ma potrebbe protrarsi per gli anni successivi. Pertanto è necessario comprendere quale è la natura delle spese e delle entrate. Ad esempio nel caso del servizio sanitario nazionale è fondamentale tenere in considerazione il costo del personale, l’andamento delle spese farmaceutiche, quello per l’aggiornamento delle infrastrutture tecnologiche, ma anche prevedere quale potrebbe essere nel futuro l’andamento della richiesta di prestazioni sanitarie (es. spese di lungodegenza per una popolazione sempre più vecchia). Quest’ultima situazione ha a che fare con la spesa corrente pluriennale: un bilancio sanitario pluriennale deve, a livello macro-aggregato e a livello micro-aggregato (settore per settore), porsi questi problemi. Di fronte ad un certo andamento tendenziale della spesa, in tale previsione, devono essere incorporati una serie di elementi inderogabili di tipo meccanico, come la conoscenza del numero degli addetti del sistema sanitario (medici, tenici, portantini) e dell’ammontare della loro retribuzione, a partire dai quali si può prevedere il turnover, il tasso di crescita reale e nominale degli stipendi di queste persone in condizioni di stabilità e, lavorando su una base normativa data, si possono estrapolare delle ipotesi sulla base dell' andamento del PIL. La spesa farmaceutica è più difficile da prevedere perché dipende dall’andamento del mercato, ma ancora più problematico è fare previsioni, ad esempio, sull’invecchiamento della popolazione e sul conseguente fabbisogno sanitario. Ogni previsione di bilancio, soprattutto se fatta su un orizzonte pluriennale, integra tecniche diverse. Il Bilancio Il bilancio è il punto nodale nella nascita di tutte le moderne democrazie rappresentative, e, come accade per tutti gli istituti storico-giuridici, la sua evoluzione si muove sullo sfondo dell’evoluzione delle forme istituzionali e delle forme economiche. Il bilancio moderno, negli stati democratici e rappresentativi, è il punto in cui si incrociano l’obbligo fiscale dei cittadini e le spese, non a caso si parla di globalità del bilancio e di principio del non divieto delle imposte di scorta. Quest’ultimo nasce in Francia a seguito della Rivoluzione e si fonda sull’idea che la cittadinanza sia un fascio di diritti a cui si attinge, in quanto cittadini, ma anche fonte di un prelievo obbligatorio che indistintamente finanzia tutte le prestazioni ad essi fornite. In tal senso, il bilancio si presenta come un sistema globale composto da tutte le entrate fiscali contro tutte le spese. È, insomma, il classico principio della democrazia rappresentativa, peraltro un principio controdeduttivo rispetto alle assunzioni più moderne di finanza pubblica, che tendono a fare decidere il contribuente sulla base di una valutazione marginale dei costi e dei benefici che derivano da una certa attività. Oggi si assiste 8 alla cosiddetta finanza di progetto: un entità territoriale lancia un opera pubblica e chiama i cittadini, su cui esercita giurisdizione, a concorrere a comprare le obbligazioni emesse per finanziarla (questo accade soprattutto nei paesi anglosassoni anche se qualche esperienza è stata fatta anche in Italia). In una tale prospettiva esiste un bilancio ordinario rispetto al quale i cittadini, attraverso il prelievo fiscale, contribuiscono al mantenimento dei propri servizi sociali, tuttavia si viene affermando un livello di specialità per le spese di investimento. Si può affermare che gli Stati, siano essi nazionali o federati, nascono sul presupposto della gestione di un prelievo fiscale. In definitiva nei bilanci pubblici diventa fondamentale capire il grado di sostenibilità finanziaria delle spese correnti, dunque il problema del pareggio e dell’equilibrio di parte corrente dei bilanci pubblici è la regola aurea, al di là di qualsiasi valutazione macroeconomica, per avere un primo elemento di valutazione su quanto quel bilancio assorbe, su quanto spende e su come si procura le risorse. Naturalmente questo discorso non esclude l’eventualità di entrate correnti una tantum (es. un condono), ma in tal caso il problema diventa capire come si ricompone il pareggio di parte corrente in un ottica pluriennale. Autonomie locali e debito Il pareggio della parte corrente dei bilanci pubblici è il criterio operativo e giuridico-istituzionale che attraversa tutti i bilanci del settore pubblico. In proposito il nuovo art. 119 del titolo V dice che nel sistema delle autonomie locali, in particolare delle regioni, l’indebitamento può essere utilizzato come fonte di copertura per spese di investimento. È un riconoscimento costituzionale del fatto che il debito può servire come fonte di copertura, ma solo per le spese di investimento. Infatti le spese correnti non dovrebbero mai essere coperte attraverso il debito. Sebbene nella storia italiana rececente, per circa 15 anni, le spese correnti siano state coperte con il debito. Ed è proprio in questa fase che si annida la lenta perdita di controllo delle finanze pubbliche. Il servizio del debito che le Regioni le Provincie e i Comuni accendono per spese di investimento deve essere pagato con risorse iscritte nei propri bilanci. Nella composizione delle entrate proprie di Regioni, Comuni e Province gioca ancora un certo peso il (40-50 % circa) il trasferimento dal bilancio dello Stato. I Comuni, ad esempio, interrogano la Cassa Depositi e Prestiti, che concede il finanziamento guardando alla sostenibilità del servizio sulla base del rapporto fra le loro spese e le loro entrate, tra le quali ci sono anche i trasferimenti da parte dello Stato. Essa esamina il bilancio dell’ente locale per avere la certezza che il flusso di entrate copra il servizio degli interessi, ciò significa che sia lo Stato sia la Cassa Depositi e Prestiti devono fare in modo che la struttura del bilancio di questi enti presenti un equilibrio tale da rendere plausibile la restituzione. Infatti dal punto di vista dei conti europei non importa se il debito è dello Stato, dei Comuni o delle Regioni, l’indebitamento netto utile ai fini dei vincoli europei è l’indebitamento delle Pubbliche Amministrazioni. Il cosiddetto patto di stabilità interno è il tentativo di coordinare, con metodi più o meno concertativi, la finanza dello Stato delle Regioni e dei Comuni e fare in modo che l’indebitamento netto rientri nel limite del 3% stabilito. 9 Origini del debito in Italia La tabella consente una immediata comprensione delle origini e dell’evoluzione dell’elevato debito in Italia, perché fornisce l’ordine di grandezza del problema: - nei primi anni ‘60 l’Italia presenta un deficit pari all’1% del PIL e un piccolo avanzo primario. nel ‘64 il rapporto debito/PIL tende a scendere al 32,5% nel ‘65 inizia una fase di crescita della spesa pubblica primaria. (rapporto complessivo fra entrate correnti e spese correnti, spese finali e entrate finali). Il rapporto tra spesa primaria e PIL è del: 29% nel ‘64, 37% nel ‘75, 83% nell’85. Nel ‘64, anno in cui inizia la fase di perdita di controllo, le entrate fiscali sono pari alle spese primarie, quindi si è in una situazione di pareggio della parte corrente del bilancio (non si forma debito), nel ‘75 le entrate sono ancora del 29% ma le spese sono saltate al 37%, quindi il debito comincia a salire. Nell’85 le entrate cominciano a salire e le spese aumentano ancora arrivando al 43%. Cresce anche la spesa per interessi, che era l’1% nel ‘64, si attesta al 3,5% nel ‘75 e salta all’8% del PIL nell’85. Tutto questo dipende anche dal fatto che, fino al 1980, i tassi di interesse pagati sul sevizio del debito pubblico erano tassi amministrati. In Italia vi era una economia finanziariamente non integrata e il tasso di interesse che lo stato pagava al momento dell’emissione dei titoli pubblici era fissato dalla Banca D’Italia ad un livello leggermente inferiore al tasso di inflazione. Se al tasso di interesse fissato si vendevano, ad esempio, la metà dei titoli emessi l’altra metà veniva acquistata dalla Banca D’Italia che facendolo emetteva moneta, creava liquidità. Ovvero la Banca centrale concorreva al fabbisogno del settore statale (bilancio) attraverso la creazione di base monetaria. Si tratta di una situazione tipica di tutti gli stati europei con piena sovranità monetaria che comincia a rompersi dalla fine degli anni ‘80, quando, in vista della unificazione monetaria, vengono emanate direttive comunitarie che impongono di: 1. impedire alla banca centrale di finanziare il bilancio attraverso l’emissione di base monetaria 2. vendere i titoli del debito pubblico in condizioni di mercato, per creare un vero mercato finanziario europeo libero e concorrenziale e una banca centrale europea che emetta la moneta europea e non finanzi i bilanci pubblici, che sarebbero stati finanziati attraverso il prelievo fiscale e il debito. Dunque dal 1980 al 1985 il costo del debito “schizza” perché non è fissato “dall’alto”, ma si determina attraverso la dinamica della domanda e dell’offerta. Come sempre accade, uno Stato molto indebitato e che ha grande bisogno di vendere i propri titoli si presenta come creditore debole. Infatti gli investitori offrono fondi in funzione della solidità del prenditore-debitore. Per quel che riguarda il caso italiano, il prezzo del debito è salito negli anni perché man mano che si liberalizzavano le aste sui titoli del debito pubblico, i soggetti disposti a comprare volevano farlo ad un prezzo superiore all’inflazione. 10 Una economia a inflazione alta che offre agli investitori finanziari rendimenti reali maggiori dell’inflazione stessa crea un effetto di spiazzamento nel meccanismo di allocazione del risparmio verso gli investimenti privati e le attività produttive. In altri termini diventa più conveniente investire in attività finanziarie di questo tipo che, però, sono attività che non portano sviluppo in quanto rappresentative della spesa corrente dello Stato. E’ stato sostenuto che l’investimento che non era stato fatto dal privato sarebbe stato fatto dallo Stato, tuttavia l’evidenza empirica ha dimostrato che lo Stato faceva questo investimento, ma parzialmente. Esso non era sufficiente a sostenere un elevato livello di sviluppo e anche se lo faceva, questo accadeva nei settori infrastrutturali (strade, ponti . . . ). Infatti nei settori in cui occorre vendere qualcosa in competizione con gli altri e in cui occorre incorporare innovazione, ricerca, sviluppo (es automobili, prodotti high tech) lo Stato non è particolarmente efficace, per cui sistema ha bisogno anche dell’impegno di imprese private1. La situazione descritta ha creato un grande spostamento di ricchezza di tipo finanziario all’interno del paese e paradossalmente chi aveva molta ricchezza finanziaria da investire ha guadagnato (anche se l’elevata inflazione ha eroso gran parte degli elevati rendimenti nominali). Lo Stato, in questa fase, si è trovato con una situazione di bilancio sempre più ingestibile, ingessato da una spesa per interessi che continuava a salire. In sintesi, in Italia il processo di perdita di controllo dei bilanci pubblici è iniziato con la creazione di una asimmetria temporale tra l’andamento delle spese rispetto al PIL e l’andamento delle entrate. Fino a che questo rapporto (saldo corrente) è rimasto in equilibrio la situazione è rimasta con un piccolo debito del 32,5% e un deficit annuo dell’1%. Quando questa situazione è esplosa è iniziata l’evoluzione di 25 anni di disavanzo primario. Le PPAA italiane hanno registrato un saldo primario negativo dal 1965 al 1990 e per 25 anni tutta la spesa per investimenti, ma anche quella per interessi e una parte delle spese correnti sono state finanziate dal debito. Dal 1975 al 1994 il deficit è stato pari a circa il 10 % del PIL. Questa situazione si è invertita nel 1994 anno in cui è cominciato il lento processo di riequilibrio dei conti. Quando nel ‘94, ma soprattutto nel ‘96-‘97, la spesa per interessi viene riportata all’interno della media europea si riprende il dominio di questa componente cruciale. È interessante notare che il rapporto debito/PIL dal 40% del ‘69 rimane al 60% nel ‘75 nel ‘79 è ancora al 61% si è ancora a livelli europei, nell’80 c’è il “divorzio”, nell’85 è all’82% nel ‘94 al 125%, cioè la spesa pubblica è in gran parte spesa per interessi. A partire dall’85 il costo medio del debito è più elevato del deflatore, cioè il debito è pagato più dell’inflazione, c’è un guadagno reale da parte degli investitori. A partire dal ‘90 il costo medio del debito è più elevato della crescita del PIL, con la conseguenza che il debito si autoalimenta. Per tornare indietro occorre un avanzo primario. L’importanza dell’ avanzo primario è cruciale in ogni politica di stabilizzazione dei conti pubblici. Occorrerebbe mettere insieme la rapidità di adattamento del privato con la lungimiranza del pubblico. Quest’ultima dovrebbe svilupparsi soprattutto in quelle opere che richiedono sforzi prolungati per le infrastrutture fisse, per le questioni tecnologiche invece, va meno bene, perché lo Stato deve investire in ricerca pura che non ha un ritorno immediato. 1 11 Come si forma l’avanzo primario ? L’avanzo primario è un elemento di misurazione che tiene conto di tutte spese e di tutte le entrate, comprese le forze finanziarie, meno la spesa per interessi La struttura di tutti i bilanci pubblici è simile. Il bilancio dello Stato è quello che sta al centro del sistema, ma tutti contengono le stesse concettualizzazioni I saldi di finanza pubblica e di contabilità nazionale e i saldi del bilancio dello stato devono essere coerenti anche se i dati sono esposti in modo differente. Il Bilancio dello Stato. Le entrate sono suddivise in titoli I primi due titoli sono le “entrate correnti” (entrate tributarie ed entrate extratributarie –tasse imposte e contributi-) Il titolo terzo indica le entrate derivanti dall’alienazione di beni patrimoniali, la vendita di azioni etc L’insieme di queste entrate fornisce un primo totale: il totale delle entrate finali. Dal rapporto fra le entrate dei primi due titoli e le spese correnti si ottiene un saldo che in termini del bilancio dello stato si chiama “risparmio pubblico”, questo può essere negativo o positivo e in termini di contabilità nazionale corrisponde al “saldo corrente” Nel bilancio pubblico, mettendo a confronto le entrate finali2 e le spese finali3 si ottiene un altro saldo: il saldo netto da finanziare, che misura in termini di competenza4 un valore differenziale. Quest’ultimo in termini di contabilità nazionale corrisponde all’avanzo o al fabbisogno finanziario Se al fabbisogno/avanzo finanziario di contabilità nazionale si sottraggono le partite finanziarie, si ottiene l’indebitamento netto. Nel bilancio dello Stato, se dal saldo netto da finanziare, (entrate finali – spese finali), si sottraggono la riscossione dei debiti e le spese per attività finanziarie si ottiene l’indebitamento netto. I due quadri (bilancio dello Stato e contabilità) sono corrispondenti, ovvero seguono lo stesso percorso logico. Il concetto di avanzo primario, è molto importante perché “misura” quanto il comportamento delle pubbliche amministrazioni genera un surplus di entrate rispetto alle spese finali. Questo in una condizione in cui il costo del debito è più alto del PIL, consente di erodere lo stock del debito, ovvero di ridurre la base che genera gli interessi e quindi ricreare una situazione di tendenziale pareggio. La variazione del rapporto debito/PIL La variazione del rapporto debito PIL dipende: dal rapporto tra costo medio del debito (r) e crescita del PIL (g). tutte le entrate comprese quelle di natura finanziaria (entrate in conto capitale e entrate per le partite finanziarie) tutte le spese anche quelle di natura finanziaria 3 tutte le spese anche quelle di natura finanziaria 4 operazioni giuridicamente necessarie per portare il bilancio in pareggio 2 12 dal saldo primario dall’aggiustamento tra flussi e consistenze (le transazioni in attività finanziarie, gli effetti del cambio, la vendità di attività finanziarie) queste tre componenti sono riassumibili nella formula: dt dt 1 (1 r ) - avanzo primario – cessioni nette di attività finanziarie (1 g ) a margine di tali considerazioni è comprensibile come, dal punto di vista dei piani di aggiustamento delle previsioni fatte dai paesi, siano cruciali il costo medio del debito, la crescita del PIL, l’andamento del saldo primario (che dipende dalle spese e dalle entrate) e dunque la gestione delle spese e delle entrate. La legge di contabilità n. 468, che costituisce il testo base in materia di procedure di formazione e struttura del bilancio dello Stato, è datata 5 Agosto 1978, è stata modificata ogni 10 anni circa e presenta un quadro molto interessante dal punto di vista della sua organicità. I due elementi che hanno avuto effetti di ritorno sui lineamenti della finanza pubblica sono stati: -una reinterpretazione analitica dell’obbligo di copertura posto dall’art. 81 della Costituzione -una specificazione atipica di questo obbligo -e la regolamentazione del c.d.“ciclo della quantificazione delle voci di spesa”. L’art 81 è il frutto del tentativo, compiuto dai costituenti, di trasporre all’interno del testo costituzionale un principio di scelta pubblica, secondo cui l’organo che decide la spesa deve indicare nello stesso contesto deliberativo la copertura. La legge 468 del 1978 indica, per la prima volta nel nostro ordinamento, la qualità dei mezzi di copertura che devono essere utilizzati dal legislatore per le nuove o maggiori spese. Nell’art 11 ter della legge 468 si ha un processo di affinamento legislativo secondo cui “in attuazione dell’articolo 81 c.4 della costituzione ciascuna legge che comporta maggiori spese o minori entrate deve indicare espressamente per ciascun anno e per ogni intervento da essa previsto la spesa autorizzata – la copertura finanziaria […] è determinata esclusivamente attraverso le seguenti modalità: […](l’articolo a questo punto presenta un catalogo tassativo delle forme di copertura)”. Il senso di questo articolo, in termini di bilancio pubblico, è quello di considerare un abbattimento di entrate come una nuova maggiore spesa corrente e in quanto tale suscettibile di copertura. In termini tecnico-contabili tutto il problema della copertura risiede nell’analisi degli effetti finanziari (non economici!!!) che una innovazione normativa ha su un determinato equilibrio di bilancio, (approvato o in corso di approvazione) e col quale bisogna fare i conti nel momento in cui si applica l’art. 81. Convenzionalmente la prima operazione da compiere è il ciclo della quantificazione (cioè il “quanto costa?”) dell’innovazione introdotta (abbassamento delle tasse, assunzioni dei forestali, allargamento dell’ organico dei dipendenti della sanità), che chiama in causa tutte le tecniche di valutazione delle politiche pubbliche. Il problema di ogni “valutatore” di bilancio è quello di capire se gli effetti economici indiretti di un provvedimento debbano essere valutati nella loro retroazione sul bilancio. Ad esempio nel caso di riduzione delle imposte su una certa platea: se si suppone che la propensione marginale al consumo di un 13 soggetto (X) è pari ad 1 e con questo provvedimento X risparmi 1000 €, che spenda questa cifra per intero e che un 30% torni nelle casse dello Stato sotto forma di IRPEF. Questo ritorno nel bilancio dello Stato deve essere valutato nella copertura del vuoto di bilancio creato abbassando le tasse? Per prudenza, gli effetti economici non dovrebbero essere calcolati. Infatti nel caso in cui gli effetti economici si manifestino lo si vedrà nel bilancio dell’anno t+1. È un ragionare in termini finanziari, per cui la logica di equilibrio di finanza pubblica deve scontare delle assunzioni corrette in termini di analisi economica (giacché se le assunzioni non sono corrette il bilancio va male), ma non dovrebbe considerare immediatamente gli effetti di retroazione che le misure finanziarie hanno sull’economia. Queste misure dovrebbero essere coperte in modo tendenzialmente completo. Perché se vengono coperte in modo completo si mantiene l’equilibrio del bilancio e l’anno dopo si beneficia degli effetti economici positivi, ma se l’anno dopo gli effetti sono negativi, il bilancio comunque è stato salvato. Se si utilizza l’effetto economico come copertura valutata già dal primo anno e l’effetto economico non si ottiene nell’anno t+1, si avrà un buco di bilancio nell’anno t. La teoria di Einaudi secondo cui il pareggio di parte corrente del bilancio deve essere quanto più vero il primo anno e deve essere mantenibile negli anni successivi nasceva esattamente da questo. Dalle tabelle si può vedere che il circolo vizioso del disavanzo e del debito si innesta negli anni considerati, perché a fronte di una riduzione fiscale, l’aumento della spesa finale è più alto, dunque è inevitabile che il disavanzo riparta dallo stock del debito. L’ articolo 11 ter e l’art 11 c.5 della legge finanziaria tendono a porre principi limite molto banali, secondo cui per l’effettuazione di spese correnti pluriennali e per la riduzione della pressione fiscale (in maniera permanente) occorre tendenzialmente indicare conti di copertura pluriennali. Dunque per rispettare il vincolo costituzionale dell’art. 81, a fronte della progressiva riduzione della pressione fiscale, occorre contestualmente (riprodurre esattamente la situazione che c’era fino al 1965) una pari riduzione della spesa pubblica. Senza quest’ultima ogni squilibrio temporaneo crea disavanzo. Ogni giorno milioni di atti di pagamento e di incasso sono effettuati ad opera delle tesorerie pubbliche. I saldi di questa attività sono evidenziati giorno per giorno e il saldo cumulato di tutte le operazioni fornisce un saldo mensile dei fabbisogni di tesoreria. Il sistema di tesoreria ogni giorno ed ogni settimana porta sul tavolo del governatore e del ministro dell’economia l’andamento dei saldi. In un sistema evoluto di finanza pubblica una adeguata struttura informativa dovrebbe consentire al Parlamento e al Governo di conoscere tempestivamente l’evoluzione del fabbisogno, infatti la perdita di controllo di questo fabbisogno richiede un intervento immediato di correzione. “La finanza pubblica è come una macchina molto ingombrante che percorre le strade tortuose della Corsica, bisogna prestare molta attenzione, altrimenti si rischia di cadere in un burrone”. 14 “Introduzione alla valutazione delle politiche pubbliche” lezione del 17-11-2005, Dott. Espa A cura di Francesco Campioni Le politiche pubbliche sono insiemi di scelte operate da un decisore pubblico centrale o locale; si tratta propriamente di programmi complessi ed organici (es. la politica economica), ma in senso lato anche di progetti più selettivi o di singoli interventi. Oggi, nel momento in cui uno Stato chiede ai suoi cittadini uno sforzo contributivo utile a perseguire un certo obiettivo, si pone un immediato problema di rendicontazione e responsabilità (accountability). Questa logica non è sempre appartenuta alle strutture pubbliche, ed entra a far parte della loro cultura istituzionale solo a partire dagli anni ’60. Allora, negli Stati Uniti, con netto ritardo rispetto all’Europa, alle attività più tradizionalmente statali, come la creazione di infrastrutture, si aggiunsero quelle finalizzate al benessere sociale ( Welfare State). Attività tanto nobili quanto onerose, per cui mentre assumeva imponenti programmi di spesa, il legislatore si preoccupò pure di giustificare tale spesa dinanzi all’opinione pubblica. Su quali dati e con quali parametri si valuta l’azione politica? Elaborando certe informazioni oggettivamente disponibili, si può determinare in che misura l’azione politica risponda ai requisiti di efficacia ed efficienza. Questo è un atteggiamento pragmatico: la scelta può anche derivare da un’ispirazione ideologica, ma poi non può sottrarsi ad uno screening scientifico. In passato l’innesto di elementi di impresa nel settore pubblico avrebbe costituito violazione di un “divieto sacrale”; oggi pare invece che la consapevolezza della propria funzione non possa essere disgiunta da quella delle spese che si sostengono per esercitarla. Quali soggetti sono legittimati a valutare? Il potere di controllo va attribuito ad organi dei quali sia garantita, per requisiti di accesso e meccanismi di composizione, la massima indipendenza. Già a cavallo tra ‘800 e ‘900, organi più o meno dotati di tale attributo erano istituiti in tutti gli Stati liberali, con funzioni di revisione contabile. Si trattava però di rinvigorirli, aggiornando le loro competenze in relazione ad un parametro nuovo come la gestione efficiente degli enti pubblici (“ governance”). L’esempio americano del General Accounting Office5 ebbe un buon seguito in Europa: nel giro di due decenni furono riformati il National Audit Office in Gran Bretagna, la Cour des Comptes in Francia, il Rechnungshof in Germania. Rispetto a questi equivalenti internazionali la Corte dei Conti sconta un certo ritardo, e per molti versi sembra ancora appartenere ad una specie minore, che non gode delle stesse 5 Il G.A.O., istituito come un organo del Parlamento, si ramifica in tutte le Agende dell’Esecutivo; vigila sull’esecuzione del bilancio e in particolare sull'impiego dei fondi pubblici, relaziona e rivolge raccomandazioni al Congresso. La formazione dei valutatori è interdisciplinare; è prevista una certa proporzione di generalisti esperti della valutazione e di specialisti nei vari settori (economisti, sociologi, psicologi, statistici, ecc.). 15 prerogative: è priva di reali poteri investigativi, non esercita un controllo di gestione, si limita a controlli formali di regolarità contabile e di legittimità degli atti. Esistono anche, all’interno di certe amministrazioni, dei nuclei di valutazione (controllo interno), la cui attività è certo utile come fonte di indicazioni per gli stessi soggetti che li istituiscono, ma non può assurgere al rango di un controllo obiettivo. Quali sono le fasi della valutazione? Nel “ciclo delle politiche pubbliche” distinguiamo la sfera della decisione politica da quella della decisione tecnica; allo stesso modo va declinato anche il problema della valutazione, che non può rassegnarsi ad essere un’operazione successiva. 1. La valutazione preventiva serve innanzitutto a quantificare la spesa6. Ma una previsione più ambiziosa dovrebbe riguardare tutti gli effetti che un eventuale provvedimento potrebbe produrre sulla vita dei cittadini e delle imprese. L’“analisi d’impatto della regolamentazione” può muovere dai dati relativi ad altri Paesi o a periodi precedenti (richiamandosi all’esperienza svedese, si può ad esempio sostenere che l’eccesso di garanzie per i disoccupati sia inefficace e perverso in quanto disincentiva la ricerca di un nuovo lavoro); tale analisi, che ha attecchito soprattutto nei Paesi anglosassoni (in Gran Bretagna è obbligatoria), può anche giungere alla conclusione che un’ipotesi regolativi debba essere accantonata (“opzione zero”). Talvolta è anche indispensabile interpellare gli stakeholders7. 2. Il monitoraggio è la raccolta di informazioni in corso di implementazione; specie laddove i tempi esecutivi siano molto lunghi, il m. può segnalare le distorsioni e suggerire le opportune rettifiche. 3. La valutazione dei risultati chiude il ciclo. In alcuni Paesi (es. l’Australia) i Paralamenti hanno stabilito una serie di indicatori (il PIL, il tasso di disoccupazione, il tasso di disoccupazione femminile…) che non offrono margini alla polemica politica. Ammesso che vi riesca: da anni in Italia la cd “Legge Finanziaria” viene presentata dal Governo in una versione del tutto abborracciata, mentre la vera stesura è rimessa al successivo “maxi-emendamento”: così la legge è sottratta alla valutazione preventiva dell’incidenza sul precedente bilancio; con questa aberrazione dell’iter legislativo si è giunti puntualmente a bilanci scadenti. 7 L’Italia è l’unico Paese dell’area OCSE che ancora non fa precedere una decisione politica a forte impatto sociale, come la realizzazione di una grande infrastruttura, da un’istruttoria pubblica, che coinvolga tutti gli enti rappresentativi dei cittadini interessati da tale decisione (capita poi di trovare strenue resistenze in fase operativa, vedi il caso TAV in Val di Susa). 6 16 “Elementi di base, Istituzioni ed Obiettivi della Valutazione” lezione del 2-3-2006, Dott. Espa A cura di Chiara D’Andrea CHE COSA SONO LE POLITICHE PUBBLICHE “Politica pubblica” è una nuova definizione rispetto a ciò che un tempo si chiamava intervento pubblico. E’ uno dei modi di studiare i fenomeni politici. Le politiche sono un qualcosa che ha a che fare con problemi di rilevanza collettiva e sono fondate sull’analisi costi-benefici che informa ogni decisione pubblica. Policy science è la scienza della politica pubblica, disciplina assai recente diffusasi nel Nord America ed in Europa, in un contesto di cambiamento e riassestamento, dopo la fine del secondo conflitto mondiale. In quel periodo alcuni studiosi iniziarono ad interessarsi ed a studiare il rapporto fra i governi ed i cittadini. Prima della politica pubblica lo studio di tale rapporto era ancorato ad una dimensione normativa o ad un’analisi morale. Venivano compiute delle valutazioni meramente descrittive senza che emergessero i punti di forza e/o di debolezza delle politiche e, soprattutto, senza che fossero posti al centro dell’analisi gli scopi che le politiche si prefiggono di realizzare. Le politiche pubbliche sono l’altra faccia della politica, sono “percorsi intenzionali” in cui un numero non prevedibile di “attori”, portatori di specifici “interessi” e “idee”, interagisce “continuativamente” al fine, non solo di mantenere, acquisire o aumentare il proprio “potere” ma anche di affrontare e risolvere “problemi!” che si ritiene abbiano una rilevanza e/o un impatto “collettivo”. Le p.p. sono allora una rappresentazione della la politica in azione e dei processi attraverso i quali si allocano quotidianamente spettanze, risorse monetarie e simboliche, si distribuiscono o si creano risorse di potere, si costruiscono i problemi aventi rilevanza collettiva e si cerca di risolverli ovvero li si oblia; si ottiene e si perde consenso, si sceglie cosa fare o non fare in un dato sistema politico, si decide chi ha diritto a che cosa e chi invece no. Harold Lasser (sociologo, considerato il fondatore della disciplina) parlava di policy science caratterizzata da tre elementi: 1) multidisciplinarietà; 2) disciplina orientata alla risoluzione dei problemi ed 3) esplicitamente normativa. La multidisciplinarietà delle politiche pubbliche può essere così schematicamente riassunta: I giuristi si occupano del drafting legislativo e dell’ enforcement (applicazione autoritativa delle politiche). I sociologi invece analizzano le modalità attraverso cui le problematiche pubbliche vengono socialmente costruite. Gli scienziati politici si interrogano e studiano come le istituzioni ed i partiti influenzano il decorso ed il contenuto delle policies, mentre gli economisti si occupano della quantificazione degli oneri, dell’individuazione degli opportuni meccanismi di copertura e degli aspetti organizzativi. 17 La multidisciplinarietà dunque evidenzia come la valutazione di una politica pubblica possa essere caratterizzata da specifiche identità disciplinari. LA STRUTTURA DEL CORSO ED I SUOI OBIETTIVI La valutazione delle politiche pubbliche è una materia molto complessa, l’efficacia e l’utilità delle politiche pubbliche costituiscono elementi di grande democraticità della politica pubblica, si vuole dimostrare l’esito dell’intervento pubblico ed in particolare quale sia l’utilizzo delle risorse sottratte ai contribuenti mediante la tassazione dei redditi e le imposte a loro carico. Si tratta dunque di un rendiconto che ha come destinatari il Parlamento e l’opinione pubblica. L’intero modulo si ripartisce nello studio di cinque grandi aree tematiche: 1) strumenti statistici propedeutici alla valutazione: per poter compiere una valutazione si rende necessario l’utilizzo di tecniche statistiche e di elementi di econometria 2) la valutazione delle politiche pubbliche “in senso stretto” 3) la progettazione dei processi decisionali. Essa richiede che vengano esaminati i provvedimenti legislativi ed amministrativi, in particolare viene prestata molta attenzione al programma di bilancio. 4) la valutazione delle politiche pubbliche e l’impatto sull’organizzazione delle pubbliche amministrazioni 5) la valutazione in concreto (approfondimenti settoriali). ELEMENTI DI BASE PER LA VALUTAZIONE Che cosa spinge a valutare ed a rendicontare? qual è l’origine dell’attività di valutazione e gli scopi che tale attività intende perseguire? Si vuole innanzitutto verificare quale sia l’utilità e l’efficacia dell’intervento pubblico ai vari livelli istituzionali (Stato, Comuni, Province e Regioni). L’utilità e l’efficacia vengono osservate nelle conseguenze da loro prodotte sui cittadini e nell’impatto sulle comunità. Molta importanza viene conferita all’impatto delle politiche pubbliche sulla vita dei cittadini. Preliminarmente occorre ricordare che si deve sempre tenere a mente la differenza fra “Stato regolatore” e “Stato interventista”. L’attività posta in essere dallo “Stato regolatore” è quella normativa (primaria e secondaria), mediante la quale vengono stabilite regole di condotta per i consociati. Si parla invece di “Stato interventista” nei casi in cui vi sia un intervento diretto nel sistema economico sociale. Lo Stato è convinto della bontà del proprio intervento nelle politiche sociali ed economiche. Ogni intervento pubblico solitamente ha l’ambizione/presunzione che le proprie azioni possano essere utili. Occorre, dunque, che vi sia una verifica effettiva di tale utilità, attraverso una specifica attività di valutazione ed un rendiconto effettivo. L’ ottimismo verso l’intervento statale vede nelle politiche pubbliche uno strumento in grado di correggere eventuali squilibri e/o disuguaglianze. In tal senso, la valutazione costituisce il mezzo attraverso il quale evidenziare i risultati ottenuti. 18 Il pessimismo verso l’intervento statale conduce ad un approccio secondo il quale è necessario valutare perché non è detto che le politiche pubbliche siano in grado di raggiungere l’obiettivo che si sono prefissate. BREVE EXCURSUS DELLE ISTITUZIONI CHE COMPIONO LA VALUTAZIONE DELLE POLITICHE PUBBLICHE I sistemi di monitoraggio e valutazione nascono in U.S.A. a partire dalla metà degli anni ’60 (grande utilizzo durante il periodo di amministrazione del Presidente Johnson). Questi sistemi iniziano ad essere presenti anche In Germania negli anni ’70 ed in Gran Bretagna, a partire dagli anni ’80, durante l’amministrazione Thatcher. In Gran Bretagna è ancora oggi operativo il “National Audit Office”. Nell’opera di Herbert Simon si rinvengono interessanti tracce della necessità di introdurre istituzioni deputate allo svolgimento della valutazione. Dalla biografia di questo autore emerge una figura di studioso quasi rinascimentale, interessato ed esperto di discipline differenti. La sua opera di maggiore importanza, rispetto agli argomenti che stiamo trattando, è il Manuale scritto a Chicago negli anni ’30 intitolato “valutazione delle attività dei comuni americani”. In U.S.A. sono presenti delle istituzioni preposte alla valutazione delle politiche pubbliche all’interno del Parlamento. Ad esempio, ricordiamo la General Accounting Office (GAO). Il settore privato viene invece giudicato dal mercato e dunque non necessita di una siffatta valutazione. In Italia siamo molto indietro, patiamo un ritardo tecnico temporale abissale rispetto alle esperienze di altri paesi (in particolare, rispetto all’esperienza U.S.A.) Non abbiamo purtroppo un sistema istituzionalizzato e organizzato che vada oltre la valutazione formale della Corte dei Conti (la quale, ricordiamo, è un’attività necessaria, espressamente prevista dalla Costituzione). Lo Stato deve poter dimostrare che un suo intervento è utile e giustificato e soprattutto deve dimostrare che un suo particolare intervento è preferibile ad altri. Si rende dunque necessaria un’analisi dell’impatto della regolamentazione. GLI SCOPI DELLA VALUTAZIONE L’analisi delle politiche pubbliche si propone quale specifica modalità di studio delle politiche (e della politica) attraverso cui vengono ricostruiti in profondità i processi di formulazione e implementazione delle decisioni aventi rilievo collettivo, al fine di spiegare le dinamiche del processo (come e perché viene presa una decisione, come viene attuata, qual è l’impatto del processo di politica pubblica sulla società, sul sistema politico, sul contesto ecologico delle politiche) e/o le caratteristiche del contenuto della politica pubblica (le risorse materiali e simboliche allocate nel processo, i risultati tangibili ed intangibili del processo rispetto alle aspettative dei destinatari, l’effetto di retroazione del contenuto rispetto alla società, al sistema politico, alle decisioni successive, al contesto ecologico delle politiche). Studiare le politiche significa, dunque, porre al centro dell’attenzione analitica gli elementi costitutivi dell’azione di policy: 19 In primis, i soggetti che vi partecipano, le loro caratteristiche, le loro idee e le loro interazioni, quindi i fattori, le regole decisionali, gli stili, le legacies, la natura delle questioni. Significa imputare a questi elementi, presi singolarmente oppure combinati tra loro, la capacità di influenzare o determinare gli esiti del processo decisionale. Alla base della valutazione vi è una motivazione molto forte, ovvero si tende al miglioramento della qualità dell’intervento pubblico. Il “ciclo della valutazione” intende porsi proprio questo obiettivo come risultato. Il ciclo della valutazione prevede che entro un determinato arco temporale venga compiuta una media in base ai risultati ottenuti ( i risultati possono ad esempio riferirsi ad esperienze di altri paesi). Ad esempio, la legge finanziaria prevede ogni anno uno stanziamento di 6.000.000,00 € per attività seminariali. Compiere un ciclo della valutazione su tali risorse permette di conoscere come esse sono state utilizzate negli anni passati. La valutazione ex ante È un giudizio preventivo relativo ad un intervento pubblico non ancora adottato. Gli obiettivi vanno necessariamente esplicitati, vi è la possibilità di attuare un confronto tra azioni alternative. La valutazione ex post È un giudizio retrospettivo avente ad oggetto solo interventi pubblici già adottati. Il giudizio “riepiloga” l’intero processo attuativo nonché le conseguenze attese e non attese delle azioni iniziali. Viene effettuato un confronto con gli obiettivi che ci si era inizialmente posti di raggiungere. 20 “Il ciclo della valutazione - 1” lezione del 9-3-2006, Dott. Espa A cura di Laura Miglio Per valutazione delle politiche pubbliche, si intende quel particolare procedimento di indagine conoscitiva finalizzato ad analizzare e, quindi, ad inquadrare, una determinata politica e il relativo andamento onde evidenziarne gli obiettivi e i risultati. Tale procedimento segue delle fasi proprie di un ciclo ben definito; la valutazione “ex-ante”, definita tale perché si riferisce ad un intervento pubblico non ancora adottato, si caratterizza per la determinazione degli obiettivi di una determinata politica e, dunque, la raccolta dei dati necessari al raggiungimento di questi porta al compimento di alcuni tentativi, gli esperimenti pilota, che testano la validità o meno della strategia ipotizzata. I dati necessari a tale indagine devono presentare i requisiti della: affidabilità; validità; tempestività. Il sistema, fin ora discutibile in termini di risultato, adottato dal nostro paese, vede l’esame dei provvedimenti in sede di “pre-Consiglio” e registra l’intervento, necessario, della Ragioneria generale dello Stato data la presenza di elementi di natura finanziaria (presenti ovviamente in qualsivoglia politica); tali provvedimenti, cui vengono unite delle relazioni di accompagnamento, riceveranno, poi, il parere delle strutture tecniche del Parlamento. Il ciclo della valutazione prosegue con la fase del cosiddetto “monitoraggio o valutazione in itinere” i cui risultati sono evidenziati, in seguito ad attuazione amministrativa, ovvero finanziaria, tramite indicatori ad hoc (finalizzati ad evidenziare e, quindi, a correggere, eventuali punti che, “in corsa”, risultano poco efficaci). La valutazione ex-post si traduce, infine, in un giudizio retrospettivo, di riepilogo dell’intero processo attuativo, rispetto al singolo intervento pubblico adottato. I risultati così ottenuti si confrontano con quegli obiettivi inizialmente posti per verificare l’effettiva corrispondenza e l’eventuale rispetto dei target inizialmente fissati. Alla base della valutazione, la definizione del “campo di azione” della politica e la ricerca delle principali definizioni che meglio possano inquadrarla, sono passi necessari per la formazione della cosiddetta “agenda delle politiche pubbliche”, ovvero per definire fra questa una scala di logiche (politiche) priorità. Nel rispetto di quest’ultima si costruisce la politica scelta che, definita in seno al Governo e, quindi, di natura squisitamente politica, viene discussa in Parlamento. Al termine della sua applicazione, i risultati evidenziati nell’arco della sua performance complessiva sono determinanti per la scelta di continuare, ovvero terminare la politica pubblica in questione. Affinché il processo sia efficace è importante che i programmi vengano disegnati tenendo conto della logica della valutazione; VFM sta per Value For Money, ovvero un metodo di valutazione che si concentra sull’eventuale uso sub-ottimale delle risorse applicate a una determinata politica e si concentra sul raggiungimento delle “tre E”: Economia;Efficienza;Efficacia. Il “logic model” è, infine lo scheletro adottato nel ciclo della valutazione di una o più politiche pubbliche; costituisce una sorta di modello organizzativo “focalizzato sugli elementi fondamentali di un programma e teso a identificare quali interrogativi porsi e provare di rispondere nell’attività di valutazione e quali misure della performance di un progetto/programma/politica sono davvero elementi chiave”. Elementi costitutivi del logic model sono: le risorse, sia umane che finanziarie, le attività, intese come azioni necessarie a generare i risultati attesi del programma e gli output, ovvero i prodotti, beni e servizi forniti direttamente alle persone interessate al programma come risultato dell’attuazione del programma. 21 “Il ciclo della valutazione - 2” lezione del 16-3-2006, Dott. Espa A cura di Costanza Ignazzi Il ciclo della valutazione implica varie tappe: si parte dalla costruzione di un’agenda delle politiche pubbliche e dalla definizione degli obiettivi da raggiungere per poi procedere con il disegno (e la conseguente scelta) delle politiche da porre in atto. Le politiche scelte vengono definite in seno al Governo e discusse in sede parlamentare prima di essere attuate. Segue il “monitoraggio” in corso d’opera della loro efficacia, la raccolta dei primi risultati e la valutazione degli effetti ed impatti delle politiche in questione (valutazione ex-post) . Si ha infine un responso definitivo circa le politiche poste in atto e sull’opportunità o meno della continuazione di esse, con eventuali indicazioni per il loro miglioramento. Per quanto riguarda il disegno dei programmi ai fini della valutazione è importante il cosiddetto “Value for Money”, che consiste nella stima dell’eventuale utilizzo sub-ottimale delle risorse applicate ad una determinata politica. L’obiettivo è il raggiungimento delle “3 E”: Economia, Efficienza ed Efficacia (alle quali può essere attribuita una diversa enfasi a seconda di circostanze e momenti). In tale contesto, entra in gioco la valutazione ex-ante, che deve prevedere effetti e conseguenze delle politiche pubbliche, ed il cui scopo è il miglioramento della qualità dei provvedimenti: si tratta quindi di capire bene ciò che si va a fare. Quest’aspetto della valutazione permette tra l’altro un maggiore controllo delle politiche pubbliche e dei loro risultati, e comporta la possibilità di scegliere la migliore tra diverse politiche alternative. Vi sono 3 grandi tipologie di valutazione ex-ante: 1. La proiezione: ossia una previsione basata sull’estrapolazione di tendenze attuali e passate. 2. La predizione: basata su chiare ipotesi teoriche, che possono consistere in “supposte leggi” o in ipotesi teoriche da sottoporre alla prima verifica. 3. Le congetture o intuizioni: basate su giudizi informati e/o di esperti. L’intuizione iniziale viene poi supportata dal confronto con gli stakeholders, ovvero le persone direttamente toccate dal progetto, programma o politica. Per la programmazione della valutazione sono necessarie una serie di pre-condizioni: innanzitutto la definizione di una scala di priorità; inoltre, sono fondamentali tempi e tempestività della valutazione, che deve correre coi tempi della politica (e quindi non è di tipo accademico). La valutazione ex-ante deve anche progettare attentamente la “distribuzione dei risultati”, che riguarda i policy makers e le strutture interne, le “categorie” di stakeholders ed i cittadini in senso ampio. In pratica la valutazione ex-ante definisce gli obiettivi di una politica pubblica: è fondamentale determinare ciò che il progetto vorrebbe raggiungere, in modo che possano partire diversi programmi, anche in competizione tra loro. La valutazione ex-ante definisce anche macro-obiettivi ed obiettivi più mirati, oppure obiettivi differenziati rispetto ad un’ “opzione zero” per le politiche esistenti (cioè la possibilità di non fare nulla). A seconda dei fenomeni gli obiettivi possono avere una diversa intensità nel tempo, possono essere di carattere strettamente finanziario o di miglioramento della qualità della regolamentazione o delle politiche pubbliche. Nella pubblica amministrazione spesso si utilizzano delle “carte d’acquisto” (purchasing cards): 22 strumenti di pagamento, rappresentativi della spesa pubblica assegnata ad una data unità previsionale, che riprendono il modello delle carte prepagate e vengono assegnate ad i responsabili dei centri di costo, consentendo di veicolare meglio le risorse, in modo da non creare debito e responsabilizzare le persone in possesso di esse. Un altro vantaggio è inoltre la possibilità, con questo sistema, di rendere più rapidi gli acquisti.8 Dopo la definizione degli obiettivi, la valutazione ex-ante procede con la raccolta dei dati: se sono già esistenti delle banche dati, i tempi vengono velocizzati, altrimenti è necessario costruire delle basi dati, il che allunga inevitabilmente i tempi della valutazione. E’ necessario notare che i dati devono essere di qualità: ossia affidabili, validi e tempestivi. In questo quadro è necessario anche parlare dell’AIR (Analisi di Impatto della Regolamentazione), che serve a verificare ex-ante l’opportunità di una regolamentazione, ossia a valutarne gli effetti in termini di vantaggi/svantaggi e costi/benefici, sia sui destinatari che su organizzazione e funzionamento della pubblica amministrazione. Per l’AIR occorre innanzitutto definire un ambito di intervento; poi si possono rilevare le esigenze sociali, economiche e giuridiche che motivano quest’ultimo. Vanno in seguito individuati gli obiettivi ed elaborate le opzioni regolatorie, i presupposti organizzativi, finanziari, economici e sociali delle opzioni rilevanti, così come le aree di criticità correlate all’intervento. Infine si seleziona tra le varie opzioni quella preferibile e si individua lo strumento tecnico-normativo più appropriato. Le principali opzioni di intervento sono molteplici: in questa lezione ci fermiamo all’opzione “nulla”, o “zero”: ovvero quella in cui si decide di non intervenire. In questo caso bisogna chiedersi se sia indispensabile un nuovo intervento e se vi siano effettive possibilità migliorative di un programma e di un’attuazione maggiormente efficace della normativa vigente. 8 Le carte di acquisto sono ad esempio utilizzate in Francia. 23 “La valutazione ex-ante e l’Analisi di Impatto della Regolamentazione” lezione del 23-3-2006, Dott. Espa A cura di Marco Sonsni L’analisi di impatto della regolamentazione (A.I.R.) L’obiettivo principale cui tende l’analisi di impatto della regolamentazione è quello di definire la migliore tra le possibili opzioni di intervento. Il ventaglio di queste è, naturalmente, assai ampio e variegato. A. OPZIONE “ZERO” Consiste semplicemente nel non-intervento da parte del policy-maker, e viene scelta qualora dalla valutazione ex ante risulti l’inopportunità di una qualsivoglia innovazione della regolamentazione. B. DEREGOLAMENTAZIONE Il termine, inteso stricto sensu, si è diffuso a partire dagli anni ’80, ed è stato originariamente associato ai programmi liberisti delle amministrazioni repubblicane negli Stati Uniti e di quelle conservatrici nel Regno Unito. In seguito, la prassi della deregolamentazione è tuttavia entrata a far parte del modus operandi delle classi dirigenti anglosassoni senza eccessive distinzioni di appartenenza politica; ricordiamo, in proposito, la grandiosa opera di semplificazione e di abrogazione di leggi federali promossa, al Congresso degli Stati Uniti, dal Presidente democratico Clinton e dal suo vice Al Gore negli anni del loro primo mandato (19921996). Un processo di deregolamentazione può prendere corpo, in ambito economico, sotto forma di una liberalizzazione dei mercati: in questo caso, in forza di una serie di atti legislativi o amministrativi, un certo settore viene liberato dalla regolamentazione statale sul piano giuridico – formale, ma anche sul piano sostanziale, in quanto la liberalizzazione interviene a modificare la struttura stessa del mercato. È peraltro inesatto dire che alla liberalizzazione corrisponda o faccia seguito uno snellimento dell’impianto normativo, perché una volta che il monopolio statale su un settore produttivo sia stato abolito, un corretto funzionamento del mercato concorrenziale dipenderà anche dall’efficacia di una serie di normative, come quella antitrust. C. OPZIONE “VOLONTARIA” Consiste nel non imporre regole ai soggetti interessati, ma nell’indurli a cambiare condotta mediante campagne di sensibilizzazione, o di sostegno all’innovazione (pensiamo alle campagne contro il fumo, oppure alla sensibilizzazione sui prezzi). Questa opzione può essere talvolta preferita ad un intervento normativo in quanto sicuramente più efficace in tempi brevi (data la lunghezza dell’iter legislativo). D. AUTOREGOLAMENTAZIONE SETTORIALE Con questa scelta ci si affida all’autodisciplina da parte dei gruppi interessati, che si esplica nella realizzazione di codici etici o deontologici. 24 E. INCENTIVI/DISINCENTIVI L’applicazione di incentivi e disincentivi rappresenta lo stadio ultimo di un’azione che non voglia affidarsi all’atto coercitivo di una legge. Ad esempio, un incentivo alle tecnologie non inquinanti può indurre le imprese a considerare vantaggioso un investimento anche massiccio in dette tecnologie, con la speranza che i profitti da esso ingenerati ripaghino i costi già a medio termine; per fare un altro esempio, l’introduzione di una detrazione fiscale sulle spese di manutenzione degli edifici può costituire un vero volano per l’edilizia e, insieme, un incentivo all’emersione del sommerso, perché le spese andranno dichiarate per poter essere detratte. Un intervento del genere esige una calibratura accorta, in quanto l’incentivo della detrazione fiscale ha un effetto diretto negativo sulle casse dello Stato e, dunque, si tratterà di individuare la soglia di detrazione entro la quale ci si aspetta che l’incentivo si ripaghi da solo (stando all’esempio di una detrazione IRPEF sulle spese di manutenzione degli edifici, entro una certa soglia la riduzione del gettito IRPEF potrà essere compensata da un incremento del gettito delle imposte indirette, indotto dall’espansione del settore edilizio). F. REGOLAMENTAZIONE TRAMITE OBBLIGO DI INFORMAZIONE Anziché fissare per legge degli standard qualitativi per un certo genere di prodotti, si possono obbligare le imprese produttrici a fornire ai consumatori i dati relativi alla filiera produttiva (si parla, in questo caso, di “tracciabilità” di un prodotto). G. REGOLAMENTAZIONE DIRETTA Possiamo scomporre ulteriormente questo punto in due tronconi: 1. Introduzione di regimi di autorizzazione o concessione, per indurre indirettamente le imprese a rispettare determinati standard qualitativi (questa era la strada seguita per spingere l’industria chimica italiana a dotarsi di impianti meno inquinanti); 2. Introduzione diretta di standard su comportamenti o prodotti: questa è, evidentemente, l’opzione che comporta il grado maggiore di intervento normativo dello Stato. Dal punto di vista metodologico, l’analisi di impatto della regolamentazione può essere ulteriormente implementata, al fine di una migliore comprensione dei risultati attesi, attraverso lo sviluppo delle tecniche di consultazione, o un’accurata analisi dei presupposti organizzativi di un dato intervento normativo, in assenza dei quali esso rimane, fatalmente, fine a se stesso (se, ad esempio, si vuole imporre uno standard, in fase di AIR ci si dovrà sincerare che il produttore della norma sia poi anche in grado di controllarne l’applicazione!) o, infine, approfondendo la valutazione dell’impatto sui destinatari dell’intervento. La valutazione ex ante nell’esperienza italiana. Un disegno di legge elaborato da un Ministero passa di solito, prima di approdare in Consiglio dei Ministri, un vaglio tecnico preventivo nella fase che viene definita di PRE-CONSIGLIO. Ciò significa che il disegno di legge viene concertato sia all’interno di una amministrazione (ad esempio l’ufficio legislativo di un ministero) sia tra un’amministrazione e l’altra. Una volta passato il pre-consiglio, il provvedimento ha 25 ottime probabilità di essere approvato dal consiglio dei ministri perché si intende già vagliato sotto un’ampia angolatura prospettica tecnico-politica. In pre-consiglio svolge un ruolo di particolare importanza la Ragioneria Generale dello Stato, che esamina preventivamente il provvedimento in merito ai risvolti finanziari, svolgendo una funzione di controllo che in qualche modo costituisce la traduzione operativa dell’obbligo di copertura finanziaria delle leggi imposto dall’art. 81 della Costituzione. Tale funzione, resa già particolarmente ostica dal fatto che i ministeri raramente assumono metodologie omogenee per la quantificazione degli oneri finanziari, è stata fatalmente vanificata in nome del “primato della politica”, con i ben noti effetti devastanti sulla finanza pubblica italiana (teoricamente, se la Ragioneria Generale dello Stato avesse sempre i mezzi per imporre i propri parametri di valutazione dei provvedimenti governativi, secondo lo spirito dell’articolo 81 della Costituzione, nessuna politica di spesa o minore entrata dovrebbe produrre disavanzi!). Ancor più arduo è il compito della Ragioneria nel caso della Legge Finanziaria, la cui valutazione ex-ante è completamente destituita di fondamento in quanto il testo che approda alle Camere è comunque destinato ad essere stravolto, magari anche da maxi-emendamenti dello stesso governo. Quando viene trasmesso al Parlamento, un provvedimento è di norma accompagnato da una serie di relazioni: Relazione illustrativa; Relazione tecnica (concernente la quantificazione degli oneri finanziari); (Relazione tecnico-normativa); (Analisi di Impatto della Regolamentazione). Ulteriori analisi valutative ex-ante vengono compiute dalle strutture tecniche del Parlamento: ricordiamo, ad esempio, la verifica della quantificazione degli oneri finanziari a cura dei servizi Bilancio, e, più in generale, lo screening dei disegni di legge governativi e dei progetti di legge di iniziativa parlamentare (per i quali manca, naturalmente, la fase di valutazione governativa del pre-consiglio). 26 “L’Analisi di Impatto della Regolamentazione” approfondimento delle tematiche trattate dal Dott. Espa nella lezione del 23-3-2006, A cura di Piercamillo Falasca Analisi d’impatto della regolamentazione L’analisi d’impatto della regolamentazione (AIR) è un insieme di attività che le amministrazioni realizzano nel corso della progettazione di atti di regolazione, normativi e non; essa consiste in una valutazione exante dei provvedimenti regolativi i quali, come noto, possono incidere in maniera significativa sulle condizioni di vita dei cittadini e sull’attività delle imprese, intervenendo sui comportamenti dei loro destinatari per regolarne gli aspetti strettamente economici (condizioni di accesso ai mercati, prezzi, concorrenza) ovvero le conseguenze sociali (in ambiti quali salute, sicurezza sul lavoro, ambiente e così via). L’AIR serve a verificare ex ante l’opportunità di un provvedimento di regolamentazione ovvero a valutarne, in termini di costi e benefici e di vantaggi e svantaggi, gli effetti sulle attività e sulle scelte degli individui e delle imprese, nonché sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni. Nei confronti dell'introduzione dell'AIR vengono comunemente sollevate alcune obiezioni. La prima è che l'AIR non basta per produrre buona regolazione. In effetti, l'AIR non è una condizione sufficiente per definire buone politiche pubbliche. Ma l'informazione ha un ruolo importante nel miglioramento della qualità dei provvedimenti regolativi: l'AIR aiuta a individuare e chiarire quali sono i fattori rilevanti per le decisioni, attraverso l'utilizzo di dati in modo da far emergere i vantaggi e gli svantaggi, cioè i benefici e i costi, derivanti da un determinato procedimento. Un’altra obiezione è che l'AIR sostituirebbe la decisione politica democratica con meccanismi tecnocratici. In realtà, la corretta effettuazione dell'AIR non precostituisce la scelta regolativa. Piuttosto essa mette il soggetto responsabile nella condizione di decidere in modo più informato, prendendo atto di alcuni fondamentali dati e stime sull'impatto probabile. A tali condizioni, non solo l'AIR non si sostituisce alle decisioni, ma rappresenta un importante fattore di miglioramento della loro qualità. Le prime esperienze e il ruolo dell’OCSE L’AIR nasce negli anni Ottanta da una progressiva presa di coscienza da parte di un crescente numero di istituzioni governative (fra le prime quelle di USA, Canada, Giappone, Australia e dei paesi del Nord Europa) delle difficoltà derivanti da un’abnorme e ingiustificata produzione normativa per lo sviluppo sociale ed economico. Un’attività normativa disorganica e indiscriminata conduce infatti ad un eccessivo appesantimento dei meccanismi di funzionamento dell’economia, fino ad ostacolare le opportunità di sviluppo e trasformazione socio-economiche, frenando così la crescita dell’economia. Alcuni di questi governi decisero di avviare un processo di riforma, basato sulla delegificazione e sulla deregolamentazione, a partire dall’analisi dei costi indotti ai vari comparti economici dalla regolazione pubblica. Inizialmente questo processo ha riguardato specifici comparti economici (su tutti, le telecomunicazioni, il trasporto aereo, il settore elettrico); solo in un secondo tempo è diventato parte integrante di qualsiasi processo di produzione normativa. All’inizio degli anni Novanta, su impulso delle esperienze nazionali così maturate, l’OCSE avviò azioni di sviluppo, incentivazione e promozione dell’AIR in tutti i governi, con l’obiettivo di migliorare il livello qualitativo della produzione legislativa e di arginare il fenomeno dell’ipertrofia normativa, diffuso in modo generalizzato in tutti i paesi industrializzati. Nel 1996 gli stati OCSE che avevano intrapreso questo processo di riforma adottando programmi di analisi di impatto della regolazione erano più della metà del totale. 27 Dal 1997 l’organizzazione censisce tutti i programmi di riforma regolativa avviati a livello nazionale, seguendone gli sviluppi mediante rapporti valutativi e tenendo aggiornata un’apposita banca-dati, disponibile sulle pagine del suo sito internet. In particolare, le esperienze nazionali censite dall’OCSE hanno evidenziato che, se opportunamente applicata, l’AIR è in grado di migliorare non solo la qualità delle regolazioni ma più in generale le condizioni di competitività e di sviluppo economico in un contesto ormai fortemente orientato all’innovazione e alla globalizzazione. L’AIR a livello comunitario In Europa, alle raccomandazioni dell’OCSE, finalizzate all’introduzione di un processo valutativo degli effetti regolativi, si è aggiunta l’esigenza manifestata dal Consiglio europeo di Stoccolma del marzo 2001 di definire i principi comuni a tutti gli Stati membri per migliorare la trasparenza del sistema normativo, indicando nell’AIR uno strumento fondamentale per una produzione normativa chiara, semplice ed efficace. Nel giugno 2002, facendo tesoro dei primi pareri ricevuti nel corso della consultazione sul Libro Bianco attorno al tema “legiferare meglio”, la Commissione ha previsto l’istituzione di uno strumento di analisi di impatto integrato e proporzionato sulle iniziative legislative e politiche della Commissione medesima che, oltre a coprire le dimensioni dell’analisi d’impatto regolamentare e dello sviluppo sostenibile (economico, sociale e ambientale), integri gli strumenti ed i metodi esistenti per aiutare a determinare l’opportunità di agire a livello comunitario, nel rispetto del Trattato e dei principi di sussidiarietà e proporzionalità. L’AIR nella legislazione italiana Similmente a quanto già presente in altri Paesi e seguendo le raccomandazioni dell'Unione europea e dell'OCSE, si è progressivamente avvertita, anche nel nostro Paese, l'esigenza di analizzare i riflessi che singole leggi o provvedimenti di normazione in genere possono produrre nei contesti sociali ed economici sui quali ricadono. È con l'articolo 5 della L. 50/99, emanata in attuazione della legge L. 59/97 (c.d. Bassanini uno), e sotto la spinta delle raccomandazioni espresse dagli organismi internazionali sopra menzionati, che il nostro ordinamento ha affrontato, in maniera organica, il problema dell'analisi dell'impatto della regolamentazione. A dare attuazione alle disposizioni della legge n. 50/99 hanno provveduto due importanti Direttive della Presidenza del Consiglio dei Ministri: "Analisi tecnico-normativa e analisi dell'impatto e della regolamentazione" del 27 marzo 2000; "Direttiva sulla sperimentazione dell'analisi di impatto della regolamentazione sui cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni" del 21 settembre 2001. Le Direttive prevedono: l'introduzione dell'Analisi Tecnico-Normativa (ATN), da condursi anche alla luce della giurisprudenza, volta ad analizzare la necessità dell'intervento normativo, l'incidenza delle norme proposte sulle leggi e i regolamenti vigenti, la compatibilità dell'intervento con l'ordinamento comunitario, la compatibilità con le competenze di altri soggetti dotati di potestà legislativa, la verifica dell'assenza di rilegificazione e dell'utilizzabilità delle possibilità di delegificazione; gli elementi da considerare nell'Analisi dell'Impatto della Regolamentazione (AIR), di cui discuteremo nel proseguo di questa breve trattazione; l'introduzione del monitoraggio e verifica ex post dell'impatto della regolamentazione (VIR). 28 Nozione di regolazione ai fini dell’Air L’approccio teorico seguito da larga parte della dottrina giuridica ed economica tende a delineare una nozione molto ampia di regolazione che finisce per identificare larga parte del diritto, dell’economia, del lavoro, dei consumatori, dell’ambiente, della sanità, della previdenza e dell’assistenza sociale. In questa direzione si muove anche l’OCSE che considera la regolazione come “the diverse set of instruments by which governments set requirements in enterprises and citizens”, ricomprendendovi “leggi, provvedimenti formali ed informali e le norme delegate emesse da tutti i livelli governativi e da organismi non governativi o di autoregolazione ai quali i governi hanno delegato poteri di regolazione”. È stato osservato come una tale definizione, che comprende tutti gli interventi pubblici, renda la nozione eccessivamente ampia perché finisce per includere tutto il diritto pubblico dell’economia. Quanto alla regolazione economica, ad esempio, questo approccio include nell’ampia nozione anche gli interventi adottati in attuazione della disciplina della concorrenza che, lungi dal “conformare” a contenuti specifici lo svolgimento di determinate attività (come è per la regolazione), si limita a “segnare il confine generale delle libere scelte attuabili dagli operatori economici”. Delineare una nozione ampia di regolazione non significa, peraltro, che a questa debba necessariamente corrispondere una valutazione di impatto, potendosi ben immaginare una sua limitazione in base al parametro della rilevanza della norma sui destinatari. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ad esempio, sono sottoposte a valutazione le sole major rules; a livello comunitario viene proposta l’esclusione delle proposte urgenti, di minimo rilievo o riguardanti atti direttamente previsti dal Trattato. La nozione che emerge dalla disciplina delineata dal legislatore italiano si muove nell’ambito di una nozione ampia di regolazione. Sono, in particolare, comprese: - “regolazioni normative” su richiesta delle Commissioni parlamentari (schemi di atti normativi e progetti di legge); - “regolazioni amministrative” vincolanti (schemi di atti normativi adottati dal Governo e di regolamenti ministeriali ed interministeriali; atti amministrativi generali delle autorità indipendenti di regolazione); - “regolazioni amministrative” non vincolanti (circolari e regole tecniche contenute in atti non normativi). Non rientrano nell’ambito di applicazione oggettivo dell’Air gli atti amministrativi individuali delle amministrazioni centrali e gli atti amministrativi individuali di controllo, sanzionatori o paragiurisdizionali delle autorità indipendenti. Nei provvedimenti individuali, dunque, la ponderazione dell’impatto sul mercato di riferimento, sul destinatario o sui destinatari espressamente individuati e sullo stesso regolatore si sostanzia in una valutazione in termini di proporzionalità, imparzialità e buon andamento. È possibile distinguere - in funzione degli obiettivi o degli interessi tutelati - una regolazione a carattere economico, da quella sociale ed amministrativa. La classificazione, tratta dai documenti OCSE, porta a definire: la regolazione economica, la quale interviene direttamente sulle decisioni di mercato attraverso la regolazione delle condizioni di accesso (entrata ed uscita) o le limitazioni all’esercizio dell’attività (come i prezzi, gli obblighi servizio pubblico, gli orari). In campo economico, la regolamentazione ha spesso l’obiettivo di correggere squilibri – reali o politicamente percepiti - che potrebbero manifestarsi in seguito al funzionamento delle dinamiche di mercato, soprattutto in ambiti caratterizzati dalla presenza di condizioni che possono condurre a fallimenti di mercato. la regolazione sociale, comprensiva degli interventi tesi alla cura di interessi pubblici prevalenti, quali la salute, la sicurezza dei lavoratori, la protezione ambientale, la coesione sociale; la regolazione amministrativa, con la quale i pubblici poteri impongono una serie di adempimenti amministrativi, attraverso cui raccogliere informazioni e intervenire nelle decisioni economiche degli operatori (i cosiddetti red tape); 29 Vi è ovviamente una estrema varietà di strumenti utilizzati e utilizzabili per affrontare un problema di regolazione. In particolare, si può individuare una tassonomia delle opzioni di regolamentazione, in cui i vari strumenti vengono allineati su un asse volontarietà-obbligatorietà. Gli interventi squisitamente volontari sono quelli che si attuano senza un intervento diretto dello stato mentre quelli totalmente obbligatori non lasciano alcuno spazio alla discrezionalità dell’individuo e delle imprese. Tra i due estremi si situa una serie di strumenti intermedi che combinano l’intervento pubblico con l’azione dei privati. 1. Opzioni “volontarie” volontarietà 2. Opzioni di autoregolazione 3. Opzioni di incentivo 4. Opzioni di regolazione tramite obbligo di informazione 5. Opzioni di regolazione diretta coercizione Ovviamente, nell’analizzare l’impatto di un provvedimento va considerata l’opzione nulla. Valutare le possibilità migliorative di una politica pubblica, di un programma o di un progetto, vuole anche dire rapportarle all’ipotesi di non intervento. Potrebbe infatti essere non indispensabile un nuovo strumento, concentrandosi – magari – su una più efficace attuazione della normativa vigente. Esiste infine il caso in cui l’intervento consiste in una deregolamentazione o semplificazione del quadro normativo di un determinato settore, attraverso l’eliminazione o lo snellimento delle norme in vigore. Il caso più evidente è rappresentato dalla cosiddetta liberalizzazione, quando cioè lo stato si astiene da qualsiasi intervento, lasciando spazio alla piena discrezionalità dei soggetti privati. Tutte le opzioni, esclusa quella nulla, possono ovviamente presentarsi in forma mista. Inoltre, è possibile che all'interno di una stessa opzione siano ipotizzabili gradi di intensità diversi del premio o della punizione, che andranno valutati e comparati tra di loro. Analizziamo nel dettaglio le diverse opzioni: 1. Opzioni volontarie Si tratta di quegli strumenti che, anziché imporre direttamente una particolare regola ai soggetti interessati, li inducano in modo indiretto a cambiare condotta. Howlett e Ramesh (1995) parlano di informazione ed esortazione. La diffusione di informazioni è uno strumento passivo in quanto consiste nel fornire informazioni ad individui e imprese con l’intento di cambiarne il comportamento nel senso auspicato. Le notizie date sono spesso di natura generale, tese a informare correttamente la popolazione e permetterle, quindi, di compiere scelte consapevoli: utilizzando un concetto proprio della teoria economica, potremmo dire che si tratta del tentativo di ridurre l’asimmetria informativa dei privati. L’esortazione (o persuasione) implica un livello leggermente maggiore di attività da parte del governo rispetto alla diffusione delle informazioni; essa comporta il tentativo più esplicito di modificare le preferenze e le azioni dei soggetti. Alcuni esempi di esortazione sono le campagne di sensibilizzazione, di promozione della salute, di miglioramento della qualità, a favore dell’uso dei mezzi di trasporto pubblici, etc. Howlett e Ramesh sottolineano come vanno annoverati tra le forme di esortazione anche gli incontri e le consultazioni tra governo e rappresentanti di interessi (dall’industria al commercio, alla finanza, ai sindacati ed ai consumatori), quando con questi incontri il governo cerca di indurre determinati comportamenti della 30 controparte (es. collaborazione tra il governo e l’associazione dei commercianti per la lotta all’aumento ingiustificato dei prezzi di un determinato settore). 2. Opzioni di autoregolazione Alcune misure si rimettono all'autodisciplina, più o meno istituzionalizzata, di gruppi di destinatari che talora coincidono con sub-settori di attività economica. Le soluzioni di autoregolazione presentano il vantaggio di essere proposte da soggetti che conoscono per esperienza diretta i problemi e i possibili costi di forme di regolazione alternative e più invadenti. L'autoregolazione risulta dunque interessante sotto l'aspetto del contenimento dei costi (sia per le autorità pubbliche, sia per i soggetti regolati). Un presupposto necessario per la riuscita di un'opzione di autoregolazione è l'esistenza e la rappresentatività delle associazioni di categoria nel settore oggetto dell'intervento. Va tuttavia considerato che le soluzioni autoregolatorie possono essere anche utilizzate in senso improprio, per mantenere o accrescere posizioni di vantaggio. Ad esempio, l'imposizione di marchi di qualità o di norme di comportamento possono talvolta porre barriere improprie all'ingresso di nuovi concorrenti, limitando così la concorrenza potenziale (nella stima dei principali costi e benefici di queste opzioni bisognerà pertanto prestare particolare attenzione alla individuazione dei costi attinenti alla struttura dei mercati). Inoltre, le regole a base volontaria la cui natura giuridica non sia nettamente definita possono creare situazioni di incertezza. Infine, il fatto che l'adesione sia facoltativa rende meno certa l'osservanza della normativa. Una interessante soluzione di autoregolamentazione consiste nel richiedere ad associazioni di categoria o ad organi rappresentativi dei destinatari diretti la stesura di codici di comportamento che rispettino requisiti minimi stabiliti dall'amministrazione. In un secondo momento e prima della entrata in vigore del codice di autoregolamentazione, l'amministrazione controllerà la rispondenza del codice ai requisiti richiesti. Visto che l'autoregolamentazione da parte di associazioni di settore comporta talora il rischio di accordi collusivi che ostacolano l'accesso e diminuiscono la competizione nel mercato considerato, i requisiti stabiliti dall'amministrazione dovrebbero essere disegnati in maniera da minimizzare tale rischio. A fini esemplificativi, si citano le seguenti possibilità: autoregolamentazione del settore secondo norme elaborate da organismi specializzati indipendenti (come il Giurì nel campo della pubblicità); codici di comportamento ad adesione volontaria, vigenti entro associazioni di categoria; codici deontologici o codici etici che contengano regole di comportamento per operatori di un dato settore; definizione di standard (sanitari, di sicurezza, ambientali, etc.) il cui rispetto non sia coattivo, ma la cui adozione si fondi sul principio di competizione (ad esempio, tra imprese che desiderino segnalare la qualità del proprio prodotto); codici di pratiche che abbiano effetti giuridici indiretti (ad esempio valendo come canoni di diligenza, o come mezzi di prova, ovvero indicando le circostanze in cui una autorità pubblica entra in azione). 3. Opzioni di incentivo (o di disincentivo) Con il termine incentivo si intende qualsiasi forma di trasferimento di denaro dal governo (o da altri soggetti che agiscono per conto del governo) a favore di individui, imprese o organizzazioni. Lo scopo del trasferimento è compensare dal punto di vista finanziario il compimento di un’attività desiderabile o l’astensione da un certo tipo di comportamento, agendo quindi sulla valutazione costi-benefici delle alternative possibili per gli attori sociali. La decisione finale spetta agli agenti privati ma la presenza del sussidio aumenta le possibilità che gli agenti decidano di optare per l’opzione auspicata dal decisore pubblico. Una delle forme principali di sussidio è il finanziamento (es. contributi economici offerti ad una certa categoria di imprese perché adeguino la loro produzione a determinati standard di qualità o prestiti a tassi 31 agevolati a chi decide di sostituire una tecnologia altamente inquinante); un’altra è costituita dalle agevolazioni fiscali. Come nelle opzioni precedenti, non si tratta di una coercizione, anche se il grado di coinvolgimento diretto del governo aumenta considerevolmente: vi è, anzitutto, la necessità di coprire finanziariamente l’intervento (con fonti nuove o già esistenti o, nel caso delle agevolazioni fiscali, valutando l’impatto dei mancati introiti); secondo, anche il costo della raccolta di informazioni che servono a definire beneficiari ed ammontare dell’incentivo o i costi di amministrazione ed enforcement potrebbero essere considerevoli. Gli incentivi, ad ogni modo, sono uno strumento flessibile perché gli agenti privati che vi aderiscono decidono autonomamente come comportarsi alla luce della possibilità di beneficiare del sussidio. Ovviamente, rispetto ai casi precedenti, i sussidi presentano un maggior grado di rischio di distorsione delle scelte degli agenti economici che potrebbero essere indotti dal sussidio ad un certo comportamento cui, in assenza di incentivo, non darebbero corso. Questo potrebbe avere considerevoli costi in termini di efficienza economica. Ancora Howlett e Ramesh sottolineano come sia fondamentale definire l’esatta entità del sussidio, per evitare che si dia vita ad incentivi ridondanti, in quei casi in cui alcuni o tutti i soggetti - cui l’intervento pubblico si rivolge - avrebbero posto in essere il comportamento desiderato dal governo anche in assenza di incentivo. 4. Opzioni di regolazione tramite obbligo di informazione Un'esigenza di regolamentazione può nascere dal fatto che alcuni - tipicamente coloro che erogano un bene o un servizio - possiedono maggiore informazione (ad esempio sulle componenti, le procedure di preparazione, la rischiosità di un prodotto) di altri (in genere i consumatori ed i risparmiatori) e non hanno interesse a fornirle ai secondi, anche in condizioni di mercato concorrenziale. È il classico caso di asimmetria informativa. Obbligare chi vende un bene o servizio a fornire certe informazioni-chiave è una alternativa alla fissazione di standard minimi di qualità. Si tratta di una forma di regolamentazione poco invadente per il produttore che non restringe la scelta del consumatore. Rispetto alle opzioni precedenti, questo intervento ha un carattere impositivo, seppure minore del caso che analizzeremo successivamente. 5. Opzioni di regolazione diretta Secondo Reagan (1987), la regolazione diretta è “un processo o attività con cui un governo richiede o prescrive una certa azione o un certo comportamento all’individuo e alle istituzioni, soprattutto private ma a volte anche pubbliche”. La regolazione si configura, pertanto, come un comando da parte del governo a cui i soggetti interessati devono adeguarsi; il mancato adeguamento comporta solitamente una sanzione. Da questa definizione si capisce il motivo per cui nello schema precedente si è attribuito a questa opzione il livello massimo di coercizione. Tipologie di interventi di regolazione diretta sono l’imposizione di standard, regimi di autorizzazione o di concessione, permessi, proibizioni. Risulta generalmente più efficiente, quando possibile, richiedere ai soggetti destinatari il raggiungimento di un dato risultato rispetto all'imposizione di una specifica tecnica produttiva o tecnologia che si prevede possa conseguire il medesimo esito (ad esempio, una riduzione dell'inquinamento). L'indicazione degli obiettivi rispetto a quella degli strumenti per ottenerli può incoraggiare la ricerca di soluzioni alternative meno costose ed evita di introdurre il problema dell'aggiornamento normativo, legato all'obsolescenza degli strumenti prescritti. La seconda tecnica di regolamentazione diretta consiste nel sottoporre ad autorizzazione l'attività da regolare, con l'obiettivo di evitare l'introduzione sul mercato di prodotti dotati di caratteristiche indesiderate. È peraltro evidente come ciò restringa l'accesso al mercato (nuovi produttori o prodotti dovranno attendere di essere autorizzati) e di conseguenza la concorrenza. 32 Un'ulteriore tipologia di intervento prevede l'affidamento di una attività economica in concessione ad un singolo soggetto. Questa opzione va limitata ai soli casi in cui un mercato libero è impraticabile, ad esempio per l'esistenza, per motivi tecnici (tecnologici), di una unica rete di distribuzione di un bene. Le concessioni devono essere affidate, quando sia possibile, attraverso procedure competitive e comunque per periodi di tempo limitati. In termini di efficienza economica, al regime di concessione è preferibile quello di autorizzazione (se praticabile, ovviamente). Le fasi dell’AIR nello schema italiano Seguendo la Direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 21 settembre 2001, si possono distinguere due fasi dell’AIR: la fase preliminare e la fase conclusiva. In particolare, nella fase preliminare dell'istruttoria, l'AIR contribuisce ad individuare gli elementi necessari per una scelta consapevole dell'opzione idonea al conseguimento delle finalità prefissate. Ai fini dell'AIR, l'amministrazione - avvalendosi anche di forme di consultazione idonee - dovrà effettuare le seguenti operazioni: - definire l'ambito dell'intervento, e cioè determinare i confini oggettivi (attività interessate, ambito territoriale, settori economici) e soggettivi (platea degli attori sociali ed economici, amministrazioni pubbliche), entro i quali esso esplicherà prevedibilmente i propri effetti. - rilevare le esigenze sociali, economiche e giuridiche che motivano l'intervento; da questo punto di vista è fondamentale, unitamente all’analisi costi/benefici, l’uso di forme di consultazione pubblica rivolte ai soggetti più o meno direttamente coinvolti dalle nuove proposte di intervento regolative (c.d. stakeholders, anche se non dotati di un potere formale di decisione). È una procedura raccomandata in tutti i documenti ufficiali dell’ OCSE e dell’UE, nonché nelle guide sull’AIR predisposte dai governi nazionali, come uno strumento fondamentale per le valutazioni di impatto. In molti casi, inoltre, proprio esigenze di miglioramento delle procedure di consultazione hanno ispirato proposte di riforma del processo regolativo e, contestualmente, dell’AIR. - individuare gli obiettivi generali e specifici, immediati e di medio/lungo periodo dell'intervento. - elaborare le opzioni regolatorie e le opzioni alternative alla regolamentazione (dalla c.d. opzione zero alle altre opzioni analizzate). - individuare i presupposti organizzativi, finanziari, economici e sociali delle opzioni rilevanti. - individuare le aree di criticità correlate all'intervento. La presenza di criticità e il grado di queste (basso, medio-alto, non superabile) qualifica come attuabili, difficoltosi o non realizzabili gli adeguamenti necessari per la realizzazione di ciascuna opzione rilevante. L'amministrazione correderà ciascuna opzione di una valutazione delle criticità, ai fini del successivo confronto tra le opzioni. Scartate le opzioni che richiedano adeguamenti non realizzabili, andranno valutate con attenzione quelle che comporterebbero adeguamenti difficoltosi e rimarranno così opzioni attuabili. - valutare in termini conclusivi le opzioni attuabili e selezionare quella preferibile. Vantaggi e svantaggi di ciascuna opzione possono essere espressi in termini quantitativi, purché sussista uniformità di criterio, così da assicurale la possibilità di un confronto. In particolari casi, qualora i benefici dell'intervento risultino equivalenti per ogni opzione, l'amministrazione potrà focalizzare lo sforzo analitico limitandosi alla sola esplicitazione quantitativa dei costi per i destinatari diretti (costi di conformità); sarà allora ammesso spostare l'attenzione dell'analisi sul solo differenziale di costi tra le diverse opzioni. Nei casi in cui 33 dati ed elementi quantitativi risultino particolarmente deficitari, la valutazione dovrà assumere un forte contenuto qualitativo. - individuare lo strumento tecnico-normativo più funzionale all’inserimento della nuova disciplina nell’ordinamento. - documentare le attività svolte. Nella fase conclusiva dell'istruttoria, l'AIR serve ad individuare e approfondire gli effetti attesi dell'opzione preferita sulle strutture amministrative e sulle categorie di soggetti direttamente ed indirettamente coinvolti. In altre parole, gli elementi raccolti nella fase preliminare dell'istruttoria normativa andranno riconsiderati e verificati, approfondendone l'analisi. Il risultato di tale attività costituisce uno degli elementi in base ai quali verrà decisa l'opportunità dell'intervento. L'amministrazione, quindi, dovrà realizzare le seguenti ulteriori operazioni: - definire in modo puntuale l'ambito dell'opzione preferita: in particolare, dovranno essere indicate le categorie di soggetti potenzialmente coinvolti sotto il profilo sociale ed economico. - definire in modo puntuale gli obiettivi e i risultati attesi. I risultati attesi, riferiti ad un arco temporale determinato, dovranno essere corredati di opportuni indicatori (indicatori risultato): è essenziale che questi siano formulati in modo da consentire la misurazione dello scostamento tra risultati attesi e risultati raggiunti, finalizzata alla valutazione degli effetti dell'intervento. - individuare una appropriata metodologia di analisi. - valutare gli effetti sull'organizzazione e sull'attività delle pubbliche amministrazioni, individuando le misure necessarie al superamento delle criticità. Tali misure potrebbero consistere in: interventi formativi mirati, revisione delle procedure, ristrutturazione organizzativa con riferimento alla distribuzione territoriale degli uffici e del personale, introduzione di nuovi modelli organizzativi, reclutamento di nuovo personale e/o stipula di contratti con personale esterno (nel caso in cui sia dotato di specifiche professionalità), appropriate dotazioni finanziare. - valutare l'impatto sui destinatari. L'amministrazione dovrà simulare l'adozione dell'atto e quindi stimarne l'impatto sui destinatari, cioè misurare i suoi effetti in termini di vantaggi e svantaggi attesi, utilizzando la metodologia precedentemente scelta. A tal fine, dovrà procedere ad una valutazione più accurata dei principali costi (svantaggi) e benefici (vantaggi) già registrati nella istruttoria preliminare e ad una valutazione dei costi e benefici precedentemente non quantificati. In assenza di una quantificazione dei costi e dei benefici in termini monetari, occorre individuare uno o più indicatori fisici (ad esempio, numero di vite umane salvate). Quando neanche gli indicatori fisici sono disponibili, i costi e i benefici dovranno essere specificati in base alle loro proprietà qualitative. I possibili costi e benefici astrattamente concepibili sono potenzialmente infiniti. Per ciò, l'analisi dei costi e dei benefici non è un'attività semplice, né tale da dare sempre esiti scontati. Ad esempio, può accadere che l'ampiezza dei costi e benefici dipenda strettamente dal modo in cui le amministrazioni daranno effettiva attuazione al provvedimento regolativo. Inoltre, soggetti diversi possono considerare come adeguati criteri e metodi differenti. Per questo, occorre rendere trasparente e omogeneo il percorso d'analisi - ivi comprese le tecniche di reperimento delle informazioni - tra le varie amministrazioni. L'amministrazione deve quindi valutare l'impatto dell'intervento normativo sui cittadini e sulle imprese, nonché sulle pubbliche amministrazioni in quanto destinatarie del provvedimento. 34 In concreto, devono cioè essere valutati gli effetti del possibile provvedimento espressi in termini di costi e di benefici attesi (sia che siano diretti, ossia derivanti dagli adempimenti specificatamente richiesti dal provvedimento e ricadenti sui destinatari dello stesso, o indiretti; i costi diretti, inoltre, possono essere classificati in deliberati o collaterali, cioè quelli che l’atto produce sui destinatari diretti, ma che non sono stati esplicitamente previsti in sede di elaborazione del provvedimento). - documentare le attività svolte. Bibliografia Espa E. – Dalla lezione di Valutazione delle Politiche Pubbliche del 16 marzo 2006, Master Parlamento e Politiche Pubbliche, Luiss, Roma. Howlett M. e Ramesh M. (1995) – Come studiare le politiche pubbliche – Ed. Il Mulino. Reagan M.D. (1987) – Regulation: The Politics of Policy – Boston, MA, Little, Brown; da Howlett M. e Ramesh M. (1995) – Come studiare le politiche pubbliche – Ed. Il Mulino. Presidenza del Consiglio del Ministri - Direttiva sulla sperimentazione dell'analisi di impatto della regolamentazione sui cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni del 21 settembre 2001. La Spina A., Cavatorto S. et al. (2001) – La consultazione nell’analisi dell’impatto della regolamentazione – Dipartimento della Funzione Pubblica, Ufficio per l’innovazione delle Pubbliche Amministrazioni, Presidenza del Consiglio dei Ministri. Rangone N. - La categoria della regolazione economica e l’impatto sui destinatari. 35 “Il monitoraggio delle politiche pubbliche” lezione del 6-4-2006, Dott. Espa Resoconto ed Approfondimenti a cura di Anguel Beremliysky I. Definizione: Il processo di monitoraggio è parte integrante del ciclo di valutazione delle politiche pubbliche. Esso consiste più generalmente in un controllo in itinere, quindi nella sua fase di implementazione, di un progetto/programma/politica pubblica adottato. Questo significa che il monitoraggio consente di eseguire correzioni in corso d’opera. Le diverse tipologie di misurazioni, interventi e correzioni saranno esaminati più approfonditamente in seguito, ma possono intanto essere riassunte in: i) del processo (vero e proprio monitoraggio in itinere) che in alcuni casi viene definito valutazione del processo (o in itinere); e ii) dei (primi) risultati (per mettere in moto il feed – back), che appare anche come valutazione intermedia. Come si vedrà più avanti, questo carattere duale del processo è uno dei suoi aspetti fondamentali: II. Processo di monitoraggio Nel corso dell’attuazione di una determinata policy o di un intervento si può provvedere all’effettuazione di una valutazione in itinere (on going). La stessa è di norma rivolta al perseguimento di finalità di controllo manageriale, e serve per tenere sotto osservazione i principali indicatori di attuazione della politica o dell’intervento in questione (Palumbo 2002, p.197). Definita anche valutazione di processo, ad essa viene spesso assegnata anche la funzione di individuare e segnalare le anomalie, e di far scattare eventuali interventi correttivi, soprattutto se questi ultimi sono di competenza dei responsabili dell’attuazione (ossia i managers) della policy e non richiedono l’intervento dei decisori (decision-makers) e pertanto avvengono in una fase distinta rispetto a quella eventualmente riservata ad una valutazione intermedia dei risultati. Questa differenziazione ci aiuta a comprendere il carattere più strettamente operativo e gestionale del monitoraggio del processo. Esso infatti potrebbe riguardare sia l’efficienza dell’impiego e dell’utilizzo degli inputs inizialmente previsti, come anche i livelli raggiunti di efficacia interna o manageriale, ossia “quella relativa agli obiettivi operativi, la cui realizzazione è assegnata al dirigente” (Mussari, 2006). In questo modo la valutazione in itinere contribuisce al rafforzamento del principio di responsabilità interna di esecuzione di un programma o di implementazione di una politica pubblica. 36 Questa sua particolare caratteristica aiuta a tenerla ben distinta dalla valutazione intermedia (mid-term evaluation), a sua volta concepita quale pratica che necessita di una più accentuata formalizzazione, tradotta in uno o più documenti specifici sui risultati di un’attività di valutazione condotta nel corso dell’attuazione del programma e specificamente mirata a portare ad eventuali modifiche nella stessa impostazione della policy o dell’intervento. Ecco perché il monitoraggio dei risultati viene eseguito in fasi appositamente scelte come opportune, mentre nel caso di quello inerente al processo vi è una frequenza più elevata che potrebbe trasformarsi, ove le esigenze di implementazione del programma o le preferenze dei policy-makers lo ritengano necessario, in un processo continuo. In sintesi, la valutazione in itinere si pone il quesito se tutto funzioni come previsto e quali interventi possano assicurare il superamento di eventuali ritardi, anomalie, malfunzionamenti; non mette cioè in discussione gli obiettivi del programma, né le sue modalità di attuazione. Queste ultime possono essere invece oggetto di una valutazione intermedia. III. Fasi e contenuti del monitoraggio Una delle più note ed accettate classificazioni valutative riguarda le sue fasi temporali (Palumbo 2002, p.196). In realtà non è corretto definirle fasi temporali, come se l’una fosse necessariamente successiva all’altra, e la logica di ciascuna fosse collegabile al semplice fluire nel tempo, piuttosto che ad obiettivi valutativi specifici; comunque sia è pacifico che ciascuna fase si riferisce ad un determinato stadio, anche temporale, della politica pubblica o del programma valutato. La situazione ottimale prevede ovviamente un processo armonico rispetto allo sviluppo dell’intervento e non un intervento solo nelle singole fasi. In sintesi, le fasi potrebbero essere descritte come: - intervento della valutazione all’inizio per fornire un giudizio sulla praticabilità; intervento in corso per verificare se tutto proceda secondo il piano; intervento al termine dell’attuazione per scoprire in quale misura abbia funzionato e quali siano stati gli effetti che ha prodotto. Per comprendere ancora meglio la tempistica e i punti su cui si concentrano i processi di monitoraggio, si potrebbe prendere in considerazione la distinzione a seconda del livello di obiettivi e della portata del risultato, operata ad esempio dalla Commissione Europea nelle indicazioni metodologiche della c.d. collezione MEANS (Commissione 1999). Lì viene proposta la seguente classificazione: (segue Tabella 1) 37 Termine Output Definizione Il prodotto dell’attività degli operatori, ottenuto realizzazione in contropartita del finanziamento erogato Risultato I vantaggi immediati che hanno tratto i destinatari del programma Effetti Impatti specifici: conseguenze che si manifestano nel breve periodo tra i destinatari Impatto Impatti globali: conseguenze non solo tra i destinatari, ma anche tra attori e organizzazioni non direttamente interessati Tabella 1 Definizioni terminologiche di risultati. Fonte: Palumbo, M. (2002) Il processo di valutazione. Decidere, programmare, valutare. Milano, Franco Angeli. Lo schema riportato di seguito, invece, ci aiuta a individuare la corrispondenza che esiste tra risultati e obiettivi. Schema 1 Tempi e obiettivi della valutazione. Fonte: Commissione Europea (2000), Il nuovo periodo di programmazione 2000-2006: Il nuovo periodo di programmazione 2000-2006: documenti di lavoro metodologici: Documento n.3: Indicatori per la sorveglianza e la valutazione: una metodologia orientativa. 38 Operando con questa pluralità di tipologie e riconoscendo la difformità tra i diversi autori in ordine ai contenuti dei vari tipi di valutazione, Bezzi (op.cit.) ha cercato di svolgere un lavoro di assemblaggio ai fini di fare più chiarezza. Egli ha pertanto individuato una fase di valutazione in itinere che si verifica dopo il processo di valutazione ex ante e, quindi, a processo attuativo avviato. Il monitoraggio del processo in questo caso offre uno strumento di controllo di regolarità da parte dei managers e si concentra sulle operazioni del programma, mentre subito dopo arriva l’analisi delle realizzazioni come primi risultati, da sottoporre alla verifica (vedi Figura 1). Nell’insistere su tale necessità, Palumbo (2002, p. 203) sottolinea la distinzione fra “la valutazione in itinere del processo, che interessa direttamente i gestori del progetto e si sviluppa secondo logiche di controllo manageriale e learning (...) e la valutazione intermedia dei risultati del programma che si sta realizzando, che interessa principalmente gli stakehoder e i destinatari e si colloca in una prevalente prospettiva di accountability”, ovvero di responsabilità esterna. Così il monitoraggio diventa una regolare e sistematica documentazione/informazione sui principali aspetti di un progetto (programma/politica) che consenta di capire se questo sta funzionando secondo le previsioni e le attese o secondo standard appropriati. Rossi, Freeman e Lipsey (1999, pp. 192 e segg.) vanno oltre e elencano tra gli oggetti del monitoraggio: - IV. il grado in cui la popolazione-obiettivo è raggiunta dai servizi prodotti; il (primo) raffronto tra programmato e realizzato; i risultati raggiunti nel frattempo e la loro coerenza con gli obiettivi del programma; eventuali valutazioni intermedie circa i costi dei servizi realizzati, per capire se i benefici li giustificano; il rispetto delle norme e dei regolamenti. Monitoraggio dell’attuazione amministrativa e di quella finanziaria Il monitoraggio dell’attuazione amministrativa dei provvedimenti è legato alla complessità dell’iter legislativo e decisionale che riguarda leggi e regolamenti. Un altro elemento di criticità è il carattere interamministrativo dei provvedimenti (è raro trovare un programma che riguardi una sola amministrazione) ed anche il carattere interistituzionale (in particolare il rapporto fra Stato ed Enti Locali). Organizzazione della fase di attuazione ed “illusione da Gazzetta Ufficiale”: il problema della esecutività delle norme. Monitoraggio dell’attuazione finanziaria: quali sono i provvedimenti la cui efficacia dipende (principalmente) da tempestive erogazioni di cassa? Infrastrutture, contratti di formazione/lavoro, assistenza sociale, ricerca, incentivi allo sviluppo . . . 39 Esempio: nel periodo 1999-2000 è stato fatto un monitoraggio sulle infrastrutture per il giubileo che si è rivelato necessario ai fini dell’organizzazione dell’evento. Mensilmente si riportava lo stato di avanzamento delle infrastrutture finanziate con risorse pubbliche. V. Indicatori per il monitoraggio Per effettuare un monitoraggio accurato diventa indispensabile il possesso di informazioni che nella fattispecie saranno quasi sempre sotto la forma di “dati grezzi”. i) Indicatori/informazioni di carattere temporale (tempi effettivi rispetto ai tempi preventivati); ii) Indicatori/informazioni di carattere amministrativo (esempio SAL); iii) Indicatori/informazioni di carattere finanziario (% erogazioni rispetto agli stanziamenti previsti). Ecco, infine, alcune indicazioni pratiche formulate dalla Commissione Europea (2001) nell’ambito della predisposizione degli strumenti necessari per il monitoraggio, da essa definito “operativo” di implementazione di progetti, finanziati dai Fondi strutturali. Per quanto possibile gli obiettivi globali e gli obiettivi specifici devono essere determinati e quantificati insieme ai risultati attesi. Nel complemento di programmazione preparato a livello nazionale dovrà figurare una descrizione dettagliata delle misure, unitamente ad una quantificazione degli obiettivi operativi connessi. I comitati di sorveglianza e le autorità di gestione, una volta istituiti conformemente alle disposizioni regolamentari, dovranno per prima cosa stabilire le disposizioni necessarie in materia di monitoraggio operativo. Tali disposizioni dovranno coprire i seguenti settori: la definizione dei dati da raccogliere per fornire le informazioni necessarie sulle realizzazioni, i risultati, gli impatti e i relativi indicatori; dovranno essere specificati i metodi utilizzati per quantificare i dati o le stime risultanti dalle ricerche svolte (campione, insieme rappresentativo di dati, basi dati, meccanismi di monitoraggio, ecc.) nonché le autorità o gli organismi responsabili del loro reperimento; la definizione dei dati da fornire al comitato di sorveglianza, i tempi e la periodicità previsti per la loro trasmissione; la definizione dei collegamenti operativi con le attività di valutazione (ex ante, in itinere ed ex post); la definizione di indicatori specifici del programma, da utilizzare per l'assegnazione a medio termine della "riserva di efficacia". Il lavoro preparatorio per l'istituzione di un sistema di sorveglianza deve inoltre servire ad individuare le carenze dei sistemi di informazione. Potrà essere necessario ricorrere ad assistenza tecnica e ad esperti esterni per colmare eventuali lacune e carenze, migliorare le condizioni generali di esecuzione e rendere più efficace il monitoraggio. 40 Indicatori per la sorveglianza: Spetterà all'organismo responsabile della sorveglianza, cioè all'autorità di gestione, definire, sulla base delle priorità e delle capacità esistenti, la struttura del sistema di sorveglianza e il livello di dettaglio a cui dovrà essere svolta detta attività di sorveglianza per soddisfare le esigenze dei diversi gruppi di utenti (compresa la Commissione). Mentre la sorveglianza dell'esecuzione finanziaria poggia in genere su solide basi, il monitoraggio delle realizzazioni, dei risultati e degli impatti fisici potrebbe essere migliorato. Bisognerà poter seguire regolarmente l'avanzamento fisico e finanziario delle misure e, se possibile, anche dei risultati. Le risorse amministrative e gestionali disponibili sono un fattore importante, ma bisognerebbe comunque controllare i risultati, almeno per le misure più importanti del programma. La valutazione dell'impatto specifico (in termini di obiettivi specifici) può cominciare solo quando i sistemi di sorveglianza forniscono informazioni adeguate sui progressi fatti e sui risultati relativi (ad esempio effetti immediati o diretti sull'occupazione, collocazione immediata delle persone formate). Il funzionamento del sistema di sorveglianza dovrebbe riflettere questo approccio graduale, tenendo conto delle situazioni e dei bisogni specifici, nonché delle risorse disponibili per intraprendere tali azioni. Bibliografia: Bezzi, C. (2001), Il disegno della ricerca valutativa, Franco Angeli, Milano; Commission Européenne (C.E.), Fonds structurels communautaires, 1999, Évaluer les programmes socioéconomiques. Collection MEANS, 6 voll., Luxembourg, Office des publications officielles des Communautés européennes ; Commissione Europea (2000), Il nuovo periodo di programmazione 2000-2006: Il nuovo periodo di programmazione 2000-2006: documenti di lavoro metodologici: Documento n.3: Indicatori per la sorveglianza e la valutazione: una metodologia orientativa, Bruxelles; Mussari, R. (2006), Il controllo di gestione nelle Amministrazioni Pubbliche: logiche, strumenti e criticità, Dipartimento studi Aziendali e Sociali Università degli Studi di Siena; Palumbo, M. (2002), Il processo di valutazione. Decidere, programmare, valutare. Milano, Franco Angeli. Rossi, Freeman e Lipaey (1999), Evaluation. A Systematic Approach, 6^ ed., Thousand Oaks, Ca., Sage. 41 “La valutazione ex-post” lezione del 20-4-2006, Dott. Espa A cura di Ilaria Screpante L’intero ciclo della Valutazione delle Politiche pubbliche consta di tre fasi distinte: 1. La Valutazione ex ante 2. La Valutazione in itinere 3. La Valutazione ex post Come è facile capire, la valutazione ex post costituisce la fase ultima dell’intero procedimento di Valutazione, andando così a concentrare l’attenzione sui risultati di uno specifico programma o di una politica adottata in un periodo temporale. Per una descrizione analitica dell’ultima fase del ciclo di valutazione, sarà utile descrivere brevemente in cosa consistono concretamente le due fasi che la precedono, ossia la valutazione ex ante e la valutazione in itinere. Per ciò che concerne la valutazione cosiddetta ex ante, possiamo descrivere tale fase come una sorta di «valutazione preventiva», che consiste nell’esame dei provvedimenti in sede di “pre-consiglio”, quindi ancora nel momento iniziale della costruzione delle modalità per un intervento pubblico volto al raggiungimento di specifici risultati. Il procedimento di valutazione ex ante, quindi, si concentra nella fase di discussione di un eventuale disegno di legge (ddl), prima che questo inizi il suo iter legislativo9. La valutazione in itinere, invece, consiste nel monitoraggio dell’attuazione amministrativa dei provvedimenti, nonché nel monitoraggio dell’attuazione finanziaria del programma o della politica in corso di realizzazione10. La valutazione ex post, infine, come fase conclusiva del ciclo di valutazione pone attenzione principalmente sui risultati dei progetti o delle politiche già attuate, basandosi soprattutto sui dati rilevati nei procedimenti valutativi precedenti. Per lo svolgimento ottimale di questa ultima fase, quindi, è necessario che vi sia una corretta valutazione preventiva – perché è fondamentale la conoscenza e una dettagliata valutazione degli obiettivi posti a monte dell’intervento politico-legislativo – e un attento monitoraggio del programma in fase di realizzazione. I risultati oggetto della valutazione ex post costituiscono gli effetti realizzati mediante l’intervento politico-legisaltivo, che nel migliore dei casi dovrebbero coincidere con gli obiettivi prefissati dal legislatore. Spesso, però, gli strumenti di valutazione evidenziano come l’azione pubblica non sia un intervento meccanico in cui una volta identificato un problema e tracciato un percorso di miglioramento per la In molti casi, soprattutto a seconda del contenuto di un disegno di legge, un ruolo fondamentale viene svolto dalla Ragioneria Generale dello Stato. Tale intervento è rivolto essenzialmente ad uno studio sui risvolti finanziari che i provvedimenti legislativi potrebbero apportare all’atto della loro attuazione. In questi casi la verifica effettuata dalla Ragioneria dello Stato si basa su quanto predisposto nell’art. 81 Cost., il quale prevede che qualunque legge che introduce nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte. L’intervento della Ragioneria statale, quindi, si concentra sulla mera verifica della quantificazione finanziaria e sull’effettiva verifica della copertura delle risorse previste nell’intervento legislativo. Da ciò è facile dedurre che tale intervento assume una posizione primaria nel controllo esercitato sulla Legge Finanziaria. 10 È importante specificare che tale monitoraggio si serve di specifici indicatori sia di carattere temporale, sia di carattere amministrativo, sia di carattere finanziario. 9 42 soluzione di esso, è sufficiente applicare specifici strumenti mentre gli altri fattori in gioco restano inalterati. L’universo dei problemi che una politica pubblica va ad affrontare, infatti, è spesso complesso e costituito di molteplici aspetti. Per questo il soggetto pubblico che attua un determinato intervento deve necessariamente tener conto anche del contesto più generale nel quale si colloca la sua azione. In questo senso, ciò che è necessario sottolineare è che l’azione pubblica non è di tipo lineare, basata sul semplice rapporto causa-effetto, ma si svolge in un «contesto sistemico» in termini di causa-sistemaeffetti molteplici11. Nell’analisi dei risultati, però, è importante evidenziare anche la difficoltà di una oggettiva misurabilità delle conseguenze concrete dell’azione politica, e questo è evidente soprattutto in alcuni ambiti specifici come ad esempio in settori quali la flessibilità del lavoro, il reinserimento occupazionale, ecc. Un altro aspetto fondamentale che l’analisi dei risultati è tenuta a verificare consiste nell’osservazione di un eventuale cambiamento delle variabili interessate durante l’attuazione del programma, in quanto la definizione dei risultati deve essere vista come effetto attribuibile alla concreta attuazione degli interventi predisposti. In questa fase, quindi, è necessario verificare e considerare eventuali nuove variabili intervenute durante l’attuazione di una scelta politica, ossia tutti i molteplici effetti che, come abbiamo visto, possono scaturire dalla realizzazione di interventi pubblici e le variabili non considerate al momento della decisione iniziale e quindi neanche in fase di valutazione ex ante. In questi casi, la valutazione ex post ha la funzione di “depurare” i risultati conseguiti effettuando una relazione di verifica su come sarebbero andati i fatti in assenza delle variabili verificatesi. Il dato più interessante, dunque, è la relazione esistente tra i risultati depurati dagli effetti delle variabili accidentali e gli obiettivi iniziali e tendenziali, ossia in assenza di interventi. La divergenza che spesso sussiste tra questi due elementi è data dagli scostamenti, la cui dimensione è necessaria per valutare concretamente le motivazioni di base che hanno prodotto specifici risultati diversi da quelli realmente attesi12. Da quanto descritto ne deriva che al fine di un’attenta valutazione dell’output effettivamente realizzato, è indispensabile aver chiaro l’impatto che si voleva realizzare attuando un determinato programma, il cosiddetto modello teorico di impatto (logic model). Per una corretta interpretazione dei risultati, però, nonché per la costruzione dei nessi causali tra i risultati e le politiche messe in atto, non è sufficiente soltanto un’analisi – seppur dettagliata – dei meri risultati conseguiti. È fondamentale, infatti, anche l’ausilio di ricerche ed esperienze precedenti all’attuazione della politica o del programma specificatamente oggetto di analisi. Così come risulta necessaria un’attenta comparazione con le medesime esperienze attuate da altri Stati esteri. Tutti questi strumenti permettono di costruire nel tempo degli standard di risultato definiti sulla base di passate esperienze di programma (il benchmarking). La conoscenza delle conseguenze inattese verificatesi in seguito all’attuazione di un programma, ossia non legate al disegno del programma predisposto, nonché le motivazioni effettive alla base di questi elementi inaspettati, costituiscono un elemento importante soprattutto al fine di predisporre delle soluzioni concrete di sostegno alle carenze del programma attuato. 11 12 Per un approfondimento cfr. Y. Mèny, J. C. Thoenig, Le politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna, pp. 233 ss. Questa è una delle fasi della valutazione più delicate, in cui la discrezionalità del valutatore è molto ampia. 43 Infine, nell’interpretazione dei risultati è necessario costruire degli indicatori che siano in grado di valutare un programma e capaci di riflettere i cambiamenti nel tempo dell’attuazione delle politiche. La valutazione di un programma o di una politica pubblica può essere distinta in valutazione amministrativa, valutazione organizzativa e valutazione finanziaria. Nei primi due casi la valutazione deve essere basata su due elementi fondamentali: 1. Tempi di realizzazione del programma; 2. Organizzazione del programma, in riferimento alla sua adeguatezza al raggiungimento dei risultati. Entrambi fondamentali per una corretta interpretazione dei risultati. La valutazione finanziaria, invece, si concentra su alcuni aspetti particolari: a. Costo effettivo del programma da attuare o già attuato; b. Costo del programma attuato rispetto ai preventivi di spesa; c. Cost-effectiveness (costi efficacia); d. Cost-benefit (costi benefici)13. Infine, un altro importante aspetto dell’analisi dei risultati, spesso trascurato, è la comunicazione della valutazione effettuata, intesa sia in riferimento al rapporto tra enti di valutazione e sedi istituzionali, sia in riferimento alla comunicazione verso la pubblica opinione e verso enti o associazioni particolarmente interessati e coinvolti nell’attuazione di specifici programmi. Un’accurata analisi valutativa, infatti, non produrrebbe nessun beneficio se fosse fatta esclusivamente a fini conoscitivi per gli “addetti ai lavori”, senza un coinvolgimento effettivo sia delle sedi istituzionali interessate, sia dei soggetti che “subiscono” l’intervento politico-legislativo messo in atto. 13 Rappresenta anche uno strumento della valutazione preventiva. 44 “Il Patto di Stabilità Interna” lezione del 27-4-2006, Dott. Espa A cura di Ugo Millul Per cercare di capire quale sia la forma di Governo più indicata ai fini di una gestione efficiente delle singole competenze, la valutazione delle politiche pubbliche non ci aiuta a pervenire ad una risposta sicura. Attualmente sembra che il consenso politico converga su una valutazione molto critica degli orientamenti regionali di sostegno. Per esempio, nel settore dell’istruzione, in relazione al quale non è univoca la forma di Governo più indicata, vi è in Italia molta incertezza riguardo al decentramento delle funzioni, a causa, forse, di una visione nazionale culturale unitaria. Stati Uniti, Germania, Svizzera sono nazioni in cui le funzioni relative all’istruzione sono da tempo fortemente decentrate. Relativamente alla competenza inerente sia all’istruzione che alla sanità non ci sono né teorie “federaliste” né valutazioni ex post. Non essendo in grado di dare una risposta definitiva, le decisioni che riguardano le competenze in esame dipendono dal patto sociale tra opinione pubblica e Governo. Tornando sulla questione prettamente organizzativa è importante tenere presente che ad un aumento delle spese non corrisponde, necessariamente, una maggiore qualità del servizio offerto. Per esempio 6 o 7 anni fa in Francia l’obiettivo del Governo centrale era focalizzato nel tentativo di capire quali fossero i correttivi utili ad un miglioramento della qualità dei servizi, a tal fine fu avviata una ricerca molto approfondita sulla condizione del sistema sanitario francese. Emerse che, a livello di qualità dei servizi, vi era una forte carenza di personale in campo paramedico: nel caso specifico mancavano 70.000 infermieri. La conclusione del rapporto francese fu che l’assunzione di personale infermieristico in tal numero, avrebbe assicurato una maggiore qualità del servizio. Nel caso descritto il maggior numero corrisponde ad una migliore qualità (vige quindi il principio secondo cui maggiore spesa conduce a maggiore qualità). Un esempio contrario riguarda l’Italia. La nostra nazione registra un rapporto inverso, rispetto agli altri Stati, tra il numero degli insegnanti e quello degli studenti. Il numero di studenti per classe è inferiore rispetto a quello delle altre democrazie avanzate, quindi l’obiettivo di una politica pubblica non può consistere nell’aumento del numero dei docenti. In questo caso l’efficienza non può essere raggiunta con un aumento dell’organico del corpo docente, ma con un aumento delle retribuzioni e, conseguentemente, della motivazione degli insegnanti. Nei prossimi anni è previsto un esodo dal corpo docente per ragioni d’età: saranno decine di miglia a lasciare il proprio posto a seguito del raggiungimento dell’età pensionabile. Il Policy maker deve fare una scelta delicata in un contesto di finanza pubblica che tende al contenimento della spesa; nel caso in esame avrà la possibilità di ricalibrare il numero dei docenti in funzione dei diversi gradi d’istruzione. Per quanto riguarda la regionalizzazione del servizio dell’istruzione bisogna innanzitutto conoscere com’è strutturato il bilancio della pubblica istruzione. Allo stato attuale non è possibile sapere quanto lo Stato spenda nelle singole Regioni per i diversi livelli d’istruzione. Non si ha neppure un documento ufficiale che riporti in maniera trasparente quanto lo Stato annualmente spenda a seconda del livello d’istruzione; l’apparato informativo è largamente insufficiente, è quindi difficile formulare una valutazione. Secondo il Professor Espa, in ambito organizzativo, la qualità del lavoro prodotto quotidianamente dagli 45 insegnanti, è un obiettivo da perseguire tramite un sistema d’incentivi molto più forte, a riguardo basterebbe far riferimento alle Province autonome di Trento e di Bolzano, che già dal ‘93 sono state dotate di forte autonomia sia finanziaria che decisionale. I fondi provenienti dallo Stato sono stati usati per pagare gli insegnanti che a Bolzano guadagnano il 30% in più rispetto al resto dell’Italia. Ai sensi di un’analisi più approfondita della politica dell’istruzione in quelle Province si scopre che gli insegnanti sono chiamati a lavorare di più, quindi alla maggiore retribuzione corrisponde una maggiore qualità del lavoro. Tutto ciò potrebbe indurre ad adottare il modello Alto Atesino a livello nazionale, previa una fase sperimentale, e calibrando minori assunzioni con una maggiore retribuzione. Si otterrebbe così un aumento della qualità del servizio offerto. Il Patto di Stabilità Interna serve come ulteriore esempio di mancata valutazione in un nazione in cui i poteri di spesa cominciano ad essere decentrati, con intensità crescente, a livello locale. In relazione a quanto appena esposto dovrebbe corrispondere una maggiore capacità degli enti locali all’impiego delle risorse aggiuntive. Il patto di stabilità interna è un tentativo di estendere e ramificare la disciplina imposta dal Trattato di Maastricht attraverso l’ormai noto obiettivo di contenimento del deficit entro 3% del PIL, in corrispondenza ai diversi livelli di Governo. La nostra nazione ha gradualmente articolato la sua struttura di Governo in sintonia con le altre nazioni federali europee (quali Germania, Svizzera e Spagna) che hanno la necessità di associare le amministrazioni locali ai risultati complessivi di bilancio che devono essere garantiti a livello europeo. Il paradosso è che, a livello Comunitario, il Governo centrale è responsabile dei risultati di bilancio, mantenendo da un lato il potere di rappresentanza e dall’altro la completa responsabilità sui risultati di bilancio mentre è chiamato a presentare, come documento contabile fondamentale in sede europea, il conto economico consolidato delle pubbliche amministrazioni. Non viene quindi presentato né il bilancio dello Stato né quello delle amministrazioni centrali, ma un conto molto dettagliato che consolida tutti i risultati di bilancio di entrata e spesa che riguardano il complesso delle pubbliche amministrazioni. Il Governo centrale per potersi considerare responsabile dei risultati complessivi che coinvolgono tutti i livelli amministrativi dovrebbe avere la capacità di controllo su ciascuna entità responsabile della gestione di flussi finanziari di natura pubblica. Presentandosi al contrario il Governo privo di poteri in sede europea – emerge la necessità di introdurre delle regole che comportino un maggiore coordinamento nelle relazioni finanziarie tra diversi livelli di Governo, quindi fra lo Stato centrale e il mondo delle amministrazioni locali. Dal 1999 la nostra nazione ha introdotto a tal fine il c.d. patto di stabilità interna, diverso dalla semplice trasposizione del patto di stabilità e di crescita comunitario. Il patto di stabilità interna fissa un arco di valori tra lo zero e i tre punti percentuali (a volte pure qualcosa in più) a seconda dell’andamento dei sistemi economici classificati su base comunale. Queste regole non sono facilmente adattabili al livello locale; per esempio, parlare di limite del disavanzo pubblico del 3% a livello comunale o provinciale non ha senso, a causa della carenza statistica e della complessità del calcolo anche a livello nazionale e, soprattutto, per le dimensioni limitate del disavanzo a livello locale. Il secondo problema consiste nella difficoltà di controllo, in tempo reale, dell’andamento di un insieme così frammentato d’istituzioni. Finché non si potrà usufruire di una coerente forma di monitoraggio delle entrate e delle uscite di cassa che funzioni a pieno regime non avremo mai piena contezza di quelle che sono le entrate e le spese a livello locale, al momento i dati arrivano quasi con un anno di ritardo, quando sono ormai irrilevanti ai fini del policy maker. 46 Il patto di stabilità interna detta14, con norme abbastanza stringenti e con emendamenti di cadenza annuale, diversi vincoli alla programmazione finanziaria e quindi alla gestione di bilancio di Comuni, Province e Regioni. Da ciò deriva il problema della variabilità delle regole e dei loro aspetti essenziali rilevato dalle ultime valutazioni sul patto di stabilità interna. Il Professor Espa ritiene che nel periodo si stesse andando per tentativi, fondati su un principio di pragmatismo anarchico. Il patto di stabilità interna importa quindi in maniera più severa e invasiva la disciplina fiscale del Trattato di Maastricht e del patto di stabilità e crescita europeo (codificato nel ‘97 e divenuto operativo nel ‘99). Vengono introdotti anche aspetti molto dettagliati che toccano l’autonomia decisionale dei singoli enti decentrati, generando così l'incremento di un forte contenzioso costituzionale. Per esempio lo Stato centrale ha cercato a varie riprese di disciplinare la politica delle assunzioni a livello locale e regionale nel contesto dei fondi per l’istruzione, di quelli sociali stanziati dallo Stato e delle altre decisioni che toccavano l’autonomia finanziaria garantita agli enti locali dalla Costituzione. Ciò ha creato incertezza riguardo all’efficacia di misure sulle quali spesso si appoggiava la programmazione di saldo di bilancio fissata dal Governo soprattutto per le materie di competenza concorrente delle Regioni (come hanno dimostrato le sentenze della Corte Costituzionale in materia di urbanistica). Finché non c’è la certezza giuridica e un chiara attribuzione dei poteri decisionali e finanziari sulla singola materia, vis-à-vis Stato vis-à-vis Regioni, non ci può essere sicurezza sull’incasso derivante da quella particolare misura o sui risparmi potenziali ottenuti grazie alla misura stessa. Il patto di stabilità interna è essenzialmente un tentativo piuttosto invasivo di disciplinare entrate e spese, a livello locale, al fine del raggiungimento di un risultato di bilancio complessivo della pubblica amministrazione. Se, per esempio, nel 2006 l’obiettivo concordato in sede europea è del 3,8% le amministrazioni locali devono contribuire al raggiungimento di questo obiettivo di disavanzo pubblico rispetto al PIL del 3,8%. Questo avviene tipicamente controllando le spese e disegnando norme che abbiano un loro impatto finanziario a livello dei singoli bilanci delle amministrazioni decentrate, poi vi è il sistema ai sensi del quale gli enti locali devono rispettare una certa percentuale di incremento delle spese o del saldo di bilancio. Il patto di stabilità interna ha apparentemente funzionato, anche se in seguito ad un’analisi più attenta non è servito a far concorrere le amministrazioni locali ai risultati complessivi di bilancio. Benché le percentuali di Comuni, Province e Regioni che rispettano il patto siano intorno al 95-98%, in realtà le cose non funzionano bene come sembrerebbe a causa, in parte, dei tentativi di aggirare le norme e in parte per la presenza di una componente di debito nascosto (es. fornitori dilazionati) che potrebbe prima o poi esplodere. L’incertezza sugli effettivi poteri legislativi, amministrativi e tributari relativamente ad alcune importanti materie ha fatto sì che nel patto di stabilità interna delle amministrazioni regionali non siano comprese le spese sanitarie. Al controllo delle spese di ciascun livello di Governo sono sottratte le spese, per loro natura più dinamiche e più difficilmente disciplinabili (come quelle sanitarie) che riflettono esigenze molto sentite dalle collettività regionali. A questo punto il Professore asserisce che è chiaro che si stanno “togliendo le castagne dal fuoco” dall’esercizio del Governo regionale. Il paradosso consiste nel fatto che, controllando i dati rispetto alle regole e agli obiettivi quantitativi del patto di stabilità interna, si A differenza del Trattato di Maastricht e del patto di stabilità, che non si occupano di dinamiche interne nazionali, quali i limiti alla spesa. 14 47 evince un deterioramento degli indicatori di bilancio più importanti a livello di Comuni, Province e Regioni. Negli ultimi anni il contributo delle amministrazioni locali al disavanzo complessivo nazionale e alla dinamica del debito, che ogni anno cresce, è andato espandendosi. Non è possibile che rispettando il patto di stabilità interna i risultati di bilancio peggiorino trascinando con loro anche il risultato complessivo dell’intera nazione. L’ISAE ha proposto alcuni mesi fa che in relazione al decentramento italiano dovrebbero corrispondere istituzioni di contatto tra diversi livelli e non un rapporto gerarchico (e di tipo punitivo) conformemente alle altre nazioni europee15. Una definizione cooperativa basata sul principio di leale collaborazione potrebbe consentire di superare alcuni grossi problemi emersi nella gestione del patto di stabilità interna, tra cui: maggiore cooperazione e responsabilizzazione delle amministrazioni locali sugli obiettivi di risanamento, partecipazione regolare e costante di queste ultime alla definizione degli obiettivi complessivi di finanza pubblica. Il DPEF, vagliato dal Parlamento16, fissa dei paletti di carattere finanziario all’interno dei quali si deve muovere l’articolazione dei singoli obiettivi della legge finanziaria. È fondamentale che due o tre mesi prima dell’approvazione della finanziaria il dibattito si concentri su grandi aggregati della finanza pubblica, a cominciare dal saldo, che dovrebbero successivamente servire quale riferimento per la legge finanziaria. Il DPEF, pur essendo approvato dal Governo e dal Parlamento nazionale, non si limita ad inserire un quadro finanziario che riguarda solamente lo Stato o le amministrazioni centrali, ma presenta un quadro di finanza pubblica che riguarda l’intera amministrazione17. Quindi Governo e Parlamento nazionale con una Costituzione cambiata si arrogano il diritto di decidere sulle cifre che vanno a condizionare i governi locali; ciò crea un elemento di tensione istituzionale che non può reggere e che dimostra inefficienza per la qualità del risanamento finanziario. Nel procedimento di formazione del DPEF il coinvolgimento delle Regioni è nullo. Il documento in questione viene inviato alle singole Regioni, che vanno in Parlamento, vengono sottoposte ad audizione ed esprimono un parere non vincolante. È per questo che non si può parlare di un vero concorso delle amministrazioni locali nella definizione dei grandi obiettivi di carattere finanziario della nazione. La legge finanziaria viene spedita il 30 settembre alle Regioni, che devono esprimere un parere entro il 15 ottobre. La soluzione potrebbe essere costituita dalla partecipazione al processo decisionale (che coinvolge la formazione di atti quali la legge finanziaria e il DPEF) di rappresentanti delle Regioni che verrebbero in tal modo responsabilizzati. Emanare, tramite norma primaria, la legge finanziaria, è un procedimento che non permette d’introdurre qualcosa che vada a toccare i bilanci comunali provinciali e regionali. Siamo quindi in presenza di una finzione: la legge finanziaria è coerente con l’obiettivo complessivo di risanamento della pubblica amministrazione dell’3,8 per cento nel 2006, ma non ci può essere alcuna pronuncia formale del In Germania nel consiglio di programmazione finanziaria in cui si confrontano a livello tecnico il bund e i länder come in Austria e Spagna: un negoziato aperto e trasparente tra diversi livelli di governo in cui lo Stato ha il dovere di essere il primus inter pares, con un potere di ultima istanza e d’intervento. Non vi è dubbio alcuno che gli obiettivi di risanamento vadano concordati insieme, questo consentirebbe di riportare le spese sanitarie dentro l’alveo per il patto di stabilità interna, considerando anche gli obiettivi di medio termine. 16 Che in seguito emette una risoluzione con commento. Provvedimento che, paradossalmente, pur emesso dal Parlamento, non prevede una sanzione forte. 17 Nel DPEF vi è una tabella di 4-5 indicatori, nel peggiore dei casi, e che prevede, nel migliore dei casi, sia l’andamento tendenziale a 4-5 anni dell’intero conto economico della pubblica amministrazione, sia un conto programmatico della pubblica amministrazione nei 4-5-anni. 15 48 Parlamento sul conto di bilancio dell’intera pubblica amministrazione (incluse le Regioni). Includere le Regioni nel processo decisionale potrebbe dare al Parlamento il potere di coordinare anche il conto economico che riguarda l’intera pubblica amministrazione. Cosa costerebbe? Se si prende in considerazione un altro documento contabile importante, quale la relazione generale sulla situazione economica della nazione, documento del Ministero dell’Economia, viene presentato, a consuntivo, il conto economico della pubblica amministrazione, il conto economico delle Regioni, delle Province e dei Comuni, degli enti previdenziali, delle A.S.L., ecc. Allora perché, anche preventivamente non avere nel DPEF preventivi che riguardino gli aggregati economici dei Comuni, delle Province, ecc. Sarebbe un elemento di trasparenza enorme ed utile anche in sede europea e di fronte alle agenzie media per mostrare quanto ramificato sia il controllo dei flussi di finanza pubblica. Se fossimo in grado di osservare con attenzione, in maniera sistematica o addirittura certificata, l’impiego di risorse (es. le spese sanitarie) nelle ragioni in cui gli obiettivi iniziali vengono palesemente superati si potrebbe capire perché paradossalmente solo 4 Regioni “incasinano” tutto e perché vi è sistematicamente in Campania un debordo di miliardi di euro, che si potrebbe prevenire. Una struttura di valutazione più efficiente del patto di stabilità interna, che attribuisca più poteri alla ragioneria generale dello Stato e all’ISTAT, consentirebbe, laddove il patto non funzionasse, di avere vantaggi sia sul piano degli aspetti macroeconomici della finanza pubblica sia su quello degli aspetti microeconomici. Grazie ai primi un patto di stabilità interna che funzioni effettivamente è garanzia che gli obiettivi fissati dal Governo possano essere raggiunti. Per quanto riguarda gli aspetti microeconomici si capirebbe dove, come e perché il patto è stato messo in crisi, si potrebbero anche avere a cascata elementi importanti che riguardano gli aspetti organizzativi oltre alla gestione finanziaria o concreta di talune politiche pubbliche. Il patto di stabilità interna rappresenta uno snodo essenziale nelle nuove relazioni finanziarie tra i diversi livelli di Governi ed è tipico di un sistema che va verso un maggior grado di federalismo, attribuendo poteri crescenti alle amministrazioni locali. La funzione del patto di stabilità interna consisterebbe quindi nella fissazione di una stabilità di regole, tipica nelle altre nazioni europee. Le grandi regole rimangono stabili (per es. il controllo dei saldi, l’esclusione delle spese in conto capitale legate agli investimenti) per poi affidare, annualmente, al negoziato tra Stato e Regioni la definizione più precisa degli obiettivi quantitativi. Le Regioni, le Province e i Comuni non sarebbero più soggetti ogni anno a leggi diverse in alcuni settori, si eliminerebbe la grande incertezza giuridica ed economica che vige attualmente in materia. 49 “Le tecniche di valutazione e l’interpretazione dei risultati” lezione del 4-5-2006, Dott. Espa A cura di Giordano Simoncini Il campionario di metodologie utili ai fini della valutazione è sterminato e, per orientarsi nella scelta degli strumenti di cui far uso, è innanzitutto opportuno comprendere a quale tipo di policy si fa riferimento. È opportuno altresì cercare di farsi un’ idea chiara su cosa ci si aspetta dal processo di valutazione, considerato di pari passo al tempo che si ha a disposizione per svolgere le procedure del caso – le quali, sappiamo, devono essere orientate alla formulazione di un giudizio radicato su di una costante attività di comparazione, e sono sviluppate all’ interno di un processo conformato ai caratteri della ricerca scientifica (trasparenza, replicabilità, coerenza interna e via dicendo). Ciò implica, peraltro, che al servizio del valutatore vi sia una vastissima batteria si strumenti operativi, ai quali egli può avere, di caso in caso, livello minore o maggiore di accesso. Così, ogni qualvolta si rivela possibile valutare una policy ed ogni qualvolta la valutazione implica aspetti di natura quantitativa (evenienza grossomodo inevitabile), ciò che deve costituire cruccio per il valutatore è in primo luogo il tentare di comprendere quanti e quali dati sono disponibili (se unicamente statistiche, ovvero anche ulteriori dati rilevanti che è possibile affiancare alle statistiche ai fini di una più lucida comprensione d’ insieme), chi li produce e quanto sono affidabili. La rassegna dei dati è la vera pietra angolare alla base di ogni processo di valutazione; in assenza di una circostanziata osservazione dei dati disponibili, tentare di capire cosa accade nelle varie fasi di implementazione delle policies sarebbe impresa ardua e forse vana. Non di meno, di pari passo con la rassegna dei dati va l’ accertamento in merito alla possibilità di costruire indicatori specifici di sintesi al fine di valutare gli esiti delle singole policies. Tali indicatori sono utili tanto in fase di valutazione ex ante, dacché possono essere adoperati per fare previsioni nel momento in cui siano disponibili serie temporali di dati inerenti ai risultati raggiunti mediante i provvedimenti passati, quanto anche in fase di valutazione in itinere, specificamente quando si tratti di dover studiare interventi migliorativi “in corso d’ opera”, rivelatisi eventualmente necessari a seguito di una costante attività di monitoraggio. Disgraziatamente, se si eccettuano rarissime eccezioni, in Italia non c’è mai stata una regolare attività di valutazione delle politiche pubbliche; pertanto, non disponiamo affatto di un catalogo di case studies ovvero anche di worst or best practices su cui fare affidamento. L’assenza di un patrimonio informativo standardizzato si ripercuote poi, ineluttabilmente, sull’ individuazione e lo studio degli indicatori di sintesi. In tal senso, l’ assai auspicabile crescita d’ interesse nei riguardi delle pratiche di valutazione nel nostro Paese porterebbe anche al raggiungimento del “meta – obiettivo” di raffinare il campionario di strumenti utili all’ attività della valutazione, migliorandone la qualità, e dunque la capacità di poter meglio orientare le scelte dei decisori. Nell’ ambito di quanto detto, valga l’ esempio delle manovre correttive: è oramai chiaro, a chi in Italia si occupa di politica di bilancio e finanza pubblica, che è molto difficile piegare l’ andamento 50 delle spese complessive in corso d’ anno (a meno che non si decida di comprimere di colpo ed assai drasticamente l’ erogazione di cassa), dal momento che queste ultime si rivelano essere particolarmente poco reattive agli interventi in itinere. Ebbene: ciò lo si è capito “a sensazione”, ma non esiste affatto un tabulato di cifre e statistiche opportunamente manipolate che sia in grado di agevolare un’ osservazione più attenta e ravvicinata del fenomeno, allo scopo di poter intervenire poi in maniera più sensata e coerente. Si tratta di null’ altro che di uno di quei moltissimi casi in cui l’ assenza di una cultura della valutazione, nel nostro Paese, fa sentire in maniera particolarmente drammatica la propria mancanza. *** Gli approcci alle tecniche di valutazione ex ante sono potenzialmente infiniti. Ciò non toglie che, con grandissima approssimazione, sia possibile distinguerne tre, ossia: 1) previsioni sulla base di estrapolazioni statistiche operate su dati (e, magari, garantite ufficialmente da Istituti competenti); 2) previsioni sulla base di un modello teorico, ovvero sull’ idea di una qualche relazione tra variabili, dalla quale attendersi o meno certi esiti per certe specifiche policies; 3) previsioni sulla base di valutazioni indipendenti. Per quel che riguarda il primo approccio, esistono orizzonti davvero sterminati di esempi e metodologie. Una prima categoria di previsione, particolarmente rilevante, è quella che si serve di serie storiche (vale a dire serie di dati in sequenza che coprono un arco temporale sufficientemente significativo) relative a variabili specifiche che caratterizzano le politiche. Tutti gli indicatori di finanza pubblica finiscono con l’ assumere rilevanza solo se sottoposti ad un monitoraggio di lunga durata – perlomeno decennale; non ha alcun senso, ad es., esaminare l’ andamento del disavanzo negli ultimi tre o quattro anni, non se ne trarrebbe alcuna informazione utile. Per comprendere appieno l’ elasticità del disavanzo rispetto all’ andamento dell’ economia nel suo insieme (rapporto disavanzo / PIL) è infatti necessario porre in relazione le due serie temporali per un numero di anni sufficiente a suggerire legami visibili tra le variabili. In tal modo è possibile scoprire, per esempio, che in un Paese come il nostro l’ andamento dell’ economia si riflette in maniera decisamente forte sull’ andamento delle entrate, sì che, molto spesso, risultati negativi del bilancio sono imputabili innanzitutto al rallentamento dell’ economia, che va a ripercuotersi sul gettito complessivo. Un’ indicazione del genere – essenzialmente valutativa e costruita, è opportuno ribadirlo, sulla base dell’ elaborazione di serie temporali sufficientemente consistenti – può conformare le opinioni dei decision – makers sino al punto di persuaderli che, ai fini del miglioramento della situazione del disavanzo, possa rivelarsi opportuno non tanto adoperarsi in manovre mirate specificamente al disavanzo medesimo (tagliare le spese, aumentare le tasse), quanto piuttosto tentare di progettare misure volte ad irrobustire in qualche modo la crescita. Dietro constatazioni analoghe, peraltro, c’è stato l’ intero dibattito sul Patto di Stabilità e Crescita, che ha tenuto occupate le cancellerie dei Paesi dell’ Unione per più di tre anni, con momenti di altissima tensione tanto in sede di Consiglio quanto in sede di confronto diretto tra i singoli Stati Membri: a più riprese ci si è infatti chiesto 51 se, in una fase di rallentamento generale dell’ economia, dovesse essere o meno opportuno intervenire sugli squilibri di finanza pubblica agendo direttamente sui saldi (come pretendevano tutti coloro che, nel corso della lezione, sono stati definiti i “talebani” del Patto di Stabilità) ovvero piuttosto sforzarsi in ogni modo di rinvigorire le economie, nella misura in cui gli squilibri finanziari possono effettivamente rivelarsi strettamente interconnessi all’ andamento di queste ultime. Per quel che ci riguarda, è ragionevole supporre che l’ attuale Ministro dell’ Economia, fautore di interi stralci del Trattato di Maastricht e straordinario “diplomatico economico”, si faccia nell’ immediato futuro portatore di un’ istanza di questo tipo presso la Commissione, sforzandosi di dimostrare che in Italia i saldi di finanza pubblica sono talmente legati all’ andamento dell’ economia nel suo insieme che sarebbe quantomeno inopportuno aggravare ulteriormente la situazione economica mediante politiche di bilancio particolarmente restrittive. In fase di valutazione ex ante, le relazioni statisticamente descrivibili tra variabili consentono di imbastire previsioni tanto sulla progettazione quanto sulle fasi di implementazione quanto, ancora, sugli esiti e gli impatti attesi delle policies. Nel caso in cui le serie storiche che descrivono l’ andamento di due fenomeni nel passato si rivelino in qualche maniera interconnesse (e ciò lo si può scoprire, in prima battuta, finanche a colpo d’ occhio, distribuendo le coppie di dati all’ interno di un piano cartesiano), e pertanto descrivibili mediante funzione, una semplice interpolazione sarà già utile a costruire ipotesi sull’ andamento futuro dell’ interazione tra i due fenomeni presi in esame, andamento che una o più particolari politiche intendono ragionevolmente condizionare. Si presti attenzione al seguente grafico: . y . . . . . w . . . x Le variabili identificate con x ed y possono essere le più varie; per richiamare gli esempi già fatti, poniamo che si tratti del disavanzo e del PIL. Dal momento che la distribuzione dei dati suggerisce un qualche tipo di correlazione lineare tra le variabili18, la retta di interpolazione chiamata convenzionalmente In ossequio al rigore che qualsiasi tipo di analisi, teoricamente, impone, si tenga comunque a mente che una distribuzione di dati apparentemente lineare può in realtà celare altri tipi di relazione, ad es. quadratica: lo scrupolo metodologico del ricercatore dovrebbe dunque imporgli di costruire un plot dei residui per “controprova”, prima di giungere a qualsiasi tipo di conclusione in merito alla natura della correlazione tra i due fenomeni considerati. 18 52 w descrive un trend, attorno al quale si distribuiscono fluttuazioni e valori erranti, ai quali il ricercatore deciderà di concedere minore o maggiore attenzione a seconda della loro struttura e dell’ entità della loro devianza19. In base al trend descritto dalla retta di interpolazione, il valutatore ha poi facoltà di gettare uno sguardo sull’ evoluzione dei fenomeni correlati, che è nient’ altro se non l’ impatto previsto per il determinato provvedimento che costituisce l’ oggetto della valutazione. Assai intuitivamente, le previsioni del valutatore saranno incardinate su di una serie di “scommesse”: sulla persistenza del legame tra le variabili, ad es., che si suppone data – ma potrebbe non esserlo affatto, ovvero anche potrebbe essere annientata da ulteriori interventi istituzionali, chiaramente variabili esogene20; o sulla regolarità nella distribuzione dei dati, che va necessariamente presunta, dal momento che determinati e per definizione imprevedibili shock, così come anche i già citati interventi istituzionali, sarebbero comunque in grado di alterare le fluttuazioni cicliche, introducendo un cd. “break strutturale” e traslando in maniera definitiva la distribuzione delle coppie di valori delle variabili, in modo che la vecchia retta di interpolazione non sia più in alcun modo utile ai fini della descrizione statistica della correlazione in esame; oppure, ancora, sull’ affidabilità dei dati nel tempo, che attiene alla “sincerità” di questi nel momento in cui ci parlano dell’ andamento congiunto delle due variabili – potrebbe accadere, in effetti, che tali dati, con l’ andare del tempo, informino il valutatore in maniera via via peggiore ed insoddisfacente riguardo all’ oggetto della sua ricerca; ed il valutatore, in quanto umano, ipso facto fallibile, potrebbe non avvedersene affatto. Si faccia ora riferimento al mercato del lavoro, al fine di costruire un ulteriore esempio chiarificatore. Se nel grafico più sopra y indicasse l’ occupazione complessiva, la retta d’ interpolazione mostrerebbe il trend di lungo periodo dell’ occupazione nel nostro Paese. Sappiamo che, in corrispondenza del cd. “pacchetto Treu” (anno di avvio 1997) e della legge Biagi (2003, anche se per la valutazione della gestione amministrativa del provvedimento si deve andare avanti fino al 2004), l’ occupazione complessiva ha compiuto due “balzi in avanti”; ciononostante, l’ andamento di lungo periodo dell’ occupazione, in Italia, è stato comunque “a crescere”. Il valutatore che volesse accertare con maggiore precisione quanto e come questi due provvedimenti di liberalizzazione del lavoro abbiano effettivamente contribuito ad In tal senso, il crollo di produzione di un’ industria nel mese di agosto non avrà alcuna rilevanza ai fini della costruzione delle ipotesi su di un modello di lungo periodo – così come anche l’ andamento incostante della produzione in un periodo di oscillamento del costo delle materie prime, come ad es. il petrolio. Alla quadruplicazione del greggio del 1973, ad es., il Giappone non rispose indicizzando prezzi e salari, ma lasciò che l’ aumento del costo del petrolio si scaricasse completamente sui prezzi: in quel caso, il valutatore giapponese che si fosse trovato dinanzi la rappresentazione grafica dell’ andamento dell’ inflazione nel proprio Paese, avrebbe notato un picco agghiacciante in corrispondenza, grossomodo, dell’ anno 1975; nonostante quel dato errante fosse incredibilmente evidente e preoccupante, però, egli avrebbe dovuto tralasciarlo dopo aver constatato che il trend dell’ inflazione andava poi normalizzandosi negli anni a venire, consentendo nuovamente di poter costruire previsioni coerenti di lungo periodo. In generale, quanto più si punta l’ obiettivo su di un lasso temporale esteso, tanto più si dovrà tendere a tralasciare fluttuazioni cicliche e sporadici valori erranti. Viceversa, si presterà molta più attenzione ai valori insoliti rispetto al pattern nel caso in cui si tratti di dover valutare provvedimenti che ambiscono a produrre esiti sul breve periodo – ad es., potrebbe essere questo il caso nel momento in cui ci si debba trovare costretti ad articolare misure correttive di finanza pubblica volte a correggere i saldi nell’ arco di sei mesi, onde evitare i classici richiami di Banca Centrale e Commissione Europea nonché la mannaia calata dalle agenzie di rating sulla valutazione del debito del nostro Paese. 20 Per meglio comprendere: chi dovesse mai trovarsi ad osservare l’ andamento dei principali indicatori di finanza pubblica nel corso degli ultimi dieci anni, prescindendo radicalmente dal dato istituzionale, non sarebbe probabilmente in grado di descrivere correttamente tutti i mutamenti intervenuti a seguito dell’ adesione dell’ Italia all’ ultima fase dell’ unificazione monetaria ed all’ approdo alla moneta unica. Questo sfortunato ed ipotetico analista, assai probabilmente, si troverebbe al cospetto di taluni notevoli cambiamenti nelle distribuzioni di dati a partire, grossomodo, dal ’96, e non sarebbe in grado di giustificarli adeguatamente. 19 53 aumentare l’ occupazione complessiva, dovrebbe innanzitutto “spacchettare” il dato, puntando per così dire il microscopio su quel determinato Delta di aumento dell’ occupazione in coincidenza dell’ anno di entrata in vigore della normativa da valutare. Tale osservazione, ad ogni modo, non dovrà essere naïve: dovrà anzi concentrarsi particolarmente sull’ andamento delle tipologie occupazionali legate alla specifica normativa posta sotto analisi, in considerazione delle caratteristiche peculiari della stessa. Nel momento in cui l’ andamento delle occupazioni a tempo indeterminato e part time dovesse rivelarsi consonante con quello dell’ occupazione di lungo periodo, si potrà a buon titolo dire che quel determinato provvedimento ha contribuito alla crescita dell’ occupazione complessiva – non fosse che, man mano che l’ occupazione è andata aumentando, la sua qualità è crollata verticalmente21. *** Si è già detto che gli approcci alle tecniche di valutazione ex ante possono con grande approssimazione essere ripartiti in tre categorie. Della prima, quella attinente alle previsioni sulla base di estrapolazioni statistiche, si è già detto lungamente. È però parimenti possibile effettuare previsioni sulla base di uno specifico modello teorico, che altro non è se non un insieme di relazioni tra diverse variabili costruite sulla base di una serie di assunzioni. I modelli devono essere matematicamente trattabili ed il loro vantaggio è quello di esplicitare i nessi causali tra le variabili. Un esempio classico di modello è quello dell’ equazione che determina il reddito nazionale: Y=C+I+G Nella grande letteratura economica si ha una semplificazione dell’ andamento aggregato del sistema economico sulla base della quale si connettono in modo causale le variazioni del tasso di interesse e degli investimenti all’ andamento del reddito nazionale. In generale, nell’ elaborazione dei modelli, la cosa importante, una volta scelte le variabili da trattare, è impostare correttamente una relazione tra di esse, con particolare attenzione a specificare il segno delle variabili indipendenti rispetto alla dipendente. Cruciale è, ovviamente, anche la determinazione delle caratteristiche della forma funzionale, le quali potrebbero essere suggerite proprio dal ricorso all’ analisi delle serie storiche passate. Ad onor del vero, un’ efficace valutazione delle politiche pubbliche sarebbe d’ ausilio ai decisori anche qualora questi avessero intenzione di introdurre correttivi ed ammortizzatori sociali volti a far fronte alle pesanti conseguenze, attese o meno, che il pacchetto Treu e la legge Biagi hanno contribuito a generare all’ interno del mercato del lavoro, in termini di precarizzazione e, sopra ogni cosa, di divisione sociale. È infatti ormai palese ad ognuno il carattere fortemente duale del mercato del lavoro italiano: da un lato determinate categorie di impiegati pubblici, ipergarantite; dall’ altro, folte schiere di lavoratori privi di ogni certezza. Ed ancora: da un lato la fascia d’ eta dai 30 ai 55, occupata in maniera grossomodo stabile; dall’ altro, gli over 55 che non sono più in grado di trovare occupazione qualora licenziati e, soprattutto, gli under 30 che si dibattono tra un lavoro part time ed un contratto a termine, nell’ assoluta incertezza e nell’ impossibilità di imbastire qualsivoglia programma a lungo termine per la propria vita. Nell’ ambito della lezione, poi, si è parlato anche di previdenza, e si è sottolineato quanto iniquo possa rivelarsi un sistema previdenziale incentrato sulla quantità dei versamenti effettuati, piuttosto che su di una determinata percentuale calcolata sull’ ultima retribuzione percepita. In ultima analisi, la riforma del mercato del lavoro avrebbe dovuto trascinarsi dietro una radicale riforma degli ammortizzatori sociali e di alcuni indispensabili istituti di welfare; se ciò era possibile farlo, ebbene, non ne è stata compresa l’ assoluta necessità. In tal senso, un’ adeguata valutazione ex ante sarebbe stata, per l’ ennesima volta, tanto utile quanto opportuna. 21 54 La terza grande categoria di valutazione ex ante, per concludere, è quella che attiene alle previsioni sulla base di valutazioni. Tali previsioni, molto utilizzate nel settore privato, si concentrano attorno all’ utilizzo delle inchieste ed al cd. metodo Delphi. Il metodo è, assai semplicemente, quello di servirsi di una serie di opinioni qualificate in relazione a determinati eventi futuri che si è deciso di tenere sotto osservazione; vale a dire che, in questi casi, non ci si serve di dati ma di opinioni di esperti. La procedura è banale: si consegnano dei questionari a studiosi o tecnici che hanno titolo a produrre opinioni valide nei rispettivi ambiti delle politiche da valutare, dopodiché le opinioni raccolte, rigorosamente anonime, vengono fatte girare tra le mani degli altri esperti in modo tale che, qualora qualcuno abbia intenzione di meglio specificare il proprio punto di vista, questo possa poi essere messo nelle condizioni di farlo anche sulla base della presa considerazione di quanto elucubrato dai suoi illustri colleghi. Un tempo, tale confronto tra esperti era promosso attorno a specifiche tavole rotonde; la cosa, disgraziatamente, funzionava poco: le opinioni finivano spesso con l’ appiattirsi tutte su quella dell’ esperto “più esperto” degli altri, secondando scontate ed intuitive dinamiche di psicologia di gruppo. Pertanto, si decise una volta per tutte di passare ai questionari. 55 “Caso pratico: la valutazione ex-ante del credito d’imposta” lezione dell’ 8-9-2006, Dott. Espa A cura di Andrea Alquati La legge finanziaria 2001 conteneva un pacchetto di norme finalizzate a stimolare l’occupazione in forme stabili, di fronte al permanere di un elevato livello di disoccupazione, soprattutto nel Sud del Paese, al proliferare di forme contrattuali a termine per i nuovi assunti e ad un tasso complessivo di occupazione inferiore agli obiettivi posti dall’Agenda di Lisbona (2000) sullo sviluppo e la competitività. La leva scelta per ottenere un incremento delle assunzioni a tempo indeterminato era quella fiscale, mediante il credito d’imposta alle imprese, ritenendola la soluzione più immediata ed efficace: chi incrementava il numero medio dei propri dipendenti, usufruiva di un credito di 9,6 milioni delle vecchie lire per ogni nuovo assunto a tempo indeterminato; per le altre forme contrattuali, veniva calcolata la cifra corrispondente alle ore lavorate effettivamente rispetto a quelle previste dai contratti collettivi nazionali. La normativa era rivolta a risolvere il problema della disoccupazione di lungo periodo, ponendo il limite minimo d’età dei 18 anni per il neo-assunto, che nei due anni precedenti non doveva aver lavorato neppure per brevi periodi, onde evitare mere regolarizzazioni di rapporti semi-sommersi. Una novità rispetto ai tradizionali interventi con assunzioni nella pubblica amministrazione e nelle aziende statali a favore delle aree depresse, ma un approccio di breve periodo, meno incisivo rispetto ad interventi strutturali per la crescita, quali avrebbero potuto essere investimenti in infrastrutture e nella sicurezza, specie nel Mezzogiorno, una riduzione dei vincoli burocratici e della pressione fiscale che frenano l’attività delle imprese. La valutazione ex ante dell’impatto finanziario del provvedimento in termini di minor gettito fiscale richiedeva una previsione sulla crescita fisiologica degli occupati, in quanto anche le aziende che avrebbero assunto indipendentemente dalle nuove norme, ne avrebbero ugualmente beneficiato. Considerando una media negli anni precedenti del 41% di assunzioni a tempo indeterminato su quelle complessive e scorporando quelle nel pubblico impiego, il Dpef 2001-2004 stimava in circa 71.000 i nuovi occupati “fisiologici”, che si riducevano a 66.000 escludendo la percentuale della forza -lavoro under 18 che non rientrava nel provvedimento. Moltiplicando quindi questo valore per i 9,6 milioni previsti dal bonus si otteneva l’impatto finanziario per l’erario, stimato in 635 miliardi annui. Una somma che si ritenne sarebbe stata ampiamente recuperata in termini di tributi indotti, vale a dire tasse e contributi dei nuovi assunti grazie al provvedimento e conseguenti variazioni sui redditi delle imprese stesse. 56 “La riforma del TFR nel disegno di legge finanziaria per il 2007: una valutazione exante” lezione dell’ 11-10-2006, Dott. Espa A cura di Marco Sonsini Introduzione. In base all’art. 2120 del Codice Civile, il 7,14% della retribuzione lorda (6,91% al netto di una ritenuta aziendale) viene accantonato in un conto specifico, gestito dall’azienda, che dà luogo, al momento della pensione, all’erogazione del cosiddetto Trattamento di Fine Rapporto (TFR). La stessa disposizione codicistica prevede che la somma accantonata dal lavoratore maturi un interesse annuo pari a 1,5% + ¾ del tasso di inflazione annuo (dunque, nel caso in cui, come nell’ultimo anno, esso sia pari al 2%, il tasso di interesse sarebbe pari a 1,5% + ¾(2%) = 3%). La riforma Maroni del sistema previdenziale prevede la possibilità di convogliare queste risorse in fondi pensione, che darebbero vita, in luogo del TFR, al “secondo pilastro” del sistema previdenziale italiano, accanto a quello pubblico. A questo scopo, il lavoratore potrebbe scegliere di destinare alla previdenza integrativa (cioè a fondi di investimento, a rendimento variabile) l’intero 6,91% della retribuzione lorda, oppure di mantenere l’accantonamento presso l’azienda, con il relativo rendimento fisso e la garanzia dell’erogazione del TFR. La riforma, che dovrebbe entrare in vigore il 1 Gennaio 2008, prevede altresì forme di compensazione per le aziende. Il disegno di legge finanziaria attualmente all’esame del Parlamento anticipa, innanzi tutto, l’entrata in vigore della riforma Maroni al 1° Gennaio 2007, ma prevede una novità per quanto riguarda il fondo accantonato per il Trattamento di Fine Rapporto, che sarebbe gestito, almeno in parte, non più dall’azienda, bensì dall’Inps, in un conto corrente aperto presso la Tesoreria dello Stato. In particolare, all’Inps andrebbe il 50% della somma accantonata per il TFR, nel caso in cui il lavoratore decidesse di non destinarla ai fondi pensione; il rimanente 50% resterebbe all’azienda. Le risorse eventualmente affluite in questo modo all’Inps verrebbero gestite dal Ministero del Tesoro, che le impiegherebbe per finanziare progetti infrastrutturali e di sviluppo. Verrebbe così a costituirsi un Fondo Globale Negativo, detto così perché non risulterebbe da un flusso certo, dal momento che i lavoratori potrebbero preferire l’impiego nei fondi pensione. Quale sarebbe il vantaggio per la finanza pubblica di questa operazione? Naturalmente, essa produrrebbe, per lo Stato, un debito futuro, visto che l’erogazione del TFR rimane in ogni caso garantita dal Codice Civile; sono tuttavia da tener presente due considerazioni: 1. il tasso di interesse previsto dall’art. 2120 del Codice Civile, anche in caso di tassi di inflazione bassi22, sarebbe comunque inferiore a quello che risulterebbe da un ricorso al mercato; 2. se il flusso di entrate derivante dall’operazione portasse, nell’immediato, ad un miglioramento del rapporto deficit/PIL e, nel breve termine, di quello debito/PIL, ciò avrebbe benefiche conseguenze sui tassi di interesse di mercato. 22 Se il tasso di interesse nominale sul monte TFR è pari a 1,5% + ¾ del tasso di inflazione annuo, il tasso reale rimane positivo per livelli dell’inflazione inferiori al 6%, mentre è negativo per tassi superiori. 57 Valutazione dell’impatto dell’operazione sulle aziende. DATI MONTE RETRIBUTIVO DEL SETTORE PRIVATO: 274 MLD € TASSO DI ADESIONE AI FONDI PENSIONE (futuro atteso): 36,5% Flusso annuo totale del TFR: 274 MLD* 6,91% = 18,933 MLD € Flusso destinato alla previdenza integrativa: 18,933 MLD * 36,5% = 6,910 MLD € Entità dell’inoptato: 18,933 MLD – 6,910 MLD = 12 MLD € circa Inoptato riservato all’Inps = 12 / 2 = 6 MLD € La nostra prima conclusione è che il deflusso di liquidità per le aziende è di circa 6 miliardi di Euro l’anno. In effetti, questo dato ha un valore assai relativo in sede di valutazione, dal momento che la somma accantonata per il TFR non è altro che un prestito del lavoratore all’azienda, che essa può in qualche modo recuperare accedendo al credito di una banca. Ciò che dobbiamo considerare è dunque, più che il costo di liquidità dell’operazione, il differenziale tra il tasso garantito al lavoratore dal Codice Civile e quello di mercato. DATI: NUMERO DI LAVORATORI DELL’AZIENDA MEDIA: 10 RETRIBUZIONE LORDA MEDIA: 25 000 € MONTE RETRIBUTIVO PER AZIENDA: 250 000 € TASSO DI INTERESSE MEDIO DI MERCATO: 7% Monte TFR per azienda media: 250 000 * 6,91% = 17 275 € Inoptato annuo: 17 275 * 63,5% = 11 000 € circa Inoptato annuo riservato all’Inps: 11 000 / 2 = 5 500 € Il differenziale dei tassi di interesse è di circa il 4% (7% - 3%, considerando un tasso di inflazione annuo attorno al 2%); il costo annuo dell’operazione per un’azienda di 10 dipendenti sarà allora pari al 4% di 5 500, cioè 220 €; a livello aggregato, il costo sarà invece pari al 4% di 6 miliardi, cioè a 240 milioni di Euro, cifra inferiore a quella stanziata dal disegno di legge per il 2007 a compensazione delle perdite delle aziende (380 milioni di Euro). Naturalmente, bisogna considerare i costi degli atti in cui l’azienda incorrerebbe nell’accesso al credito23 e, soprattutto, che la situazione diverrà assai più complessa negli anni a venire, a causa della cumulazione degli inoptati annui da stornare all’Inps, cui verrebbe applicato il differenziale degli interessi passivi. Si potrebbe pensare, in futuro, ad un fondo di garanzia per l’accesso al credito di aziende in difficoltà, che sarebbe compatibile con le regole UE, ma che a tutt’oggi manca nel sistema italiano 23 Non si può non notare il grande vantaggio che l’operazione comporta per le banche, cui prospetta un ampio ventaglio di nuove relazioni creditizie. 58 “La valutazione delle politiche per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali” lezione dell’ 20-10-2006, Dott.ssa Cicerchia A cura di Maria Lucia Beneveni Potrebbe sembrare strano o destare perplessità affermare che la valutazione è un’attività estranea alla cultura politica italiana. La stessa trova difficoltà ad inserirsi anche nelle amministrazioni, ad essere compresa nelle sue finalità e potenzialità applicative, quindi ad essere realizzata. E’ una resistenza culturalmente rilevante. E questo concerne tutte e tre le fasi della valutazione ex ante, in itinere ed ex post, sulla adeguatezza dell’azione per il raggiungimento di determinati obiettivi, la verifica sul raggiungimento dei risultati. La valutazione pubblica e quella privata sono sostanzialmente uguali. In ogni caso, vale per entrambe affermare che non ha senso valutare senza aver compiuto una previa e necessaria programmazione: indicare gli obiettivi di riferimento, articolare gli obiettivi sulle strutture e i procedimenti, anche dal punto di vista quantitativo, fare riferimento a standard-parametro. Tuttavia, l’effetto paradossale è che il “divorzio” tra la cultura amministrativa italiana e la cultura della valutazione è un “divorzio” sulla programmazione, compiuta surrettiziamente con indicatori poco qualificanti, quando addirittura non fatta. L’esempio dei beni culturali. Una valutazione circoscritta al caso di specie dei beni culturali dimostra come per lungo tempo la programmazione regionale sui fondi strutturali UE ha investito sulle risorse culturali in termini di restauro e di recupero, per giunta con indicatori di risultati attesi difficili da realizzare. Così, se sui beni culturali si utilizza come misura referente il numero dei visitatori, questo dato non è in grado di fornire indicazioni di lungo periodo sugli investimenti fatti. Fissare delle priorità significa selezionare le azioni più importanti: la cultura regionale prevalente sui beni culturali ha ritenuto prioritario il patrimonio culturale, in quanto meritevole di attenzione privilegiata, seguono gli archivi e le biblioteche, poi ancora le attività culturali, tutto il resto non essendo prioritario. Conseguentemente, lo stanziamento delle risorse ha seguito la direzione prioritaria. Stabilire priorità è diverso però dallo stabilire obiettivi. La spesa destinata alle prime potrebbe non essere sufficiente. La sovrabbondanza del patrimonio culturale deve tener conto dell’altrettanta sovrabbondanza dei rischi naturali connaturati alle caratteristiche del territorio (strutturazione, distribuzione, ecc.). Per molti anni la missione compiuta sui beni culturali è stata funzionalmente limitata alla tutela e alla conservazione, logiche queste che ancorché opportune, tuttavia ingessano le attività pubbliche. Il complesso delle azioni e degli interventi sconta la mancanza di strumenti – gli elenchi di catalogazione dei beni culturali, ancorché previsti dalla legge – e il riferimento a indicatori piuttosto labili – il numero dei visitatori presuppone beni fruibili dal pubblico, ma talvolta questo comporta problemi di rilevazione (esempio: il Circo Massimo), talaltra il flusso dei visitatori non è funzione diretta dell’investimento sul restauro (esempio: il Colosseo). Negli anni ’80 irrompe il concetto di “bene culturale” sostituendo quello di <<cose di antichità e d’arte>>, più ristretto ma non meno pregnante. Implicitamente il primo però rimanda a un’idea di valutazione. L’operazione dei “giacimenti culturali”, per quanto avesse di mira il rilancio della schedatura dei beni culturali e al contempo un intervento a favore dell’occupazione nel Sud del Paese, rappresenta l’investimento non riuscito del Ministero del lavoro compiuto sui beni culturali; il mancato accordo con il 59 Ministero dei beni culturali ha comportato non solo la perdita delle schede nel frattempo prodotte, ma anche una diversa destinazione delle risorse e delle operazioni, nella direzione di aziende metalmeccaniche. Nell’ambito del quadro comunitario, la distinzione tra “beni culturali” e “risorse culturali” implica un cambiamento di prospettiva. Le risorse culturali sono strumenti finalizzati allo sviluppo locale. Così, lo strumento dei PIT – Programmi integrati territoriali – ha un problema di governance, avvertendo la complessità dei soggetti responsabili dell’autorizzazione. Per essi, la valutazione non è fatta sull’avanzamento fisico dei progetti, ma sulla correttezza procedurale. Per quanto necessaria, e benché accettata e non contestata dall’UE, da sola questa non basta, soprattutto perché, pur rispettando la correttezza formale, gli interventi rischiano di trascurare l’elemento di sostanziale utilità delle azioni da compiersi. Ciò a cui si dovrebbe arrivare è la valutazione della qualità progettuale. La qualità progettuale interna è la verifica dell’analisi di coerenza interna dell’intervento: evitare duplicazioni nell’operazione, evitare obiettivi minimi facilmente raggiungibili. La coerenza è verticale tra obiettivi e mezzi, orizzontale tra gli obiettivi. Se la valutazione di efficacia è talvolta difficile da compiere perché non si ha un giusto apprendimento su cause ed effetti del fenomeno, si può però fare una valutazione di efficienza e di prestazione. La qualità progettuale esterna mira a valutare il complesso delle relazioni di coordinamento e di collaborazione tra i partners, esterno al progetto e ad esso appropriato. E’ la misura della sostenibilità tecnica dell’intervento, della sua sostenibilità ambientale e culturale (ad esempio, taluni interventi di restauro rischiano di eliminare riferimenti a valori culturali importanti). Talvolta i fondi strutturali finanziano lo start-up ma non la gestione dei progetti. Con altrettanta perplessità sui tempi di ricezione, cominciano ad affacciarsi nell’amministrazione i concetti di valutazione finanziaria, sostenibilità istituzionale e amministrativa, sostenibilità normativa. Resta un problema di governance, come coagulare e gestire il consenso su taluni interventi. 60 “La valutazione delle politiche pensionistiche” lezione dell’ 3-11-2006, Dott. Marano A cura di Maria Lucia Beneveni Il tema della valutazione delle politiche pensionistiche seguirà un tracciato che registra tre aspetti di sviluppo: - una introduzione sul sistema pensionistico in generale; - una valutazione macro, nell’ambito europeo, sui progetti di costruzione delle politiche; - il case study del c.d. “superbonus”. Il sistema pensionistico. Le prestazioni individuabili nel sistema pensionistico generale sono prestazioni previdenziali, a fini di protezione nei casi di malattia, vecchiaia, contro il rischio di invalidità, di disoccupazione e altre cause. Le pensioni di vecchiaia in senso stretto sono associate al compimento di 65 anni di età per gli uomini, 60 anni per le donne (da estendersi a 65 anni come per gli uomini). Le pensioni di anzianità sono previste al compimento di 57 anni di età e 35 anni di lavoro – caso base; con la riforma del 2004, i parametri saranno 60 anni di età e 35 anni di lavoro – il c.d. “scalone”, a partire dal primo gennaio 2008. Le pensioni da contribuzione sono legate all’attività lavorativa. Ad esse associate vi sono le pensioni di invalidità, per eventi sopravvenuti che impediscano il guadagno di reddito. Insieme, le pensioni di invalidità, vecchiaia e ai superstiti – IVS – costituiscono le prestazioni base di tutti i sistemi previdenziali. Diversamente, la prestazione assistenziale non è legata al lavoro, ma alla condizione di bisogno; l’ “assegno sociale” è una pensione non previdenziale, ma assistenziale a chiunque abbia compiuto 65 anni di età e sia privo di mezzi di sostentamento. Il fondamento logico alla base del provvedimento è di tipo solidaristico: la società si fa carico di offrire uno standard minimo che tutti devono conseguire; è in relazione ad esso che si è sviluppato il dibattito sull’innalzamento del livello minimo per tutti (“un milione al mese”). La pensione previdenziale è tendenzialmente più alta di quella assistenziale, godendo nel sistema italiano di una integrazione al minimo, non potendo cioè risultare più bassa di un livello minimale, che, per la pensione assistenziale, è di 300 € mensili e, per la pensione previdenziale, di 450 € minimo mensili. Come è finanziata la spesa pensionistica? Rispondendo alla domanda così formulata, esistono due tecniche che rimandano a due concetti opposti: ripartizione e capitalizzazione. Il sistema di capitalizzazione tipico dei sistemi privati prevede una accumulazione di capitale, utilizzato al bisogno per il pagamento delle pensioni. Il sistema della ripartizione si basa sulla possibilità di utilizzare le somme derivanti dal pagamento dei contributi dei lavoratori attivi per il pagamento delle pensioni. Il sistema genera quindi un meccanismo di trasferimento di risorse dai lavoratori attivi ai pensionati. Quali rischi? Tutti i sistemi pubblici, nati con la tecnica della capitalizzazione, sono ora a ripartizione. Il rischio principale della prima è infatti legato all’investimento sui mercati finanziari. Dopo la crisi del 1929, e in Italia quella da iperinflazione del periodo 1945-1946, si è potuto registrare che la perdita del capitale genera e si accompagna a contesti di crisi sociale. In tal caso, la ripartizione compensa questo rischio, 61 pagando le pensioni, servendo a fini sociali. Se il sistema è in avanzo ed è finanziato a ripartizione, il surplus di risorse è stato utilizzato per migliorare provvedimenti assistenziali per i lavoratori agricoli, come negli anni ’50, ma non per i braccianti, o, negli anni ’70 in pieno sviluppo industriale, per permettere il pensionamento di lavoratori con 50 anni di età (pre-pensionamenti). Se i pre-pensionamenti sono molti e le persone sono longeve ovvero se l’occupazione si riduce, il rischio conseguente è di avere troppa gente in pensione ma non avere sufficienti risorse per soddisfarle. Il rischio demografico è un tipico rischio da ripartizione. Simbolicamente, ripartizione in inglese è detto pay as you go. Il graduale invecchiamento. I diritti pensionistici si acquisiscono nel tempo, in un periodo molto lungo. Il sistema è piuttosto predeterminato soprattutto per l’aspetto demografico. Il tasso di dipendenza degli anziani, definito come numero di persone dai 65 anni in su in percentuale della popolazione da 15 a 64 anni, nel periodo 2000-2050, riferito all’Italia, passa dal 27% al 61%. Questo aumento si avverte in Italia ma anche in altri Paesi europei e negli Stati Uniti. La speranza di vita alla nascita registra in Italia un differenziale positivo. La speranza di vita alla pensione registra una tendenza all’aumento nel tempo sia per gli uomini con più di 20 anni, sia per le donne con più di 24 anni. Il livello di natalità registra un basso livello, 1,31, nel 2004 con un lieve aumento, 1,40, nel 2025 che si stabilizza anche nel 2050. Con l’immigrazione si tende a mantenere costante fino al 2025 il totale della popolazione, per poi diminuire. Restringendosi la base produttiva, aumentando il numero dei pensionati, riducendosi il numero delle persone in età attiva, si hanno problemi di pensionamento. La crescita economica di un Paese, crescita del PIL, dipende dalla produttività del lavoro (tasso di crescita del lavoro) e dal numero degli occupati (tasso di crescita della popolazione attiva). Il rapporto tra spesa pensionistica e PIL avrebbe registrato in prospettiva, in Italia, prima delle riforme degli anni ’90 (1992 – 1995 – 1997), un aumento dal 14% nel 1995 al 23% circa nel 2045. Prima e dopo la riforma del 2004 questa percentuale nel tempo si attesterebbe su livelli più bassi e con lievi aumenti, 14% -16%. Le riforme. La riforma “Dini” del 1995 cambia il modo di calcolo della pensione, passando dal metodo retributivo al metodo contributivo. Il primo, in vigore da prima, prevede che la pensione sia commisurata alla retribuzione. Per ogni anno di lavoro, si calcola il 2% della retribuzione media degli ultimi 5-10 anni di stipendio. Questo metodo vale per chi ha più di 18 anni di contribuzione (a chi ha meno di 18 anni di contribuzione ma già lavora si applica una media dei due sistemi). Il metodo contributivo, a partire dal primo gennaio 1996, è simile al concetto di risparmio privato. Conta la contribuzione acquisita; questa confluisce su un conto virtuale, al quale si applica un certo tasso d’interesse. Alla fine della vita lavorativa, il monte risparmio contributivo è diviso per la speranza di vita. Si introduce il concetto di coefficiente di trasformazione nel sistema pensionistico (oggi è circa il 6% del capitale); esso trasforma il capitale, pur virtuale, in pensione, in rendita vitalizia. La trasformazione è fatta con calcoli attuariali: se la speranza di vita si allunga, il coefficiente viene ridotto; in ogni caso, il coefficiente è riformulato ogni 10 anni. Questo mutamento provoca un significativo ridimensionamento della dinamica della spesa pensionistica. Problemi metodologici. L’importanza del futuro nel sistema pensionistico. Ogni dato presente è legato alla situazione futura: dati i dati demografici e le tendenze di spesa per date regole, le dotazioni positive correnti non valgono di per sé ma nella prospettiva futura. 62 Non utilizzare regole correnti per valutare situazioni future… e non utilizzare regole riformulate per valutare la situazione corrente, ma adattare le regole all’orizzonte di ragionamento. Considerare il sistema pensionistico nella sua interezza quando serve. Il confronto internazionale è importante per valutare, ma deve fare attenzione alla struttura e alla composizione dei dati: un confronto tra il sistema pensionistico inglese e quello italiano non deve sottovalutare la prevalente componente privata del primo24. Valutazione e Europa. I parametri di Maastricht costituiscono nel loro insieme la valutazione della performance dei Paesi membri sulla base di taluni indicatori: deficit, debito, inflazione. Sono parametri comuni, vincolanti. Il sistema è rigoroso. Il metodo del coordinamento aperto è quello invece per cui, non avendo in materia politiche vincolanti sui Paesi, ma avendo esigenze di armonizzazione, si discute su obiettivi comuni. In ambito pensionistico, questo non è facile, in quanto si scontrano il sistema beveridgiano (sistema inglese: parte pubblica minimale – parte privata preponderante) e quello bismarkiano (pensione come collante sociale, per garantire uno standard di vita tendenzialmente simile a quello in età lavorativa). Il metodo del coordinamento aperto a livello europeo, come valutazione soft, alternativa a Maastricht (binding) è costituito da obiettivi comuni, da indicatori statistici non vincolanti, da rapporti nazionali per mostrare il raggiungimento degli obiettivi, dal confronto reciproco tra Paesi, in un rapporto alla pari – peer review e messa in risalto della best practice – da rapporti europei – peer pressure, metodo soft. Il monitoraggio della spesa pensionistica. La dinamica futura della spesa pensionistica in percentuale rispetto al PIL, riferita all’Italia, è dello 0,4 nel periodo 2005-2050. Scomposta nei suoi elementi, il tasso di dipendenza degli anziani è di 11,5 a causa del processo di invecchiamento, per cui la spesa aumenterebbe; il tasso di occupazione è basso, -2,0; il prolungamento dell’età pensionabile riduce la spesa pensionistica, -3,2; vi è una riduzione delle pensioni, 5,3. Il tasso di sostituzione del sistema pensionistico in Italia, nel periodo 2005-2050, tende ad un abbassamento negli anni, ma avendo un’età media di ritiro di 60 anni e un’anzianità media al pensionamento di 31 anni. Non è possibile il confronto diretto con altri Paesi. Nel nuovo sistema pensionistico, l’integrazione al minimo è prevista per l’assegno sociale. La valutazione del c.d. “superbonus”. Applicando alle scelte di pensionamento, e in particolare al “superbonus” introdotto dal Governo per il pensionamento dal 2005 al 2007, il principio secondo cui, la modellizzazione economica, riferita in particolare agli incentivi individuali, considera un individuo che esamina le opzioni a disposizione scegliendo quella migliore dal proprio punto di vista utilitarista, è possibile compiere operazioni di valutazione ex ante ed ex post alla misura. Il sistema pensionistico inglese è un sistema flat rate, costituito da una parte di pensione pubblica, minima, e da una parte privata (e le pensioni dei dipendenti pubblici sono calcolate a parte). Il sistema pensionistico italiano tende a garantire uno standard di vita minimo per tutti. Il rischio, in ambito OCSE, potrebbe essere quello di far apparire come distributivo quello inglese e non invece il sistema italiano. Considerando solo la parte pubblica di base del sistema inglese, questo risulta regressivo, in quanto i ricchi si avvantaggiano dei contributi relativi alla spesa di pensione integrativa, detraendola. 24 63 La misura rafforza una precedente legislazione. L’obiettivo è incentivare il proseguimento dell’attività lavorativa oltre il minimo – 57 anni di età e 35 anni di contributi – per andare in pensione. L’idea è che si potrebbe andare in pensione, ma si potrebbe anche non farlo, rimanendo nel mercato del lavoro per almeno due anni, in particolare: - si potrebbe continuare a lavorare senza necessità di mettersi d’accordo con il datore di lavoro – misura automatica; - non si pagano i contributi (32,7% del reddito del lavoratore); - i contributi confluiscono nella busta paga; - i contributi sono detassati, non si paga cioè l’imposta sul reddito (che dipende dal reddito complessivo); - la pensione maturata è congelata; - esiste la garanzia che si potrà andare poi in pensione, diritto “certificato”. Valutazione ex ante. La crescita del reddito al netto delle tasse, ovvero, quanto si ha in busta paga è pari a: (RN – tRN + 32,7%RN) – (RN – tRN) / (RN – tRN) = 32,7% / 1-t dove: RN è il reddito da lavoro; tRN è l’imposta sul reddito; t è l’aliquota media (t’ l’aliquota marginale). L’effetto dell’impatto del bonus, ovvero l’effetto dell’incentivo in busta paga è di un amento con l’aumentare del reddito lordo in busta paga…sino al 54,3% come variazione percentuale del reddito netto in busta paga in relazione ad un reddito lordo in busta paga di 75.000 €. Con il bonus, dunque, si continua a lavorare e non si gode della pensione per altri due anni. Si hanno perciò dei costi. Indicando con: DW, la variazione della ricchezza pensionistica; INC, l’incentivo; DIS, la disutilità del lavoro in termini monetari; P, il valore della pensione cui si rinuncia si ha che: DW = RN (1-t) + INC – DIS – P(1-t¯). Essa non dipende dai pagamenti pensionistici successivi, dal tasso di sconto sul futuro, (tralasciando quello sul secondo anno), bensì dipende dalla penosità del lavoro, DIS, dall’incentivo, INC, che è più forte se esente tasse, e dal tasso di sostituzione netto, P(1-t¯) / RN(1-t); maggiore è il tasso di sostituzione, minore è l’aumento di ricchezza. Nel caso di incentivo esente, l’effetto degli incentivi al pensionamento sulla ricchezza pensionistica del lavoratore, al variare del tasso di sostituzione e della disutilità del lavoro, ha valori negativi solo per un reddito da lavoro di 25.000 € con disutilità del lavoro del 67% (con un tasso di sostituzione del 70%; il tasso di sostituzione è il rapporto fra pensione e ultimo reddito da lavoro ed è riferito a quello che si otterrebbe al momento della scelta di pensionamento o prolungamento dell’attività lavorativa) e del 100%, 64 e per un reddito da lavoro di 50.000 € soltanto riferito a una disutilità del lavoro del 100%. L’effetto è dunque spesso positivo, il bonus incentiva a lavorare. E’ allora efficace? Se la disutilità del lavoro è alta, comunque non si rimane a lavorare, andandosene in pensione appena maturato il diritto, la ricchezza pensionistica data dalla somma dei valori di pensione. Se la disutilità del lavoro è bassa, si ha molta disponibilità a rimanere al lavoro. Ma non potrebbe essere che si rimarrebbe ugualmente a lavorare? Il posticipo aggiuntivo è quello per cui senza bonus si sarebbe andati in pensione, con il bonus si è incentivati ad andare. Il posticipo sostitutivo è quello per cui si sarebbe comunque rimasti, ma si preferisce farlo con il bonus. Questo non ha effetti sull’età di pensionamento, ma fa perdere contributi all’INPS ed entrate fiscali. Costa in termini di minori entrate, anche se poi la spesa pensionistica nel futuro sarà un po’ più bassa. Dunque, se sono tutti di tipo aggiuntivo, vi è un risparmio sulla spesa pensionistica. Se molti sono sostitutivi può addirittura essere che il bonus costi all’erario. Pertanto, occorre valutare la variazione della ricchezza pensionistica in caso di prolungamento di due anni senza bonus, DW’, poi confrontare di quanto aumenta con e senza bonus; l’opzione scelta è quella dove l’aumento è maggiore. DW’ = RN (1-t) – DIS – P (1-t¯) + 4% RN [ ∑25i=3 (1 / 1+δ)i ] (1-t¯) DW’ negativo → è preferibile andare in pensione. DW positivo → conviene il bonus. Nel sistema pre-riforma, l’effetto degli incentivi al pensionamento sulla ricchezza pensionistica del lavoratore, al variare del tasso di sostituzione e della disutilità del lavoro, ha valori negativi per redditi da lavoro di 25.000 e 50.000 € con disutilità del lavoro di 67% e 100% e tassi di sostituzione elevati. Mettendo insieme i dati acquisiti, l’unico caso di cambiamento si registra per un reddito da lavoro di 50.000 € con disutilità del lavoro del 67%, in relazione al quale l’effetto dell’incentivo al pensionamento sulla ricchezza pensionistica del lavoratore è di 11,8%. In molti casi il lavoratore sarebbe comunque rimasto al lavoro. Per un posticipo aggiuntivo, DW deve essere positivo ma non troppo elevato, altrimenti conveniva comunque rimandare; è molto importante la disutilità del lavoro: se è forte, comunque si va in pensione; se è bassa, comunque si continua a lavorare, se intermedia c’è qualche possibilità. L’incentivo deve essere elevato e la variazione della ricchezza pensionistica senza bonus, DW’, contenuta. Maggiore è il tasso di sconto, maggiore è il reddito, peggiori le prospettive retributive nei successivi anni di lavoro. Essendo P = 2% * numero di anni di contribuzione * (media -5 RN 0 ), oltre i 36.960 € annui il rendimento è inferiore al 2% annuo, per cui conviene di più ai ricchi; essendo la media 5 RN 0 sugli ultimi anni, se ci si aspetta un calo della pensione, conviene di più a coloro che si aspettano cadute del salario. La liquidità non dovrebbe avere grande influenza. In relazione alla possibilità di cumulo con 58 anni e 37 anni di contribuzione, gli incentivi sono fortissimi ad arrivare al requisito di cumulo, poi gli incentivi sono fortissimi ad andare comunque in pensione. In tutto questo si è considerato solo il lato dell’offerta di lavoro, non della domanda. Complessivamente, ci si aspetta che alcuni lo utilizzino, ma parecchi che avrebbero comunque rinviato il pensionamento. 65 Valutazione ex post. Nei primi 9 mesi le domande sono state 42.000 su un flusso di pensionamenti annui per anzianità attorno ai 150.000. Il flusso delle domande si è concentrato tutto nei primi mesi, poi attorno alle 2000 al mese. L’85% di chi ne ha usufruito già poteva andare in pensione; il 54,6% da più di un anno. Il 50% aveva un reddito superiore ai 40.000 € annui (media italiana 24.000) e molti sopra i 100.000. La pensione media maturata è di 33.500 € annui, contro una media di 13.000. In grande maggioranza sono manager o colletti bianchi – 90% maschi, 80% al nord o al centro. 66 “Le riforme del bilancio nei paesi OCSE” lezione del 6-4-2006, Dott.ssa Goretti A cura di Viola Gentile Il bilancio annuale di previsione è lo strumento operativo concreto della politica finanziaria ed economica del Governo ed è formato in base ai criteri e ai parametri del documento di programmazione economica e finanziaria; è redatto tanto in termini di competenza quanto in termini di cassa. Esso, dunque, è lo strumento dell’azione pubblica. Quest’ultima può essere intesa secondo tre punti di vista che possono essere considerati tre obiettivi fondamentali: stabilizzazione macroeconomia, redistribuzione del reddito, allocazione delle risorse coerente con il complesso delle politiche pubbliche e, quindi, con l’insieme degli obiettivi parziali. Essi vengono realizzati proprio tramite il bilancio. Sono state introdotte delle riforme che riguardano soprattutto la nuova terminologia: ACCOUNTABILITY = relazione tra un actor e un forum, in cui l’attore ha l’obbligo di spiegare e giustificare il proprio comportamento; il forum può porre domande e formulare valutazioni; l’attore può subire conseguenze da tali valutazioni. Si tratta, dunque, di una sorta di responsabilizzazione. L’actor può essere una collettività, una categoria, una persona. Il termine “contabilità” (che però non traduce perfettamente il termine “accountability”) è apparso per la prima volta nel 1066, quando Guglielmo I chiese un rendiconto generale delle proprietà terriere. PUBLIC GOVERNANCE = rapporto tra le istituzioni le quali producono dei risultati; accountability è un elemento costitutivo della public governance. NEW PUBLIC MANAGEMENT = questo concetto nasce da una profonda insoddisfazione dell’azione della Pubblica Amministrazione e criticità della situazione economica; da qui l’esigenza di ridare efficienza alla Pubblica Amministrazione tramite nuovi strumenti di gestione tipici delle aziende private, mantenendo costanti gli obiettivi della P.A. Accanto a questo elemento si registra una forte attenzione ai risultati. In altre parole, si passa dalla forma alla sostanza attraverso vari elementi: Dare maggiore potere ai managers Netta separazione tra politica e amministrazione (teoria del principale-agente) Segmentazione della P.A. Esternalizzazione e competizione tra fornitori. Sull’onda di queste riforme (performances reforms) occorre allentare i controlli sugli inputs e dotare i managers di poteri di valutazione sui risultati. In relazione a quest’ultimo punto esistono delle problematiche come ad esempio: - La misurazione dell’azione pubblica - Gli indicatori: output o outcome - Indicatori o target - Affidabilità dell’informazione - Carico di informazione. 67 Alcuni strumenti delle riforme sono: trasparenza, contabilità economica (accrual accounting), disciplina fiscale (MTEF e metodo top-down). Contabilità economica e contabilità finanziaria Il bilancio registra le operazioni in termini finanziari, pertanto, è un bilancio finanziario. Ogni operazione può essere valutata da due punti di vista: quello economico e quello finanziario. CONTABILITA’ ECONOMICA = misura il valore delle risorse umane e strumentali utilizzate da una organizzazione, cioè, i costi e i ricavi (bilancio economico) CONTABILITA’ FINANZIARIA = misura gli esborsi monetari sostenuti e gli introiti monetari (bilancio finanziario: crediti, incassi, debiti e pagamenti). Tra contabilità economica e finanziaria ci possono essere delle differenze di tipo temporale, strutturale, assenza di corrispondenza tra spese e costi. I concetti più importanti delle riforme di cui si sta parlando sono EFFICACIA, EFFICIENZA, ECONOMICITA’ e VALUE FOR MONEY. Value for money Efficiency Economy Resources Resources Effectiveness Resources Resources Other influences EVOLUZIONE NEI PAESI OCSE “Let managers manage” “Holding managers accountable for what they do, not how they do it” “Each minister is how Finance Minister” Nuova Zelanda - 1978: inizia il dibattito sui risultati I metà ’80: fase manageriale: Introduzione della competenza economica Smantellamento degli strumenti di controllo centralizzato Questi primi tentativi risultano, tuttavia, un po’ disorganici. 68 - II metà ’80: forte orientamento al mercato anche se l’azione strategica di governo si dimostra insoddisfacente. 1994: fiscal responsibility act: disegno di legge che inserisce il modello fiscale che impone l’obbligo di trasparenza a tutte le strutture pubbliche Regno Unito Periodo di riferimento: Governo Tatcher - 1982: finacial management iniziative; primi obiettivi fissati. - Fine ’80: creazione delle agenzie - 1990: carta dei servizi - 1998: Public Service Agreements, PSA - 1999: Best Value P.M./benchmarking; completare il processo fino all’outcome finale della produzione dei servizi pubblici - 2003: full accrual accounting a tutti i livelli di governo Gli inglesi usano molto il “value for money” Francia Riforma del bilancio nel 2001 (dal 1959) entrata in vigore nel 2006: rivoluzione delle logiche della finanza. Introduzione della questione dei risultati: - maggiore libertà ai dirigenti pubblici - trasparenza e ruolo centrale del Parlamento - sono state individuate 34 missioni con 132 programmi la missione può essere interministeriale al di sotto dei programmi ci sono 120 azioni la flessibilità si ferma al livello del programma c’è l’indicazione di un dirigente responsabile degli obiettivi Mission Programme Action Action Action Programme Action 69 Programme Le riforme del bilancio dello Stato italiano (riferimenti normativi) Legge n.468/1978 Legge n.362/1988 Legge n.94/1997 Legge n.208/1999 Riforme Amministrative: Legge-delega 421/1992 in materia di pubblico impiego Decreto legislativo 29/1993 oggi D.Lgs 165/2001, responsabilità dei dirigenti Decreto legislativo 300/1999, riforma dell’organizzazione di Governo (esempio: agenzie fiscali) Legge-delega 59/1997 (Legge Bassanini), decentramento amministrativo Decreto legislativo 286/1999, controlli interni Legge n.94/1997 e Decreto legislativo n.279/1999, delega ad individuare nuove strutture contabili di bilancio per renderlo più chiaro ed intelligibile: - Nuovo principio di specificazione (UPB) - Le funzioni-obiettivo: conoscenza delle politiche di settore. - Introduzione di un sistema di contabilità economica al fine di consentire la valutazione economica dei servizi prodotti. Le UPB e le funzioni-obiettivo sono rimaste distinte 70 “La riforma delle procedure di bilancio nei paesi OCSE” approfondimento delle tematiche trattate dalla Dott.ssa Goretti nella lezione del 6-4-2006, A cura di Anguel Beremliysky 1. Ruolo e funzioni del bilancio pubblico quale strumento dell’azione pubblica Il bilancio è uno dei principali elementi dell’azione pubblica insieme alla regolamentazione. La definizione del suo ruolo e funzioni trova le proprie origini nella celebre tripartizione proposta da Richard Musgrave nel trattato di finanza pubblica The Theory of Public Finance del 1959. In questa sua opera, infatti, egli si propose di articolare l’attività finanziaria dello Stato e quindi la struttura del bilancio (Bosi 2003, p.14) in tre principali branches : allocazione, redistribuzione e stabilizzazione25. Analizzando il primo, scopriamo che l’allocazione26 cerca di capire in che modo e fino a qual livello lo Stato possa influenzare l’efficienza economica, che sembra essere anche uno dei principali obiettivi che l’economia di mercato persegue nelle società capitalistiche contemporanee. La redistribuzione27 è un’altra funzione svolta dallo Stato e realizzata dal bilancio pubblico. Essa consiste principalmente nell’introduzione di correttivi per migliorare le funzioni allocative. Tali correttivi sono, per esempio, gli interventi sulla distribuzione dei redditi e dei patrimoni che nella società si realizza attraverso l’operare del mercato. In mancanza di simili interventi, la distribuzione del reddito sarebbe determinata unicamente dalla distribuzione delle dotazioni iniziali dei soggetti che compongono una società. Secondo Luigi Einaudi, il mercato è adatto per “produrre beni e servigi, precisamente nella quantità e della qualità corrispondenti alla domanda degli uomini; non si afferma che il mercato indirizzi altresì la produzione a produrre beni e servizi nella quantità e nella qualità che sarebbe desiderata dagli uomini. Sul mercato si soddisfano domande, non bisogni.” La stabilizzazione28 è lo strumento che promuove la stabilità a livello macroeconomico, secondo il modello dell’equilibrio economico generale. Nella definizione di Musgrave, questa funzione ha come obiettivo quello di garantire il livello di produzione più vicino a quello di pieno impiego. A causa di una serie di vincoli storici, strutturali e internazionali (o sovranazionali), il significato tradizionale della funzione di stabilizzazione – intesa come uso sistematico di spesa e tassazione per controllare il ciclo – è andata sempre più retrocedendo per dare negli ultimi anni precedenza al dibattito sulla possibile coesistenza di rispetto per le regole di corretta gestione della finanza pubblica e interventi volti a promuovere la crescita delle economie (Bosi 2003, pp.14-17). 2. Riforma del management pubblico e la dottrina del New Public Management Prima di dedicare la principale attenzione alla riforma del bilancio e delle relative procedure, conviene chiarire il processo di riforma del management pubblico, insieme ai suoi tratti distintivi e più importanti tendenze. A partire soprattutto dagli anni Ottanta si denota un continuo e crescente interesse alla riforma del management pubblico, accompagnato dalla tendenza di assegnare a tale argomento anche Per ultteriori dettagli si veda anche: Richard A. Musgrave (1995), Finanza pubblica, equità, democrazia, Bologna, il Mulino, e Richard A. Musgrave e Peggy B. Musgrave (1989), Public Finance in Theory and Practice, New York, McGraw-Hill. 26 Il settore allocatico ha, secondo Musgrave, la funzione “di stabilire quali bisogni puublici si debbano soddisfare, in che misura e chi debba sostenerne il costo”. Cfr. Richard A. Musgrave, op. cit., p. 130. 27 “Se la società desidera effettuare modificazioni alla distribuzione – afferma Musgrave – il bilancio pubblico, attraverso imposte e trasferimenti, è in grado di realizzarle, cercando di interferire nel minor modo possibile con l’operare del mercato”. Ibid. , p. 134. 28 La funzione di questo settore è “il mantenimento di adeguato livello di domanda aggregata”. Ibid , p.135. 25 71 un posto di notevole rilevanza nei programmi e nelle scelte politiche dei governi occidentali. Tale paradigma si consolida ulteriormente dal momento che il contesto in cui esso viene componendosi è definito da problemi relativi alla gestione e all’implementazione delle risorse negli interventi pubblici in una fase che succede ad una esplosione senza precedenti della spesa pubblica con la relativa inevitabile crisi del welfare state classico. Proprio la necessità di conseguire determinati risultati e l’esigenza sempre più sentita di ottimizzare gli input portano in definitiva ad una maggiore attenzione agli aspetti gestionali e al funzionamento dell’apparato burocratico preposto all’attuazione degli interventi o delle politiche pubbliche. La riforma del management pubblico è pertanto vista come un mezzo per ottenere un risultato e non come obiettivo in se stesso. Tra i fini multipli che essa si pone, infatti, vi sono: la realizzazione di risparmi (economie) nella spesa pubblica, migliorare la qualità dei servizi pubblici, rendere più efficienti le attività del governo e aumentare la possibilità che le politiche scelte e realizzate siano effettivamente efficaci (Pollitt e Bouckaert 2002, p. 1). Prima di andare a definire quali siano i parametri della riforma del management pubblico conviene soffermarsi brevemente su alcune precisazioni terminologiche che riguardano il processo medesimo. In tanto, il management pubblico ha costituito l’argomento principale di una ricca letteratura analitico-scientifica, riuscendo a ricevere definizioni numerose. Nella tabella di cui sotto vengono evidenziate alcune delle più note: Autori: Perry e Kraemer (1983) Metcalfe e Richards (1987) Pierre (1995) Clarke e Newman (1997) König (1996) Definizione: “Il management pubblico è la combinazione dell’orientamento normativo dei tradizionali studi di amministrazione pubblica con l’orientamento strumentale del general management” “Il campo del management pubblico è meglio definito analiticamente che istituzionalmente. (...) L’area critica del management pubblico è la gestione dell’interdipendenza organizzativa, per esempio nella prestazione dei servizi o nella gestione del processo di formulazione del budget. Il management pubblico riguarda l’efficace funzionamento dell’intero sistema delle organizzazioni...” “Noi concepiamo la pubblica amministrazione come output chiave nel collegamento fra lo stato e la società civile. Tuttavia, l’interfaccia tra pubblica amministrazione e società civile è una strada a doppio senso che include la realizzazione di politiche pubbliche così come le richieste di azioni politiche da parte di attori privati verso i decisori politici”. “Parliamo dello stato manageriale perché vogliamo individuare il managerialismo come una formazione culturale e un insieme distinto di ideologie e pratiche che formano uno degli elementi fondanti di un accordo politico emergente”. “La pubblica amministrazione può essere interpretata come un sistema sociale e funzionante secondo un proprio ordine ma, d’altro canto, dipendente anche dalle condizioni ambientali in una società complessa in cambiamento”. Tabella 2 Definizioni di public management al confronto 72 Dalle formulazioni evidenziate sopra emerge come il processo di affermazione del management pubblico passa attraverso una combinazione di caratteristiche formali tipiche dell’azione autoritativa del potere pubblico e aspetti operativi e strumentali di una dimensione gestionale intesa nel senso stretto della parola e applicabile pertanto al settore privato. In più, il processo è andato man mano istituzionalizzandosi nella struttura centrale della pubblica amministrazione (PA) che, come tale, ha acquisito una vera e propria cultura. Essa è altresì posta in una posizione intermedia tra stato e quindi autorità e la società civile per garantire la risposta del primo alle richieste della seconda, facendo ciò secondo logiche interne ma, allo stesso tempo, funzionali all’ambiente esterno. Così si arriva al concetto di riforma. Essa consiste in cambiamenti deliberati delle strutture e dei processi delle organizzazioni del settore pubblico con l’obiettivo di fare in modo che funzionino meglio (Pollitt e Bouckaert 2002, p. 4). In sé, il termine “riforma” diventa denso di significati e implica non solo il cambiamento, ma un cambiamento che porta dei benefici in quanto “movimento deliberato da uno stato passato meno desiderabile ad uno stato futuro più desiderabile”. Due sono le chiavi di lettura della riforma del management pubblico e, in particolare, del bilancio, che sarà trattato in seguito. Queste prospettive sono: accountability e New Public Management (NPM). 2.1. Accountability Prima sono state elencate le principali funzioni del bilancio pubblico. Nella sua accezione allocativa e stabilizzatrice, il risultato dipende direttamente dalla decisione delle istituzioni, mentre nel caso dell’intervento ridistribuivo l’output è rappresentato dalla redistribuzione tra le famiglie della possibilità di spendere privatamente. In entrambi i casi trattasi di impiego di risorse considerevoli e sia l’efficienza che l’equità divengono fattori essenziali dell’azione di governo. Ecco perché per misurare questi fattori è fondamentale creare degli appositi sistemi e meccanismi di accountability29. Mentre per le attività che rientrano nella sfera dei rapporti economici fra privati, una forma di accountability viene fornita dagli stessi effetti sistemici del mercato (in condizioni concorrenziali, un consumatore non soddisfatto può optare per soluzioni alternative all’interno di una varietà di fornitori), il settore pubblico e la sua responsabilizzazione nei confronti dei suoi utenti devono essere intesi in un senso molto più ampio, dal momento che i relativi meccanismi non solo andranno a sostituire quelli del mercato che hanno dimostrato una erosione nel funzionamento, ma tenderanno ad allargarne l’applicazione. L’estensione della accountability sarà pertanto arricchita da un insieme molto più vasto di attori, nonché di un settore più ampio di azione (Heald 1987, p. 154), mentre il suo contenuto è definito da un’esplicitazione e giustificazione di qualcosa che si vuole ottenere. Questo significato implica al contempo l’esistenza di una “relazione tra un actor e un forum, in cui l’attore ha l’obbligo di spiegare e giustificare il proprio comportamento; il forum può porre domande e formulare valutazioni; l’attore può subire conseguenze da tali valutazioni”30. 2.2. Il New Public Manegement Il NPM è un paradigma empirico collegato ai processi di modernizzazione del settore pubblico, avviati all’inizio degli anni Ottanta. Questi processi hanno inizialmente interessato prevalentemente i sistemi di PA “aperti” tipici quali il Regno Unito, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda ecc. Parallelamente andava sempre più aumentando l’attenzione dedicata al fenomeno da parte degli ambienti accademici e degli istituti di ricerca. Così nella prima metà degli anni Ottanta si arrivò altresì alle prime sistematizzazioni delle sue caratteristiche. Di conseguenza, le logiche del NPM si sono presto estese ai Sebbene manchi una traduzione in italiano ritenuta sufficiente per esprimere il concetto di questo termine, la formulazione che si avvicina di più potrebbe essere la “responsabilizzazione”. 30 M. Bovens, Analysing and Assessing Public Accountability, 29 73 sistemi c.d. “chiusi” dei principali Paesi dell’Europa continentale – Francia, Germania, Italia e Spagna, come anche ad altri sistemi politici democratici extra-europei come il Giappone. All’inizio degli anni Novanta, cominciarono a comparire le prime valutazioni dei sistemi di PA “aperti” alla luce degli effettivi risultati conseguiti attraverso il processo di innovazione amministrativa del NPM, mentre sulla base dei risultati di queste valutazioni i nuovi meccanismi trovarono sempre più applicazione in settori, considerati di livello di difficoltà consistenti, quali la sanità e l’educazione (ad esempio il programma britannico Working for patient). Ai rilievi positivi della nuova esperienza, seguì una diffusione sempre più estesa sul piano internazionale. La miglior prova ne fu la costituzione di un osservatorio permanente a livello internazionale - il PUMA Public management service dell’ Organizzazione cooperazione e sviluppo economico (OCSE)31. Grazie all’introduzione delle relative pratiche nell’Olanda e nei Paesi scandinavi venne proposta anche una revisione critica del neomanageralismo che portò alla costruzione del paradigma del Public governance, mentre negli Stati Uniti si fece strada un processo autonomo che prese diverse denominazioni come Reinventing government e National performance review. Alla fine anni 90 emersero nuove leve di azione del NPM e si aprì un processo di valutazione nei diversi sistemi di PA dei paesi avanzati sugli effettivi risultati conseguiti in relazione ai costi sostenuti dai processi di modernizzazione. Questa valutazione fu altresì accompagnata dall’estensione delle logiche NPM alle economie in transizione (programma SIGMA, gestita congiuntamente da OCSE e Unione Europea32) ed ai paesi emergenti ed in via di sviluppo (ruolo di promotori svolto dalle Nazioni Unite e dalla Banca Mondiale - institutional building). Nel frattempo, è stata riconosciuta la necessità di introdurre correttivi alle logiche neomanageriali: se n’è occupato il suddetto programma PUMA attraverso il collegamento di logiche e meccanismi del public management a quelli della governance. In questo contesto, bisogna riconoscere che il NPM sia un paradigma in evoluzione che ha raggiunto un livello di diffusione notevole, non trascurando però la crescente importanza delle specificità nazionali, dei processi di apprendimento (learning by doing) e del confronto/benchmarking tra le diverse esperienze nazionali e per settore. L’obiettivo principale di questa nuova impostazione è il recupero di efficienza nella PA, attraverso strumenti e metodi delle aziende private e una maggiore attenzione ai risultati. Le linee guida dell’azione sono pertanto il trasferimento intelligente dei sistemi di gestione sviluppati nelle imprese private for profit al settore pubblico, una maggiore autonomia manager (dirigenti della PA) rispetto ai decisori politici (secondo quanto sancito dalla teoria del principale-agente) e la loro responsabilizzazione per quanto concerne le esigenze utenti-cittadini. Un’attenzione prioritaria viene assegnata ai sistemi di gestione come gestione del personale, programmazione budgeting e controllo, marketing e comunicazione, sistemi per il miglioramento della qualità. Uno degli elementi fondamentali trasferiti dall’esperienza privata è costituito dalla concorrenza. In virtù di questo principio, il NPM sviluppa una prospettiva di una vera e propria competizione interna al settore della PA, ovvero una competizione amministrativa. Nel suo ambito le organizzazioni e gli enti pubblici si trovano a operare nelle condizioni concorrenziali simili a quelle del mercato. Le logiche competitive prevedono in questo caso separazione tra ente pubblico cliente ed ente pubblico fornitore e sono centrate o sugli utenti o su enti pubblici clienti. Fra le leve di azione, ispirate al funzionamento del mercato vi sono: • • 31 32 Voucher e buoni per utenti servizi pubblici (sanità, educazione) che trae le proprie origini dal modello statunitense del c.d. consumer choice; Affidamento attività e/o servizi imprese private (outsoursing) for profit e no profit (contracting out) e organizzazioni pubbliche (contracting in); Per maggiori informazioni si consiglia la consultazione del sito web ufficiale dell’osservatorio: http://www.oecd.org/puma. Sito web ufficiale: http://www.oecd.org/sigma. 74 • Vendita o affitto diritti di proprietà del patrimonio pubblico (foreste, aree di pesca, aree monumentali). L’altro ambito di interventi riguarda esclusivamente le strutture della PA. Vengono a tal proposito considerate due prospettive: downsizing e upsizing. Esse possono comprendere interventi estesi su assetto organizzativo del governo centrale (ministeri) e/o del governo locale (enti di esercizio delle autonomie locali). Il processo di downsizing è fortemente influenzato dal principio di sussidarietà e prevede una progressiva segmentazione delle strutture della PA, nell’intenzione di avvicinare i più possibile i beni e i servizi forniti agli utenti cui sono destinati. In questa ipotesi si inseriscono la devoluzione di poteri e competenze da strutture più centrali e corpose a enti più piccoli (Affidamento attività / servizi all’ esterno, creazione di centri servizi PA a cui affidare attività supporto tecnico logistico e creazione di agenzie operative autonome e/o di agenzie indipendenti). Gli interventi possono seguire due logiche distinte che sono, da un lato, quella del decentramento dei servizi e, dall’altro, il principio di specializzazione per settore di competenza. Al contrario, la tendenza verso l’accorpamento attraverso fusione di strutture e funzioni a livello centrale viene contraddistinta con il termine upsizing. L’adozione delle logiche di NPM si presenta in modo differenziato nelle singole realtà nazionali dove vi sono alcune parole chiave che identificano i contenuti prioritari dei processi di modernizzazione e riforma. Ecco alcuni esempi significativi: Regno Unito - Vincoli finanziari, coinvolgimento finanziamenti privati (private finance initative e public private partnerships), accentuazione logiche contrattuali interne PA ed esterne (forme contrattuali, competitive tendering); Francia - Valutazione effetti politiche pubbliche e revisione dei servizi Canada - Qualità dei servizi, TQM, soddisfazione cittadino / utente, visione e pianificazione strategica; Italia - Aziendalizzazione, decentramento, federalismo, semplificazione e trasparenza Stati Uniti – Re-engineering e semplificazione (modello 5R), PA costa meno e che funzioni meglio, ripensare e reinventare il governo33. Infine, sulla base di osservazioni empiriche si potrebbe concludere che agli obiettivi e agli incentivi del NPM sono state adottate diverse opzioni di intervento. La prima e più diffusa per ora è quella definita da un approccio top-down che prevede interventi dall’alto, promossi dal governo centrale (attraverso un nucleo preposto come il dipartimento o il ministero della funzione pubblica) attraverso leggi a cui possono essere associati sistemi premianti o punitivi con riferimento rispettivamente a obiettivi raggiunti o mancati. In alternativa, si propone anche il processo inverso di sperimentazione volontaria da parte di singoli enti pubblici e successiva diffusione nel sistema PA dei modelli emergenti, noto come prospettiva bottom-up. Vi sono altresì soluzioni intermedie come, per esempio, quella di un’azione coordinata tra livello centrale che promuove politiche di sostegno e promozione e diffusione dal basso di esperienze innovative e best practices, oppure vari progetti di incentivazione della qualità, come i premi innovazione (quality award) e benchmarking sistematico sui risultati e sui processi. L’ex vicepresidente americano dichiarava in proposito: “Il presidente Clinton e io siamo orgogliosi di far funzionare meglio il governo così come lo siamo di ridurne le dimensioni. Non è ancora abbastanza efficiente, o abbastanza piccolo, ma stiamo sicuramente andando nella direzione giusta.” Al Gore (1996) The best-kept secrets in government: a report to President Bill Clinton, Washington, DC, US Government Printing Office, National Performance Review, p.4. 33 75 3. Riforma del bilancio 3.1. Nuove esigenze e nuovi contenuti per il bilancio Nell’ambito del più globale discorso di miglioramento della gestione della cosa pubblica, le riforme di bilancio sono state molto comuni e spinte da due specifiche pressioni esterne. La prima è stata l’esigenza di limitare la crescita della spesa pubblica per ragioni macroeconomiche, che risentono dei cicli economici e della forza o debolezza strutturale dell’economia stessa. Come abbiamo già avuto modo di vedere, l’altra pressione proveniva dalla necessità di un progressivo ed effettivo miglioramento delle prestazioni all’interno del settore pubblico, verso tipi di budgeting e gestione finanziaria che stimolino o spingano verso una maggiore efficienza o efficacia o una più elevata qualità o combinazione di questi tre miglioramenti. In seguito di queste spinte esogene, si è osservata quella che è stata definita un’espansione nell’ambito e nello scopo del budgeting (Pollitt e Bouckaert 2002, p. 82). Da un processo in cui inzialmente la determinazione delle allocazioni era di tipo incrementale e si presentava in forma rigidamente formalizzata, sottoposta ad un varo definitivo e controllo del solo Parlamento, il budgeting è così entrato in una nuova fase della sua evoluzione, connessa con altri processi, quali la pianificazione, la gestione operativa e la misurazione nonché valutazione delle prestazioni. Contestualmente, gli aspetti tecnici della gestione finanziaria uscivano gradualmente dal dominio degli stretti specialisti e invadevano sempre più potentemente la formazione ed il lavoro di tanti, se non della maggior parte, dei civil servants e manager pubblici di livello intermedio34. Logicamente, una delle prime risposte alle pressioni sulle finanze pubbliche erano rappresentate dalla ricerca e il perseguimento di obiettivi di risparmio. L’approccio orientato unicamente all’economia non sempre, come dimostrano le osservazioni empiriche, si è potuto ben integrare con le riforme necessarie per promuovere il miglioramento delle prestazioni. Politiche e azioni, attuate da alcuni governi e ispirati al principio di “stringere i cordoni della borsa”, ovvero rafforzare le competenze finanziarie centrali per tagliare la spesa dall’alto, non ha tuttavia garantito un risultato ottimale, proprio a causa del mancato nesso con le prestazioni (Pollitt e Bouckaert 2002, p. 83). Questo perché i manager pubblici si sentono oggetto di interventi particolaristici da parte dell’onnipotente centro, non potendo intervenire sulle decisioni di quest’ultimo né direttamente né indirettamente, finendo in pratica per esserne semplici vittime. Un’altra possibile risposta, stavolta meno distante dalla logica della performace35, è stata quella praticata in diversi periodi in Paesi come la Finlandia, la Svezia e gli Stati Uniti. Essa consiste, in realtà, nell’adozione o nell’aumento dei c.d. trasferimenti indistinti. In un sistema simile il governo (ministero) centrale stabilisce mediante una formula convenzionata l’ammontare totale degli stanziamenti per ogni municipalità (o qualsiasi altra unità amministrativa), fissandone in questo modo un tetto e delegando, al tempo stesso, la responsabilità per l’allocazione tra servizi, programmi e progetti a politici, manager pubblici o civil servants locali. Il principale vantaggio di questo meccanismo sta nella determinazione localmente circoscritta delle priorità, riducendo così al massimo la distanza tra chi decide l’allocazione, chi la implementa e chi ne riceve i risultati. Tuttavia, questo comporterebbe un’eccessiva responsabilità di prendere decisioni importanti in un contesto di priorità e obiettivi spesso in contrasto fra di loro. L’approccio dei trasferimenti indistinti abbisogna altresì di una modifica procedurale che tenga ben separate la definizione del quadro finanziario complessivo e la fase di determinazione dell’impiego delle risorse localmente. E’ completamente diverso, invece, il caso di una riforma del bilancio che prenda in considerazione l’importanza cruciale delle prestazioni. In una simile ipotesi si può arrivare a formulare diverse risposte: Sull’argomento si veda: S. Zifcak (1994), New managerialism: administrative reform in Whitehall and Canberra, Buckingham, Open University Press; e OECD (2001), Public Sector Leadership for the 21st Century . 35 Sul concetto di performance nel settore pubblico e le relative modalità di misurazione, si veda Kevin J. Fox (ed.) (2002), Efficiency in the Public Sector, Boston, Kluwer Academic Publishers. Kathleen Anders (2002) invece definisce il performance budgeting così: “the process of linking expected results to budget level”. 34 76 1. Accompagnare i documenti di budget annuale con informazioni, più o meno dettagliate, riguardo alle prestazioni stesse. 2. Cambiare il formato e il contenuto del budget stesso, spostandosi solitamente da un budget dettagliato per capitoli verso una sistematizzazione, legata alle prestazioni o a processi di pianificazione strategica. 3. Cambiare la procedura del budgeting stesso, per esempio cambiando gli incentivi che vengono dati a coloro che svolgono un ruolo più importante nel budgeting o modificando sostanzialmente la struttura o i tempi della discussione o anche tentando di cambiare il ruolo del parlamento nel processo di formazione del bilancio (Pollitt e Bouckaert 2002, p. 84). Si deve comunque tener ben presente che il processo di formazione e approvazione di un bilancio e ancor più la sua riforma siano dei processi altamente politici che necessitano anche di un certo periodo di tempo prima che gli attori istituzionali percepiscano interamente il nuovo quadro, facendo così funzionare il nuovo insieme di regole. Da un punto di vista generale, i principali cambiamenti volti a rafforzare l’attenzione sui risultati nel processo di budgeting sono stati realizzati in Australia, Finlandia, Nuova Zelanda, Svezia e Regno Unito. Analizzando e confrontando questi casi si potrebbe arrivare senza problemi all’individuazione del modello ideale di riforma del bilancio. Il suo punto di partenza è rappresentato da un sistema di contabilità finanziaria tradizionale. Il percorso comprende pertanto un passaggio a una contabilità a partita doppia, possibilmente con analisi dei costi, di cassa modificata e di competenza modificata e, da ultimo, con lo sviluppo di una contabilità secondo il principio di competenza economica mirata a fornire informazioni relative alle prestazioni (Pollitt e Bouckaert 2002, p. 86, Anders 2001, p.17). 3.2. Terminologia La fenomenologia della riforma di bilancio si incentra su alcuni termini chiave quali performance, trasparenza, efficacia, efficienza, economicità, ecc. Mentre il primo è stato già definito come fondamentale per la tendenza di predisporre meccanismi per la misurazione e la valutazione dei manager pubblici sulla base dei loro risultati, mentre il secondo è sancito dalla necessità di una maggiore accountability e si trasforma, come abbiamo visto, nell’allegare documenti informativi aggiuntivi al budget, conviene ora spendere qualche parola sugli altri. Essi rappresentano la base della gestione, intesa come “sistema di operazioni simultanee e successive che dinamicamente si dispiega, finché l’azienda ha vita, per il raggiungimento dei fini della medesima”36. La gestione può avere quattro aspetti: suo impiego; gestione finanziaria – quando ci si riferisce alle attività di provvista del capitale e del gestione monetaria – se si considerano le operazioni che concernono i movimenti - effettivi di denaro; gestione economica – se si ha riguardo all’esercizio dell’azienda che prende in considerazione non soltanto i movimenti finanziari delle entrate e delle spese, ma che fa riferimento a ricavi, e cioé a tutte le componenti attive del bilancio anche se non direttamente collegate ad un’entrata finanziaria (rivalutazioni, plusvalenze) e costi, e cioé a tutte le componenti passive del bilancio anche se non direttamente collegate ad un’uscita finanziaria (svalutazioni, minusvalenze, ammortamenti, ecc.); gestione patrimoniale – quando si intende parlare delle operazioni che attengono all’amministrazione delle componenti del patrimonio dell’azienda (Manacorda 2005, p.9). - - 36 Cfr. P. Onida (1971), Economia d’azienda, Torino, UTET, p.121. 77 Il bilancio compendia tutte le suddette manifestazioni, ma ai fini della nostra esplorazione si rivelano più incisive la versione finanziaria e quella economica. Poiché uno degli elementi classici del bilancio pubblico è stato a lungo la sola contabilità finanziaria, la necessità di riformarlo pone il problema ad un passaggio a doppia contabilità, comprendente cioé oltre alla finanziaria anche la contabilità economica. Questo in pratica significa che ogni operazione di finanza pubblica può essere esaminata da una duplice angolazione. La contabilità finanziaria si occuperà in tal caso del dare misura degli esborsi sostenuti e gli introiti in termini monetari, mentre la contabilità economica si concentrerà su grandezze come il valore delle risorse umane e strumentali utilizzate da una organizzazione, cioé i suoi costi e ricavi. Questa contabilità a doppia partita riveste un’enorme importanza dal punto di vista del perseguimento degli obiettivi e del miglioramento dei risultati della gestione in quanto aiutano ad esprimere un giudizio alla luce dei criteri di efficienza, efficacia ed economicità., riassunti nella tabella successiva. D’altronde solo attraverso la contabilità economica è possibile misurare l’economicità complessiva della gestione (Manacorda 2005, p.34). Criterio Logica Efficienza Consiste nell’attitudine del processo produttivo a trasformare l’input (risorse) in output (risultato). E’ altresì immaginabile come il rapporto tra servizi erogati (output) e risorse impiegate (input): misura quanto output si ottiene con un unità di input, oppure quante unità di input servono per produrne una di output. E’ il rapporto tra bisogni soddisfatti (outcome) e servizi erogati (output). L’individuazione in questo caso di obiettivi di livello diverso porta alla definizione di nozioni di efficacia differenziate. Occorre distinguere fra efficacia manageriale, relativa agli obiettivi operativi, la cui realizzazione è assegnata al dirigente ed efficacia globale, connessa al raggiungimento degli obiettivi strategici, rilevante soprattutto per coloro i quali hanno responsabilità di governo politico. Esso mette in relazione risorse impiegate e risultati conseguiti per stabilire la capacità nel lungo periodo di soddisfare i bisogni con un flusso di ricchezza “fisiologico”, valutando ciò che è economicamente sostenibile e socialmente accettabile. Efficacia Economicità Tabella 3 Efficienza, efficacia ed economicità secondo F. Pezzani, (2005/2006), Criteri di valutazione dell’attività amministrativa, Nota didattica, 2005-2006, Milano, Univ. Bocconi. L’ultimo termine, ma non per importanza, è quello relative all’approccio pluriennale di programmazione del bilancio, il quale è noto nella letteratura specializzata come Medium-Term Expenditure Framework (MTEF). Questo meccanismo rafforza, in particolare, il legame tra le scelte di un governo o di una PA per quanto riguarda gli obiettivi delle loro politiche pubbliche, il budget che metteranno a disposizione per il relativo conseguimento, ed i risultati finali per quanto riguarda la fornitura di beni e servizi, che da parte sua sarà determinante per la trasparenze e la correttezza dei processi decisionali, come per la maggior accountability dei decisori. Attraverso il MTEF le decisioni e i trade-off vengono subito dichiarati in modo tale da rendere le decisioni di spesa possibili nel medio periodo e migliore la gestione delle risorse. Il budgeting pluriennale non si limita ai soli numeri, ma concerne l’individuazione di priorità in prospettiva, nonché l’attenta pianificazione e programmazione in riferimento ai prodotti/servizi da fornire. 78 4. Riforma del bilancio nel contesto OCSE Il disegno del bilancio e della procedura per la sua formazione rappresenta uno strumento fondamentale nell’ambito del management pubblico e nel processo politico per intero. Per questo motivo i relativi sistemi legislativi sono non solo elementi di base della riforma della governance, ma giocano un ruolo pivotale nel proiettare e influenzare i comportamenti degli attori di questo processo. 4.1. Le cinque fasi di base della procedura di bilancio Essa può essere generalmente riassunta in uno schema semplificato contenente cinque fasi distinte. La prima è dominata dall’esecutivo, il quale prepara un progetto di bilancio e lo sottopone all’organo legislativo per la sua approvazione. Questa prima fase si articola solitamente in due stadi: il primo consiste nell’elaborazione del progetto da parte di un Ministero delle Finanze (o equivalente), nella quale viene incorporata la linea politica del governo. Sarà poi quest’ultimo a dare via libera al disegno per la sua presentazione in parlamento. La secondo fase è quella parlamentare: il progetto presentato viene discusso presso i competenti organi parlamentari (commissioni permanenti, comitati ecc.) e poi, ove necessario con qualche emendamento, viene in definitiva licenziato da parte dell’assemblea. La terza fase prevista corrisponde all’implementazione da parte dell’esecutivo e/o delle agenzie governative. Nel fare ciò, un organismo (nella maggioranza dei casi all’interno del Ministero delle Finanze o equivalente) supervisiona questo processo e stende relazioni regolari su quanto osservato. Il governo può, e spesso lo fa, ricorrere a ulteriori poteri di modifica successiva del bilancio in attuazione. Tali poteri possono essere sanciti da certi presupposti di emergenza, da possibilità di apporre modifiche nella composizione o utilizzare fondi di riserva, o decidere di ridurre la spesa preventivamente accordata. In un quarto momento si torna in Parlamento per il suo controllo sull’implementazione. Tale controllo avviene sia durante sia, soprattutto, dopo la scadenza dell’anno fiscale di riferimento. Rientra pertanto nelle competenze esclusive del legislatore definire la frequenza dei suoi rapporti, nonché i suoi parametri: se considerare i dati finanziari dell’esercizio (contabilità annuale) oppure concentrarsi su informazioni non finanziarie (rispetto degli obiettivi di performance). Il quinto è ultimo livello della procedura consiste nella valutazione ex post dell’implementazione del bilancio, svolta da un ente indipendente sia dall’esecutivo che dal legislativo (etxternal auditing authority) (OECD 2004, pp. 25-27). Partendo da questi presupposti comuni, è, tuttavia, opportuno fare una premessa: la riforma del bilancio, pur ispirata alle medesime logiche e orientata agli stessi obiettivi, rappresenta delle divergenze a seconda dei singoli casi. Le differenze, riscontrabili nei diversi Paesi OCSE sono da attribuire ai diversi contesti in cui matura il processo modernizzatore. I fattori che ne determinano la misura e l’impatto possono essere, ad esempio, la presenza o meno costituzione scritta, la composizione del legislativo, i rapporti che esistono tra i due rami, laddove essi esistono, i rapporti tra governo e parlamento, la gerarchia delle fonti normative ecc. La ricerca approfondita compiuta dall’OCSE in materia giunge a conclusioni apparentemente facili, ma al tempo stesso determinanti per gli esiti della riforma del bilancio (OECD 2004). Ecco perché, l’esistenza di una costituzione scritta, soprattutto se rigida propone un quadro di rapporti altamente codificati tra esecutivo e legislativo, con particolare riferimento alle procedure di formazione, approvazione e implementazione del bilancio e della sua riforma, riducendo la possibilità del primo di influenzarne il percorso37. Lo stesso effetto si verifica anche in presenza di una gerarchia di leggi spiccatamente subordinata in cui le leggi relative al bilancio si trovano a occupare una posizione superiore e dominante nel coso di conflitti con le altre leggi ordinarie (es. Spagna). Tale posizione richiede sovente In questo caso a far pendere la bilancia dalla parte del parlamento non è soltanto la sua forza da far valere nella fase di approvazione e controllo, ma anche la presenza di un controllo di costituzionalità che potrebbe intervenire nei confronti della stesse legge di bilancio. 37 79 anche maggioranze più elevate di modifica e irrigidisce ulteriormente la procedura. Tutto questo non può prescindere, ovviamente, dal sistema partitico e di governo che si riscontra in ogni singolo caso esaminato. Si giunge, di conseguenza, alla sistematizzazione di tre principali categorie di sistemi politici che sono: a) Paesi c.d. maggioritari, appartenenti al modello Westminster, ideato da Lijphart, caratterizzati dall’assenza di costituzione scritta, assenza di sindacato costituzionale accentrato, una marcata predominanza dell’esecutivo nei confronti del legislativo, sino alla sovrapposizione dei due, rapporto non paritario tra le due camere del Parlamento e una gerarchia normativa attenuata, nella quale tutte le leggi sono sullo stesso livello (es. Regno Unito, Nuova Zelanda); b) Paesi c.d.consensuali, caratterizzati da carte costituzionali rigide e, pertanto, sottoponibili ad un controllo da parte del giudice costituzionale, un rapporto di indirizzo e fiducia che premia il parlamento nei confronti del governo, con un bicameralismo fortemente simmetrico e una gerarchia delle fonti potenziata e stratificata (Italia, Spagna, Belgio); c) Paesi intermedi (USA e Francia) che rientrano spesso nei tipi ideali di presidenzialismo o semi-presidenzialismo, che hanno sì un esecutivo rafforzato nelle mani del presidente (o fortemente infuenzato dallo stesso), abbinato però a un sistema di checks and balances che garantisce un ruolo comunque decisivo al potere legislativo, in modo particolare, per quanto riguarda il bilancio. Ai fini del completamento della nostra rassegna dell’argomento, saranno ora presi in esame alcuni dei punti salienti dell’esperienza di un Paese in rappresentanza dei suddetti gruppi. 4.2. Regno Unito La procedura di bilancio nel Regno Unito è regolamentata da un insieme di legislazione primaria e secondaria, nonché di regole formali e consuetudinarie. E’ ben noto che il Regno Unito non ha una costituzione scritta che fornisca un quadro rigido e formalizzato di rapporti e i poteri del legislativo, del governo e dei civil servants. Tuttavia, il Parlamento britannico ha provveduto negli anni ad adottare una serie di provvedimenti legislativi in supporto della procedura. 80 Riquadro 1 Principali leggi di bilancio nel Regno Unito Exchequer and Audit Departments Act – 1866 e 1921. Parliament Acts – 1911 e 1949. National Loans Act – 1968, modificato nel 1998. National Audit Act – 1983. Local Government Acts – diversi. Audit Commission Act – 1998. Devolution Acts (per Irlanda del Nord, Scozia e Galles) – 1998. Finance Act – 1998 (Capitolo 36) (Code for Fiscal Stability - CFS). Government Resources and Accounts Act – 2000. Fonti: Government Accounting (http://www.government-accounting.gov.uk) e H.M. Stationery Office (http://www.hmso.gov.uk) Per molti secoli era pacifico che il Parlamento britannico si trovasse in una posizione dominante per quel che concerne le materie di spesa. Tuttavia, sebbene esso approvi definitivamente tutti i relativi provvedimenti, vi sono considerevoli poteri in termini di rule-making anche in capo al Governo (OECD, 2004, pp. 406 ss.). All’inizio, il quadro legislativo rilevante in materia (Exchequer and Audit Departments Act) trasferiva gran parte delle competenze di formazione del bilancio alla Tesoreria di Sua Maestà (H.M. Treasury). Il Ministro delle Finanze (noto come Chancellor of the Exchequer) appariva raramente negli atti procedurale. La prerogativa di questo ente extra-giuridico proveniva direttamente da retaggi della monarchia assoluta. L’aspetto più interessante è che anche nell’attualità ad esercitare un’influenza sostanziale sul processo sia un altro organo non del tutto istituzionalizzato: il Gabinetto dei ministri (Cabinet of ministers). Il Governo, attraverso la propria maggioranza, controlla di regola i lavori parlamentari, compresa anche la definizione della struttura e della composizione delle commissioni. D’altra parte, invece, le competenze del legislativo in materia di bilancio appaiono limitate in maniera significativa dallo stesso suo regolamento (Standing Orders). Risale però solo al 1932 il primo tentativo di riformare in modo sostanziale la procedura di bilancio. Esso si verificò nella forma di un accordo inter-istituzionale, raggiunto tra la Tesoreria di Sua Maestà e la Commissione parlamentare di spesa pubblica. Fu allora deciso di attribuire ad una legge speciale (statute) il ruolo di determinare in maniera duratura i parametri della procedura relativa alle spese derivanti dall’azione di governo. Questo documento rimase nella storia come il Public Accounts Committee Concordat. Senza rischiare di generalizzare si può dire che il ruolo della Camera dei comuni 38 riflette pienamente il percorso storico delle relazioni con la Corona, che si riassumeva nella ricerca da parte della seconda dell’approvazione della prima qualora decidesse di aumentare la pressione fiscale sui propri sudditi. E’ tuttora un principio costituzionale che sia l’Esecutivo (in accordo con la Corona) a proporre il programma di spese e tassazione e non il Parlamento. Di fatto, oggi il Parlamento ha poca voce in capitolo per quanto riguarda le eventuali modifiche e approvazione. Ciò viene tuttavia compensato da diversi meccanismi che portano all’aumento del controllo e di responsabilizzazione al cospetto del Governo in termini di implementazione del bilancio (Hansard 2001). Infine, le funzioni di audit esterno furono inizialmente istituite con un’apposita legge nel 1866 (vedi riquadro n.1). La sua impostazione fu ampiamente rivista con il Government Resources and Accounts Act, approvato nel 2000. Un’altra novità importante fu introdotta nel 1983 quando la figura del Comptroller and Auditor General divenne funzionario parlamentare e non più capo dipartimento all’interno dell’Esecutivo (vedi supra). Nel Regno Unito unicamente la Camera bassa ha il diritto di esprimersi sul budget. La Camera dei Lord è da decenni priva di ogni competenza in merito. 38 81 Il processo di riforma nel Regno Unito ebbe il suo inizio nei primi anni Ottanta ed era legato ad una modifica sostanziale di tutti gli aspetti della procedura di bilancio. Sebbene siano state approvate delle leggi nuove a sostegno della riforma, la maggior parte delle novità ivi contenute sono state introdotte dall’Esecutivo, grazie sia ai poteri delegatigli sia ai poteri ereditati nella convenzione (OECD 2004, p. 408). Il nucleo del nuovo corso intrapreso con l’arrivo del primo governo Thatcher consisteva in un drastico cambiamento del meccanismo di gestione degli organi del governo centrale. L’elemento essenziale a tal riguardo fu la creazione delle agenzie esecutive con a capo dei veri e propri amministratori delegati (chief executives) che dovevano, come conferma anche il termine stesso, dovevano adottare nel loro lavoro metodi tipicamente aziendali di gestione e disponevano di una considerevole autonomia e flessibilità di bilancio nell’esercizio e nell’implementazione di singoli e specifici profili della politica governativa. Al momento attuale, più del 75 per cento dei dipendenti pubblici della struttura amministrativa centrale hanno un rapporto di lavoro proprio con questo tipo di agenzie. La cosa veramente curiosa e curiosa al contempo fu che tali modifiche furono promosse ed effettuate quasi senza un intervento da parte del potere legislativo. Non fu, però, identico il caso dell’altro filone della riforma che fu avviato all’inizio del decennio successivo. Esso si prefiggeva l’obiettivo di realizzare un sistema di contabilità economica (accrual-based accounting) che sostituisse il precedente meccanismo esclusivamente finanziario e incentrato sugli input, che aveva trovato applicazione per più di mezzo secolo. Così, nel 2000 il Government Resources and Account Act tracciò le linee di una semplificazione senza precedenti del bilancio centrale del Regno. Da 167 nell’esercizio 1989/90 il numero delle unità centrali di allocazione è sceso nel 2004/5 a 52. Anche il numero di singoli programmi per ogni unità supera oramai raramente il minimo indispensabile. Solo in tre casi essi sono più di tre. L’altro pilastro della riforma fu eretto sul Finance Act del 1998 con il quale si avvio la prassi di far ricorso a una programmazione di bilancio pluriennale. Infatti, tale provvedimento obbligava la Tesoreria di Sua Maestà di preparare su proposta del Governo e presentare in Parlamento le principali tendenze del passato e del futuro per quanto riguarda le politiche pubbliche e, in modo particolare, la gestione del debito pubblico, contenute nel c.d. Code for Fiscal Stability. In più, al suo interno vi erano anche delle disposizioni precise riguardo alla stesura di rapporti preventivi, di implementazione e sulla situazione dei conti pubblici di competenza del governo. Ovviamente, nell’applicazione dei nuovi principi di gestione delle risorse del bilancio pubblico la parte più attiva fu proprio l’Esecutivo centrale. Attraverso provvedimenti emanati dal Gabinetto o dalla Tesoreria, si diede luce verde a un sistema semplice, ma efficiente di programmazione e rispetto degli obiettivi per quanto concerne la spesa pubblica. Al primo posto, venivano stabiliti alcuni principi quali la “regola d’oro”, secondo cui il governo può contrarre nuovo debito unicamente ai fini di effettuare nuovi investimenti e non per finanziare le spese correnti. Contemporaneamente, una maggior attenzione si rivolgeva al mantenimento della stabilità del livello di rapporto tra debito netto del settore pubblico e PIL nel corso dell’esercizio finanziario (OECD 2004, p. 408). L’azione innovatrice fu altresì concentrata sull’elaborazione di aggregati precisi e adeguati per tenere sotto controllo l’andamento dei parametri principali della politica fiscale, sull’estensione del numero delle agenzie governative, facenti capo ai singoli dipartimenti, nonché sulla modernizzazione dei pubblici servizi ponendo accento sui principi di accountability e attenzione al risultato finale (output/outcome) dell’intervento pubblico (Blair 1998, H.M. Treasury 2000). 4.3. Francia La Francia ha un quadro legislativo che assegna al Governo poteri consistenti in materia di bilancio. La Costituzione del 1958 limitava fortemente il ruolo del Parlamento nel proporre variazioni delle spese. La stessa carta prevede alcuni principi fondamentali concernenti la formazione del bilancio. La legge più recente che regolamenta la procedura è la Legge organica di bilancio e risale al 2001 (Loi organique relative aux lois de finances). La sua implementazione era prevista di avvenire in tre fasi, di cui l’ultima dovrà essere completata proprio quest’anno (OECD 2004, p. 186). 82 Riquadro 2 Principali leggi di bilancio in Francia Costituzione della Repubblica Francese – 1958. Loi organique relative aux lois de finances – 2001. Loi organique relative aux lois de financement de la sécurité sociale – 1996. Codice di sicurezza sociale – 1983. Codice sulle giurisdizioni finanziarie (legge sull’audit esterno) – 1994-5. Codice sul governo locale – 1998. Decreto sulla contabilità pubblica – 1962. Legge sul controllo degli impegni di spesa – 1922. Fonti: Tutti i testi di cui sopra sono disponibili sul sito web ufficiale con tutta la legislazione francese: http://www.legifrance.gouv.fr. Con le nuove disposizioni in materia, il Paese sta rompendo con la tradizione, diffusa in passato anche in altri Paesi, di una procedura di bilancio orientata alla spesa. Il nuovo meccanismo proposto è quello di un budget programmatico, basato su una struttura a tre livelli. Le Missioni corrispondono ai principali filoni di politiche pubbliche, inseriti nel programma di governo. Ogni Missione comprende un certo numero di Programmi, destinatari di allocazioni che si suddividono successivamente in sottoprogrammi (Azioni) che insieme costituiscono i mezzi operativi di implementazione del Programma. La impostazione vigente prima del 2001 prevedeva una composizione fondata su capitoli di spesa e finiva per oscurare completamente gli obiettivi degli interventi e i costi effettivi delle policies e delle strutture amministrative. Trasformando il bilancio da una semplice somma matematica di diversi capitoli in un sistema articolato di obiettivi delle politiche pubbliche si voleva innanzi tutto rafforzare la sua trasparenza (Ministère de l'Economie, des Finances et de l'Industrie, 2005). Anche qui, come nel caso del Regno Unito, si è cercati di cambiare completamente la modalità di distribuzione delle risorse e i principi della loro gestione. Mentre prima della riforma, tutti i manager pubblici a livello ministeriale si trovavano a dover operare con fondi assegnati loro attraverso numerosi singoli capitoli di spesa, ora le risorse disponibili all’interno di una determinata missione possono essere tranquillamente e liberamente ridistribuite tra i diversi programmi e, soprattutto, sottoprogrammi. Ciò comporta un chiaro vantaggio in termini di flessibilità, dato che i manager responsabili avranno molto più facilità nel cambiare in corso allocazioni per le diverse componenti. A questo principio, chiamato anche globalizzazione, non obbedisce unicamente la politica di assunzioni. Più autonomia per i gestori, ovvero per i dipartimenti ministeriali, significherà automaticamente maggiore responsabilità. A tal proposito, ogni programma, sia esso attuato a livello nazionale o al livello regionale, ha un responsabile formalmente individuato e riconosciuto. Grazie a questa distribuzione ad ogni livello gerarchico si attua quello che è il nuovo principio di catena di responsabilità nei rapporti intraistituzionali in Francia. Così, ogni programma si divide in programmi operativi di bilancio, i cui organi responsabili poi hanno la possibilità di implementare le risorse globalmente assegnate in base anche alle peculiarità locali. Attorno a questo rapporto si sviluppa la nuova framework di dialogo, orientato agli obiettivi, tra livello centrale e livello locale, in un Paese che permane sostanzialmente di ispirazione centralista. Oltre all’impegno diretto, un altro punto fondamentale della responsabilizzazione dei dirigenti della PA è sancito dalla tendenza sempre più sentita di introdurre pienamente un sistema di gestione delle risorse pubbliche sulla base della perfomance. Essa si esprime in indicatori di risultato e valori-obiettivi di riferimento. L’efficienza, l’efficacia e l’economicità dell’azione pubblica vengono giudicate da un ciclo di valutazione che comprende una fase ex ante, corrispondente a chiaro impegno (commitment) per quanto 83 riguarda gli scopi dell’intervento, sostenuto da stanziamento di fondi, e ad un’attenta analisi a posteriori dell’implementazione delle risorse. La manifestazione formale del primo è il c.d. l’ Annual Performance Plan (APP), allegato al budget e contenente oltre agli obiettivi specifici anche la spesa prevista, mentre del secondo è l’Annual Performance Report (APR), il quale invece accompagna l’Atto di revisione del bilancio. L’APR è improntato sull’APP e ciò rende più facile comparare autorizzazione ed esecuzione. Inoltre, il documento consuntivo deve essere sottoposto al Parlamento per approvazione che deve necessariamente avvenire prima del via libera al budget per l’anno successivo. E’ questo è anche il momento per dire che la riforma del bilancio francese ha avuto come altro grande idea quella di potenziare il ruolo del potere legislativo. Gli elementi di questa nuova posizione sono: - - la possibilità di proporre emendamenti, proponendo variazioni delle allocazioni tra i diversi programmi contenuti in ogni missione. A ciò si aggiunge anche la scomparsa della differenza tra spese correnti di servizio e nuove misure; rafforzamento del legame tra autorizzazione e esecuzione, attraverso un più assiduo controllo sui movimenti delle allocazioni negli enti pubblici; un potere sostanziale del Parlamento di seguire i movimenti di credito correnti, nonché un più esteso potere di controllo e audizione da parte delle Commissioni competenti delle due assemblee (Ministaire de Economie, Finaces au Industrie 2005). 4.4. Italia La riforma del bilancio in Italia si inserisce nel quadro più ampio del generale ripensamento del funzionamento dell’apparato statale a partire dall’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso. I principali presupposti della necessità di rivedere procedure, meccanismi, forme di organizzazione e metodi operativi della PA sono i seguenti: - - - - il sempre crescente debito pubblico impone interventi incisivi correttivi, tramite riforma degli schemi del bilancio pubblico, introduzione di nuove regole di contabilità in termini finanziari, ma anche economici, definizione precisa degli obiettivi (commitment), regime più severo e rigoroso dei controlli sull’esecuzione; gli accordi vincolanti al livello comunitario (Trattato di Maastricht e nascita dell’UEM; Patto di stabilità e crescita) richiedono agli Stati membri di imporre ordine nei propri conti pubblici e comportamenti costantemente virtuosi; il fenomeno di “tangentopoli” rafforza ulteriormente il convincimento che occorre una riorganizzazione sostanziale dei poteri pubblici; il manifestarsi di spinte autonomistiche nella vita politica e sociale accelera i processi di decentramento che incide non solo sull’ordinamento costituzionale dello Stato, ma anche sui principi della sua contabilità pubblica; l’impossibilità di isolare le politiche di risanamento economico e rigore fiscale dai processi di liberalizzazione e privatizzazione; da ultimo, la globalizzazione dell’economia sottolinea l’esigenza di comportamenti sempre più coerenti sul piano internazionale e di adozione di standard e regole comuni (Manacorda 2005, pp.34). Come anticipato poc’anzi, è solo negli anni Novanta che va piano piano assumendo consistenza un disegno globale e organico di riordino della PA. Un primo forte segnale del nuovo corso fu contenuto nella legge n.142/1990 su “Ordinamento delle autonomie locali” (poi assorbita dal d.lgs. n.267/2000 – “Testo 84 unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali). Essa è una legge densa di elementi riformatori quali i principi informatori del bilancio degli enti locali con rilevanza dei risultati anche dal punto di vista della contabilità economica, la definizione della materia dei controlli e delle regole per l’attività contrattuale, introduzione per gli enti locali dell’istituto del collegio dei revisori con compiti non soltanto di controllo della regolarità contabile, ma anche dell’efficienza, efficacia (produttività) ed economicità della gestione. Nell’agosto dello stesso anno, veniva promulgata la legge n. 241 (da ultimo modificata dalla l. n.15/2005 e l. n. 80/2005) che reca “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”. L’apporto fondamentale della norma di cui all’art. 1, ovvero che “l’attività amministrativa è retta da criteri di economicità ed efficacia” avvia un processo continuo di trasformazione degli schemi contabili e le procedure gestionali nell’area pubblica. Una delle pietre miliari della modernizzazione della PA, che ha un’importanza cruciale in questa sede di analisi, è rappresentata dalla legge n.421/1992: “Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materie di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale”. Nell’attuazione di questa delega legislativa una delle azioni più significative è stata la separazione tra funzioni di indirizzo e di controllo, di esclusiva competenza degli organi ministeriali, e quelle di gestione, affidate ai dirigenti PA, accompagnata dall’introduzione del controllo di gestione (d.lgs. n.29 del 1993, ora confluito nel d.lgs. n. 165/2001). Nello stesso contesto, i decreti n. 502 del 1992 e n.517 del 1993 hanno modificato completamente il sistema sanitario nazionale dando la nascita alle aziende sanitarie locali (ASL), stabilendo per esse il vincolo di bilancio e introducendo nella relativa contabilità il principio economico. Un ulteriore possibilità di sviluppo e miglioramento dell’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali fu offerta dal d. lgs. n. 77 del 1995, che introduce, esplicitamente, il controllo di gestione nelle strutture degli enti locali, stabilisce l’obbligo di predisposizione di un piano di esecutivo di gestione (PEG) per la determinazione degli obiettivi della gestione e prevede la redazione del conto economico in sede di rendiconto della gestione. Un ampio progetto di riforma amministrativa è altresì contenuto nella legge n. 537/1993. Nel contesto delle innovazioni ivi indicate, si ricorda il dPR n.367 del 1994, che introduce nella contabilità pubblica il c.d mandato informatico39. Un intervento deciso nell’ambito dei meccanismi di controllo fu invece delineato dalla l. n. 20/1994: “Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo e controllo della Corte dei conti”, con la quale si riducevano significativamente i controlli preventivi (ex ante) di legittimità e si rafforzavano, al tempo stesso, quelli successivi (ex post) di merito. Nello stesso alveo d’azione riformatrice s’inseriva anche il successivo decreto legislativo n. 286 del 1999, che aveva l’obiettivo di riformare interamente il sistema di controlli interni agli enti pubblici. Sicuramente, il pacchetto di strumenti legislativi meglio strutturato e più completo è composto dalle c.d. tre leggi “Bassanini”, dal nome del Ministro proponente. Esse sono la n.59 del 1997: “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”; la n. 127 del 1997 recante “Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e controllo”; come anche la n.191 del 1998 contenente “Modifiche e integrazioni delle leggi 15 marzo 1997, n.59, e 15 maggio 1997, n.127, noché norme in materia di formazione di personale dipendente e di lavoro a distanza nelle pubbliche amministrazioni. Disposizioni in materia di edilizia scolastica”. Questi importanti passi in avanti sono stati poi seguiti da numerosi atti delegati in materia di sistema dei tributi e della loro riscossione, Il mandato elettronico rappresenta l’insieme di informazioni riguardo all’ordine di pagare le somme impegnate, emesso dal dirigente responsabile, che a sua volta dà luogo ad un’apposita transazione sul sistema informativo integrato, a completamento dei dati della clausola di ordinazione della spesa già presenti a sistema, che vengono definitivamente convalidati (artt. 1-5 del dPR n. 367/1994). L’art. 6 individua nel mandato informatico lo strumento ordinario praticamente per tutti i tipi di pagamento di spese pubbliche, in luogo degli ordinativi cartacei (Manacorda 2005, pp. 52-3); 39 85 l’amministrazione dello Stato, la riforma del bilancio e della contabilità delle regioni, ecc. (Manacorda 2005, p.7). Anche in Italia, come altrove, la principale direttrice della riforma del bilancio mette al primo posto fra le priorità il passaggio da un bilancio finanziario a un bilancio economico. L’obiettivo centrale è stato quello di superare la situazione frammentata del passato, caratterizzata dalla presenza di oltre 6 mila capitoli di spesa e prevedere, in sostituzione, una razionalizzazione sotto forma di circa 1.000 unità previsionali di base, una per ciascun obiettivo di azione. Inoltre, sul piano dell’accountability, si è insistito sulla responsabilizzazione individuale di ogni struttura operativa. Infine, non poteva mancare una maggiore attenzione alla valutazione dei risultati attraverso il giudizio sulla performance e analisi, compiuta annualmente, del rapporto costi-benefici dei singoli provvedimenti (Bassanini 2001). Parallelamente a tutto ciò sono state predisposte anche nuove procedure di spesa come una rigorosa analisi dei costi della legge finanziaria e delle leggi di spesa, controllo sui consti degli emendamenti in Parlamento, il già evocato mandato elettronico, il federalismo fiscale, la programmazione delle assunzioni. Ecco brevemente alcune delle innovazioni più rilevanti dal punto di vista procedurale: Un’importante modifica40 dell’art.1 bis della legge n. 468 del 1978, introdotta dalla legge n.362/1988 e dalla 208/1999 fa proprio della procedura di bilancio il principio di MTEF (vedi supra). Secondo il suo disposto “la impostazione delle previsioni di entrata e di spesa del bilancio dello Stato è ispirata al metodo di programmazione finanziaria. A tal fine il Governo presenta alle Camere: a) entro il 30 giugno il documento di programmazione economico-finanziaria, che viene, altresì, trasmesso alle regioni;” b) entro il 30 settembre il disegno di legge di approvazione del bilancio annuale e del bilancio pluriennale a legislazione vigente, il disegno di legge finanziaria, la relazione previsionale e programmatica e il bilancio pluriennale programmatico, che vengono, altresì, trasmessi alle regioni; c) entro il 15 novembre i disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica. Un punto essenziale della riforma era costituito appunto dal rafforzamento del fatto che le manovre annuali di bilancio si calassero in una prospettiva di carattere pluriennale. Il Documento di programmazione economico-finanziaria (DPEF) risponde pertanto all’esigenza dell’esistenza di un atto che preceda la presentazione del bilancio stesso e che contenga criteri e parametri ai quali far riferimento nella sua predisposizione. Il DPEF è un documento assai complesso che deve contenere elementi precisi e stabiliti esplicitamente dalle norme che lo istituiscono. La sua esclusività deriva, in effetti, dal fatto che, sul piano generale, esso definisce la manovra di finanza pubblica per il periodo compreso nel bilancio pluriennale (Manacorda 2005, pp. 62-63). D’altro lato, invece, la legge di bilancio annuale di previsione è ai sensi dell’art.1 della legge 468/1978 (e successivi emendamenti) l’elemento basilare della gestione finanziaria dello Stato. Secondo le norme attualmente vigenti il progetto di bilancio annuale di previsione è articolato, per l’entrata e per la spesa, in unità previsionali di base, stabilite in modo che a ciascuna di esse corrisponda un unico centro di responsabilità amministrativa, cui è affidata la relativa gestione. Tali unità sono inoltre determinate con riferimento ad aree omogenee di attività. A differenza da questa impostazione prettamente operativa, la legge finanziaria si rivela quale uno strumento di coordinamento tra programmazione e politica annuale di bilancio. Ecco perché essa si è andata affermando sempre di più come uno strumento di governo dell’economia che raccorda, permanentemente, il bilancio annuale a legislazione vigente, la congiuntura economica e il bilancio pluriennale programmatico a fini di stabilità e di sviluppo delle politiche Sull’argomento si veda anche Clemente Forte (1992), La riforma del bilancio in Parlamento: strumenti e procedure, Università degli Studi del Molise, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli; 40 86 economiche. La legge finanziaria, presentata entro il 30 settembre, dispone annualmente, in coerenza con gli obiettivi indicati nel DPEF, il quadro di riferimento finanziario per il periodo compreso nel bilancio pluriennale e provvede, per il medesimo periodo, alla regolazione annuale delle grandezze previste dalla legislazione vigente, a fine di adeguarne gli effetti finanziari agli obiettivi di riferimento per la finanza pubblica (Manacorda 2005, p. 89). Un problema segnato sempre da un certo livello di equivocità è stato quello relativo alla facoltà del Parlamento di apportare emendamenti al progetto predisposto e presentato dal Governo. Sull’argomento la dottrina non ha mai fornito delle indicazioni unidirezionali. Alcuni ritengono opportuno, se non obbligatorio, assegnare al Parlamento il potere di introdurre modifiche, altri invece preferiscono che quest’ultimo si limiti solamente ad un’approvazione o rifiuto in toto del disegno governativo. Sul punto, la soluzione più logica sarebbe di accettare un simile potere del legislativo in quanto il disaccordo dello stesso anche su un solo punto del bilancio potrebbe innescare ogni volta una crisi politica. Perciò sarebbe preferibile riconoscere il ruolo parlamentare in materia, prevedendo al tempo stesso un livello adeguato di controllo. 5. Conclusioni Come dimostrato dagli esempi citati, la riforma del bilancio intrapresa negli ultimi due decenni traeva ispirazione da principi comuni (trasparenza, accountability, efficienza ed efficacia) e perseguiva gli stessi obiettivi (performance, programmazione, razionalizzazione delle strutture e delle risorse, partita doppia di contabilità, ecc.). Tuttavia, gli effetti del processo di cambiamento/modernizzazione si differenziano, essendo a loro volto dipendenti dall’esperienza storica del Paese in considerazione, nonché il suo contesto istituzionale e legislativo. Possiamo, infatti, riassumere che nel Regno Unito la riforma sia stata un processo graduale e molto facilitato dalla rete di rapporti che si erano già convenzionati nel sistema politico-istituzionale locale. Lì il processo è guidato dall’esecutivo e si concentra sugli aspetti manageriali e l’innovazione della PA. In Francia, al tempo stesso, è stata elaborata un’unica legge che ha rivoluzionato il sistema contabile dello Stato e ha imposto nuove procedure di formazione, rendicontazione e controlli con un sostanziale equilibrio tra i ruoli esercitati rispettivamente da parlamento e governo. La principale caratteristica della riforma i Italia sta nella sua frammentarietà. Appare particolarmente difficile, infatti, elencare tutti gli atti normativi che vi hanno partecipato e contribuito. Questo non può che comportare una certa dispersione e parzialità nei risultati conseguiti. 87 Bibliografia: Anders, Kathleen K. (2002), Beyond Results: Accountability, Discretion and Performance Budget Reform, New York, JAI; Bassanini, Franco (2001), La riforma della Pubblica Amministrazione in Italia, presentazione del Dipartimento della Funzione Pubblica. Blair, Tony (solo prefazione) (1998), “Public Services for the Future: Modernisation, Reform and Accountability”, Comprehensive Spending Review: Public Sector Agreements 1999-2002, Cm. 4181, HMSO, London; Forte, Clemente (1992), La riforma del bilancio in Parlamento: strumenti e procedure, Università degli Studi del Molise, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli; Hansard (2001), The Challenge for Parliament: Making Government Accountable: Report of the Hansard Society Commission on Parliamentary Scrutiny, Vacher Dod, London. Heald, David (1987), Public Expenditure. Its Defence and Reform, Oxford, Basil Blackwell; H.M. Treasury (2000), Outcome focused management in the United Kingdom, H.M. Treasury, London, disponibile su: www.hm-treasury.gov.uk/media/1BE78/GEP_outcome%20focused%20management.pdf; Manacorda, Carlo (2005), Contabilità pubblica, Torino, Giappichelli Editore; Ministère de l'Economie, des Finances et de l'Industrie (2005), Budget Reform and State Modernization in France, Paris. OECD (2004), The Legal Framework for Budget Systems. An international comparison., edizione speciale OECD Journal on Budgeting; C. Pollitt e G. Bouckaert (2002), La riforma del management pubblico, Milano, Egea. Siti web istituzionali: Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE): http://www.oecd.org. Governo del Regno Unito: http://www.government-accounting.gov.uk; http://www.hmso.gov.uk; Sito web ufficiale del Primo Ministro: http://www.number10.gov.uk Sulla riforma del civil service e del public management - sito web del Gabinetto: http://www.cabinetoffice.gov.uk/ Governo francese: Sito web del Primo Ministro: http://www.premier-ministre.gouv.fr Ministero dell’Economia, delle Finanze e dell’Industria francese: http://www.minefi.gouv.fr. Sito web ufficiale della riforma del bilancio: http://www.lolf.minefi.gouv.fr: Sito web della legislazione francese: http://www.legifrance.gouv.fr Sito web del Ministero dell’Economia e delle Finanze della Repubblica Italiana: http://www.tesoro.gov.it; www Sito web del Dipartimento per le Riforme e le Innovazioni nella PA presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana: http://www.innovazionepa.gov.it; 88 “Regole fiscali e programmazione di medio periodo” lezione del 20-4-2006, Dott.ssa Goretti A cura di Marco Sonsini 1. Regole e discrezionalità nelle scelte di politica fiscale. L’eccesso di discrezionalità di cui goderono negli anni Settanta e Ottanta le Banche Centrali dei principali paesi sviluppati fu senza dubbio uno degli elementi che impedirono per lungo tempo un’azione efficace di controllo dei prezzi. Oggi, rispetto a quei tempi, lo scenario appare radicalmente mutato: la Banca Centrale Europea stabilisce nei dettagli i compiti delle singole Banche Centrali, e le obbliga, ad esempio, ad intervenire sulla base monetaria al fine di tenere sotto controllo la dinamica dell’inflazione. L’esempio illustra in modo eloquente come (in verità non solo in Europa) si sia passati, negli ultimi decenni, da un sistema di politiche monetarie e fiscali concepite esclusivamente a livello nazionale ed imperniate sul principio della piena discrezionalità degli organi ad esse preposti, ad un nuovo sistema basato sul rispetto di una data griglia di regole. Sulle ragioni di questa scelta riguardo alle strategie di politica monetaria si è detto; ma gli anni precedenti il trattato di Maastricht avevano altresì mostrato le inadeguatezze di una politica fiscale totalmente discrezionale, e di conseguenza soggetta ad una serie di distorsioni (quali il cosiddetto “ciclo elettorale”, ossia la periodica espansione del bilancio in prossimità di una tornata elettorale, legata alla necessità di recupero del consenso da parte dell’amministrazione uscente) e comunque vincolata alla visione di breve periodo che è propria delle classi politiche nazionali e naturalmente calibrata sulle loro prospettive di governo. In particolare, si era notata la preoccupante tendenza alla massimizzazione delle utilità della generazione attuale, cui i governi rivolgevano la propria domanda di consenso politico, a danno delle future41. Il bisogno di regole nasce appunto dall’istanza di porre rimedio a tali disfunzionalità, mettendo le autorità competenti di fronte alla necessità di scelte annuali credibili di disciplina fiscale, che siano compatibili con uno scenario stabile e prevedibile di politica economica. Il rischio connaturato a questa scelta è quello di una minore flessibilità nella risposta a shock esterni, e di conseguenza quello di scelte sub-ottimali determinate da un sistema eccessivamente rigido di opzioni predeterminate. 2. Dalle regole fiscali al concetto di programmazione di medio periodo. L’imposizione di regole fiscali è una realtà, in alcuni Stati americani e in alcuni cantoni elvetici, fin dall’inizio del XX secolo. Ancora di derivazione statunitense è la cosiddetta golden rule, che stabilisce l’illiceità della trasmissione alle generazioni future di debito pubblico che non sia generato da spese per investimento, dunque da spese di cui saranno le stesse generazioni future a beneficiare. È il noto meccanismo denominato “common pool”: un’amministrazione può concentrare dei benefici su un bacino ristretto di interessi, attraverso una politica di spesa mirata, ottenendo in cambio il sostegno di quel particolare gruppo, e può, contemporaneamente o in un periodo successivo, bilanciare l’aumento di spesa attraverso un inasprimento generalizzato dell’imposizione fiscale che, in quanto non mirato, risulterà meno immediatamente evidente al corpo elettorale. 41 89 Verso la fine degli anni Ottanta, il Congresso USA approvava una risoluzione che istituiva forme di decurtazione automatica della spesa pubblica ove essa si rivelasse superiore rispetto alle previsioni, ma la formula non si rivelò virtuosa e venne in breve tempo accantonata. Una maggiore attenzione alle regole di bilancio si manifestava intanto anche in seno alla Comunità Economica Europea, alcuni membri della quale presentavano, a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, finanze gravemente deteriorate (si pensi, su tutti, ai casi italiano e belga). In questo contesto, si impose l’idea di una programmazione di medio periodo, laddove per programmazione dovrà intendersi non già un intervento pianificatore da parte dello Stato sulle dinamiche produttive, ma, in senso teorico, la cornice di regole e vincoli che influenzeranno le singole decisioni di bilancio (si può parlare, dunque, di “programmazione” come di un procedimento “meta-decisionale”, di “decisione sulla decisione”). Lo scopo principale della programmazione di medio periodo è appunto quello sostenere politiche fiscali coerenti e responsabili da parte dei singoli governi nazionali, consentendo una verifica costante della compatibilità delle politiche stesse con la strategia di medio periodo che ne costituisce il quadro di riferimento, ed in ultima analisi migliorando l’efficienza nell’allocazione delle risorse. 3. Vincoli di bilancio, aggregati e parametri di riferimento. A partire dal Trattato di Maastricht, la scelta operata in ambito europeo è stata quella di imporre ai governi nazionali non un vincolo di spesa, bensì un vincolo di bilancio. Quest’ultimo è stato preferito in quanto un limite rigido al livello della spesa pubblica avrebbe comportato alcune disfunzionalità, quali ad esempio il sistematico sfondamento del tetto di spesa in periodi di rallentamento dell’economia, legati, ad esempio, all’esistenza di sussidi automatici di disoccupazione, e la facilità con la quale un simile vincolo può essere aggirato, ad esempio tramite agevolazioni fiscali (la cosiddetta tax expenditure), che altro non sono che false minori entrate a mascherare un aumento della spesa. Un vincolo di bilancio si configura dunque come imposizione di un limite da applicarsi ad un dato saldo di finanza pubblica. I saldi, a loro volta, si distinguono in base a tre parametri fondamentali: a) In base all’aggregato di riferimento, vale a dire dei soggetti che entrano nella definizione del saldo, distinguiamo tra: BILANCIO DELLO STATO: comprende le amministrazioni centrali, cioè in massima parte i ministeri; SETTORE STATALE: aggiunge al bilancio dello Stato le operatività della tesoreria, che agisce da “banca” delle amministrazioni locali, nonché da deposito dei conti correnti postali dei privati; PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI: l’aggregato comprende tutte le amministrazioni di proprietà pubblica che non operano per il mercato, ossia non rendono sul mercato i loro servizi, e che di conseguenza ricavano le loro entrate solo da trasferimenti (statali o provenienti da altri enti) o da imposte. Illuminante è il caso di Infrastrutture s.p.a., che Eurostat ha riportato all’interno dell’aggregato “Pubbliche Amministrazioni”, contro le indicazioni del governo italiano, in quanto emetteva titoli di debito coperte dalla garanzia dello Stato; SETTORE PUBBLICO: è l’aggregato massimo, che comprende tutti i soggetti di proprietà pubblica. 90 b) In base ai criteri di registrazione delle poste, ossia rispetto alle varie fasi della spesa, distinguiamo invece tra: COMPETENZA GIURIDICA: gli stanziamenti impegnati o accertati; CASSA: i pagamenti e gli incassi veri e propri; COMPETENZA ECONOMICA: la registrazione viene effettuata solamente quando il valore economico del bene o servizio acquistato si manifesta nel sistema, indipendentemente dal pagamento. c) In base agli addendi considerati, distinguiamo infine i seguenti saldi differenziali: RISPARMIO PUBBLICO: risulta dalla differenza tra il totale delle entrate tributarie ed extratributarie (dunque le entrate finali al netto di alienazioni, ammortamenti e riscossione di crediti) e spese correnti; INDEBITAMENTO NETTO: risulta dalla differenza tra entrate finali e spese finali decurtate delle operazioni finanziarie, ossia riscossione dei crediti e spese per attività finanziarie (o, se si vuole, dalla somma algebrica del saldo corrente e di quello in conto capitale, vale a dire il saldo del conto economico); SALDO NETTO DA FINANZIARE: differenza tra le operazioni finali (entrate finali, cioè totale complessivo delle entrate al netto dell’accensione dei prestiti, e spese finali); SALDO PRIMARIO: saldo differenziale (= SNF) depurato della spesa per gli interessi passivi sul debito. Il saldo primario è il parametro che può essere assunto per la programmazione della politica fiscale, in quanto la spesa per gli interessi passivi, dato lo stock del debito pubblico e dato il tasso di interesse, si determina in via esogena. 4. Le regole UE da Maastricht al Patto di Stabilità e Crescita. Il trattato di Maastricht (1992) impone ai paesi aderenti all’euro il rispetto di due fondamentali regole quantitative in relazione al bilancio pubblico: 1. Il rapporto tra indebitamento netto e prodotto interno lordo non deve superare il 3%, a meno che il rapporto stesso non sia diminuito in maniera sostanziale e continuativa, raggiungendo comunque un livello vicino al valore di riferimento, oppure che il superamento della soglia sia dovuto a motivazioni eccezionali e straordinarie; 2. Il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo non deve superare il 60%, o in ogni caso deve mostrare una chiara tendenza verso questo valore. Come si vede, il parametro di riferimento è l’indebitamento netto, ossia il saldo del conto economico; l’aggregato di riferimento è quello delle pubbliche amministrazioni. Il Patto di Stabilità e Crescita (1997) interviene ad integrare le regole fissate a Maastricht. Per quanto concerne i vincoli quantitativi sul bilancio, il Patto impone ai paesi dell’euro l’obiettivo di medio termine di un saldo in avanzo o vicino al pareggio; il valore del 3% riferito al rapporto tra indebitamento netto e prodotto interno lordo rimane, ma solo come soglia massima in nessun caso superabile. La logica sottostante a questo nuovo indirizzo è strettamente legata al ciclo di forte espansione di cui le economie continentali beneficiavano durante gli anni Novanta, e che rendeva plausibile la prospettiva di un sensibile, 91 costante miglioramento dei conti pubblici dei singoli paesi negli anni a venire, fino al raggiungimento dell’obiettivo del pareggio di bilancio; in questo quadro, la regola avrebbe consentito ai governi nazionali di reagire in modo flessibile ad eventuali, futuri periodi di recessione o stagnazione economica, anche con politiche di bilancio espansive, a patto che il disavanzo non oltrepassasse il 3% del PIL. Sfortunatamente, il rallentamento dell’economia globale ed europea si ebbe troppo presto, quando ancora la gran parte dei paesi dell’euro non avevano raggiunto l’obiettivo del pareggio, cosicché l’immediata conseguenza del ristagno economico fu lo sfondamento del tetto del 3% da parte di Francia e Germania. Il Patto di Stabilità e Crescita si propone anche di definire un processo di sorveglianza multilaterale sui bilanci dei paesi aderenti, e sulle scelte di politica fiscale dei loro governi (strumento preventivo), nonché di integrare il Trattato di Maastricht introducendo nuove sanzioni nei confronti di Stati che facciano registrare disavanzi eccessivi. 92 “Le procedure di bilancio nell’ordinamento italiano - 1” lezione del 28-4-2006, Dott.ssa Goretti A cura di Rossana Tiani Le regole di bilancio in Italia L’articolo 81 della Costituzione così recita: <<Le Camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte>>. I quattro commi del presente articolo rappresentano altrettanti punti cardine del nostro sistema di contabilità pubblica e per tale motivo è opportuna una loro approfondita analisi. A) L’approvazione del bilancio (art. 81, 1º comma) Tale comma delinea una chiara suddivisione dei compiti del Parlamento e del Governo42. Al Governo viene attribuito, in via esclusiva, il potere di iniziativa legislativa in materia di legge di bilancio. Tale attribuzione conferma quel potere di indirizzo che, in tutti gli ordinamenti democratici, spetta all’esecutivo. Il termine “i bilanci” non intende negare il principio di unità del bilancio. Tutt’altro. Il bilancio, benché articolato per singoli ministeri, è sottoposto ad un controllo unitario del Parlamento. Il Parlamento, da parte sua, vede riconfermata la sua tradizionale funzione di controllore politico dell’esecutivo: solo ad esso può spettare l’approvazione del bilancio, la quale avviene, secondo l’art. 72 ultimo comma, solo con procedura normale43. Si conferma, infine, la tradizionale cadenza annuale (principio dell’annualità) della stesura ed approvazione del bilancio. B) L’esercizio provvisorio (art. 81, 2º comma) Mediante siffatto comma la Costituzione prevede che, per ciò che concerne l’approvazione parlamentare del bilancio, solo il Parlamento possa, con legge e comunque per un periodo di tempo non superiore ai quattro mesi, autorizzare la gestione provvisoria del bilancio. Tale norma è tesa a salvaguardare contemporaneamente le attribuzioni dell’Assemblea e la continuità dell’azione dell’esecutivo. C) Il divieto di stabilire nuovi tributi e nuove spese (art. 81, 3º comma) In tal caso è fatto espresso divieto che il Parlamento, nell’approvare la legge di bilancio, stabilisca nuovi tributi e nuove spese. Una tale delicata decisone risulterebbe turbata dall’esigenza pressante di raggiungere un equilibrio tramite l’introduzione di nuovi tributi o nuove spese. In realtà maggiori perplessità suscita siffatto comma alla luce della considerazione che il bilancio rappresenta il momento in cui lo Stato programma e coordina il proprio intervento nel campo economico. Tale funzione risulta vincolata proprio Negli Usa, per esempio, il Congresso prepara un bilancio alternativo a quello presentato dal Presidente; il bilancio finale sarà, perciò, una sorta di mediazione tra i due tipi di bilancio. 43 L’approvazione dell’Assemblea, difatti, è finalizzata a: garantire una verifica dell’unità di intenti fra Governo e Parlamento; assicurare un’adeguata pubblicità su contenuto, fini ed indirizzi del bilancio dello Stato; tutelare i diritti delle minoranze, grazie al dibattito parlamentare; garantire che l’atto di approvazione del bilancio, divenendo atto legislativo, possa essere soggetto al sindacato della Corte Costituzionale. 42 93 al terzo comma dell’art. 81: ai limiti costituzionali si è, perciò, cercato di porre rimedio nel 1978 con l’istituzione della legge finanziaria. D) La copertura finanziaria (art. 81, 4° comma) Si tratta dell’obbligo di copertura finanziaria delle leggi; esso è una regola fiscale. L’indicazione dei mezzi di copertura deve avvenire al momento dell’approvazione del disegno di legge o al momento dell’emanazione del decreto di legge, così da assicurare una serena valutazione di tutte le conseguenze economiche e finanziarie del provvedimento. I mezzi di copertura sono esterni (i nuovi tributi o l’inasprimento di quelli già inesistenti e l’accensione di prestiti); interni (l’utilizzo di risorse accantonate in appositi fondi di bilancio; il trasferimento di risorse da un capitolo di spesa all’altro; l’utilizzo di risorse già previste in bilancio e risultanti esuberanti). Leggi di contabilità: tre cicli di riforma. La legge n. 468 del 1978 Siffatta legge perseguiva il duplice scopo di assicurare un maggior rispetto dell’obbligo della copertura finanziaria e di ovviare alla eccessiva rigidità del bilancio tradizionale mediante una programmazione di medio periodo. Il tutto in armonia con l’obiettivo di riconquistare il controllo e la governabilità della spesa pubblica. Veniva così introdotta nel nostro ordinamento la legge finanziaria, strumento legislativo nato per ovviare al divieto imposto dall’art. 81 comma 3 e consentire una migliore distribuzione delle risorse finanziarie. Prima dell’entrata in vigore di siffatta legge, il bilancio di previsione dello Stato italiano era redatto esclusivamente in termini di competenza ed era, perciò, detto bilancio di diritto in quanto fermava la propria attenzione soltanto su entrate e spese che si prevedeva sarebbero state giuridicamente esigibili o pagabili, senza curarsi dell’ulteriore corso della vicenda finanziaria. Con la legge n. 468 il legislatore ha introdotto in Italia un doppio sistema nel quale sono previsti entrambi i bilanci di previsione: di competenza e di cassa 44. In tal modo, infatti, ha soddisfatto due esigenze fondamentali: - conservare quanto di buono era contenuto nel sistema della competenza; - avere un quadro dei movimenti finanziari, derivante dal sistema della cassa. Prima del 1978, infatti, il bilancio veniva configurato come un bilancio finanziario di competenza che, secondo alcuni studiosi, era puro dal momento che si basava esclusivamente sulla previsione, ossia non era legato al conto residui ed era privo di collegamenti formali e diretti con le risultanze degli esercizi precedenti. Accadeva, cioè, che a fine esercizio vi fossero entrate accertate ma non effettivamente riscosse e spese impegnate ma non ancora pagate: si trattava di residui attivi e passivi. In pratica il risultato attivo di Nel bilancio di cassa (o materiale) sono indicate le entrate effettivamente riscosse e le spese effettivamente pagate nel periodo considerato, indipendentemente dal fatto che il diritto a riscuotere le entrate o l’impegno ad effettuare le spese siano sorti nel periodo preso in considerazione o in quello precedente. Esso, pertanto, fa riferimento esclusivamente alle entrate che giungeranno alla fase del versamento ed alle spese che arriveranno a quella del pagamento. Nel bilancio di competenza (o giuridico) sono riportate le entrate che si ha diritto a riscuotere e le spese che ci si è impegnati ad erogare nel periodo considerato, indipendentemente dalla circostanza che le entrate siano riscosse e le spese vengano erogate effettivamente (ciò spiega perché il bilancio di competenza è detto anche giuridico). Esso, perciò, viene impostato sulla base delle entrate che arriveranno alla fase dell’accertamento e su quella delle spese che giungeranno alla fase dell’impegno. Il primo, invece, non si cura della fase di diritto ma si riferisce a dati relativi agli effettivi introiti ed esborsi, anche a prescindere dal momento in cui è sorto il relativo diritto od obbligo. Il secondo bilancio, quindi, si riferisce ad un complesso di diritti a riscuotere e di obblighi a pagare per cui i fatti gestionali spessissimo danno luogo a risultati completamente diversi da quelli ipotizzati in bilancio. 44 94 un esercizio non poteva essere iscritto nell’entrata dell’esercizio successivo, mentre il risultato passivo non poteva essere considerato fra le spese della futura gestione ai fini della copertura. Il bilancio, perciò, non esponeva la reale situazione economico-finanziaria dello Stato proprio perché non esaminava spese effettuate ed entrate realizzate, ma si limitava ad esporre una serie di previsioni il cui significato era più politico-giuridico che economico, anche se gli effetti economici erano molteplici e rilevanti. Tutta l’attività finanziaria dello Stato trova la sua rappresentazione sintetica ed unitaria nel quadro generale riassuntivo che reca le risultanze complessive del bilancio. Esso era previsto anche nella normativa precedente al 1978, ma allora si riferiva solo alle vicende del bilancio di competenza; in seguito ai sensi dell’art. 6 della l. 468, è formulato con riferimento sia alle dotazioni di cassa che alle dotazioni di competenza. Esso deve dare indicazione dei seguenti risultati differenziali (saldi): - il risparmio pubblico: esso è uguale alla differenza tra il totale delle entrate tributarie (titoli I e II) ed il totale delle spese correnti (titolo I). Questo risultato differenziale, se positivo, misura la quota di risorse correnti destinabili al finanziamento delle spese in conto capitale. Se, viceversa, è negativo, esso esprime la quota delle spese correnti da soddisfare ricorrendo all’indebitamento. - il saldo netto da finanziare, detto anche fabbisogno: è uguale alla differenza tra entrate finali (somma dei primi tre titoli delle entrate) e spese finali (somma dei primi due titoli delle spese). Le spese per il rimborso dei prestiti non vengono considerate in tale calcolo dato che tali spese servono a rimborsare (ai possessori dei titoli del debito pubblico) prestiti che lo Stato ha contratto in anni precedenti per finanziare, quindi, disavanzi degli anni precedenti. Il SNF indica la misura cui le operazioni dello Stato determinano il ricorso al mercato monetario e finanziario. Di qui derivano le seguenti regole fiscali (interne) sul bilancio dello Stato: - vincolo sul SNF (art. 11, co. 6, della legge 468/1978 e succ. modificazioni); - vincolo di non peggioramento del risparmio pubblico (art. 11, co. 6, della legge 468/1978 e succ. modificazioni). Per ciò che concerne il vincolo sul SNF , le regole di finanza pubblica, come definite nella risoluzione approvativa del DPEF, diventano parametro per la decisione annuale di bilancio: la programmazione di medio periodo, perciò, diventa il quadro di riferimento. Il Governo avrà il compito di predisporre misure che consentano di raggiungere l’obiettivo del DPEF. Gli emendamenti del Parlamento, invece, devono essere compensativi, pena la dichiarazione di inammissibilità. Il SNF programmatico, infine, deve essere coerente con il saldo indicato nel DPEF. Ciò sta a significare che la somma del saldo a legislazione vigente (così come emerge dal bilancio) e degli effetti della manovra (come determinati dalla finanziaria) deve essere minore o uguale al saldo obiettivo indicato dal DPEF nell’ambito della programmazione di medio periodo della politica fiscale. Per ciò che riguarda il vincolo di non peggioramento del risparmio pubblico, il Governo deve provvedere alla copertura degli oneri correnti, dimostrato con il prospetto di copertura; il Parlamento, invece, incontra il divieto di compensare gli oneri correnti con la riduzione di spesa in conto capitale, pena l’inammissibilità. 95 Per concludere, una breve riflessione. Nonostante le critiche mosse alla soluzione proposta da siffatta legge, probabilmente essa resta l’unica via d’uscita per contemperare l’esigenza di snellezza contabile del bilancio di cassa con quella di certezza giuridica connaturata al bilancio di competenza. La legge n. 362 del 1988 Ad appena dieci anni dalla sua introduzione, la l. 468/1978 mostrava già tutti i suoi limiti. Il bilancio in Italia ha sempre posseduto una natura meramente formale nel senso che si limitava esclusivamente a registrare le decisioni di spesa già deliberate da leggi sostanziali. Il bilancio, infatti, è un atto legislativo di indirizzo e in quanto tale non può introdurre elementi innovativi di ordine sostanziale al quadro legislativo in vigore. L’introduzione della finanziaria, per di più, aveva dato luogo a non pochi problemi (espansione della spesa pubblica, ingorgo decisionale), così che una sua riforma era divenuta indispensabile. In tempi brevissimi, pertanto, nel 1988 fu approvata la l. n. 362/1988. Il senso di tale riforma va ricercato nell’obiettivo di dare una struttura alla procedura di bilancio orientata, però, alla disciplina fiscale45. Dopo tale intervento, perciò, lo scopo della finanziaria è divenuto: disporre annualmente, in coerenza con gli obiettivi fissati dal DPEF (si veda più avanti), il quadro di riferimento finanziario per il periodo compreso nel bilancio pluriennale; provvedere alla regolazione annuale delle grandezze previste dalle disposizioni legislative al fine di adeguare gli effetti finanziari agli obiettivi. C’è di più. Tale legge presta particolare attenzione al momento della programmazione, in particolare a quella di medio periodo; basti pensare, infatti, all’articolo 3 che introduce il documento di programmazione economico-finanziaria (DPEF)46 con il precipuo scopo di definire la manovra di finanza pubblica, ossia di fissare di volta in volta, per il periodo compreso nel bilancio pluriennale, gli obiettivi dell’economia pubblica, con riferimento a tutti i suoi settori. Più precisamente negli articoli 2, 4 e 5 si afferma che i criteri, i parametri e gli obiettivi indicati nel suddetto documento di programmazione costituiscono i punti di riferimento per la formulazione del bilancio annuale di previsione, del bilancio pluriennale e della legge finanziaria. Ciò ha portato, in particolar modo per il bilancio pluriennale, ad una più netta distinzione delle previsioni di entrata e di spesa dalle previsioni di carattere meramente programmatico. Il DPEF indica, a norma dell’art. 3 della l. n. 468, così come verrà modificato dalla l. n. 208/1999: Come fa notare la Dott.ssa Goretti, ancora oggi emergono dei problemi nelle procedure di bilancio poiché siamo dinanzi a delle regole ex ante delle quali non c’è mai un rispetto finale. In ciò sopperiscono le regole europee che hanno introdotto il criterio dell’analisi ex post. 46 In sostanza, scopo del DPEF è quello di permettere al Parlamento di conoscere, con congruo anticipo, le linee di politica economica e finanziaria del Governo; quest’ultimo, a sua volta, è politicamente impegnato a redigere il susseguente bilancio anche di previsione secondo i criteri ed i parametri scaturenti dal dibattito parlamentare. Nel DPEF, ed è bene sottolinearlo, si delineano gli scopi che il bilancio pluriennale intende perseguire e si delimita l’ambito entro cui costruire il bilancio annuale. Gli obiettivi continuano ad essere indicati principalmente in termini di saldi, ma vi sono anche vincoli relativi ad altri elementi; ad esempio, il DPEF può porre limiti alla crescita della spesa, oppure può dare indicazioni su certi aspetti della manovra (suggerire, ad esempio, di contenere la spesa sanitaria, o di ridurre i trasferimenti alle imprese, e così via). Si deve notare che siffatto documento non è una legge, anche se vincola politicamente le decisioni del Governo. Per rafforzare il potere del DPEF e dar maggior rilievo al momento di determinazione degli obiettivi, a partire dal 1991 è stato reso normativamente vincolante l’obiettivo posto dal DPEF in termini di saldo netto da finanziare. Il periodo di riferimento del DPEF dovrebbe esser triennale ma per prassi è divenuto quadriennale. 45 96 1. i parametri economici essenziali utilizzati e le previsioni tendenziali, per grandi comparti, dei flussi di entrata e di spesa del settore statale e del conto consolidato delle pubbliche amministrazioni basate sulla legislazione vigente, ivi compreso il flusso di risorse destinate al Mezzogiorno; 2. gli obiettivi macroeconomici e, in particolare, quelli relativi allo sviluppo del reddito e dell’occupazione; 3. gli obiettivi, rapportati al PIL, del settore statale e dell’indebitamento netto del conto consolidato delle AA.PP., sia al lordo sia al netto degli interessi, e del debito del settore statale e del conto delle AA.PP. per ciascuno degli anni compresi nel bilancio pluriennale; 4. tenendo conto di tali obiettivi, il DPEF deve altresì riportare gli obiettivi di fabbisogno complessivo, di disavanzo corrente del settore statale e del conto delle pubbliche amministrazioni per ciascuno degli anni compresi nel bilancio pluriennale e i relativi scostamenti dalle previsioni dei flussi di entrata e di spesa della finanza pubblica; 5. definiti tali obiettivi, vengono individuate le regole di variazione delle entrate e delle uscite del bilancio di competenza dello Stato e delle aziende autonome e degli enti pubblici ricompresi nel conto delle AA.PP. per il periodo cui si riferisce il bilancio pluriennale; 6. l’articolazione degli interventi, anche di settore, collegati alla manovra di finanza pubblica per il periodo ricompreso nel bilancio pluriennale, necessari per il conseguimento dei vari obiettivi con la valutazione di massima dell’effetto economico-finanziario attribuito a ciascun tipo di intervento in rapporto all’andamento tendenziale (cd. disegni di legge collegati). L’intervento innovativo, però, ha riguardato soprattutto la legge finanziaria di cui è stato fissato rigidamente il contenuto. Scopo principale della finanziaria non è quello di operare modifiche ed integrazioni a disposizioni legislative aventi riflessi sul bilancio dello Stato, bensì la predisposizione del quadro di riferimento necessario per il periodo compreso nel bilancio pluriennale. Non a caso la finanziaria non può introdurre nuove imposte, tasse e contributi o disporre nuove o maggiori spese. Poiché in tal modo, però, essa incontra gli stessi rigidi vincoli posti dalla Costituzione alla legge di bilancio, il legislatore del 1988 ha previsto che gli interventi di modificazione alla legislazione sostanziale siano apportati da appositi disegni di legge (collegati alla manovra) indicati nel DPEF. La legge n. 94/1997 (riforma Ciampi) La mini-riforma del 1988 era nata già come un provvedimento-ponte, in attesa di un intervento globale di più vasta portata. Grazie alla nuova disciplina cambia innanzitutto, la struttura del bilancio, dal momento che si individuano nuove strutture contabili che rendono il bilancio dello Stato più chiaro ed intelligibile. Si prevede, infatti, che le entrate siano ripartite in: - titoli, a seconda che siano di natura tributaria, extratributaria o che provengano dall’alienazione e dall’ammortamento di beni patrimoniali o dalla riscossione di crediti; - unità previsionali di base (u.p.b), stabilite in modo che a ciascuna attività corrisponda un unico centro di responsabilità amministrativa cui è affidata la relativa gestione; esse raggruppano aree 97 omogenee di attività relative alle competenze istituzionali di ciascun Ministero. Volendo semplificare, per ogni Ministero sono stati individuati centri di responsabilità di livello dirigenziale generale cui è affidata la gestione di aree omogenee delle attività, anche a carattere strumentale, in cui si articolano le competenze di ciascun Ministero: a ciascuno di tali centri di responsabilità corrisponde, in linea di massima, un’unità previsionale di base47; - categorie, secondo la natura dei cespiti; - capitoli, secondo il rispettivo oggetto (ai fini della rendicontazione). Dal canto loro, le spese sono articolate in: - funzioni-obiettivo, individuate in modo tale da definire le politiche pubbliche di settore e misurare il prodotto delle attività amministrative; - u.p.b. (che al momento dell’approvazione parlamentare saranno suddivise in unità di spesa corrente ed in unità di spesa in conto capitale); - capitoli, secondo l’oggetto, il contenuto economico e funzionale della spesa riferito a categorie e funzioni nonché secondo il carattere giuridicamente obbligatorio o discrezionale della spesa. I capitoli costituiscono, pertanto, le unità elementari ai fini della gestione delle spese e della loro rendicontazione e rappresentano una delle più evidenti misure tese al passaggio ad un sistema di contabilità di tipo economico; evidenziano, infatti, il significato economico del rapporto giuridico ad essi sotteso. Pertanto, attualmente, il bilancio di previsione pluriennale, elaborato dal Ministero dell’economia e delle finanze, presente le seguenti caratteristiche: - è elaborato in termini di competenza, ossia con riferimento alla fase dell’accertamento delle entrate e dell’impegno delle spese, ed in coerenza con le regole e con gli obiettivi indicati nel DPEF; - ha una proiezione pluriennale coprendo un periodo di tre anni; - è un bilancio finanziario di competenza ma non riveste la natura di atto giuridico-formale di autorizzazione alla riscossione delle entrate ed alla esecuzione delle spese in esso previste; - è approvato con apposito articolo del disegno di legge del bilancio ed è aggiornato annualmente; - non è un bilancio scorrevole (ossia non contiene un automatico inserimento delle previsioni del terzo anno in luogo di quelle del primo): ogni anno, infatti, le previsioni pluriennali vengono riviste; In merito alle unità previsionali di base, così recitano i commi 1, 6 e 9 del primo articolo del decreto legislativo correttivo 279/1997:<< 1. A decorrere dall'anno finanziario 1998 il bilancio di previsione dello Stato è ripartito, per l'entrata e per la spesa, in unità previsionali di base, che formano oggetto di approvazione parlamentare. Le unità previsionali di base costituiscono l'insieme organico delle risorse finanziarie affidate alla gestione di un unico centro di responsabilità amministrativa. La determinazione delle unità previsionali di base deve assicurare la piena rispondenza della gestione finanziaria agli obiettivi posti all'azione amministrativa dello Stato, nell'ambito del criterio della ripartizione delle risorse per funzioni, individuate con riferimento agli obiettivi generali perseguiti dalle politiche pubbliche di settore ed all'esigenza di verificare la congruenza delle attività amministrative agli obiettivi medesimi, anche in termini di servizi finali resi ai cittadini. 6. Il livello di responsabilità amministrativa, in relazione al quale sono determinate le unità previsionali di base, è individuato in modo da assicurare il costante adeguamento della struttura del bilancio dello Stato agli ordinamenti legislativi ed alle altre normative di organizzazione dell'amministrazione dello Stato (…). L'individuazione delle unità previsionali persegue, sul piano contabile, gli obiettivi e le finalità di riforma delle pubbliche amministrazioni e di semplificazione amministrativa (…). 9. La determinazione delle unità previsionali di base è effettuata con il disegno di legge di approvazione del bilancio dello Stato, con il quale si provvede alle eventuali modifiche o integrazioni rispetto alla classificazione dell'esercizio precedente. In appositi allegati al disegno di legge di bilancio sono indicati, divisi per stati di previsione, le predette unità previsionali di base e le funzioni obiettivo di cui al comma 1>>. 47 98 - è uno strumento di programmazione di medio termine. Il bilancio pluriennale espone separatamente: - l’andamento delle entrate e delle spese in base alla legislazione vigente, cioè indipendentemente dalle decisioni contenute nella legge finanziaria (bilancio pluriennale a legislazione vigente48); - le previsioni sull’andamento delle entrate e delle spese tenendo conto degli effetti degli interventi programmatici nel DPEF (bilancio pluriennale programmatico49). La legge per il riordino della contabilità di Stato (l. n. 208/1999) Dopo la riforma del bilancio dello Stato realizzata nel 1997, l’attenzione del legislatore si è poi spostata verso i documenti di bilancio. Questa nuova legge, difatti, apporta delle sostanziali modifiche alla legislazione contabile pubblica. In essa si prevede: - la modificazione del contenuto del DPEF nonché lo spostamento del termine per la sua presentazione dal 15 maggio di ogni anno al 30 giugno e ciò al fine di far coincidere quanto più è possibile le previsioni macroeconomiche elaborate dal Governo nel mese di maggio con la compilazione dei documenti di bilancio che, invece, vengono ultimati nel mese di settembre; - l’unificazione del termine di presentazione del disegno di legge di approvazione del bilancio annuale e pluriennale a legislazione vigente, del disegno di legge finanziaria, della relazione previsionale e programmatica e del bilancio pluriennale programmatico. Tutti i suddetti documenti dovranno essere presentati dal Governo alle Camere entro il 30 settembre di ogni anno; - la soppressione della legge collegata alla finanziaria e il potenziamento dei cosiddetti “collegati ordinamentali” la cui presentazione dovrà avvenire entro il 15 novembre; - l’emanazione, entro otto mesi dall’entrata in vigore della l. 208/1999 stessa, di uno o più decreti legislativi correttivi del d.lgs 279/1997. Questa legge di riordino della contabilità pubblica, al fine di rendere più agevole il processo di approvazione degli strumenti impiegati per la politica di finanza pubblica, ha previsto l’abolizione del collegato di sessione (il cui contenuto è stato in parte inglobato nella legge finanziaria), e la sua sostituzione con i “collegati fuori sessione” che devono contenere disposizioni omogenee per materia e devono essere presentati dal Governo al Parlamento entro il 15 novembre di ogni anno. Tali provvedimenti contengono le norme di carattere ordinamentale e le leggi delega escluse dalla legge finanziaria e hanno, quindi, come obiettivo prioritario quello di alleggerire la manovra finanziaria soprattutto in considerazione del fatto che non sono sottoposti al vincolo della sessione di bilancio. Essi, infatti, anche se devono essere presentati entro il 15 novembre alle Camere, possono essere approvati dal Parlamento anche successivamente al 31 dicembre. La legge in questione, infine, sempre in materia di copertura finanziaria delle leggi, stabilisce che tutti i disegni di legge, gli schemi di decreto legislativo e gli emendamenti di iniziativa del Governo da cui 48 49 Il bilancio pluriennale a legislazione vigente viene presentato dal Governo alle Camere entro il 30 settembre. Il bilancio pluriennale programmatico viene, altresì, presentato alle Camere entro il 30 settembre. 99 scaturiscono effetti finanziari, devono essere corredati da una relazione tecnica predisposta dalle competenti amministrazioni. Spetta poi al Ministero dell’economia e delle finanze verificare l’attendibilità della relazione e dei dati in essa riportati. Si prevede, inoltre, l’obbligo di stesura della relazione tecnica di accompagnamento non solo per i provvedimenti che comportano nuovi e maggiori oneri, ma anche a quelli da cui scaturiscono riduzioni di spesa o aumenti di entrata. Siffatta legge ha, inoltre, previsto che il Governo, contestualmente alla presentazione del Programma di stabilità agli organismi dell’UE, presenti al Parlamento una nota informativa che giustifichi, con adeguato supporto documentale, le eventuali nuove previsioni degli indicatori macroeconomici e dei saldi di finanza pubblica che divergano dal DPEF approvato. Presentazione ed approvazione dei bilanci 1. La predisposizione del progetto di bilancio. Il processo di costruzione del bilancio annuale e del bilancio pluriennale ha inizio con una circolare predisposta, entro il mese di marzo, dal Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato. Tale circolare, indirizzata a tutti i ministeri ed amministrazioni autonome, fornisce le indicazioni sulle modalità di redazione delle previsioni di spesa. Le amministrazioni espongono, in apposito allegato, le modifiche che dovrebbero esser apportate alla legislazione vigente tramite la legge finanziaria, i programmi e gli obiettivi di ciascun Dicastero. Tali previsioni sono poi sottoposte al Ministero dell’economia e delle finanze che valuta gli oneri delle funzioni, dei servizi istituzionali, dei programmi e dei progetti presentati dall’amministrazione interessata. Contestualmente si esamina anche lo stato di attuazione dei programmi in corso e si valuta l’opportunità di conservare in bilancio come residui50 le somme già stanziate per spese in conto capitale e non impegnate. Il Ministro dell’economia predispone il progetto di bilancio di previsione e lo sottopone alla deliberazione del Consiglio dei Ministri. 2. La presentazione del bilancio. In base alla l. 468/1978 il bilancio annuale di previsione viene formulato sulla base dei criteri e dei parametri contenuti nel DPEF (presentato entro il 30 giugno) come deliberato dal Parlamento. Il Governo presenta alle Camere entro il 30 settembre51 il disegno di legge di approvazione del bilancio annuale. 3. L’approvazione parlamentare: la sessione di bilancio. La Costituzione all’articolo 72 prevede che per i disegni di legge di approvazione di bilanci e di consuntivi ciascuna Camera adotti la procedura normale (riserva d’assemblea) di esame e di approvazione (ossia lettura in aula delle relazioni della commissione; discussione e votazione dei singoli articoli; votazione finale). Tale disposizione, però, escludendo l’approvazione in sede deliberante comporta una dilatazione dei tempi con la conseguenza che in passato il Parlamento difficilmente riusciva ad approvare il bilancio entro il 31 dicembre, cosicché era divenuto abituale il ricorso all’esercizio provvisorio. Per ovviare a tale situazione, i regolamenti delle Camere hanno introdotto la sessione di bilancio, I residui derivano dalla formazione del bilancio secondo il principio della competenza finanziaria, per cui al 31 dicembre alcune entrate accertate non sono state riscosse ed alcune spese impegnate non sono state pagate. I residui attivi sono l’espressione di entrate accertate ma non ancora riscosse nonché di entrate riscosse ma non ancora versate. I residui passivi sono l’espressione di spese già impegnate e non ancora ordinate oppure ordinate ma non ancora pagate. 51 Come già detto, la data è la medesima per il disegno di legge finanziaria e la relazione previsionale e programmatica. 50 100 ossia un periodo nel quale le assemblee sospendono ogni attività legislativa che comporti modificazioni dell’equilibrio finanziario. Per prassi il disegno di legge di approvazione del bilancio viene presentato, per il primo esame, alternativamente un anno alla Camera e un anno al Senato52. Ciascuna commissione parlamentare53 procede all’esame dello stato di previsione di propria competenza, mentre l’esame generale è compiuto dalla Commissione Bilancio. Dopo che ciascuna commissione ha riferito all’aula la propria relazione, si passa alla discussione generale in assemblea: l’esame e la discussione sono condotti in modo congiunto per la legge di bilancio e la legge finanziaria. Per ciò che concerne la finanziaria, si procede prima all’approvazione del totale del SNF e del ricorso al mercato. Si passa, poi, alla votazione del disegno di legge di bilancio che, dal 1998, è articolato in u.p.b; ciò sta a significare che le Assemblee votano un documento più semplice rispetto a quello rilevante ai fini della gestione e della rendicontazione (articolato in capitoli); dapprima viene votato lo stato di previsione delle entrate, successivamente si discutono e si votano i diversi stati di previsione della spesa. Poiché nel bilancio di previsione il totale delle entrate deve essere identico al totale delle spese, l’aver fissato l’ammontare delle entrate determina anche il valore complessivo delle spese: gli unici emendamenti ammissibili sono quelli che compensano le spese fra i diversi ministeri o all’interno dello stesso dicastero. Con apposito articolo del disegno di legge è, inoltre, approvato il bilancio pluriennale. Analogo iter seguono i disegni di legge all’altra Camera e, in caso di modifiche da parte di quest’ultima, si dà luogo alla <<navetta parlamentare>>, finché entrambe le Camere approvano lo stesso testo. Il 31 dicembre rappresenta il termine dell’esercizio finanziario. Dopo l’approvazione da parte di entrambi i rami del Parlamento, la legge del bilancio contenente i vari stati di previsione, è presentata al Presidente della Repubblica per la promulgazione e per la controfirma del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri responsabili. Successivamente è inserita nella Raccolta Ufficiale delle Leggi e dei Decreti pubblicati nella G.U. 4. Effetti giuridici del bilancio. La legge di bilancio è legge di autorizzazione: la deliberazione del bilancio conferisce al Governo la facoltà e il dovere di gestire dei beni e nello stesso tempo impone ad esso dei limiti, nella misura in cui non possono essere superati gli stanziamenti del bilancio per le spese. Il bilancio, una volta approvato, diventa intangibile sia da parte del potere legislativo che da parte del potere esecutivo e deve essere attuato nel rispetto della legislazione vigente in materia. Secondo l’art. 126 del Regolamento, il Senato ha 40 giorni dalla data di presentazione (30 settembre) per completare l’esame. Si anticipi che l’esame preliminare è volto a verificare che: il bilancio e la finanziaria rispettano i limiti del SNF deciso con la risoluzione del DPEF; verificare la copertura finanziaria; controllare l’esistenza di misure estranee all’oggetto. 53 Le Commissioni di merito dovranno esprimersi entro 10 giorni; la Commissione Bilancio dovrà concludere entro 25 giorni; l’Assemblea approverà entro 15 giorni dalla trasmissione dalla Commissione Bilancio 52 101 “Le procedure di bilancio nell’ordinamento italiano - 2” lezione del 4-5-2006, Dott.ssa Goretti A cura di Rossana Tiani Il disegno di legge di bilancio Il disegno di legge del bilancio registra gli andamenti delle entrate e delle spese che derivano dalla legislazione vigente; potremmo definirlo come una sorta di fotografia dal momento che siffatto disegno di legge, ai sensi dell’art. 81 comma tre della Costituzione54, non può inserire nuove entrate e nuove spese. Il problema della partizione del bilancio è di fondamentale importanza per gli usi che si vogliono fare dello stesso; si tratta di classificazioni che hanno una propria e specifica utilità. Per esempio, una delle classificazioni presenti in tale disegno di legge, è il principio di specificazione del bilancio, che si attua nel momento in cui il bilancio viene presentato dal Governo al Parlamento per il voto; ciò mette in evidenza il rapporto tra questi due organi nell’uso e nella gestione delle risorse pubbliche. Dividere tali spese in aggregati, infatti, ci consente di vedere che il voto parlamentare raggiunge livelli allocativi maggiori; non a caso, se si elabora una partizione eccessivamente rigida verrebbe meno il giusto equilibrio, da un canto, tra il desiderio di attuare il controllo parlamentare e, d’altro canto, tra il desiderio di gestione delle risorse da parte del Governo. Ne consegue che il disegno di legge di bilancio è diviso in: Articolato; Quadro generale riassuntivo di competenza e cassa del bilancio annuale55; bilanci pluriennali (a legislazione vigente e programmatico) dello Stato e delle aziende autonome; Stato di previsione dell’entrata e gli stati di previsione della spesa dei singoli ministeri. Il bilancio dello Stato approvato dal Parlamento, segue poi una classificazione di tipo amministrativo. Grazie alla riforma Ciampi (l. n. 94/1997) cambia, innanzitutto, la struttura del bilancio dal momento che In tal caso è fatto espresso divieto che il Parlamento, nell’approvare la legge di bilancio, stabilisca nuovi tributi e nuove spese. Una tale delicata decisone risulterebbe turbata dall’esigenza pressante di raggiungere un equilibrio tramite l’introduzione di nuovi tributi o nuove spese. In realtà maggiori perplessità suscita siffatto comma alla luce della considerazione che il bilancio rappresenta il momento in cui lo Stato programma e coordina il proprio intervento nel campo economico. Tale funzione, però, risulta vincolata proprio al terzo comma dell’art. 81: ai limiti costituzionali si è, perciò, cercato di porre rimedio nel 1978 con l’istituzione della legge finanziaria. 55 Tutta l’attività finanziaria dello Stato, difatti, trova la sua rappresentazione sintetica ed unitaria nel quadro generale riassuntivo che reca le risultanze complessive del bilancio. Esso era previsto anche nella normativa precedente al 1978, ma allora si riferiva solo alle vicende del bilancio di competenza; in seguito ai sensi dell’art. 6 della l. n. 468, è formulato con riferimento sia alle dotazioni di cassa che alle dotazioni di competenza. Esso deve dare indicazione dei seguenti risultati differenziali (saldi): il risparmio pubblico: esso è uguale alla differenza tra il totale delle entrate tributarie (titoli I e II) ed il totale delle spese correnti (titolo I). Questo risultato differenziale, se positivo, misura la quota di risorse correnti destinabili al finanziamento delle spese in conto capitale. Se, viceversa, è negativo, esso esprime la quota delle spese correnti da soddisfare ricorrendo all’indebitamento. il saldo netto da finanziare, detto anche fabbisogno: è uguale alla differenza tra entrate finali (somma dei primi tre titoli delle entrate) e spese finali (somma dei primi due titoli delle spese). Le spese per il rimborso dei prestiti non vengono considerate in tale calcolo dato che tali spese servono a rimborsare (ai possessori dei titoli del debito pubblico) prestiti che lo Stato ha contratto in anni precedenti per finanziare, quindi, disavanzi degli anni precedenti. Il SNF indica la misura cui le operazioni dello Stato determinano il ricorso al mercato monetario e finanziario. Di qui derivano le seguenti regole fiscali (interne) sul bilancio dello Stato: vincolo sul SNF (art. 11, co. 6, della legge 468/1978 e succ. modificazioni); vincolo di non peggioramento del risparmio pubblico (art. 11, co. 6, della legge 468/1978 e succ. modificazioni). 54 102 si individuano nuove strutture contabili che rendono il bilancio dello Stato più chiaro ed intelligibile. Si prevede, infatti, che le entrate siano ripartite in: - titoli, a seconda che siano di natura tributaria, extratributaria o che provengano dall’alienazione e dall’ammortamento di beni patrimoniali o dalla riscossione di crediti; - unità previsionali di base (u.p.b), stabilite in modo che a ciascuna attività corrisponda un unico centro di responsabilità amministrativa cui è affidata la relativa gestione; esse raggruppano aree omogenee di attività relative alle competenze istituzionali di ciascun Ministero. Più centri di responsabilità, perciò, costituiscono un Ministero. Volendo semplificare, per ogni Ministero sono stati individuati centri di responsabilità di livello dirigenziale generale cui è affidata la gestione di aree omogenee delle attività, anche a carattere strumentale, in cui si articolano le competenze di ciascun Ministero: a ciascuno di tali centri di responsabilità corrisponde, in linea di massima, un’unità previsionale di base56. Lo stato di previsione di un Ministero, articolato per centri di responsabilità, viene approvato nei suoi articoli (articolato) fino ad arrivare al livello delle u.p.b. la cui gestione è affidata ad un unico centro di responsabilità amministrativa, cioè ad un unico dirigente. L’ u.p.b è, perciò, l’unità di voto parlamentare; - categorie delle spese secondo l’analisi economica; - capitoli, secondo il rispettivo oggetto (ai fini della rendicontazione). Dal canto loro, le spese, ai sensi dell’art. 6 della l. n. 468 /1978, sono articolate in: - funzioni-obiettivo, individuate in modo tale da definire le politiche pubbliche di settore e misurare il prodotto delle attività amministrative. Esse rappresentano le missioni istituzionali di ciascuna amministrazione interessata. Così, ad esempio, si avrà: servizi generali delle pubbliche amministrazioni (organi esecutivi, organi legislativi e così via); difesa (militare, civile e così via); - u.p.b. che costituiscono l’insieme organico delle risorse finanziarie affidate alla gestione di un unico centro di responsabilità amministrativa e che, al momento dell’approvazione parlamentare, saranno suddivise in unità di spesa corrente ed in unità di spesa in conto capitale. Le unità relative alla spesa corrente sono ulteriormente suddivise in unità di spese per funzionamento e unità per interventi. Il rimborso di prestiti e gli oneri di ammortamento sono esposti in autonome previsioni. Mentre la suddivisione ora ricordata rileva le unità di spesa ai fini dell’approvazione parlamentare, a fini conoscitivi le unità relative alla spesa di conto capitale comprendono le partite attinenti agli investimenti diretti e indiretti, alle partecipazioni azionarie e ai conferimenti In merito alle unità previsionali di base, così recitano i commi 1, 6 e 9 del primo articolo del decreto legislativo correttivo 279/1997:<< 1. A decorrere dall'anno finanziario 1998 il bilancio di previsione dello Stato è ripartito, per l'entrata e per la spesa, in unità previsionali di base, che formano oggetto di approvazione parlamentare. Le unità previsionali di base costituiscono l'insieme organico delle risorse finanziarie affidate alla gestione di un unico centro di responsabilità amministrativa. La determinazione delle unità previsionali di base deve assicurare la piena rispondenza della gestione finanziaria agli obiettivi posti all'azione amministrativa dello Stato, nell'ambito del criterio della ripartizione delle risorse per funzioni, individuate con riferimento agli obiettivi generali perseguiti dalle politiche pubbliche di settore ed all'esigenza di verificare la congruenza delle attività amministrative agli obiettivi medesimi, anche in termini di servizi finali resi ai cittadini. 6. Il livello di responsabilità amministrativa, in relazione al quale sono determinate le unità previsionali di base, è individuato in modo da assicurare il costante adeguamento della struttura del bilancio dello Stato agli ordinamenti legislativi ed alle altre normative di organizzazione dell'amministrazione dello Stato (…). L'individuazione delle unità previsionali persegue, sul piano contabile, gli obiettivi e le finalità di riforma delle pubbliche amministrazioni e di semplificazione amministrativa (…). 9. La determinazione delle unità previsionali di base è effettuata con il disegno di legge di approvazione del bilancio dello Stato, con il quale si provvede alle eventuali modifiche o integrazioni rispetto alla classificazione dell'esercizio precedente. In appositi allegati al disegno di legge di bilancio sono indicati, divisi per stati di previsione, le predette unità previsionali di base e le funzioni obiettivo di cui al comma 1>>. 56 103 nonché ad operazioni per concessioni di crediti; le unità di parte corrente per spese di funzionamento, con enucleazione degli oneri di personale, nonché quelle per interventi, comprendono tutte le altre spese. Per ogni u.p.b., infine, sono indicati: l’ammontare dei residui, gli stanziamenti di competenza giuridica e gli stanziamenti di cassa. I residui derivano dalla formazione del bilancio secondo il principio della competenza finanziaria, per cui al 31 dicembre – termine dell’esercizio finanziario alcune entrate accertate non sono state riscosse ed alcune spese impegnate non sono state pagate. I residui attivi sono l’espressione di entrate accertate ma non ancora riscosse nonché di entrate riscosse ma non ancora versate. I residui passivi sono l’espressione di spese già impegnate ma non ancora pagate. Per ciò che concerne gli stanziamenti di competenza giuridica57, essi riguardano le entrate che si prevede di accertare oppure le spese che si prevede di impegnare. Circa gli stanziamenti di cassa58, infine, questi comprendono le entrate che si prevede di incassare e le spese che si prevede di pagare. In sintesi, la massa spendibile in un dato esercizio finanziario è pari alla somma dei residui passivi e degli stanziamenti di competenza giuridica per l’anno in corso. La massa spendibile corrisponde al totale dei pagamenti che si prevede di effettuare nel corso dell’esercizio, che comprende sia le spese relative agli stanziamenti di competenza giuridica di esercizi anteriori non ancora effettuate [residui passivi] che le uscite relative agli stanziamenti previsti per l’anno in corso [stanziamenti di competenza]; - capitoli, secondo l’oggetto, il contenuto economico e funzionale della spesa riferito a categorie e funzioni, nonché secondo il carattere giuridicamente obbligatorio o discrezionale della spesa. I capitoli costituiscono, pertanto, le unità elementari ai fini della gestione delle spese e della rendicontazione del bilancio e rappresentano una delle più evidenti misure tese al passaggio ad un sistema di contabilità di tipo economico; evidenziano, infatti, il significato economico del rapporto giuridico ad essi sotteso. Il disegno di legge di bilancio è anche accompagnato da Tabelle corrispondenti agli stati di previsione. Esse contengono: una nota preliminare che indica i criteri adottati per la formulazione delle previsioni; gli obiettivi in termini di livello dei servizi e degli interventi; gli indicatori di efficacia e di efficienza per valutare i risultati; un allegato tecnico che indichi le u.p.b. disaggregate per capitolo; i quadri riepilogativi, con riassunto per categoria economica e per funzioni-obiettivo; gli allegati specifici (ossia le previsioni secondo le funzioni obiettivo, i capitoli per codice economico, i capitoli per codice funzionale e così via). Accertamento ed impegno costituiscono fasi della spesa preliminare all’incasso; sono, perciò, stanziamenti di competenza giuridica. La competenza giuridica dovrebbe consentire di pagare tutti gli impegni che si prevede di assumere. 58 Gli stanziamenti di cassa sono, invece, fasi successive, anche se le quantità sono le stesse di quelle di competenza giuridica. 57 104 “Le decisioni di bilancio” lezione del 11-5-2006, Dott.ssa Goretti A cura di Rossana Tiani Il ciclo della quantificazione rappresenta la sequenza di istituti e procedure inerenti l’attuazione dell’obbligo di copertura finanziaria delle leggi di spesa, ai sensi dell’art. 81, comma 4, Cost., in particolare delle leggi di spesa approvate nel corso dell’anno di riferimento. Si è già detto della copertura finanziaria della legge finanziaria59.Ora, il disposto, a norma dell’art. 81, comma 4, Cost., per il quale, <<ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte>>, esprime il sinallagma oneri – copertura60, l’idea di una visione contabile per cui ogni legge di spesa deve indicare la spesa autorizzata (ovvero prevista) e la relativa copertura finanziaria. In questo principio si sostanziano i criteri attuali di finanza pubblica, quali la trasparenza, la responsabilizzazione finanziaria del decisore politico; il significato è quello di rendere evidente l’elemento di compensazione dell’onere, affinché questo non alteri l’equilibrio di bilancio all’inizio dell’anno di riferimento. Le entrate e le spese indicate nella legge finanziaria corrispondono a un determinato equilibrio; le azioni successive riguardanti innovazioni legislative dovrebbero essere tali da mantenere l’equilibrio corrispondente a quello di inizio anno. Il sinallagma esprime un’operazione che, dal punto di vista temporale, è contestuale; la contestualità soddisfa un’esigenza di trasparenza. La trasparenza è da intendersi, secondo Rapts e Craig, come “franchezza verso l’opinione pubblica”, quindi come accessibilità alle informazioni sul bilancio, quale decisione politica e tecnica insieme. L’art. 11-ter, della legge n. 468 del 1978, sulla copertura finanziaria delle leggi, è l’attuazione contabile dell’art. 81, comma 4, Cost.. L’elemento regolamentare circa la verifica della copertura finanziaria delle leggi è nel sistema di notevole importanza. L’art. 40 del Regolamento del Senato prevede il vaglio della Commissione Bilancio (V Commissione permanente), il cui parere riguarda la valutazione e la verifica del corretto assolvimento dell’obbligo di copertura dei disegni di legge <<deferiti ad altre Commissioni che comportino nuove o maggiori spese o diminuzione di entrate o che contengano disposizioni rilevanti ai fini delle direttive e delle previsioni del programma di sviluppo economico>>61. Qualsiasi disegno di legge comportante maggiori spese o diminuzione di entrate, pervenuto al Presidente del Senato da parte di una delle Commissioni competenti, deve previamente ricevere il parere della Commissione Bilancio. Circa la presentazione degli emendamenti da valutarsi ai fini della copertura finanziaria, quelli che <<importino aumento di spesa o diminuzione di entrata debbono essere trasmessi, appena presentati, anche alla 5a Commissione permanente perché esprima il proprio parere. Il parere può essere dato anche verbalmente, nel corso della V. art. 11, commi 5 e 6, della legge n. 468 del 1978: <<In attuazione dell’art. 81, quarto comma, della Costituzione, la legge finanziaria può disporre, per ciascuno degli anni compresi nel bilancio pluriennale, nuove o maggiori spese correnti, riduzioni di entrata e nuove finalizzazioni nette da iscrivere, ai sensi dell’articolo 11-bis, nel fondo speciale di parte corrente, nei limiti delle nuove o maggiori entrate tributarie, extratributarie e contributive e delle riduzioni permanenti di autorizzazioni di spesa corrente>>. <<In ogni caso, ferme restando le modalità di copertura di cui al comma 5, le nuove o maggiori spese disposte con la legge finanziaria non possono concorrere a determinare tassi di evoluzione delle spese medesime, sia correnti che in conto capitale, incompatibili con le regole determinate, ai sensi dell’articolo 3, comma 2, lettera e), nel documento di programmazione economico-finanziaria, come deliberato dal Parlamento>>. 60 Terminologia giuridica che ha attraversato l’intera discussione sul comma 4 dell’art. 81 Cost.. 61 V. art. 40, comma 3, del Regolamento del Senato. 59 105 seduta, a nome della Commissione, dal suo Presidente o da altro Senatore da lui delegato>> 62. La valutazione degli emendamenti è prevista quale elemento di chiusura rispetto al testo; di contro sarebbe un elemento che vanificherebbe il senso di responsabilità. Le indicazioni precise sul parere della Commissione bilancio ai fini dell’iter procedurale per l’approvazione dei disegni di legge denotano il valore dato al processo di valutazione ai fini della copertura finanziaria; del resto, un parere senza effetti procedurali sarebbe trascurabile e meno pregnante sul seguito del procedimento63. <<Gli emendamenti che importino nuove o maggiori spese o diminuzione di entrate, per i quali la 5a Commissione permanente abbia espresso parere contrario motivando la sua opposizione con la mancanza della copertura finanziaria prescritta dall’articolo 81, ultimo comma, della Costituzione, non sono procedibili, a meno che quindici Senatori non ne chiedano la votazione. I richiedenti sono considerati presenti, agli effetti del numero legale, ancorché non partecipino alla votazione>>64. Su detti emendamenti, <<nonché sugli articoli e sui disegni di legge ai quali si riferisce l’anzidetto parere contrario della 5a Commissione permanente, la deliberazione ha luogo mediante votazione nominale con scrutinio simultaneo>>65. Ai sensi dell’art. 81 Cost., non si ha una situazione di impedimento parlamentare circa la votazione di un testo scoperto finanziariamente. La votazione qualificata consente di arrivare all’approvazione dello stesso testo scoperto; questo significa che occorre avere una manifestazione chiara e precisa da parte dei parlamentari per superare una difficoltà costituzionale. Il rinvio del Presidente è un intervento finale; il parere contrario della Commissione bilancio è un elemento ulteriore nel senso del rinvio del Presidente, nonché un elemento di rallentamento, nel Regolamento, in corrispondenza di testi o emendamenti problematici. Caratteristicamente diversi dagli altri, gli emendamenti scoperti, a seguito della modifica del 1999, relativa a questa parte del Regolamento del Senato, registrano la novità per cui, oggi, gli emendamenti così qualificati sono non procedibili, mentre prima di tale data, per gli emendamenti colpiti da parere contrario, si richiedeva automaticamente la votazione qualificata, votazione nominale a scrutinio simultaneo, che equivale alla verifica del numero legale. Questa situazione avrebbe creato le condizioni per fare del parere della 5a Commissione permanente uno strumento di ostruzionismo: a tale scopo, la presentazione di emendamenti scoperti dava luogo in Aula a una sequenza di votazioni nominali successive, che obbligava la presenza in Aula dei Senatori, senza il bisogno di una richiesta di votazione. Per equità di regolamento, se la richiesta della votazione comporta la presenza di un certo numero di Senatori, anche sul parere contrario vi devono essere quindici Senatori, nel qual caso scatta la votazione nominale a scrutinio simultaneo. Quale elemento di chiusura si segnala che <<Quando la 5a Commissione permanente esprime parere scritto contrario all’approvazione di un disegno di legge che importi nuove o maggiori spese o diminuzione di entrate e che sia stato assegnato in sede deliberante o redigente ad altra Commissione, motivando la sua opposizione con la insufficienza delle corrispettive quantificazioni o della copertura finanziaria, secondo le prescrizioni dell’articolo 81, ultimo comma, della Costituzione e delle vigenti disposizioni legislative, il disegno di legge è rimesso all’Assemblea qualora la Commissione competente per materia non si uniformi al suddetto parere>>66. In tal modo si è impedito che la procedura più rapida di quella ordinaria diventasse uno strumento per superare V. art. 100, comma 7, Reg. Senato. Un argomento dibattuto ha riguardato in proposito la mancata previsione nel Regolamento della Camera di effetti procedurali forti e quindi la presenza di una valutazione meno vincolante ai fini della copertura. 64 V. art. 102-bis, comma 1, Reg. Senato, come modificato nel febbraio 1999. 65 V. art. 102-bis, comma 2, Reg. Senato, come modificato nel febbraio 1999. 66 V. art. 40, comma 5, Reg. Senato. 62 63 106 l’espressione del parere obbligatorio e così anche la copertura finanziaria con il voto qualificato. Nell’applicazione concreta si distingue il parere contrario dal parere contrario ai sensi dell’art. 81 Cost., il primo essendo un parere di merito rispetto all’uso delle risorse pubbliche, ad elementi considerati non corretti rispetto alla politica economica, l’altro essendo un appunto specifico della Commissione bilancio sul mancato rispetto del sinallagma67. In particolare, <<La verifica della idoneità della copertura finanziaria, ai fini dell’espressione del parere [reso ai sensi dell’art. 81 Cost.], deve riferirsi alla quantificazione degli oneri recati da ciascuna disposizione e agli oneri ricadenti su ciascuno degli anni compresi nel bilancio pluriennale in vigore>>68. A seguito della riforma del 1988 concernente le regole di bilancio, la legge n. 468 del 1978 elenca le fonti di copertura finanziaria delle leggi69 nell’ambito del ciclo della quantificazione. La copertura finanziaria delle leggi che importino nuove o maggiori spese, ovvero minori entrate, è determinata esclusivamente attraverso risorse di copertura che a seconda delle modalità si distinguono in: - mezzi interni, ovvero compensazioni interne rispetto all’equilibrio di bilancio: fondi speciali riduzione di precedenti autorizzazioni di spesa - mezzi esterni, ovvero forme di copertura che dall’esterno modificano i saldi di bilancio: nuovi tributi o inasprimento di quelli esistenti. I fondi speciali, indicati nelle Tabelle A e B allegate alla legge finanziaria, distintamente per la parte corrente e per la parte in conto capitale, sono stanziamenti <<destinati alla copertura finanziaria di provvedimenti legislativi che si prevede siano approvati nel corso degli esercizi finanziari compresi nel bilancio pluriennale ed in particolare di quelli correlati al perseguimento degli obiettivi del documento di programmazione finanziaria deliberato dal Parlamento>>70. Sono oggetto di una forma contabile con cui si attua, dopo l’approvazione delle leggi di spesa, un decreto di variazione del bilancio ministeriale che introduce una nuova u.p.b. la quale recherà l’autorizzazione alla variazione, riducendo il fondo speciale di uguale importo. E’ una variazione compensativa, che non cambia la composizione della spesa totale. I mezzi esterni, quali l’aumento dell’IVA o dell’IRE, sono nuove entrate. Imponendo sul contribuente l’obbligo di nuove entrate, i decreti di variazione della spesa e di stima sulle entrate determinano l’aumento della u.p.b. relativa. Vi è dunque un diverso peso legato all’elemento tecnico di valutazione degli effetti finanziari relativi ai due tipi di mezzi. Il problema della individuazione delle fonti di copertura rinvia all’evoluzione storica dell’interpretazione dell’art. 81 Cost. e della concezione della finanza pubblica. Fino al 1988 le fonti di Questo denota il ruolo di filtro della Commissione bilancio, in quanto Commissione di vaglio. V. art 40, comma 8, Reg. Senato. Peraltro, <<Ove siano trasmessi per il parere alla 5a Commissione permanente disegni di legge ed emendamenti che prevedano l’utilizzo di stanziamenti di bilancio, ivi inclusi gli accantonamenti iscritti nei fondi speciali, per finalità difformi da quelle stabilite nella legge di bilancio annuale e pluriennale e nella legge finanziaria, è facoltà della medesima 5a Commissione permanente chiedere, alle Commissioni competenti nella materia di cui allo stanziamento di bilancio o all’accantonamento, un parere in ordine al richiamato utilizzo difforme>> (comma 11). 69 V. art. 11-ter, comma 1, della legge n. 468 del 1978: <<In attuazione dell’articolo 81, quarto comma, della Costituzione, ciascuna legge che comporti nuove o maggiori spese indica espressamente, per ciascun anno e per ogni intervento da essa previsto, la spesa autorizzata, che si intende come limite massimo di spesa, ovvero le relative previsioni di spesa, definendo una specifica clausola di salvaguardia per la compensazione degli effetti che eccedano le previsioni medesime>>. 70 V. art. 11-bis, comma 1, della legge n. 468 del 1978. 67 68 107 finanziamento hanno ricompreso il ricorso al debito sul mercato finanziario. Il problema dell’equilibrio indotto dall’aumento del disavanzo era parte di un’idea lontana dalla sostenibilità nel lungo periodo delle regole sottostanti la disciplina di bilancio. E comunque una limitazione dell'obbligo di copertura riferita al solo esercizio in corso si traduceva in una vanificazione dell'obbligo stesso: il comma 4 dell’art. 81 Cost. non è tale da porsi esclusivamente in relazione con il bilancio in corso, ma, diversamente inteso, significa che <<una nuova o maggiore spesa per la quale la legge, che l'autorizza, non indichi i mezzi per farvi fronte, non può trovare la sua copertura mediante l'iscrizione negli stati di previsione della spesa, siano quelli già approvati e in corso di attuazione, siano quelli ancora da predisporre dal Governo e da approvare dalle Camere. Il significato del termine adoperato dal quarto comma: "ogni altra legge", non é tale che possa essere ricondotto […] ad ogni legge successiva al bilancio in corso e modificatrice in peius dell'equilibrio contabile di esso, ma, viceversa, attiene ad ogni altra legge che non sia la legge di bilancio, senza alcuna connessione cronologica con questa>>71. La previsione costituzionale <<attiene ai limiti sostanziali che il legislatore ordinario é tenuto ad osservare nella sua politica di spesa, che deve essere contrassegnata non già dall'automatico pareggio del bilancio, ma dal tendenziale conseguimento dell'equilibrio tra le entrate e la spesa>>72. Contrariamente all’idea che l’obbligo di copertura valesse solo per il primo anno e che non fosse necessaria la compensazione finanziaria degli effetti anche per gli anni successivi, <<l'obbligo della "copertura" deve essere osservato dal legislatore ordinario anche nei confronti di spese nuove o maggiori che la legge preveda siano inserite negli stati di previsione della spesa di esercizi futuri. É evidente che l'obbligo va osservato con puntualità rigorosa nei confronti di spese che incidano sopra un esercizio in corso, per il quale é stato consacrato con l'approvazione del Parlamento un equilibrio (che non esclude ovviamente l'ipotesi di un disavanzo), tra entrate e spese, nell'ambito di una visione generale dello sviluppo economico del Paese e della situazione finanziaria dello Stato>>73. Relativamente alle leggi pluriennali di spesa che si protraggono anche negli esercizi successivi a quelli considerati dal bilancio pluriennale, l'obbligo di indicazione dei mezzi di copertura riguarda anche gli esercizi successivi a quelli compresi nel bilancio triennale, e cioè <<non è sufficiente la copertura degli oneri relativi alla durata di esso, quando per gli anni successivi le quote assumono andamenti marcatamente crescenti e richiedono perciò un fabbisogno ulteriore rispetto a quello previsto per l'ultimo anno del triennio. Difatti l'equilibrio contabile tra onere coperto ed onere a regime deve costituire l'elemento formale da prendersi a riferimento per valutare - senza invadere il campo dell'indirizzo politico in materia di bilancio - la ragionevolezza della copertura, dallo specifico punto di vista del mantenimento di un plausibile rapporto di equilibrio tra entrate e spese>>74. La copertura non deve trascurare la valutazione degli effetti finanziari che una disposizione di legge introduce sul bilancio. Se è errata la valutazione/quantificazione degli effetti lo è anche l’elemento di garanzia, di mantenimento dell’equilibrio nel medio periodo. Una valutazione che non riguarda solo la Cfr. Corte Cost., sent. n. 1 del 1966. Cfr. Corte Cost., sent. n. 1 del 1966. 73 Cfr. ancora Corte Cost., sent. n. 1 del 1966. 74 Cfr. Corte Cost., sent. n. 25 del 1993. La stessa è poi richiamata nella sentenza n. 5 del 2000. Il concetto dello “scalino” del quarto anno muove dal presupposto di una spesa che non mostri tassi di incremento eccessivi per rispettare il sinallagma onericopertura; la stessa non deve subire alterazioni tali che nel medio periodo portino squilibrio nei conti pubblici. 71 72 108 parte relativa agli oneri, ma anche quella della copertura. A tal fine, per valutare e quantificare gli effetti finanziari conseguenti a innovazioni legislative si utilizzano modelli di analisi sul modulo della simulazione. Nell’ambito del ciclo della quantificazione, l’esito del dibattito circa la sede della quantificazione e le sue modalità è costituito dalle riforme del 1988 che sistematizzano il procedimento, introducendo una nuova attenzione alla ricostruzione degli effetti finanziari associabili all’innovazione legislativa. Da qui consegue che: la funzione di quantificazione è incentrata sul Governo75, mediante la predisposizione della relazione tecnica; la verifica tecnica in sede parlamentare è demandata ai regolamenti: con la verifica tecnica si introduce un elemento procedurale per incentivare o disincentivare un provvedimento; concretandosi in essa il ruolo di contraltare del Parlamento, si rafforza il sindacato tecnico delle strutture parlamentari. La relazione tecnica è prevista su iniziative che comportino conseguenze finanziarie e quindi su: disegni di legge di iniziativa governativa; schemi di decreto legislativo; emendamenti di iniziativa governativa76. <<Le Commissioni parlamentari competenti possono richiedere al Governo la relazione [tecnica] per tutte le proposte legislative e gli emendamenti al loro esame ai fini della verifica tecnica della quantificazione degli oneri da essi recati>>77. La relazione tecnica è predisposta dalle amministrazioni competenti e verificata dal Ministero dell’Economia78. Nell’ambito della verifica in sede parlamentare, la relazione tecnica è considerata come condizione di procedibilità: i disegni di legge governativi non corredati dalla relazione tecnica sono non assegnabili79; gli emendamenti governativi senza relazione tecnica sono improponibili80. Si è anche valutata la possibilità di affidare ad un ente esterno la valutazione dell’impatto finanziario delle leggi. V. art. 11-ter, comma 2, della legge n. 468 del 1978. 77 V. art. 11-ter, comma 3, della legge n. 468 del 1978; art. 76-bis, comma 3, Reg. Senato. La scelta di connettere la relazione tecnica agli strumenti di iniziativa governativa individuati si giustifica avendo il Governo il ruolo di produzione della relazione stessa. Il significato da attribuire rispettivamente ai commi 2 e 3 citati va tenuto distinto. Peraltro, la distinzione tra disegni di legge di iniziativa governativa e disegni di legge di iniziativa parlamentare ha natura residuale, essendo la maggior parte dei disegni di legge di iniziativa del Governo. 78 Sul punto si instaura un rapporto di forza tra la competenza di settore, maggiormente adatta a conoscere i modelli di stima di un intervento, e il Ministero. Il “bollino” della Ragioneria Generale dello Stato alla relazione tecnica dà l’imprimatur del carattere di disciplina fiscale al documento. Da una parte, la necessità di assicurare la qualità del documento tecnico si scontra con una procedura che garantisca la tecnicità, nella realtà in parte disattesa, di simili valutazioni. Dall’altra, il passaggio amministrazione competente - Ministero, nell’applicazione concreta, si sviluppa in termini di rapporti di potere: taluni disegni di legge sono bloccati o soggetti a rallentamenti dal Ministero in relazione alla verifica tecnica; in altri casi dietro a resistenze di ordine tecnico sorgono anche resistenze politiche al proseguimento dei provvedimenti (rispetto a talune iniziative parlamentari viene richiesta la relazione tecnica e nell’attesa tarda a venire il parere della Commissione bilancio). Si registrano anche rapporti di tensione tra le Commissioni di merito e quella di bilancio. 79 <<Non possono essere assegnati alle competenti Commissioni permanenti i disegni di legge di iniziativa governativa, di iniziativa regionale o del CNEL, nonché gli schemi di decreto legislativo che comportino nuove o maggiori spese ovvero diminuzione di entrate e non siano corredati dalla relazione tecnica, conforme alle prescrizioni di legge, sulla quantificazione degli oneri recati da ciascuna disposizione e delle relative coperture>>: v. art. 76-bis, comma 1, Reg. Senato (articolo aggiunto nel 1988). 80 V. art. 76-bis, comma 2, Reg. Senato. In proposito si segnala come il Regolamento possa essere aggirato in relazione a questa specifica disposizione, qualora un emendamento sia presentato da un Senatore di maggioranza e non dal Governo, ma poi 75 76 109 L’esame in sede consultiva circa la verifica della idoneità della copertura finanziaria, ai fini dell’espressione del parere della Commissione bilancio, si estende anche alla quantificazione degli oneri recati da ciascuna disposizione e agli oneri ricadenti su ciascuno degli anni compresi nel bilancio pluriennale in vigore81. Nessun ruolo esplicito è assegnato ai servizi parlamentari (in merito alla verifica e in particolare sui caratteri della quantificazione); ad essi è affidata la messa a disposizione della documentazione specializzata82. Nel 1988 si è considerata la verifica come un elemento di procedura parlamentare. Le verifiche delle relazioni tecniche sono atti di supporto tecnico a disposizione della decisione parlamentare. Il parere della Commissione bilancio è un voto politico, non si adegua automaticamente alla valutazione tecnica. La riforma del 1988 individua un elemento di valutazione necessaria sulla copertura finanziaria delle leggi e sulla correttezza del numero delle risorse individuate (sinallagma come contestualità della decisione), prevedendo che determinate forme procedurali si inseriscano nelle procedure di decisione. Questo rinvia a un più ampio disegno delle istituzioni: il peso che si intende affidare alla valutazione ha riflessi espliciti sul parere delle Commissioni coinvolte, sul Parlamento, la cui partecipazione, nel segno del controllo sul bilancio, ha senso in vista dell’attuazione del principio costituzionale più volte richiamato. Le competenze tecniche si attuano mediante la relazione tecnica e la verifica della quantificazione. La relazione tecnica concerne <<la quantificazione delle entrate e degli oneri recati da ciascuna disposizione, nonché delle relative coperture, con la specificazione, per la spesa corrente e per le minori entrate, degli oneri annuali fino alla completa attuazione delle norme e, per le spese in conto capitale, della modulazione relativa agli anni compresi nel bilancio pluriennale e dell’onere complessivo in relazione agli obiettivi fisici previsti. Nella relazione sono indicati i dati e i metodi utilizzati per la quantificazione, le loro fonti e ogni elemento utile per la verifica tecnica in sede parlamentare>>83. Per quanto concerne le tipologie di spesa e le tecniche di quantificazione, si osserva che talvolta è predeterminato in via legislativa un tetto di spesa o spesa autorizzata, ad esempio, attraverso la seguente formulazione: <<Per la prosecuzione degli interventi di cui all’articolo 2 della legge 23 luglio 1991, n. 233, è autorizzato lo stanziamento di 1 milione di euro per ciascuno degli anni del triennio 2003-2005>>84. contestualmente presentato da quest’ultimo per non forzare troppo le regole, per correttezza politica. Talvolta è persino un determinato carattere tipografico a rivelare la provenienza, da un certo Ministero, di un emendamento distribuito però da parlamentari. 81 V. art. 40, comma 8, Reg. Senato. L’attenzione è posta non solo sulle risorse di copertura ma anche sul carattere della quantificazione. Individuati l’onere e la relativa copertura, se la Commissione bilancio, sulla base della relazione tecnica, ritiene che le ipotesi formulate non siano corrette, esprime parere contrario, con conseguenze di blocco o di rallentamento tipiche dello stesso. Il valore dei modelli di previsione è molto forte. Tuttavia, non c’è totale integrazione tra la relazione tecnica e la decisione politica, anche se la legge n. 468 del 1978 potrebbe fornire spazi relativamente a questo punto. 82 Le verifiche parlamentari sulle relazioni tecniche costituiscono l’oggetto dei dossier del Servizio bilancio, il quale può esprimere dubbi relativamente al carattere della quantificazione, proprio per la insoddisfacente tecnicità delle relazioni stesse, senza però alcuna conseguenza di blocco procedimentale. Se il valore di questi documenti nell’ambito del procedimento è forte, da più parti si auspica che la loro qualità aumenti di pari grado. 83 V. art. 11-ter, comma 2, della legge n. 468 del 1978. Il punto più difficile e controverso riguarda l’indicazione dei dati, dei metodi e delle loro fonti . 84 V. art. 34, comma 15, della legge n. 289 del 2002 (legge finanziaria 2003), relativo a finanziamenti per il restauro ed il recupero delle ville venete. 110 In altri casi potrebbe trattarsi di una disposizione formulata in termini generali: <<A decorrere dal 1° gennaio 2004 l’indennità speciale istituita dall’articolo 3, comma 1, della legge 21 novembre 1988, n. 508, a favore dei cittadini riconosciuti ciechi con residuo visivo non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione, è aumentata dell’importo di 41 euro mensili>>85. Il caso più complesso è quello di una spesa dipendente da eventi futuri: <<Fino al 31 dicembre 2003, alle imprese industriali che svolgono attività produttiva di fornitura o subfornitura di componenti, di supporto o di servizio, a favore di imprese operanti nel settore automobilistico, il trattamento ordinario di integrazione salariale, di cui alla legge 20 maggio 1975, n. 164, può essere concesso per un periodo non superiore a ventiquattro mesi consecutivi, ovvero per più periodi non consecutivi la durata complessiva dei quali non superi i ventiquattro mesi in un triennio>>. <<Per le imprese indicate nel comma 9, ai fini del computo dei periodi massimi di godimento del trattamento ordinario di integrazione salariale, una settimana si considera trascorsa quando la riduzione di orario sia stata almeno pari al 10 per cento dell’orario settimanale relativo ai lavoratori occupati nell’unità produttiva. Le riduzioni di ammontare inferiore si cumulano ai fini del computo dei predetti periodi massimi>>86. 85 V. art. 39, comma 6, della legge n. 289 del 2002. Nel caso specifico, non emergono dalla disposizione ulteriori elementi informativi, quale sia, ad esempio, l’estensione della platea dei beneficiari. 86 V. art. 41, commi 9 e 10, della legge n. 289 del 2002. Si tratta di una norma di spesa che, nel modificare le caratteristiche di accesso, ai fini del trattamento ordinario di integrazione salariale, crea un incremento di spesa; in tal caso bisognerebbe conoscere (stima di effetti finanziari futuri sulla base di ipotesi future) le imprese che rispettano i requisiti previsti e quale sia il loro comportamento futuro, quali siano cioè le imprese che lo richiederanno. 111 “Approfondimento sul Patto di Stabilità Interna” lezione del 5-6-2006, Dott.ssa Goretti A cura di Andrea Alquati Nel 1999 la crescente importanza delle Regioni e degli enti locali nella definizione delle politiche di bilancio, nell’ottica di graduale decentramento federalista previsto dalla riforma Bassanini, comportò la necessità di una loro responsabilizzazione contabile, mediante l’adozione a livello nazionale di uno strumento analogo al Patto di stabilità e crescita concordato tre anni prima, a livello comunitario, fra gli Stati aderenti all’Unione economica e monetaria europea. Nel quinquennio 1999-2004 l’obiettivo, variabile di anno in anno, è stato posto sul miglioramento di un saldo di cassa e di competenza giuridica, ricavato ex-post dalla differenza fra le entrate totali, al netto di trasferimenti statali ed entrate di natura straordinaria o finanziaria, e la spesa corrente, al netto di uscite non-discrezionali, straordinarie o per il pagamento d’interessi sul debito. La misura del miglioramento richiesto veniva definita appositamente per ogni esercizio. Dalla regolamentazione è rimasta esclusa la spesa sanitaria delle Regioni, al fine di garantire gli stessi standard qualitativi del servizio in tutto il Paese, nel rispetto del diritto costituzionale alla salute. Diversamente dal patto di stabilità comunitario, quello interno poneva l’enfasi esclusivamente sul saldo di bilancio, trascurando il suo rapporto col prodotto interno lordo delle singole Regioni ed enti locali. Inizialmente non è stato previsto un sistema specifico di sanzioni, limitandosi ad un’affermazione di principio per la quale “...in caso di sanzioni europee per deficit eccessivo contro l’Italia, la multa verrà ripartita fra i soggetti responsabili dell’eccesso di spesa”, mentre soltanto per l’anno 2000 veniva adottato un sistema d’incentivi, poi abbandonato, mediante la riduzione del tasso d’interesse sui prestiti concessi dalla Cassa Depositi e Prestiti. Il monitoraggio avviene mediante la trasmissione obbligatoria di determinate informazioni dagli enti interessati al Ministero dell’Economia e alle associazioni degli enti stessi (Anci, Upi, Uncem), mentre la Corte dei Conti controlla mediante i propri poteri il rispetto degli obblighi. Nel 2002 gli scarsi risultati conseguiti hanno indotto a tentare una ridefinizione di regole ed obiettivi mediante una programmazione triennale e l’introduzione di un sistema di incentivi e disincentivi al rispetto del patto, attraverso una redistribuzione fra gli enti virtuosi delle risorse derivanti da sanzioni a quelli responsabili d’infrazioni. Un tentativo di riforma di fatto fallito. Nel 2003 si è quindi cercato di rinsaldare il controllo tramite l’introduzione di obiettivi trimestrali, coerenti con quelli annuali (nel caso di mancato rispetto dei limiti, questo va riassorbito nel trimestre successivo), maggiori poteri di verifica alla Corte dei Conti e una serie di regole automatiche per il rientro nei limiti di spesa fissati: il divieto di effettuare assunzioni di personale, la riduzione obbligatoria della spesa per consumi intermedi e il divieto di ricorrere all’indebitamento per finanziare investimenti. A partire dal 2005 si è spostato l’obiettivo dal saldo di bilancio alla spesa corrente, onde contenere il boom delle entrate proprie degli enti locali che si stava verificando per rispettare l’impegno, azzerando così la progressiva riduzione della pressione fiscale avviata a livello centrale, in palese contraddizione quindi col 112 programma elettorale della coalizione di governo. Si è posto pertanto un vincolo alla crescita della spesa corrente rispetto alla media del triennio 2001/2003. Da parte delle Regioni e degli enti locali si è cercato allora di aggirare questa nuova forma di regolazione, camuffando spese correnti da uscite straordinarie o non-discrezionali, dunque non soggette a vincolo. Anzi, in alcuni casi si sono assunti maggiori impegni di spesa proprio per rendere meno stringenti i futuri vincoli, con l’effetto negativo di gonfiare il debito e quindi il costo del suo servizio. Una reazione imprevista, che ha costretto il Governo a mutare nuovamente i parametri per l’esercizio 2006, includendo nel patto la spesa totale (non solo quella corrente) e vincolandola ad una riduzione dal 6,5% all’8% (a seconda che si tratti di ente virtuoso o non virtuoso) rispetto all’anno 2004. 113 “Il controllo di gestione nelle amministrazioni pubbliche: introduzione” lezione del 16-2-2006, Prof. Mussari A cura di Laura Miglio Con il termine “gestione” si fa riferimento ad una fenomenologia normativa pensata in riferimento ad un contesto aziendale, ovvero, nel caso specifico, dedicata alle amministrazioni pubbliche; per “controllo” si intende, invece, un fenomeno diverso, comunque aziendale, fa riferimento alla necessità di individuare strumenti grazie ai quali “guidare” l’attività amministrativa. Se considerati all’unisono, questi due fenomeni danno vita al controllo di gestione87. L’espressione “manager control” si adatta all’impostazione, manageriale appunto, cui le nostre aziende pubbliche tendono, ovvero dovrebbero tendere, nel continuo svolgimento dei compiti ad esse istituzionalmente riservati e imposti. In un simile contesto, il controllo di gestione appare come un “meccanismo operativo ed orientativo” il cui fine è quello di fungere da guida per l’attività della pubblica amministrazione per il raggiungimento degli obiettivi preordinati in modo responsabile ed efficiente ed espressi in forma di risultati attesi. La determinazione degli obiettivi è, infatti, il primo passo da compiere per un efficace funzionamento del controllo di gestione; a questi dovrà, poi, accompagnarsi la correlativa copertura in termini sia di risorse umane che finanziarie. Sulla scia di una curiosa metafora che fa riferimento ad un grande pallone aerostatico sopra un campo da tennis (al di sotto del quale, proprio perché non viste, le aziende pubbliche potrebbero comportarsi in qualunque modo), il controllo di gestione, grazie alla impostazione manageriale in questione, punta a rompere questa eventuale bolla di efficienza solo apparente per porsi come linea guida dei lavori pubblici fornendo a questi strumenti informazioni mirate e dettagliate. Una impostazione questa che, certo, risente della “mano” che tali strumenti usa, nonché della sua metodologia di ricezione; vario e differente è infatti il risultato a seconda del soggetto (il dirigente) investito della responsabilità in ordine al raggiungimento dell’obiettivo preordinato. Per un controllo di gestione manageriale il più possibile efficiente, è quindi necessario che le informazioni utili (di natura contabile ovvero extra-contabile) per il conseguimento dei risultati perseguiti, siano attendibili e tecnicamente tempestive. Traduzione nostrana dell’anglosassone manager control, termine di derivazione anglosassone che rispecchia la forte influenza che, negli ultimi decenni , gli Stati Uniti hanno esercitato in questo contesto. 87 114 Di seguito, una tabella relativa al controllo di gestione: Eventuale rettifica degli obiettivi programmatici ambiente ambiente Pianificazione e programmazione a medio termine Piano a breve termine (budget) Attività della unità produttiva Apprezzamento degli obiettivi raggiunti Misura degli scostamenti Area di competenza del CONTROLLO DI GESTIONE L’area di competenza presa in considerazione dal controllo di gestione è quella compresa nel breve termine, tendenzialmente annuale. In tale periodo si considerano, infatti, i risultati della gestione che riguardano operazioni o fatti di gestione esterna, cioè a carattere interaziendale, ovvero operazioni o fatti di gestione interna che si concretizzano nel solo movimento di beni o di servizi interno. La pubblica amministrazione, non diversamente dalle strutture private, focalizza i diversi fattori produttivi utili (beni durevoli, beni a veloce rigiro e servizi), ne individua l’esatto “mix” e si muove per poterne disporne in considerazione del loro “costo d’acquisto”. A tal proposito, infine, è utile rilevare la differenza tra costo del servizio acquistato e valore del bene o servizio consumato: il costo di un determinato bene, infatti, si sostiene solo quando si ha la disponibilità del fattore produttivo a prescindere dal fatto che si è pagato o meno. Nel momento in cui si compra si 115 sostengono dei costi88 che possono coincidere con il consumo, ma che, ad ogni modo, concettualmente, restano differenti. Riferimenti normativi fondamentali: D.Lgs 30 luglio 1999, n. 28 Testo Unico degli Enti locali (T.U.E.L.) n. 267/2000 88 Relativi al bene acquistato. 116 “Il controllo di gestione nelle amministrazioni pubbliche: logiche, strumenti e criticità” lezione del 23-2-2006, Prof. Mussari A cura di Natia Sità Introduzione “Il controllo di gestione se c’è orienta il comportamento, se non lo orienta non c’è”. Quando si parla di Controllo di Gestione (da qui in avanti CdG) non si parla solo di tecnica, sebbene senza la tecnica esso non possa essere messo in atto. Per tecniche si intendono gli strumenti che servono a rilevare il risultati, espressi sia in grandezze contabili, sia in grandezze extra contabili. Affinché il CdG orienti il comportamento, occorre che le informazioni da esso fornite siano utili, ovvero tempestive e attendibili. Tali informazioni sono destinate a coloro che hanno la responsabilità di conseguire gli obiettivi: “i dirigenti”89. Uno dei presupposti del CdG è l’identificazione degli obiettivi e la loro assegnazione alla “dirigenza”. In tal senso l’obiettivo non è altro che il risultato stesso. Essere informati sui risultati aiuta, allo stesso modo in cui il cruscotto dell’automobile da tutte le informazioni necessarie all’automobilista, ma non guida l’automobile. Questo, fuor di metafora, vuol dire mettere la persona al centro del buon andamento della P.A. È importante, dunque, non confondere lo strumento con chi lo deve utilizzare. Si è detto che il controllo di gestione orienta il comportamento, tuttavia questo non significa che debba, per forza, orientarlo bene. Infatti potrebbe fornire le informazioni distorte o in ritardo, il che vorrebbe dire alimentare in modo non corretto il processo decisionale. Inoltre, ammettendo che le informazioni fornite siano attendibili e tempestive, non è detto che l’effetto osservato, in termini di risultato, sia automaticamente positivo. Il principio di causazione necessaria non esiste in azienda, perché esistono le persone. In altri termini non è sufficiente che le informazioni siano tempestive, ovvero che gli strumenti attraverso i quali esse sono prodotte siano adeguate allo scopo, occorre innanzitutto che le persone usino queste informazioni ed è necessario capire quale è l’effetto del loro uso o la motivazione del loro non uso. Le fasi del Controllo di Gestione Il Controllo di gestione può essere suddiviso in tre momenti: Produzione dell’informazione Uso dell’informazione Valutazione dell’effetto previsto attraverso i quali si può fare una analisi critica dei sistemi di CdG. Nel passaggio dall’una all’altra fase il ruolo della persona diventa progressivamente più determinante. Si è detto che al centro delle aziende ci sono le persone e non i software, a tal proposito è utile sottolineare che lo stesso strumento in mano a persone diverse consente di ottenere soluzioni differenziate. Il CdG implica un sistema di obiettivi, una responsabilizzazione sugli stessi, un sistema di rilevazione contabile ed extracontabile e una verifica sul grado di conseguimento di tali obiettivi a intervalli di tempo 89 Non occorre avere qualifica vera e propria di dirigente, per avere la responsabilità del conseguimento degli obiettivi 117 brevi. Quest’ultima, se è vero che il CdG è una attività che si esaurisce nell’anno (quindi nel breve termine), deve essere condotta ad intervalli di tempo infrannuali e consiste nella predisposizione di report che informino i singoli responsabili sul grado di conseguimento degli obiettivi loro assegnati. Il sistema di CdG non deve essere autoreferenziale, questa caratteristica sarebbe particolarmente rischiosa soprattutto per quanto riguarda le P.A.. Queste non vendono, ovvero non hanno rapporti di mercato, pertanto hanno maggiori difficoltà a ritrovare il sensore del consenso. Detto altrimenti il feedback dell’ambiente arriva in ritardo, per cui occorre usare strumenti diversi dalla risposta del cliente o dalle quote di mercato per la verifica. Peter Drucker sostiene in proposito: “una amministrazione pubblica è diversa da una fabbrica di scarpe, perché non può permettersi di scegliere il mercato in cui vuole oprare, deve servire tutti”. È inutile controllare il risultato se il sistema è autoreferenziale, perché si troverebbe sempre una valida scusa per giustificare l’eventuale mancato conseguimento degli obiettivi. La differenza tra risultato atteso e risultato conseguito (c.d. analisi delle variabili o degli scostamenti) consente di capire se e perché i fenomeni attesi non si sono verificati. Solo in casi eccezionali possono essere modificati gli obiettivi iniziali, ma si tratta di una sorta di autoassolvimento. Infatti, così come è previsto il premio per chi ha conseguito l’obiettivo, parimenti dovrebbe esserci la sanzione per chi non lo ha fatto. Tuttavia sono rari i casi in cui quest’ultima viene seriamente applicata. I risultati si conseguono attraverso il processo di trasformazione dei fattori produttivi (c.d. input) in servizi. I fattori produttivi non sono tutti uguali, essi si distinguono in beni e servizi. I beni, a loro volta, si suddividono in beni durevoli e beni a veloce rigiro. È opportuno distinguere tra costo sostenuto (o di acquisto) e uscita. Un costo si sostiene indipendentemente dal fatto che l’uscita sia ad esso contemporanea o successiva. Sono due concetti distinti ma fortemente correlati, infatti si paga tanto quanto è il valore di ciò che si acquista. Il costo si sostiene al momento in cui si ha la disponibilità del fattore produttivo, indipendentemente dal fatto che lo si sia pagato. Il costo di acquisto relativo alla disponibilità del bene, non va confuso con il costo delle risorse consumate. Il costo di acquisto si riferisce al momento in cui ci si impossessa del bene, il consumo, invece, si estende lungo un arco di tempo che può essere anche molto lungo. In altri termini un valore corrisponde al costo di acquisto, un altro valore esprime invece il costo dell’uso. Nel corso del tempo si consuma una parte del valore del fattore produttivo. I fattori produttivi possono essere paragonati a cariche di energia. Tale concetto è riferibile, con le dovute accezioni, a tutti i tipi di fattori produttivi: per i servizi i valori, di acquisto e di uso, coincidono perché l’acquisto e il consumo sono istantanei: il valore che compro è uguale a quello che consumo. I beni, anche quelli a veloce rigiro, possono essere immagazzinati. Per i beni durevoli occorre determinare le quote di ammortamento. E in ogni caso bisogna definire l’intervallo di tempo infrannuale rilevante ai fini del CdG. Si avrà dunque: 118 (RI + Aq) – RF il cui risultato è ciò che è stato consumato come quantità, cioè una specifica unità di misura che sarà moltiplicata per un prezzo o per un valore monetario unitario (generalmente il prezzo di acquisto) per ottenerne il valore in termini monetari. Sinteticamente si può dire che: l’acquisto dei fattori produttivi che indica disponibilità di valore il consumo dei fattori produttivi che indica l’uso del valore sono due concetti diversi e dunque due valori diversi. Uno dei maggiori problemi delle Amministrazioni Pubbliche è che spesso comprano, ma non usano. Il CdG potrebbe risolvere questa incongruenza. Il consumo è finalizzato alla produzione, infatti per produrre bisogna consumare e questo avviene nelle operazioni di gestione interna. (vedi fig) 119 L’ acquisto dei fattori produttivi e la cessione dell’output, sono due famiglie di fenomeni chiamati operazioni di gestione esterna, perché entrano in contatto con l’ambiente. Nel caso considerato l’amministrazione compra da una parte e cede dall’altra. Comprare e cedere sono dunque due operazioni di gestione esterna, perché hanno a che fare con soggetti diversi dall’azienda che li pone in essere, hanno a che fare con altre aziende, con i consumatori-cittadini e con altri soggetti che definiamo stakeholders (portatori di interessi). Fra l’acquisto dei fattori produttivi e la cessione dell’output c’è la trasformazione, cioè il consumo. La produzione è la trasformazione del valore, possibilmente con alcune aggiunte. Nelle PA come in tutte le aziende, la grandezza da misurare è il valore aggiunto, ovvero ciò che l’azienda aggiunge in più, per effetto del suo intervento, rispetto a quanto ha comprato. Poiché una PA acquista contributi, il valore aggiunto è ciò che essa fornisce in più alle persone che li hanno versati. Si chiamano operazioni di gestione di gestione interna, quelle attività che si svolgono all’interno delle amministrazioni e che non prevedono il contatto con soggetti esterni all’azienda. Il controllo dei fatti di gestione interna ha come obiettivo primario il controllo dell’efficienza. È evidente che le due cose non sono indipendenti, perché si consuma ciò che è stato acquistato e si cede l’effetto della trasformazione. La fase di gestione interna è distinta dalla fase di gestione esterna da una logica che non è di separazione, ma rispondente solo all’esigenza di una maggiore comprensibilità del fenomeno. Infatti un concetto molto importante dell’economia aziendale e che l’azienda è un fenomeno unitario, essa deve essere considerata come un organismo i cui apparati non possono essere separati, ma devono funzionare in sintonia. L’azienda deve dunque essere un organismo armonico. Le tecniche del CdG Le tecniche del controllo di gestione, di cui si è parlato, servono a: definire gli obiettivi misurarne il grado di conseguimento Si è detto che il CdG è un fenomeno che si esaurisce nel breve termine. Al suo interno si individuano: un momento antecedente, che prevede la definizione degli obiettivi, normalmente, in un documento che si chiama budget un momento concomitante in cui si rilevano i fatti di gestione interna ed esterna un momento susseguente in cui si determinano i risultati a consuntivo. In una P.A., ad esempio lo Stato, il documento attraverso cui si definiscono gli obiettivi e si attribuiscono le risorse dovrebbe essere il bilancio di previsione. Il budget è gia una tecnica del CdG a cui fanno seguito tecniche contabili e tecniche extracontabili. Queste servono a rilevare i risultati in fase concomitante, man mano che essi si manifestano, ovvero giorno per giorno; in fase susseguente, ad ogni determinato intervallo di tempo (dai 3 ai 6 mesi) e certamente alla fine dell’anno. 120 In sintesi le tecniche del controllo di gestione si possono classificare in: antecedente concomitante susseguente È un controllo molto utile a rialimentare il processo della programmazione. Performance La determinazione di una performance non è un fine a sé. Non ha senso misurare la performance in maniera astratta, altrimenti si rischia di fare semplicemente una analisi statistica. Un conto è rilevare un dato statistico, e un altro è produrre informazione che serve a gestire, perché quest’ultima deve essere una informazione utile, ovvero il cui bisogno deve essere legato al concetto di programmazione e controllo: interessa misurare una determinata performance perché sono stati fissati specifici obiettivi, altrimenti misurarla sarebbe un mero esercizio di stile che non porta alcun beneficio al management. La cosa fondamentale da rilevare è come cambia il comportamento in seguito al controllo di gestione. Misurare serve solo per assumere decisioni responsabili tanto all’interno che all’esterno della PA, altrimenti è inutile. Il processo decisionale è responsabile se è informato, se non lo è, è istintivo, quindi anche poco razionale Una cattiva pratica è quella di determinare la performance sulla base dei dati disponibili, perché vuol dire estrapolare la misurazione della performance dal concetto di Programmazione e Controllo. In realtà poiché sono stati individuati degli obiettivi, occorre una misura correlata al conseguimento degli stessi. In altri termini bisogna, prima (e non dopo come invece accade la maggior parte delle volte nelle P.A. italiane) accertarsi che il sistema informativo contabile ed extracontabile sia coerente col sistema di obiettivi assegnati, inoltre bisogna tenere in debita considerazione che non tutte le informazioni sono utili per tutti. Quindi quando si parla di performance occorre aver chiaro a quale decisore servono quelle informazioni ed è opportuno sapere se è interno o esterno. Rapportarsi ad un dirigente di una PA anziché ad un elettore è cosa ben diversa: le informazioni, che devono essere sempre tempestive e attendibili, saranno diverse per contenuti, tempi, forma e canale. Spesso uno dei problemi principali risiede nella forma, ovvero nella modalità attraverso la quale si trasmette un informazione. Anche il canale è determinante: è chiaro che per rivolgersi ad un dirigente si avrà bisogno di un sistema intranet, ma probabilmente per rivolgersi ad un comune cittadino il canale dovrà essere un altro. Dunque non è un problema tecnico, occorre capire a chi si vuole comunicare qualcosa e se realmente lo si vuole fare. Il concetto di performance è multidimensionale, può avere una dimensione politica, una economica, una sociale che, naturalmente, non sono indipendenti, ma che definiscono la performance da una angolazione differente pur partendo dalla sessa espressione letterale e trattando i medesimi concetti di qualità, efficienza, economicità. Esse sono tutte parimenti importanti, tuttavia l’ambito d’interesse è stato circoscritto, in questo caso, alla dimensione economica. 121 La dimensione economica Quando si parla di performance si fa riferimento sia a fatti di gestione interna, sia a fatti di gestione esterna. I tre parametri fondamentali di misurazione della performance nella prospettiva economica sono: economicità nell’acquisto dei fattori produttivi efficienza efficacia Il grafico mostra che la qualità è un ingrediente di tutti gli elementi (input, processo produttivo, output cessione dei servizi) che servono a determinare quei parametri posti a sinistra nel grafico. Già nella fase di acquisto dei fattori produttivi bisogna determinare un primo indicatore di performance: l’economicità nell’acquisto dei fattori produttivi. Occorre premettere che le note tre E dell’economia (Economy, Efficiency, Effectiveness) contengono un insidia. Esse derivano da un manuale scritto dalla Audit Commission negli anni del governo Tatcher ed entrano in Italia con la L.142/90 in cui erano riportati i termini Economicità, Efficienza, Efficacia Per la prima volta nel nostro sistema legislativo esse appaiono contemporaneamente in riferimento al momento della revisione. Purtroppo la traduzione è sbagliata (!). Il concetto di Economy non va tradotto con il termine italiano economicità, perché il significato della parola inglese è economicità nell’acquisto dei fattori produttivi, non economicità. In italiano, nel linguaggio aziendale, economicità è una condizione che può dirsi raggiunta solo se sono contemporaneamente 122 soddisfatte le due sub-condizioni dell’efficienza e dell’efficacia. In altre parole è inutile dire economicità, efficienza ed efficacia, basta dire efficienza ed efficacia per soddisfare anche la condizione di economicità. Traducendo correttamente il termine Economy, la sequenza dei tre concetti diventa più logica: prima si compra, poi si trasforma, e infine si cede. A margine di tali considerazioni si può affermare che il concetto di qualità non è legato all’idea del “chi spende meno è più bravo”. Determinare la performance è una operazione molto complessa, per cui la sola dimensione finanziaria è insufficiente, anzi pericolosissima. Occorre inserire nel calcolo la qualità, definendo delle soglie di qualità. La determinazione di soglie di qualità è legata alla destinazione economica del fattore produttivo, cioè alla definizione del contesto produttivo in cui verrà inserito. Le soglie di qualità per un PC che serve a fare scrivere delle lettere ad una segretaria e per uno che serve alla progettazione dei lavori pubblici saranno notevolmente differenti. Occorre centrare la soglia di qualità in funzione dell’uso che si fa del fattore produttivo. Tuttavia spesso nelle PA la principale difficoltà tecnica risiede nel fatto che gli acquisti vengono fatti “per legge”, per cui vengono confusi due concetti: la responsabilità dell’acquisto e la responsabilità per l’uso. Oltre al vincolo normativo, un altro problema è costituito dal fatto che spesso chi compra e chi usa sono soggetti diversi che non comunicano fra loro. Potrà ad esempio accadere che colui che è incaricato di acquistare un PC non si informi sulle prestazioni di cui necessita chi dovrà usarlo, ma acquisti semplicemente sulla base di criteri di natura finanziaria. L’inefficienza dell’uso del PC non ricadrà su chi lo ha acquistato, ma su chi ci opera. Il rischio è che si faccia un ragionamento solo di natura finanziaria, in base alla quale avrà la performance migliore il soggetto che spende di meno. Le conseguenze di un simile atteggiamento, che punta allo spendere meno senza guardare alla qualità, in termini economici significa solo rinviare la spesa (incidendo sui costi di manutenzione, di sostituzione, di addestramento e naturalmente di rimpiazzo). Esiste chiaramente un nesso tra costo e qualità: un fattore produttivo di maggiore qualità costa di più, questo non vuol dire che bisogna acquistare sempre e comunque il prodotto di maggiore qualità. Perché quando si effettuano operazioni di acquisto bisogna sempre tenere in considerazione la destinazione economica del fattore produttivo, verificare le risorse a disposizione e definire in funzione delle due cose la soglia di qualità migliore. Chi riesce a soddisfare quella soglia di qualità al prezzo più basso è il più bravo. La tendenza in atto è centralizzare gli acquisti, per ridurre i costi amministrativi, ma interloquendo sulla destinazione economica e quindi sulla soglia di qualità. È chiaro che per far ciò è necessario più tempo, ci vuole più dialogo e occorre un minimo di consultazione. La prima sub-dimensione della performance è l’economicità nell’acquisto dei fattori produttivi, il cui obiettivo è contemperare costo e qualità tenendo presente che i soggetti che intervengono spesso sono distinti: chi usa dovrebbe definire la soglia di qualità, chi compra possiede le risorse finanziarie e vorrebbe impegnarne la quantità minore possibile. Efficienza L’efficienza viene spesso considerata come un bene in sé. In realtà essa non può essere un criterio value free, ovvero non può essere ritenuta indipendente dall’intero processo produttivo. L’efficienza tecnica o manageriale si determina rapportando l’input all’output. 123 Il concetto di input ha un duplice significato, infatti indica ciò che si acquista e ciò che si usa. In questo caso ci si riferisce al costo dell’uso dunque si guarda ad un arco di tempo, non all’istante. L’output è il volume della produzione (quante cose sono state fatte), dunque al denominatore del rapporto considerato va un numero, mentre al numeratore va un valore monetario (€/n). L’unità di misura del volume dipende dal tipo di produzione. Esempio: 100 €/10 laureati vuol dire innanzitutto che è stato definito un intervallo di tempo entro il quale si sono ottenuti i 10 laureati. Per far sì che questi si laureassero sono stati consumati dei fattori produttivi in quel determinato arco di tempo ad es. un anno. I 100 € rappresentano la somma dei fattori produttivi consumati per far laureare in quell’anno quei 10 laureati. Il risultato 10 è il costo per laureato, il c.d. costo unitario. Aumentare l’efficienza significa ridurre il costo di produzione unitario, cioè o produrre di più con lo stesso costo, o ridurre i costi con lo stesso numero di laureati, o tutte due le condizioni: ridurre i costi e aumentare i laureati. Le PA non sono in grado di calcolare l’efficienza perché non hanno la contabilità analitica. Nella maggior parte dei casi non sanno a quanto ammonta il valore delle risorse consumate, tuttavia non rinunciano a parlare di efficienza e invece di utilizzare, per il calcolo, il costo delle risorse consumate, utilizzano l’unico dato che hanno, la spesa. Mettere solo un componente del costo e lasciare da parte tutti gli altri da un risultato più vantaggioso perché abbassa i costi. Molto spesso inoltre le amministrazioni non sono consapevoli del volume della loro produzione. Esprimere un giudizio sull’efficienza senza avere il denominatore, vuol dire fare un ragionamento solo di costo o solo di spesa. Si confonde lo spendere col produrre, cioè l’acquisto con l’uso. Se anche si accettasse che spesa e costo sono la stessa cosa, non conoscere quanto si produce, non permette di esprimersi sull’efficienza. Spendere meno è un conto, produrre è tutt’altra cosa. I tagli alla spesa e l’efficienza devono essere tenuti assolutamente separati. Si è visto che non tutti gli input sono uguali. Anche gli output non sono tutti uguali, ovvero hanno “qualità” diverse, sono divisi in classi di qualità. Per ognuna di esse il sistema di contabilità analitica deve fornire specifici input. Quindi non si ha un solo indicatore di efficienza, ma tanti quanti sono le classi di output. Non basta produrre, bisogna produrre bene, produrre ciò che serve. Produrre una cosa che non serve vuol dire sprecare. Non si può essere efficienti in sé. L’ efficienza è un concetto relativo, si può essere più o meno efficienti, ma non si può essere efficienti. La valutazione del grado di efficienza implica sempre una comparazione nel tempo e/o nello spazio. Dunque comparare è indispensabile, ma va fatto con estrema cautela. Basta che la qualità dell’input e la qualità dell’ output siano diverse per rendere il paragone impossibile. 124 “Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche” approfondimento delle tematiche trattate dalla Prof. Pezzani nella lezione del 16-3-2006, A cura di Anguel Beremliysky 1. Definizioni: 1.1. Settore dei servizi pubblici Storicamente si è consolidata una definizione dei servizi pubblici secondo la quale il settore comprende tutti quei beni e servizi – materiali e/o immateriali – che la pubblica amministrazione riconosce di pubblica utilità ed in quanto tali ne assicura la produzione, distribuzione ed erogazione in modo tale da garantire a tutti i cittadini ed alle utenze interessate un uso libero e privo di qualsiasi restrizione o discriminazione, economica, spaziale e temporale. Questa definizione fa dei servizi pubblici una categoria aperta che in quanto tale è destinata a ricomprendere prodotti e servizi considerati essenziali secondo gli orientamenti politici e sociali del governo nazionale (ed in quanto tali meritevoli di una attività di controllo e di tutela a salvaguardia degli interessi collettivi e generali) e pertanto suscettibili di variazione numerica e tipologica. La gestione delle attività comprese in questo settore è sottoposta ad un’ampia e pervasiva attività di controllo e sorveglianza della pubblica amministrazione e che in particolare riguarda: a) b) c) d) il livello qualitativo dei servizi; diffusione dei servizi; sorveglianza delle condizioni e della struttura dell’offerta e della domanda; la verifica dei modi e delle forme di utilizzo dei privilegi (concessionari di benefici pubblici) e di impiego delle risorse pubbliche; e) perseguimento di finalità redistributive e/o di equa ripartizione dei costi90. A partire dal decennio 1980-90 e con più alta intensità alla fine del secolo scorso si è andata profilando una serie di eventi ed esigenze dei governi e dell’economia che hanno richiesto trasformazioni e rivolgimenti di grande portata. In particolare tali fattori hanno riguardato: a) le innovazioni tecnologiche ed organizzative che hanno modificato le alternative e le condizioni tecniche ed economiche di svolgimento della produzione; distribuzione ed erogazione dei servizi; b) il miglioramento delle condizioni economiche e della ricchezza dei consumatori che hanno modificato ed elevato la soglia di corrispettivi sopportabili e fatto crescere le esigenze in fatto di varietà e qualità degli stessi servizi. Le nuove esigenze dei governi e dei Paesi, invece, nascevano dalla necessità: a) di ridurre fortemente il loro diretto ruolo imprenditoriale nell’economia, onde contenere le ripercussioni sulla finanza pubblica; b) di fronteggiare l’apertura dei mercati mondiali e comunitari al libero scambio o al mercato comune; c) di migliorare le condizioni competitive interne dell’economia.91 90 91 Mele, Renato, Economia e gestione delle imprese di pubblici servizi tra regolamentazione e mercato, CEDAM, Padova, 2003, p.5. Mele, Renato, op. cit., p. 6. 125 Il settore dei servizi pubblici è stato interessato nell’ultimo ventennio (prima in GB e poi negli altri Paesi europei) ad un processo di profonda e radicale trasformazione, che ha prodotto e continuerà a produrre sostanziali modificazioni strutturali e gestionali tanto nel settore nel suo complesso quanto nei differenti sub-settori. Il grado di cambiamento nel settore si differenzia nei diversi contesti, essendo sostanzialmente funzionale dello stadio e livello di sviluppo: a) del processo di regolamentazione e controllo; b) della forma di mercato in atto (monopolio, oligopolio, concorrenza); c) dalle condizioni tecnico-economiche dei processi di approvvigionamento delle risorse e dei processi produttivi e distributivi. La struttura del settore dei servizi pubblici viene fatta sulla base di alcuni elementi fondamentali: a) b) c) d) e) mercati e competenze territoriali; settori di attività e processi di diversificazione; processi e fenomeni di integrazione e disintegrazione verticale; numero e dimensione delle imprese; aspetti giuridici e organizzativi delle imprese92. 1.2. Amministrazione pubblica e azienda pubblica. L’economia aziendale ha sviluppato e ha affinato i propri schemi concettuali e i propri strumenti operativi (sistemi di gestione) con riferimento alla realtà delle imprese-aziende di produzione private che operano sul mercato. L’estensione della disciplina al comparto degli istituti-aziende pubblici, avvenuta in tempi più recenti, ha scontato le oggettive difficoltà di doversi confrontare con la presenza di consolidati schemi concettuali propri di altre discipline; questo determina spesso l’applicazione “per differenza” di concettitermini aziendali ad altre categorie concettuali, oppure vengono omologati o, tal volta, rifiutati in quanto considerati non coerenti93. Amministrazione pubblica – la dottrina aziendale definisce l’amministrazione come l’attività posta in essere per perseguire i fini istituzionali. Più precisamente, essa viene identificata come attività tramite cui le persone impiegano i modo coordinato i beni naturali, le risorse finanziarie e le altre condizioni operative (tecn.: “combinano i fattori produttivi”) per ottenere beni di utilità maggiore rispetto a quelli impiegati, più in generale, per dare risposte ai bisogni. Questo significato va considerato alla luce di altri due: - il primo è legato alla concezione di Stato moderno e la distinzione di due manifestazioni del potere esecutivo, ovvero governo ed amministrazione; il secondo, invece, si riferisce al concetto giuridico di ente, secondo il quale per attività amministrativa dovrebbe intendersi solo quella tramite cui si formano gli atti (formali) da cui discendono diritti e doveri per l’ente pubblico e si regolano rapporti esterni con altri soggetti “titolari di diritti”. La prima accezione è stata da tempo superata, poiché sia l’attività governativa che quelle legislativa e giurisdizionale hanno bisogno di un forte e articolato supporto amministrativo. Circa il secondo punto, si 92 93 Mele, Renato, op. cit., pagg. 81-82. Borgonovi, Elio, Principi e sistemi aziendali per le amministrazioni pubbliche, Milano, Egea, 2002, p.9. 126 può affermare che l’estensione dei concetti aziendali ha messo in risalto un’attività assai più ampia rispetto alla mera produzione di atti formali giuridicamente vincolanti. L’uso al plurale del termine ha lo scopo di evocare il concetto di “sistema pubblico composto da tanti enti-aziende che sono però tra loro diversi”94. Amministrazioni e aziende pubbliche – Utilizzare contemporaneamente questi due termini può apparire contraddittorio: il concetto di amministrazione corrisponde sostanzialmente a quello di azienda. Tuttavia, in certi casi può apparire opportuno nonché utile tener distinte queste due categorie, facendo valere due considerazioni: da un lato, vi sono enti che svolgono le c.d. funzioni “istituzionali” o “potestative” che consistono nell’esercizio di poteri sovraordinati ai soggetti privati; dall’altro, esistono anche quelli che sempre più progressivamente assumono per la propria attività caratteristiche economiche, traducibili in attività di produzione di beni e servizi, raccolta e trasferimento di mezzi finanziari a fini perequativi, di sostegno alle imprese, di incentivazione ad attività varie95. 1.3. Azienda pubblica e impresa pubblica Azienda pubblica – termine-concetto di ordine generale utilizzato dalla dottrina con riferimento a processi economici di enti pubblici territoriali e non territoriali nei quali almeno una parte delle risorse finanziarie è ottenuta non tramite il corrispettivo dei servizi ceduti, ma tramite tributi, contributi e/o altre forme di prelievo obbligatorio: per gli enti territoriali si usa anche la qualificazione di azienda composta (vedi sotto). Impresa pubblica - termine-concetto più specifico e limitato che indica un istituto, autonomo sul piano giuridico e/o economico, nel quale si svolgono processi di produzione di beni (servizi) di pubblico interesse e/o di pubblica utilità che sono ceduti verso il corrispettivo di un prezzo di scambio. Il concetto di azienda è applicabile a differenti tipologie (classi) di istituti sociali e tipicamente, secondo una classificazione consolidata nella dottrina europea, alle famiglie (istituto naturale), agli enti pubblici istituto politico-sociale), all’impresa (istituto economico), agli enti cosiddetti “non profit”96. Alcuni caratteri tipici delle aziende composte pubbliche: Numerosi sono i contributi di teorici ed operatori su questo argomento. Così, ad esempio, Hal G. Rainey, Robert W. Backoff, Charles H. Levine, che individuano un numero di differenze importanti tra organizzazion pubbliche e private (Hal G. Rainey, Robert W. Backoff, Charles H. Levine, Comparing Public and Private Organizations, in Public Adminstration Review, March/April 1976, Vol. 36, n. 2, pp. 233-244.) Gli obiettivi delle aziende pubbliche non sono scelti sulla base dell’impostazione dell’economicamente utile, ma sulla considerazione riguardo a “cosa bisogna fare”. Esse sono, nella gran parte dell’analisi, sottratte ad ogni forma di concorrenza diretta e questo comporta sia dei vantaggi che degli svantaggi. Inoltre, l’assunzione delle decisioni è fortemente influenzata da pressioni esterne (opinione pubblica, mezzi di informazione, lobbies, reazioni di particolari categorie sociali). Fonte: Riccardo Mussari, Il management delle aziende pubbliche: profili teorici, CEDAM, Padova, 1994. Borgonovi, E., op. cit., pagg.10-11. Ibid., p. 12. 96 Ibid., pagg.12-13. 94 95 127 2. Specificità delle funzioni e della gestione delle Pubbliche Amministrazioni / aziende pubbliche 2.1. Eterogeneità La principale caratteristica che contraddistingue la PA è l’eterogeneità delle sue funzioni. Per questo motivo, nella fattispecie si parla di una marcata differenziazione degli output. Questi ultimi possono essere: emanazione di atti normativi – tale aspetto è collegabile al potere sovrano nei confronti della comunità di riferimento; produzione di beni pubblici collettivi (tipicamente servizi, ossia beni immateriali)97, che intendono rispondere a un bisogno unico e indistinto dei componenti della comunità; produzione di beni divisibili ed escludibili (beni di tipo individuale dal punto di vista tecnico ed economico)98; trasferimenti finanziari e attività di perequazione – trasferire capacità di mobilizzazione della ricchezza, basata sulla raccolta di tributi in diverse forme; emanazione di indirizzi, programmi, politiche che costituiscono punti di riferimento per i soggetti economici e sociali. Secondo la logica di una adeguatezza strutturale, a queste diverse tipologie di output dovrebbero corrispondere altrettanti modelli di gestione istituzionale, strutture organizzative, meccanismi funzionali e parametri di valutazione delle attività e dei risultati. L’evoluzione dei fini dell’intervento pubblico ha portato all’emergere di prodotti e di attività talmente differenti fra di loro da richiedere diverse soluzioni per quanto riguarda i rapporti con il personale, il sistema di rilevazione e i criteri di valutazione della convenienza. Nel passato, è stata sempre data precedenza ad un approccio uniforme nell’analizzare ed affrontare tali aspetti. Ciò ha comportato effetti negativi sul piano della qualità dell’azione della PA e dei suoi costi. E con i processi di riforma a partire dagli anni Ottanta e, ancor più negli anni Novanta, questa tendenza sembra essere cambiata. 2.2. Formalità Un secondo elemento basilare dell’azione amministrativa è la formalità. Essa implica uno svolgimento dei processi decisionali e operativi in rispetto di modalità predefinite che mirano a garantire la possibilità di un costante controllo sociale sull’attività della PA, una sostanziale imparzialità delle sue scelte ed azioni, nonché equilibrio dei poteri. La formalizzazione avviene secondo diversi modelli, in relazione al tipo di problema, all’importanza delle decisioni e delle operazioni interessate, alla natura e alla rilevanza degli interessi coinvolti. I beni pubblici sono caratterizzati da: - assenza di una vera e propria funzione di domanda, intesa come somma della rischiesta di individui disposti ad acquistare un bene: la domanda è espressa dagli organi rappresentanti della comunità in questione; - assenza di dorme di concorrenza diretta che detrmina la presenza di minori incentivi a perseguire l’efficienza; - svolgimento di una attività tecnico-produttiva di organizzazione dei fattori. (vedi Borgonovi, E., op. cit., p.60). 98 Essi si differenziano dai beni pubblici per i seguenti parametri: - la loro cessione può avvenire attraverso un vero e proprio scambio – operazione determinante un prezzo; - presenza di domanda caratterizzata da una sempre maggiore differenziazione; - presenza di offerta alternativa e, quindi, di concorrenza diretta (vedi Borgonovi, Elio, op. cit., p.62). 97 128 Alla base dell’esigenza di formalità si pongono le seguenti motivazioni: a) Il patto sociale che attribuisce poteri sovraordinati all’ente/istituto pubblico si fonda su regole/procedure esplicite e note a tutti. b) Il rispetto delle regole è garanzia di controllo sociale, di verifica che i poteri pubblici sono esercitati nell’interesse di tutti (comune). c) Occorre bilanciare la discrezionalità di organi che hanno poteri sovraordinati. d) Solo la limitazione della discrezionalità consente l’imparzialità. e) Le valutazioni di convenienza economica e di opportunità sociale (e politica) possono esercitarsi solo all’interno di regole formali. Nel caso di beni e servizi di pubblico interesse o nel prelievo fiscale giuridicamente “obbligatorio”, ad esempio, è assai difficile esprimere un giudizio di convenienza. Ecco perché si ritiene che le procedure formali rappresentino uno strumento di confronto, mediazione e tutela degli interessi coinvolti99. Ne derivano due conseguenze: a) l’attenzione si concentra sul momento formale della decisione; b) la tutela dei diritti interessati viene demandata più alla correttezza formale degli atti, che non alla qualità dei risultati dell’azione; c) la forma tutela gli interessi esterni, intesi come condizione di esistenza dell’istituto, e non le condizioni di funzionalità dell’azienda. 2.3. La mancanza di prezzo nella cessione dei risultati La caratterizzazione degli istituti pubblici come “aziende di erogazione” o come “aziende composte” (di produzione e di consumo) è collegata al fatto che i prodotti della sua attività saranno in parte o in toto ceduti senza un diretto corrispettivo economico (prezzo) o con corrispettivi, stabiliti al di fuori delle leggi del marcato o, semplicemente, tasse come prelievo coattivo collegato alla cessione del bene in esame. Questa situazione particolare dipende dalle caratteristiche di bene collettivo del prodotto dell’attività della PA, oppure da scelte motivate da opportunità politico-sociali assunte dai vertici istituzionali (scelte politiche)100. Nel secondo caso, il valore di scambio del prodotto non è correlato al costo della sua produzione. In questo caso si tratta di una definizione in base a tariffe, prezzi politici, prezzi amministrativi ecc. NOTA Questa caratteristica apre un problema teorico e pratico di definizione del concetto di valore pubblico o di “valore della produzione” della PA che non è misurato, come accade nell’impresa, dal “corrispettivo monetario” degli scambi di vendita: 99 Per l’impresa: valore della produzione = fatturato Per la Pubblica Amministrazione: valore della produzione = quantità fisiche + soddisfazione degli utenti (non misurabile oggettivamente) + consenso sulle scelte politiche Borgonovi, E., op. cit., p.71. Borgonovi, E., op. cit., p.66. 100 129 Si tratta di una situazione particolare che fa venir meno uno degli strumenti principali di governo e valutazione della gestione: la reazione della domanda. Di conseguenza, per la PA che, sia per natura dei servizi da essa forniti sia per scelta politica, non dà luogo ad un valore economico in occasione della cessione, si presentano i seguenti effetti: impossibilità di utilizzare meccanismi di mercato per regolare la domanda impossibilità di esprimere utilità con valore di scambio (ma con valore degli acquisti) difficoltà a confrontare utilità generata (benefici) e utilità consumata (costi) difficoltà strutturali nel perseguimento dell’equilibrio economico (diversità tra chi sostiene sacrifici – tributi – e chi usufruisce di vantaggi – utenti servizi)101. 2.4. Trasparenza degli atti Al di là dell’esigenza di una correttezza formale degli atti, descritta in precedenza, la particolare natura dell’azione della PA abbisogna di una garanzia di trasparenza. Essa deriva dal fatto che i numerosi soggetti destinatari del prodotto della sua attività, non solo vantano attese e diritti sui risultati, ma singolarmente o collettivamente hanno il diritto a essere informati sui processi decisionali e operativi che a tali risultati hanno condotto. Questo diritto viene espletato attraverso le funzioni di controllo sociale e di formalità. Le conseguenze di questa caratteristica si concentrano soprattutto sulla rapidità e l’efficienza dei processi decisionali della PA. A causa della trasparenza, aumenta la complessità di tali processi, crescono i rischi di impugnazione degli atti ancora sugli iter procedurali, premiando gli interessi soggettivi sulle considerazioni di interesse generale e si toglie la possibilità della PA di manovrare tempestivamente e con riservatezza, come, ad esempio, è in grado di fare un’azienda privata. 2.5. L’effetto annuncio La capacità di acquisire il consenso dall’ambiente esterno è condizione di vita duratura per qualsiasi azienda che può rinnovare i propri processi tecnici ed economici. Si è già visto che per la PA il consenso è collegato solo in parte all’utilità dei beni prodotti, ovvero alla qualità dell’azione amministrativa. Molto più rilevante in questo caso appare l’incidenza della condivisione del modello di società proposto dalle diverse forze politiche al potere, raggiunta attraverso il meccanismo di identificazione politica, ideale o ideologica. Dalla necessità di assicurare questo consenso, nonché in considerazione delle esigenze indispensabili di formalità e trasparenza, si sviluppa e cresce l’importanza del c.d. “effetto annuncio”, ossia delle attese che si creano a seguito della presentazione di programmi, intenzioni, promesse nei confronti dei soggetti sociali. In particolare, per “effetto annuncio” si intende la particolare enfasi data a programmi la cui realizzazione viene collegata dalle forze politiche al fatto di ottenere il consenso di voto, o l’anticipazione di intenzioni ad agire, nonché il rilievo dato all’avvio di certi programmi. Effetto annuncio - si concretizza nella circostanza per cui processi decisionali e decisioni sono resi noti prima che da questi conseguano gli effetti che l’istituto pubblico dichiara di voler perseguire. 101 Sulle proposte concrete volte al superamento di questi limiti, vedi Borgonovi, E., op. cit., pagg. 66.70. 130 L’effetto si basa sui seguenti fattori: aspirazione al miglioramento, insita alla natura umana, che porta a dare credito a chi promette un cambiamento; convincimento che nel caso della PA, a causa della natura sovvraordinata del potere pubblico, la realizzazione dei programmi dipenda esclusivamente dalla volontà politica; grande fiducia, formatasi con l’affermazione della concezione di “welfare state”, nei confronti delle politiche pubbliche; Secondo Borgonovi102, l’influenza di questo effetto si basa sul presupposto dell’esistenza di una correlazione del tipo: MAGGIORE CONSENSO MAGGIORE POTERE DECISIONALE MAGGIORE RAZIONALITA’ AMMINISTRATIVA Figura 1. La piramide dell’effetto annuncio. All’effetto annuncio sono correlabili anche alcune conseguenze negative: anticipazione degli effetti anche a soggetti contrari alle modifiche preannunciate che potrebbero mobilitarsi per bloccare in partenza l’azione della PA; sovrastima degli effetti positivi dei provvedimenti adottati con il conseguente elevato e strutturale rischio di insoddisfazione in merito ai risultati; aumento delle attese e rischio di effetto “boomerang”, soprattutto quando variabili intervenienti sono il tempo e la complessità dell’azione preannunciata. 2.6. Sostituzioni di obiettivi particolari a quelli collettivi e generali Last but not the least, a causa della complessità dei meccanismi di orientamento dei comportamenti aziendali (sistema politico istituzionale rispetto al mercato), le aziende pubbliche corrono il rischio di perseguire obiettivi particolari o di gruppo rispetto a quelli collettivi. A ciò sono collegati ulteriori effetti negativi come: 102 comportamenti di “occupazione del potere”; selezione di alternative che ottimizzano vantaggi particolari e penalizzano l’azienda / ente pubblico; mancata ricerca delle soluzioni in grado di contemperare interessi generali e particolari; cultura della redistribuzione del valore piuttosto che di un suo incremento; Borgonovi, E., op. cit., p.82. 131 3. Criteri di valutazione dell’attività amministrativa Giacché vi è una distinzione tra la tipologia di finalità dell’impresa privata, i cui fini sono immediati e di carattere particolare, e quella dell’ente pubblico che persegue scopi immediati di carattere generale103, è facile prevedere una complessità più elevata nella valutazione dei risultati dell’attività amministrativa, rispetto a quella prettamente imprenditoriale. Nell’amministrazione pubblica non basta ottenere buoni risultati, ma occorre farlo in modo trasparente, informando preventivamente ed “essendo convincenti” nei confronti di chi condivide i valori di chi amministra (consenso) e nei confronti di chi ha valori diversi (credibilità). 3.1. Difficoltà nel determinare la performance dei servizi resi La determinazione della performance aziendale è un problema così vasto e complesso per i cultori dell’Economia aziendale da meritare una trattazione molto ampia104. In realtà, il concetto stesso di performance dell’azienda (pubblica o privata) non è intuitivo e la sua esatta definizione ha generato molteplici dibattiti fra gli studiosi. Come rivelava in proposito Paolo Emilio Cassandro, essa dovrebbe essere apprezzata avendo riguardo al risultato raggiunto dall’impresa con riferimento “non solo al soggetto aziendale...ma alla collettività nella quale l’azienda opera e alle categorie che, direttamente i indirettamente, hanno partecipato alla vita dell’azienda”105. Tale difficoltà viene affrontata attraverso due principali approcci sistemici. Il primo tiene conto dell’aspetto aziendale e propone criteri di valutazione quasi esclusivamente aziendali106. Negli studi più recenti107 si tende sempre di più a introdurre elementi che scaturiscono da alcuni caratteri distintivi delle aziende pubbliche e della loro azione, come per esempio la formalità e l’esigenza di consenso e trasparenza (vedi sopra). I principi che devono ispirare l’attività di un’azienda pubblica e in base ai quali si possono definire alcuni criteri di valutazione sono i seguenti: Legalità Efficacia, efficienza e economicità (E3) Equità Etica Si segnala altresì la presenza per ognuno di questi principi un chiaro modello di riferimento, il quale dovrebbe aiutare a comprenderne e focalizzarne la valutazione. Per quello di legalità viene chiamato in causa il sistema istituzionale. Per l’efficienza, l’efficacia e l’economicità (E3) il modello più adatto è quello aziendale, in quanto esso fa propri questi criteri, mettendo loro al primo posto. Il compito di valutare se l’azione di un’azienda pubblica sia o no equa ed etica spetterebbe al sistema politico. Borgonovi, Elio, op. cit., p.89. Per una bibliografia vedi Riccardo Mussari, Il management delle aziende pubbliche: profili teorici, CEDAM, Padova, 1994, pagg. 195 e succ. 105 Cfr. P.E. Cassandro, L’amministrazione pubblica in Italia, in Rivista trimestrale di scienza dell’amministrazione, 1985, n.2, pp. 3-29, citato da Riccardo Mussari, op.cit. 106 Vedi Mussari, R., op.cit., e Borgonovi, op.cit. 107 Caccia, L.M., L’orientamento dei sistemi di controllo nelle aziende pubbliche, in Azienda Pubblica, 2005, n.1, pp. 33-57. Sul tema vedi anche L. M. Caccia (2002), L’orientamento strategico nei sistemi di controllo: alcune riflessioni ed idee di programmazione. Guidare l’ente e rendere conto dei risultati., Nota didattica, Milano, SDA Bocconi. 103 104 132 3.2. Criterio di legalità Tale criterio consiste nel rispetto puntuale e rigoroso delle regole formali, che a sua volta costituisce condizione necessaria di uno Stato di diritto nonché per il coretto sviluppo dei sistemi economici. Applicando tale principio alla fattispecie in questione si scopre che l’azienda pubblica è, di fatto, fortemente condizionata dalla formalità delle sue decisioni, dall’interesse pubblico al risultato (prodotto finale), dalla trasparenza dei processi decisionali e produttivi e, in sostanza, del contesto di legalità del sistema in cui si trova a dover operare. Questi parametri possono, se applicati in un modo rigido e consono, più che altro al modello burocratico tradizionale, condurre un eccesso di attenzione verso il risultato, rischiando in questa maniera di trascurare completamente criteri fondamentali come costo e scarsa efficacia, efficienza e/o economicità. Spesso, infatti, si fa riferimento alla “legalità” come una correttezza amministrativa che può ostacolare, in pratica, l’innovazione ed il cambiamento. 3.3. Criteri di efficienza, efficacia ed economicità nel sistema aziendale E’ possibile parlare di diversi tipi di efficienza nel caso delle aziende private e in quello delle aziende pubbliche. La teoria economico-aziendale considera inadeguate le differenze nei significati di questo criterio a seconda dei diversi tipi di azienda e indica che la migliore combinazione economica delle risorse tra tutte concretamente possibili (NB: non tra quelle ideali o auspicate), dato un certo livello di conoscenze e dati i vincoli posti dalle posizioni culturali, sociali, tecniche ed economiche in cui si svolge una determinata attività, è criterio unificante che vale per tutti le classi di istituti. RISORSE (fattori produttivi acquisiti a titolo oneroso) PROCESSO DI COMBINAZIONE DEI FATTORI INPUT RISULTATI INTERMEDI (prodotti di Un’attività complessa) PROCESSO DI CESSIONE OUTPUT VALUTAZIONE EFFICIENZA RISULTATI FINALI (risposta al bisogno) OUTCOME VALUTAZIONE EFFICACIA ECONOMICITA’ (lungo periodo) Figura 2. Rappresentazione dei criteri di E3 nel sistema aziendale. Fonte: Pezzani, F. Criteri di valutazione dell’attività amministrativa, Nota didattica, 2005-2006, Milano, Univ. Bocconi. Il criterio generale si articola così in tre criteri particolari di valutazione di natura operativa, così definibili con riguardo all’amministrazione pubblica: 133 economicità delle gestione: capacità mantenuta nel lungo periodo di soddisfare i bisogni considerati di pubblico interesse dalla comunità facendo affidamento su un flusso di ricchezza “fisiologico”, ossia giudicato economicamente sopportabile e socialmente accettabile dalla comunità stessa (tributi, prezzi dei servizi, proventi extratributari, ricorso al prestito, etc.); efficacia dell’azione: coerenza tra quantità e qualità del prodotto (prestazioni e servizi), considerato come risultato intermedio dell’attività amministrativa, e quantità e qualità dei bisogni il cui soddisfacimento costituisce il “risultato finale”; efficienza nell’impiego delle risorse: rapporto tra quantità e qualità delle risorse impiegate e quantità e qualità delle prestazioni e dei servizi prodotti108. I tre principi sono riferiti ai rapporti tra gli elementi che qualificano i processi aziendali (es. input, output, outcome). Efficienza: consiste nell’attitudine del processo produttivo a trasformare l’input (risorse) in output (risultato in termini fisici). E’ altresì immaginabile come il rapporto tra servizi erogati (output) e risorse impiegate (input): misura quanto output si ottiene con un unità di input, oppure quante unità di input servono per produrne una di output109. Efficacia: rapporto tra bisogni soddisfatti (outcome) e servizi erogati (output). L’individuazione in questo caso di obiettivi di livello diverso porta alla definizione di nozioni di efficacia differenziate. Occorre distinguere fra efficacia manageriale, relativa agli obiettivi operativi, la cui realizzazione è assegnata al dirigente ed efficacia globale, connessa al raggiungimento degli obiettivi strategici, rilevante soprattutto per coloro i quali hanno responsabilità di governo politico110. Economicità: capacità nel lungo periodo di soddisfare i bisogni con un flusso di ricchezza “fisiologico”, ovvero: • economicamente sostenibile • socialmente accettabile. 108 Borgonovi, E., op.cit, p. 92. L’efficienza può essere misurata con l’aiuto delle seguenti due equazioni: a) Efficienza = Input/Output b) Efficienza = Output/Input Nel primo caso (Input/Output) l’obiettivo è la minimizzazione delle risorse utilizzate per raggiungere un determinato risultato; l’efficienza diminuisce al crescere dell’indicatore. Nel secondo caso (Output/Input), che dà anche una misurazione più intuitivamente leggibile (più è alto il rapporto, più è alta l’efficienza), l’obiettivo è la massimizzazione del risultato, dato un certo ammontare di risorse disponibili. Specie se l’input è un singolo fattore (ad esempio, le ore di lavoro) l’indice è detto anche di produttività. Cfr. Riccardo Mussari, Il controllo di gestione nelle Amministrazioni Pubbliche: logiche, strumenti e criticità., 2005, Nota didattica, Siena, Dipartimento Studi Aziendali e Sociali – Università degli Studi di Siena. 110 Mussari, R., ibid. 109 134 3.4. Relazione sequenziale tra efficacia, efficienza e economicità. Essa è visibile nel seguente schema: VERIFICA DELL’EFFICACIA DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA (idoneità dell’azione a soddisfare i bisogni) RICERCA DELL’EFFICIENZA (ossia individuazione delle modalità di produzione di prestazioni e servizi con il minor impiego di risorse) RISPETTO DEL PRINCIPIO DI ECONOMICITÁ (assicurare che il livello di risorse disponibili, acquisito tramite tributi, prezzi dei servizi, altro, sia coerente e compatibile con il livello di bisogni che si è scelto o si è obbligati per legge a soddisfare) Nota: Nel concreto le decisioni non possono seguire questa sequenza lineare, ma devono cercare di trovare con continui aggiustamenti livelli soddisfacenti / accettabili di efficacia, efficienza, economicità. Fonte: Pezzani (2005-2006). 3.5. Problemi e specificità di misurazione dei criteri nel caso dell’amministrazione pubblica Come evidenziato dalla figura n. 2, esiste una peculiarità dell’amministrazione pubblica per quanto attiene alle valutazioni di efficacia. Mentre per le imprese o, meglio, per tutte quelle attività per le quali si ha la cessione del prodotto contro il corrispettivo di un prezzo (scambio tipico), il giudizio di efficacia dell’azione è demandato al compratore ed è incorporato nel prezzo (o nelle altre condizioni di scambio) che egli è disposto ad accettare, per l’amministrazione pubblica, d’alto canto, che presuppone uno scambio atipico (vedi punto 2.3.), le valutazioni di efficacia dell’azione rappresentano un’importante elemento della valutazione complessiva. L’amministrazione pubblica risulta, infatti, esposta al rischio di non riuscire a soddisfare i bisogni della collettività. Può dunque accadere che la PA possa produrre, in maniera magari efficiente, beni e servizi non in grado di soddisfare tali bisogni (beni non efficaci). Le valutazioni di E3 rappresentano pertanto tre componenti distinte della valutazione dell’attività amministrativa, che tuttavia sono correlate a sistema. Si aggiunge altresì che efficienza ed efficacia sono condizioni necessarie per l’economicità ma non sufficienti, in quanto l’economicità può essere influenzata da pressioni esterne al sistema aziendale. Tali pressioni possono ad esempio essere rappresentate da forti vincoli/pressioni esterni non controllabili dagli organi aziendali che spingono ad innalzare il livello quali-quantitativo dei bisogni che si rivolgono alle aziende pubbliche e a tenere bassi i livelli di risorse (esempio riduzione dei tributi). 135 3.6. Ambiti della valutazione Come evidenziato precedentemente (vedi punto 3.3.), è stata proposta la distinzione tra efficacia manageriale, la cui valutazione è applicabile a singoli obiettivi operativi, ed efficacia globale che comprende il livello di raggiungimento degli obiettivi strategici, individuati dall’azienda nel suo totale. Va sottolineato che, sebbene entrambe le valutazioni siano ugualmente utilizzate nel controllo gestionale e nel giudizio esterno, l’impostazione più corretta tenderebbe dalla parte della valutazione globale. La seconda è, senza dubbio, anch’essa utile, ma a volte può deviare verso logiche di “equilibri (ottimi) parziali” non compatibili con l’equilibrio (ottimo) complessivo dell’azienda. 3.7. Relazione tra criterio di etica e sistema politico Quello dell’etica è un principio-criterio spesso richiamato per l’azienda pubblica in quanto deriva dalla tipica “funzione redistributiva” che ha caratterizzato il modello dello “stato del benessere (o welfare state)”. Secondo la teoria della giustizia sociale in base a questo criterio si può misurare la distribuzione delle risorse coerente con i giudizi di valore presenti nella società. L’equità è un elemento con scarsa rilevanza nel sistema aziendale. La posizione prevalente è che equità sia obiettivo del sistema politico (gli organi amministrativi devono tendere solo all’efficacia, efficienza ed economicità) e non aziendale. Per quanto riguarda l’azione amministrativa, i recenti sviluppi scientifici in materia pongono l’accento sulla necessità di assicurare un certo livello di equità (anche a costo di soluzioni sub-ottimali dal punto di vista dell’efficacia, efficienza ed economicità) nella distribuzione quantitativa e qualitativa del prodotto. 4. Meccanismi di stimolo al miglioramento dell’amministrazione 4.1. Relazione tra criterio di etica e sistema politico Meccanismi – un insieme di regole sociali, organizzative ed economiche che premiano comportamenti degli individui orientati in senso positivo e disincentivano (penalizzano) comportamenti negativi111. 4.2. Sistemi di regole per indurre la PA a rispettare i criteri E3 Tra i meccanismi utilizzabili per influenzare la dinamica dei sistemi di amministrazione pubblica si ricordano: il potenziamento dei sistemi di controllo sociale, tramite diffusione e potenziamento delle forme di critica e denuncia, nonché di pressione esterna nei confronti dell’amministrazione (ruolo dei mass media, associazioni di tutela dei diritti del cittadino, del consumatore e/o dell’utente, la figura del difensore civico etc.); rafforzamento della scelta del consumatore di servizi pubblici, tramite la rottura delle situazioni monopolistiche, introduzione di reali alternative e di “forme di mercato”112; Borgonovi, E., op.cit., p. 99 Alcune proposte in questo senso possono essere: prezzi / tariffe dei servizi pubblici; compartecipazioni alla spesa (ad es. ticket sanitari); rafforzare potere di scelta del cittadino (ad es. “voucher”); 111 112 136 introduzione di sistemi di controllo direzionale interno tramite adeguanti strumenti di rilevazione, analisi, confronto e valutazione di E3.113 4.2. Sistemi di regole per indurre la PA a rispettare i criteri di legalità ed etica Il rispetto del principio-criterio della legalità dipende dalle caratteristiche e dalla qualità del sistema di norme amministrative. In un sistema ipertrofico, complesso e contraddittorio come quello italiano, spesso si distingue tra: – – legalità formale (rispetto delle norme) legalità sostanziale (rispetto del diritto) Il rafforzamento dell’etica pubblica dipende dalla cultura dominante in una certa società. Bibliografia: 1. Borgonovi, E., Principi e sistemi aziendali per le amministrazioni pubbliche, Milano, Egea, 2002 2. Caccia, L.M., L’orientamento dei sistemi di controllo nelle aziende pubbliche, in Azienda Pubblica, Maggioli Editore, 2005, n.1, pp. 33-57; 3. Mele, R., Economia e gestione delle imprese di pubblici servizi tra regolamentazione e mercato, CEDAM, Padova, 2003; 4. Mussari R., Il management delle aziende pubbliche: profili teorici, CEDAM, Padova, 1994; 5. Mussari R., Il controllo di gestione nelle Amministrazioni Pubbliche: logiche, strumenti e criticità., 2005, Nota didattica, Siena, Dipartimento Studi Aziendali e Sociali – Università degli Studi di Siena; 6. Pezzani, F., Criteri di valutazione dell’attività amministrativa, Nota didattica, 2005-2006, Milano, Univ. Bocconi; 7. Pezzani, F., Cosa fa la Pubblica Amministrazione e come lo fa, Nota didattica, 2005-2006, Milano, Univ. Bocconi. 113 Ibid. 137 “Il contesto ambientale ed il ruolo della strategia nella P.A.” lezione del 27-4-2006, Prof. Pezzani A cura di Giordano Simoncini La legge costituzionale n. 3/2001 è stato il primo autentico passo compiuto dall’ Italia in direzione della devoluzione, poiché ha di fatto ampliato i compiti di Regioni ed enti locali, delimitando al contempo un ristretto ambito di competenze statali (ad es, l’ ordine pubblico, la previdenza, la difesa e la politica estera). Tale processo di devoluzione – ovvero anche, se vogliamo, regionalizzazione – ha fatto il paio con il cd. federalismo fiscale, anch’ esso avviato a partire dalla riforma del Titolo V della Costituzione. Nel corso della lezione in oggetto, è stato a più riprese sottolineato come, in realtà, il federalismo sia una scelta necessaria, più che una semplice opzione politica tra le tante possibili. Ciò balza agli occhi immediatamente a seguito di una constatazione quasi banale: aumentando i compiti delle Regioni e degli enti locali e, contestualmente, riducendosi i trasferimenti dello Stato, risulta quantomeno necessario per questi enti applicare una propria tassazione al fine ultimo di poter svolgere al meglio i compiti loro affidati dal dettato costituzionale. Partendo dal presupposto, marcatamente realista ma analiticamente imprescindibile, che ciascun territorio ha diverse necessità e distinti bisogni, va facendosi sempre più innanzi il problema del come assicurare a Regioni ed enti locali un’ adeguata autonomia impositiva, prerequisito essenziale ai fini dello svolgimento di ogni altra autonomia, sia essa normativa, amministrativa etc. Al presente, le Regioni spendono nel complesso poco meno di 200 miliardi di euro l’ anno. A differenza che nel più recente passato, però, tali spese vengono coperte per la maggior parte da entrate proprie: se fino a qualche anno fa queste ultime corrispondevano grossomodo al 25% delle entrate complessive degli enti locali, oggi tale percentuale è cresciuta sino alla considerevole soglia dell’ 80%. Ciò significa, assai intuitivamente, che i trasferimenti da parte dello Stato si sono ridotti al 20% sul totale delle entrate, lasciando spazio tanto ai vari Irpef ed Irap (per quel che riguarda le Regioni), Ipt (per le Province) ed Ici (per i Comuni), quanto ad altre, variegate forme di introiti, dalla compartecipazione alle accise su benzina ed altre imposte sino ad arrivare ai più disparati metodi di autofinanziamento delle singole autonomie locali. Questo trade-off tra entrate proprie e redistribuzione, peraltro, nulla è se non il fine ultimo del federalismo fiscale correttamente inteso: lo Stato dovrebbe giungere ad un livello di trasferimenti il più possibile prossimo allo zero, gli enti locali dovrebbero poter conseguire il “successo” della completa autonomia finanziaria. D’ altro canto, così com’è stato ripetuto a più riprese nel corso della lezione, l’ autonomia o è finanziaria o non è. In tale contesto è di fondamentale importanza la lettura dell’articolo 119 della Costituzione: I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. 138 I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio. La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite. Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato. Possono ricorrere all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento. E' esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti.) *** Autonomia finanziaria e federalismo fiscale, dunque, sono necessari e coerenti rispetto alle multiformi strutture di bisogni ed interessi proprie di ogni territorio. A questo punto, disgraziatamente, si fa innanzi un problema cruciale: come registrare e trasmettere ai decisori i vari bisogni e le varie necessità, in maniera tale da evitare tanto dispersioni quanto malfunzionamenti, carenze ed inefficienze? Ed a seguito di tale problema, un ennesimo altro, probabilmente ancora più oneroso: data l’ autonomia impositiva delle autonomie locali, come assicurare a livello regionale, provinciale e comunale l’ adeguata trasparenza nella gestione delle risorse? E soprattutto, in che modo monitorare l’ efficienza di tale gestione? Nel corso degli ultimi vent’ anni, clientelismo, ricerca di consenso da parte dei politici e diffusi fenomeni di rent seeking, ad opera di amministratori poco inclini allo scrupolo, hanno condotto per mano il Paese verso un agghiacciante indebitamento, risultato prevedibile di allocazioni inefficienti e sprechi tra i più difformi. Tali fenomeni sono stati ovviamente assai più radicati a livello locale: il politico che procaccia impieghi ed agevolazioni per poterli scambiare con voti, l’ adibito al controllo che non controlla per ossequio o per contropartita di un favore ricevuto e via dicendo. Con un’espressione ad effetto, si potrebbe semplicemente dire: sono state distribuite ricchezze non ancora prodotte. Pertanto, il primo passo verso la soluzione dei problemi sopraelencati sarebbe proprio quello di venir fuori da siffatte logiche, mediante un 139 monitoraggio più incisivo delle varie attività e, non da ultimo, mediante la creazione di nuovi meccanismi politici volti a scoraggiare qualsivoglia tipo di attività capace di condurre ad inefficienze. *** Per altro verso, la seconda parte della soluzione ai problemi suesposti risiede senz’ altro nell’approdo ad un sistema contabile più organico ed efficace. Solo mediante una contabilità trasparente, regolare e correttamente impostata è infatti possibile tenere sotto controllo la gestione del bilancio ad opera delle pubbliche amministrazioni, che deve ispirarsi, ex art. 97 Cost., ai principi di “buon andamento” ed “imparzialità”. Il controllo di gestione, di pari passo al quale deve procedere una buona contabilità, è dunque utile tanto a guidare correttamente il processo decisionale quanto a tenere costantemente sotto esame la condotta delle amministrazioni pubbliche. Giunti a questo punto, però, giova fare un po’ di chiarezza in merito a cosa intendiamo come contabilità. *** Distinguiamo tra due diversi sistemi di contabilità: la contabilità finanziaria, che è tipicamente quella pubblica, e la contabilità economico / patrimoniale, che è quella propria delle imprese. Di per sé, il sistema della contabilità finanziaria si sdoppia in legge finanziaria, che è uno strumento preventivo, volto a fissare obiettivi e/o a correggere tendenze in atto, e bilancio contabile. La struttura del bilancio è semplice: si tratta di una rilevazione contabile, che riguarda le previsioni di entrata e di spesa per l’ anno a venire (bilancio preventivo); pertanto, quando si parla ad es. di “spesa pubblica per il 2007”, si allude a nient’ altro che alla somma delle uscite previste. Quasi inutile specificare che il vincolo a che il bilancio venga approvato consiste nel fatto che esso debba essere in pareggio. Ciò non toglie che, costantemente, le previsioni effettuate al momento della stesura della legge finanziaria finiscano per rivelarsi fallaci; in questo caso, la contabilità dovrebbe coadiuvare i decisori a meglio comprendere ciò che va accadendo ai conti pubblici, in maniera tale da consentire ulteriori interventi e manovre correttive, da svolgersi ovviamente mediante atto formale, secondo quanto predisposto dalla Costituzione. Il punto è che oggigiorno, a causa della grande varietà di spese a cui lo Stato deve far fronte, va rivelandosi sempre più complesso effettuare previsioni solide e controllarle in maniera capillare; più forte che mai, pertanto, è la necessità di disporre di una contabilità agile e flessibile, che consenta di monitorare e di variare le manovre in corso d’ anno. Non di meno, sarebbe opportuno concentrarsi di più sui bilanci consuntivi – vale a dire quei bilanci che, a differenza di quelli preventivi, rendicontano le vicende economiche della pubblica amministrazione per l’ anno trascorso: una più attenta stesura di tali documenti (sistematicamente falsati, mediante costanti sottostime delle uscite e sovra-stime delle entrate), ed una maggiore accortezza nella loro consultazione, creerebbero le pre-condizioni per commettere meno errori, e meno gravi. 140 Mentre la contabilità finanziaria si concentra unicamente su entrate ed uscite, tralasciando costi, ricavi e risultati connessi a determinate operazioni, la contabilità economico / patrimoniale, focalizzandosi più specificamente sull’ individuazione del reddito facente seguito a determinate attività, si concentra assai di più su questo tipo di valori. Una contabilità economico / patrimoniale correttamente intesa è inoltre tenuta a distinguere attentamente i concetti di spesa e di costo. Le spese, per un’ impresa, sono le uscite: al fine di autorizzarle si impone, assai intuitivamente, una propedeutica verifica delle disponibilità. A fine anno, sul bilancio verrà annotato il totale delle uscite assieme ai residui, vale a dire le spese autorizzate ma non ancora passate per cassa: il debito, infatti, si forma a seguito dell’ autorizzazione emessa nel corso dell’ anno in esercizio – e pertanto, i residui sono anch’ essi uscite impegnate. I costi, invece, corrispondono al valore dei fattori produttivi consumati nel corso dell’ anno per effettuare una prestazione. Importante notare come i costi debbano costituire voce di bilancio anche qualora non si sia ancora provveduto al pagamento effettivo di ogni fattore produttivo adoperato. 141