Interazioni tra farmaci

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Foglio di
informazione
professionale
Nr. 191
giugno 2009
Interazioni tra farmaci
Due o più farmaci assunti contemporaneamente possono esercitare i loro effetti in modo indipendente o interagire.
L’interazione può portare ad un potenziamento o ad un antagonismo della risposta o alla comparsa di effetti inattesi.
Quello delle interazioni tra farmaci è uno dei settori della medicina dove è più marcata la distanza tra l’evoluzione
delle conoscenze teoriche e la loro traduzione in regole pratiche. Malgrado la crescente attenzione, la reale
conoscenza del fenomeno e la possibilità di prevederne le conseguenze in termini di esiti per il paziente rimangono
in gran parte incompiute.
Perché è difficile identificare una interazione
Una interazione tra farmaci può sfuggire perché comporta solo alterazioni di alcuni parametri farmacocinetici senza
provocare segni e/o sintomi o perché viene scambiata con problemi di resistenza e/o di ipersensibilità o perché
attribuita ad una delle malattie di cui il paziente soffre. Peraltro, l’effetto di un farmaco non è sempre controllabile e,
salvo poche eccezioni, non può essere misurato quantitativamente. Le interazioni che coinvolgono ipoglicemizzanti,
anticoagulanti e antipertensivi, le cui azioni possono essere monitorate con indicatori precisi (glicemia, INR,
pressione arteriosa), sono più facilmente identificabili sul piano clinico rispetto a farmaci come analgesici,
antinfiammatori, ansiolitici, antidepressivi, la cui azione è di tipo qualitativo. Non bisogna poi dimenticare che le
condizioni in cui le interazioni vengono studiate prima della commercializzazione di un farmaco raramente
corrispondono a quelle reali in cui verrà impiegato. L’estrapolazione all’uomo dei risultati ottenuti nell’animale è
pressoché impossibile per le differenze quali-quantitative tra le specie degli enzimi coinvolti nei processi di
metabolizzazione. Gli studi in vitro su microsomi, epatociti e altre colture cellulari, nonostante vengano sempre più
utilizzati dalle ditte per accelerare lo sviluppo di nuovi farmaci, risultano di limitata predittività per la situazione in
vivo nel paziente. Gli studi in volontari sani, con dose unica dei farmaci potenzialmente interagenti, non sono in
grado di determinare la rilevanza di una interazione e non sono rappresentativi delle condizioni riscontrabili nella
pratica clinica, dove più farmaci vengono spesso somministrati insieme in modo cronico a pazienti affetti da
polipatologie e/o insufficienze d’organo Sta di fatto che ancora oggi la maggior parte delle interazioni più
significative viene identificata in seguito a osservazioni casuali (nell’ambito della farmacovigilanza) e non a ricerche
programmate. Un aspetto che complica ulteriormente le cose è che non esiste un elenco condiviso dalla comunità
scientifica delle interazioni più importanti; i vari data-base differiscono nei criteri con cui viene valutata l’entità degli
eventi secondari alle singole interazioni. I foglietti illustrativi riportano spesso interazioni che, in assenza di un
riscontro nel paziente, hanno un significato clinico aleatorio o in quanto rilevate in singoli casi devono essere
confermate. Altri testi, infine, sono fuorvianti quando omettono di indicare dati quantitativi essenziali; il succo di
pompelmo, ad esempio, è un potente inibitore enzimatico, ma le interazioni più importanti avvengono solo per
“dosi” superiori al litro.
Ciò non significa che per queste difficoltà si debba sottovalutare il problema (“tanto rumore per nulla”) o avere un
atteggiamento allarmistico (“attenti al lupo” sempre). Lo sforzo che, invece, va fatto è quello di considerare le
associazioni di più farmaci, in particolare negli anziani (per la ridotta funzionalità epatica e renale sono i più esposti
al rischio di interazioni e di danni da farmaci), come un terreno di osservazione/attenzione permanente che ha molte
incognite (i farmaci nuovi) e alcune certezze. Queste.
Farmaci a maggior rischio di interazioni
Farmaci con indice terapeutico ristretto. Anticonvulsivanti (carbamazepina e fenitoina) immunosoppressori
(ciclosporina e tacrolimus), anticoagulanti orali (warfarin), digitale, litio e teofillina hanno le curve dose-risposta
dell’effetto farmacologico e dell’effetto tossico vicine e un piccolo aumento di concentrazione può causare effetti
indesiderati, un calo di concentrazione una riduzione dell’efficacia. Una interazione documentata è quella tra
amiodarone e propafenone (diltiazem e verapamile in misura minore) e digitale; questi farmaci aggiunti alla digitale
comportano un aumento dei suoi livelli plasmatici e dei suoi eventi avversi come bradicardia o blocco cardiaco;
tossicità da digossina possono presentare anche i pazienti in trattamento digitalico che assumono un macrolide.
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Induttori e inibitori enzimatici. La via di metabolizzazione può essere un fattore determinante nell’insorgenza di
interazioni clinicamente significative. Composti che agiscono da potenti induttori o inibitori degli enzimi del sistema
P450 (CYP) deputati al metabolismo dei farmaci possono alterare la concentrazione di farmaci che fungono da
substrati per questi enzimi. Carbamazepina, fenitoina e rifampicina (come l’iperico) sono induttori di molti enzimi
del sistema P450 e accelerano la biotrasformazione di ciclosporina, contraccettivi orali e warfarin, riducendone i
livelli ematici e l’efficacia. Itraconazolo e ketoconazolo, invece, agiscono da inibitori degli stessi enzimi e
aumentano la concentrazione del warfarin (e l’effetto anticoagulante), della ciclosporina (con rischio di
nefrotossicità), della simvastatina e dell’atorvastatina (con rischio di miopatia). Il cotrimossazolo rallenta il
metabolismo degli ipoglicemizzanti orali e in un paziente diabetico, specie se anziano, può provocare una
ipoglicemia grave che richiede l’ospedalizzazione. La fluvoxamina riduce l’efficienza degli enzimi che
metabolizzano la teofillina e ne determina un incremento della concentrazione plasmatica con comparsa dei suoi
tipici effetti indesiderati come tachicardia, nausea, cefalea e insonnia. Un’altra interazione clinicamente significativa
è quella tra statine e ciclosporina o fibrati: l’uso combinato aumenta, infatti, in modo esponenziale il rischio di
miopatia.
Di fronte a interazioni note per avere conseguenze negative per il paziente, la soluzione consiste nel prescrivere un
farmaco non interagente (es. la pravastatina in caso di co-somministrazione di antimicotici azolici e statine;
sostituendo la fluvoxamina con un altro SSRI in caso di impiego concomitante con la teofillina). In assenza di valide
alternative, l’associazione tra farmaci interagenti richiede uno stretto monitoraggio degli effetti clinici e un eventuale
aggiustamento delle dosi.
Tra le interazioni di tipo farmacodinamico (sommazione di effetti) quelle più rilevanti in termini di eventi avversi
farmaco-correlati sono le seguenti.
Prolungamento dell’intervallo QT. Se la durata del periodo di ripolarizzazione cardiaca, indicata dall’intervallo QT
all’elettrocardiogramma, risulta eccessivamente prolungata può manifestarsi una tachicardia ventricolare (torsione di
punta) che può degenerare in fibrillazione ventricolare, con possibile morte improvvisa. L’aumento dell’intervallo
QT può essere la conseguenza di fattori legati al paziente come l’età avanzata e/o alcuni squilibri idroelettrolitici (es.
ipopotassiemia), ma può derivare dall’uso concomitante di farmaci con effetti additivi sull’intervallo QT. Macrolidi,
cotrimossazolo, moxifloxacina, antidepressivi triciclici e antipsicotici (sia tradizionali che “atipici”) non devono
essere associati tra loro né mai aggiunti ad amiodarone, disopiramide e propafenone in quanto aumentano il rischio
di torsione di punta, in particolare negli anziani.
Iperkaliemia. Nei pazienti che assumono un ACE-inibitore, l’aggiunta di un diuretico risparmiatore di potassio come
lo spironolattone può causare una iperpotassiemia molto pericolosa, soprattutto in caso di ridotta funzionalità renale.
Sindrome serotoninergica. Deriva da una sovrastimolazione dei recettori per la serotonina a livello del SNC per
effetto di due o più farmaci agenti sugli stessi recettori. I sintomi tipici comprendono agitazione, sudorazione, febbre,
tremori e contrazioni muscolari brusche, involontarie, singole o ripetitive (mioclono). La sindrome si risolve entro 24
ore se il trattamento viene sospeso, ma se non riconosciuta può essere pericolosa. I farmaci coinvolti sono i triciclici,
gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI), la venlafaxina, la duloxetina, i triptani, la sibutramina, il
tramadolo, il litio.
Emorragie GI. L’uso continuato di antidepressivi SSRI e FANS o aspirina a basse dosi (coma antiaggregante)
aumenta il rischio di sanguinamento gastrointestinale: la somministrazione combinata dovrebbe essere evitata.
Farmaci OTC e SOP
Tra i farmaci a disposizione del farmacista, gli unici a rischio di interazioni sono i FANS. I determinanti maggiori
delle loro complicanze gravi sono le alte dosi e l’uso cronico. Le caratteristiche delle preparazioni OTC (dosi e
confezioni ridotte) rendono molto remota la possibilità di esiti negativi per il paziente, anche quando ne sussistano le
premesse teoriche. Come principio generale, sconsigliare un FANS in corso di trattamento con anticoagulanti orali è
corretto: insieme aumentano il rischio di emorragie gastrointestinali e un paziente, specie se anziano, non
adeguatamente informato o poco affidabile, potrebbe assumerne dosi massicce per lungo tempo. Proporre il
paracetamolo al posto di un FANS a chi, nelle stesse condizioni, riferisce di star bene con poche compresse di
ibuprofene durante saltuari attacchi di cefalea appare, invece, un eccesso di cautela non sostenuto da valide
motivazioni.
A cura del dott. Mauro Miselli
Bibliografia
Nobili A et al. Citocromo P450 e interazioni metaboliche. R&P 2005;21:11-23. Baxter K et al. Interazioni indesiderate tra farmaci. Adv Drug React Bull
2008; 181:725-8. Baxter K editor. Stockley’s drug interactions. Pharmaceutical Press, London, 2008. Interazioni. Guida all’uso dei farmaci. AIFA 2008.
Juurlink DN et al. Drug-drug interactions among elderly patients hospitalized for drug toxicity. JAMA 2003; 289:1652-8.
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