MARCO PENNISI LA GIURISPRUDENZA SUL CONTRATTO PRELIMINARE La presente trattazione si occuperà delle più rilevanti questioni giurisprudenziali relative al contratto preliminare, iniziando dall’analisi della sua natura giuridica, che sarà affrontata in parallelo alle teorie sulla natura e sulla causa del contratto definitivo, con particolare riguardo alla teoria maggioritaria, osservando le diverse posizioni che, all’interno della teoria, si sono delineate sul problema dell’eventuale difformità tra il contenuto del preliminare e quello del definitivo. Si tratterà poi del dibattito che, a partire dai contratti preliminari ad effetti anticipati, ha riguardato la tutela giuridica delle parti nelle more della stipula del contratto definitivo, nelle ipotesi di inadempimento o di sopravvenienze. In seguito si accennerà al tema della forma necessaria per la stipula e per la risoluzione del preliminare e a quello dell’essenzialità del termine per la stipula del definitivo. Verranno poi esaminate le ipotesi particolari di contratto preliminare avente ad oggetto un bene altrui, ovvero di un bene appartenente a terzi soltanto pro quota, distinguendo tra la comunione ordinaria e la comunione legale tra coniugi. La trattazione proseguirà con la disamina delle problematiche connesse ai c.d. preliminari a catena, per poi concludersi con l’ipotesi del preliminare di preliminare. Passando ad esaminare la prima delle questioni indicate, si osserva che, con riferimento alla natura giuridica del preliminare, cioè del contratto con effetti obbligatori con cui le parti si obbligano, l’una nei confronti dell’altra, a concludere un futuro contratto definitivo, del quale predeterminano il contenuto, si sono distinti tre orientamenti. 1 a) L’orientamento tradizionale, considera il preliminare come un negozio preparatorio, un mero pactum de contrahendo, per la prestazione del consenso alla successiva stipula del definitivo, per cui il programma delle prestazioni finali caratterizza la causa, non già del preliminare, bensì del contratto definitivo. Corollario dell’impostazione è che avverso il contratto preliminare saranno esperibili soltanto le azioni che possono incidere sulla validità della prestazione del consenso (come le azioni di nullità per difetto di forma ad substantiam, di annullamento per incapacità o per vizi del consenso, ovvero di risoluzione per impossibilità sopravvenuta, configurabile nei soli casi di morte o incapacità sopravvenuta), ma non saranno esperibili, se non nei confronti del definitivo, quelle azioni (ad esempio di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta o di rescissione) che sono relative al programma prestazionale finale. b) Un secondo orientamento, invece, valorizza a tal punto il contratto preliminare da considerarlo come un vero e proprio contratto definitivo ad efficacia reale differita. In quest’ottica il definitivo si riduce ad un mero atto solutorio della stipulazione preliminare, un semplice atto di adempimento, privo del carattere negoziale e della funzione di controllo delle sopravvenienze, diretto alla formalizzazione dell’accordo preliminare. Il definitivo, pertanto, non avrebbe una propria causa, bensì una causa esterna, da individuarsi nel contratto preliminare, con la conseguenza che il vizio che inficia quest’ultimo si ripercuote sul definitivo, rendendo anch’esso invalido. Conseguentemente, le azioni contrattuali di rescissione, risoluzione per eccessiva onerosità o per impossibilità sopravvenuta, l’azione revocatoria 2 ordinaria, le azioni di nullità per illiceità dell’oggetto o della causa saranno esperibili soltanto nei confronti del preliminare e non già del definitivo, rispetto al quale sarà proponibile solo l’azione di nullità per difetto della forma ad substantiam. Inoltre, le azioni di annullamento per vizi del consenso o per incapacità saranno esperibili solo in relazione al preliminare, poiché la natura solutoria e non negoziale del definitivo postula, secondo la tesi in esame, che per la sua validità sia sufficiente la sussistenza della mera capacità naturale e non necessariamente della capacità di agire. c) Un terzo orientamento (c.d. del doppio contratto), inaugurato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 1720/1985, e ad oggi prevalente in dottrina ed in giurisprudenza (cfr Cass. S.U. 11624/2006), ritiene che il preliminare realizzi sia una promessa di consensi, sia una promessa di prestazioni (pactum de dando), con la conseguenza che, rispetto al primo degli orientamenti esaminati, il contratto preliminare si arricchisce di contenuto, partecipando al programma delle prestazioni finali e impegnando le parti, non soltanto alla stipulazione del definitivo (causa solutionis), ma anche a porre in essere tutti i comportamenti necessari ed accessori, di natura positiva o negativa, per realizzare in modo compiuto il programma finale. La tesi del doppio contratto riconosce una maggiore ed anticipata tutela al promissario acquirente, il quale potrà esperire, già nei confronti del preliminare, tutte le azioni (di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta o per impossibilità delle prestazioni finali; di rescissione; di nullità per illiceità dell’oggetto o della causa) relative al programma prestazionale finale e che, in base al primo orientamento si sarebbero potute proporre solo nei confronti del definitivo. 3 In questo senso il contratto definitivo svolge una funzione di strumento di controllo delle sopravvenienze verificabili successivamente alla conclusione del preliminare, con la conseguenza che l’inadempimento del contratto preliminare è configurabile non soltanto in caso di successivo rifiuto di taluna delle parti alla stipula del definitivo, ma anche in caso di mancato compimento di tutte le attività preparatorie necessarie al conseguimento di un utile risultato finale. All’interno della teoria del doppio contratto, tuttavia, è possibile distinguere due diverse impostazioni in ordine alla soluzione del problema delle eventuali difformità tra il contenuto del preliminare e quello del definitivo. - Secondo un orientamento, che privilegia la causa solutoria del contratto definitivo, non si può stabilire in via generale se la difformità tra i due contratti debba essere intesa in termini di inadempimento del contratto preliminare, con conseguente possibilità di agire ex art. 2932 c.c., ovvero in termini di prevalenza del definitivo, ma si dovrà invece accertare, di volta in volta, quale sia stata l’effettiva volontà delle parti al momento della stipula del contratto definitivo. - Una seconda tesi, invece, valorizzando la natura negoziale del definitivo, affronta il problema della difformità tra preliminare e definitivo, dando prevalenza a quest’ultimo, sul presupposto che il contratto definitivo costituisce sempre una nuova manifestazione di volontà negoziale delle parti, senza potersi ridurre ad un semplice metro di verifica dell’effettivo adempimento del preliminare. La giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. n. 233/2007; Cass. n. 8515/2003; Cass. n. 2824/2003; Cass. n. 5635/2002) si è orientata nel senso di risolvere il problema dell’eventuale difformità tra il contratto preliminare e quello 4 definitivo ricorrendo ad una presunzione relativa di conformità del contenuto negoziale del definitivo all’effettiva volontà delle parti, salva la possibilità di provare, ad onere della parte interessata, che la difformità contenutistica costituisca un inadempimento dell’accordo di reiterare nel definitivo alcune clausole del preliminare, poi non effettivamente riprodotte. In dottrina è stato osservato come tale orientamento giurisprudenziale risenta dell’impostazione tradizionale che, configurando il contratto preliminare quale pactum de contrahendo, ritiene che esso impegni le parti soltanto a stipulare il contratto definitivo, con la conseguenza che, una volta concluso il definitivo, la disciplina negoziale in esso formalizzata sarà destinata a sostituirsi alle precedenti pattuizioni, anche difformi, del contratto preliminare, salvo che le parti non abbiano espressamente pattuito che talune clausole di quest’ultimo sopravvivano. Come già osservato, la teoria del doppio contratto considera il preliminare come momento negoziale che impegna le parti non soltanto alla successiva stipula del definitivo, di cui esse hanno predeterminato il contenuto, ma anche a tutti quei comportamenti accessori, attivi o omissivi, che permettano di giungere alla conclusione del definitivo, realizzando gli interessi programmati dalle parti. Già da molto tempo la giurisprudenza, in relazione all’inadempimento di questi obblighi accessori, riconosce tutela alla parte adempiente, in tal modo ammettendo la configurabilità di un inadempimento nella fase antecedente alla scadenza del termine per la stipula del definitivo. La riflessione giurisprudenziale sulla tutela giuridica nel periodo anteriore al definitivo si è, tuttavia, maggiormente concentrata su quelle figure contrattuali, 5 invalse nella prassi delle compravendite immobiliari, comunemente note come preliminari ad effetti anticipati. Si tratta, in particolare, di quei contratti preliminari con cui le parti, oltre ad assumere l’impegno di concludere il definitivo, convengono altresì che alcune delle obbligazioni pattuite vadano adempiute subito o, comunque, prima della stipula del contratto definitivo. Rispetto a tali effetti anticipati è configurabile, medio tempore, un inadempimento contrattuale di taluna delle parti ed una correlativa esigenza di tutela dell’altra già in una fase anteriore alla data stabilita per la stipula del definitivo. Fino agli anni Settanta, in omaggio al dogma della volontà delle parti, che tradizionalmente giurisprudenziale domina tutta consolidato la materia ammetteva contrattuale, l’esercizio l’orientamento dell’azione per l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ma soltanto laddove fosse possibile rispecchiare una perfetta identità contenutistica tra preliminare e sentenza ex art. 2932 c.c. In altri termini, il rispetto della volontà negoziale delle parti, imponeva che la pronuncia resa nel giudizio di cui all’art. 2932 c.c. fosse assolutamente coerente e fedele con il contenuto negoziale preliminarmente pattuito, non potendo il giudice apportarvi modifiche senza interferire indebitamente sull’autonomia privata delle parti. Da ciò conseguiva, inevitabilmente, l’inammissibilità di tutti quegli strumenti processuali (ad esempio l’actio quanti minoris) che avrebbero determinato una modifica del contenuto della intercorsa pattuizione preliminare. L’evoluzione giurisprudenziale successiva, tuttavia, si rende conto che tale impostazione finisce per avvantaggiare la parte inadempiente, a danno della 6 parte adempiente, che sarebbe costretta o ad agire per la risoluzione del contratto preliminare, ovvero a stipulare il contratto definitivo, alle condizioni fissate nel preliminare, malgrado l’intervenuto inadempimento. Pertanto, la giurisprudenza, sull’esperienza dei preliminari ad effetti anticipati e poi progressivamente per ogni ipotesi di preliminare, è giunta a riconoscere un arretramento della tutela giuridica già nella fase precedente alla scadenza del termine per il definitivo, ammettendo la possibilità di esperire tutte quelle azioni (come l’azione di riduzione del prezzo) che mirano a salvaguardare l’interesse delle parti sotto un profilo sostanziale, anche modificando le pattuizioni formalizzate nel preliminare. Recentemente, in linea con l’orientamento da ultimo esposto, si sono espresse le Sezioni Unite della Suprema Corte (sentenza n. 7930 del 27.03.2008), le quali, affrontando il problema qualificatorio degli effetti della consegna anticipata del bene promesso, in termini di possesso utile ai fini dell’usucapione, ovvero di semplice detenzione, hanno ricondotto il preliminare ad effetti anticipati alla figura dei contratti collegati. In particolare, ad un contratto principale (il preliminare di vendita), si lega un contratto di comodato (con oggetto la consegna anticipata del bene promesso, che pertanto il promissario acquirente riceve solo in detenzione) e un contratto di mutuo gratuito (con oggetto il versamento di tutto o parte del prezzo). Un ulteriore problema giurisprudenziale riguarda le sopravvenienze che possono verificarsi nel periodo tra la stipula del preliminare e quella del definitivo, che incidono in varia misura sull’interesse delle parti a stipulare il definitivo. 7 In una prima fase, la giurisprudenza, ancora una volta in osservanza al principio di intangibilità della volontà negoziale delle parti e della necessaria identità contenutistica tra il contratto preliminare e la sentenza ex art. 2932 c.c., escludeva l’ammissibilità dell’azione per l’esecuzione in forma specifica del preliminare, a prescindere dalla rilevanza della sopravvenienza nell’economia del contratto, dal momento che l’evento intercorso non era suscettibile di essere regolato dal giudice, ma poteva soltanto essere disciplinato con una specifica pattuizione delle parti. Tale impostazione, tuttavia, è stata superata dal successivo orientamento giurisprudenziale (Cass. 30.11.2007 n. 25050), il quale ha ritenuto che proprio il rispetto della volontà delle parti, sotto un profilo sostanziale, imponesse di attribuire al giudice, adito ex art. 2932 c.c., il compito di ripristinare l’equilibrio economico tra le prestazioni compromesso dalla sopravvenienza. In questo senso, il giudice quindi accoglierà la domanda di esecuzione in forma specifica, apportando le modifiche necessarie, tutte le volte in cui la variazione sia da considerarsi marginale; mentre la rigetterà tutte le volte in cui la variazione sia da ritenersi essenziale, per la sopravvenuta inidoneità sostanziale del programma contrattuale a realizzare gli interessi delle parti. Pertanto è possibile notare come il più recente orientamento giurisprudenziale abbia, rispetto al passato, garantito al promissario acquirente una maggiore tutela, quale effetto della rinnovata considerazione in senso sostanziale del rapporto tra contenuto negoziale del preliminare e contenuto dispositivo della sentenza pronunciata nel giudizio ex art. 2932 c.c. Tale mutato orientamento si è tradotto, da un lato, in un ampliamento dei poteri di intervento del giudice nel riequilibrio economico delle prestazioni; dall’altro, 8 in un riconoscimento al promissario acquirente di un ventaglio di strumenti processuali ulteriore rispetto al rimedio di cui all’art. 2932 c.c., azionabili nelle more della stipula del definitivo, nell’ipotesi di inadempimento, di sopravvenienza o di scoperta di vizi del bene promesso in vendita. Infatti il promissario acquirente non si troverà più – come in passato – di fronte alla rigida alternativa tra eseguire il contratto in forma specifica ovvero risolverlo, potendo egli agire, anche disgiuntamente all’azione ex art. 2932 c.c., per l’eliminazione dei vizi oppure per la riduzione del prezzo (Cass. 15.12.2006 n. 26943). Sotto il profilo formale, l’art. 1351 c.c., prevedendo che il contratto preliminare deve essere redatto per iscritto tutte le volte in cui, per la stipula del definitivo, sia richiesta la forma scritta ad substantiam, pone un’eccezione al principio generale della libertà delle forme contrattuali. Da ciò deriva la non indispensabilità dell’osservanza della forma scritta per il preliminare, con la possibilità quindi di concluderlo anche oralmente, quando per la stipula del contratto definitivo sia richiesta la forma scritta ad probationem tantum, ovvero quando le parti abbiano pattuito che il definitivo dovrà essere redatto per iscritto. Il problema giurisprudenziale che si è posto con riferimento al profilo formale, riguarda la forma richiesta per l’accordo risolutivo del contratto preliminare. In particolare, nell’ipotesi in cui per la stipula del contratto definitivo sia richiesta una forma scritta ad substantiam, una parte della giurisprudenza meno recente ha ritenuto che anche il negozio risolutivo dovesse necessariamente essere redatto per iscritto. 9 Sul punto, tuttavia, la giurisprudenza più recente ha mutato il proprio orientamento, consolidandosi nel senso di ammettere un accordo risolutorio senza l’osservanza della forma scritta, anche per l’ipotesi in cui per il definitivo sia richiesta la forma scritta sotto pena di nullità. Il mutato orientamento trova il proprio fondamento nella natura eccezionale dell’art. 1351 c.c. rispetto al principio generale di libertà delle forme negoziali, con la conseguente necessità di un’interpretazione restrittiva della norma che non può consentire l’estensione del requisito formale, espressamente previsto solo per il preliminare, anche al negozio risolutivo di quest’ultimo. Con riferimento al termine per la stipula del contratto definitivo, si nota come la giurisprudenza sia orientata a valutare il carattere essenziale dello stesso, non già sulla base di espressioni o formule contrattuali che, nella prassi, le parti sovente inseriscono come clausole di stile, bensì sulla base di un’indagine sulla sostanziale volontà delle parti, quale emerge dal documento contrattuale. Una delle questioni giurisprudenziali più rilevanti degli ultimi anni in tema di contratto preliminare, riguarda il caso in cui il bene promesso in vendita non appartenga, in tutto o in parte, al promittente venditore, ma ad un terzo. Al riguardo bisogna partitamente considerare l’ipotesi di promessa di vendita di un bene altrui, da quella in cui il promittente venditore sia solo comproprietario del bene promesso in vendita per l’intero. 1) Sotto il primo profilo, cioè per il caso in cui il promittente venditore non sia proprietario del bene promesso in vendita e non riesca a procurare l’acquisto della proprietà, si è posto il problema di stabilire se il promissario acquirente, ignaro di tale circostanza al momento del preliminare, possa o meno agire in 10 risoluzione ex art. 1479 c.c. al momento della scoperta, ovvero se debba attendere lo spirare del termine per la stipula del definitivo. a) Al riguardo, un orientamento minoritario, al fine di assicurare maggiore tutela al promissario acquirente in buona fede, ignaro del difetto di titolarità del bene in capo al suo dante causa, ammette l’azione di risoluzione ex art. 1479 c.c., sul presupposto che l’altruità del bene implichi di per sé un inadempimento dell’obbligazione di trasferire il bene oggetto del preliminare, postulata dalla promessa di vendita. b) In senso opposto si pone l’orientamento maggioritario, condiviso dalla Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 11624/2006), che ritiene inammissibile l’azione ex art. 1479 c.c. prima dello spirare del termine per la stipula del definitivo, a prescindere dalla circostanza che il promissario acquirente conoscesse o meno l’altruità del bene oggetto del preliminare. c) La questione è stata sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite (sent. n. 11624/2006), che hanno osservato come il problema non vada inquadrato in un’ottica di tutela della buona fede del promissario acquirente, bensì considerando che la norma di cui all’art. 1479 c.c. prevede un rimedio contro l’inadempimento del venditore, inadempimento che, mentre nella vendita definitiva di un bene altrui si verifica contestualmente alla stipula, per l’efficacia immediatamente traslativa del consenso, nel caso del contratto preliminare si può verificare solo successivamente, per l’efficacia meramente obbligatoria del preliminare, cioè al momento della conclusione del definitivo, poiché altrimenti “consentire l’immediata esperibilità dell’azione di risoluzione, si risolve in una difesa avanzata del promissario acquirente in 11 nome della tutela del principio della buona fede fine a se stessa” (Cass. S.U. n. 11624/2006). Il promissario acquirente, tuttavia, non resta privo di tutela, atteso che lo stesso potrà, ricorrendone i presupposti, agire ex art. 1439 o 1440 c.c., facendo valere il dolo del promittente venditore. Inoltre, in caso di preliminare ad effetti anticipati con l’obbligo di versare anticipatamente tutto o parte del prezzo, il promissario acquirente potrà, secondo l’orientamento prevalente, sospendere la propria prestazione avvalendosi del rimedio di cui all’art. 1461 c.c. Peraltro, il promissario acquirente di un bene altrui, anche nel caso in cui il preliminare da lui stipulato venga trascritto (come consentito dalla legge n. 122/2005), rimane esposto al rischio che il titolare effettivo del bene possa trasferirlo a terzi, in base ad un atto la cui trascrizione, anche se successiva a quella del promissario acquirente, prevale su quest’ultima. Un’ulteriore questione giurisprudenziale in materia di preliminare di vendita di cosa altrui, riguarda la modalità di adempimento da parte del promittente venditore. In particolare, si pone il problema di stabilire se il bene promesso in vendita possa essere trasferito direttamente dal terzo proprietario al promissario acquirente, ovvero se il promittente venditore sia tenuto ad acquistarlo dal terzo, per poi ritrasferirlo al promissario acquirente. In quest’ultimo senso si pone un orientamento giurisprudenziale minoritario che ritiene applicabile, nella specie, l’art. 1478 comma 2 c.c., norma che presuppone il previo acquisto della proprietà da parte del promittente venditore, ed osserva, inoltre, come il trasferimento da parte dell’effettivo proprietario nei confronti del promissario acquirente costituisca un adempimento da parte del terzo, che il creditore può legittimamente rifiutare a norma dell’art. 1180 c.c. 12 L’orientamento prevalente, accolto anche dalle Sezioni Unite con la richiamata sentenza n. 11624/2006, ritiene invece che, dal momento che il primo comma dell’art. 1478 c.c. impegna il venditore “a procurare” l’acquisto del bene al compratore, sia indifferente che la proprietà della cosa venga a questo trasferita dall’effettivo proprietario, direttamente o attraverso l’acquisto intermedio da parte del promittente venditore. L’orientamento prevalente, inoltre, ribadito anche da Cass. 23.11.2007 n. 2448, ritiene che l’acquisto diretto dall’effettivo proprietario del bene promesso in vendita, non esclude la garanzia per evizione in capo al promittente venditore che non sia intervenuto nel contratto stipulato tra il promissario acquirente ed il terzo proprietario. Infatti, la garanzia per evizione viene estesa al promittente venditore sul presupposto che il trasferimento della proprietà della cosa è avvenuto in conseguenza dell’attività da lui svolta per la conclusione del contratto direttamente tra il promissario acquirente e l’effettivo proprietario. Un’altra questione relativa al difetto di titolarità del bene da parte del soggetto che promette in vendita, riguarda l’ipotesi dei c.d. preliminari a catena, che ricorre quando il promissario acquirente stipula, prima della conclusione del definitivo, un ulteriore preliminare con un altro soggetto che, a sua volta, conclude un altro preliminare con un altro promissario acquirente, e così via di seguito. Il problema che si è posto in giurisprudenza, per il caso in cui l’originario promittente venditore, effettivo titolare del bene, non intenda stipulare il definitivo ed il suo promissario acquirente non agisca ex art. 2932 c.c., riguarda la tutela che l’ordinamento riconosce ai successivi promissari acquirenti. 13 In particolare, ci si è chiesti se sia ammissibile che questi ultimi possano agire in via surrogatoria ex art. 2900 c.c. nell’esercizio dell’azione ex art. 2932 c.c. spettante al proprio promittente venditore nei confronti del reale proprietario del bene promesso. L’azione surrogatoria, secondo il disposto dell’art. 2900 c.c., non può essere proposta dal creditore ove essa abbia ad oggetto diritti o azioni del debitore che per loro natura o per disposizione di legge non possono essere esercitati se non dal loro titolare. Pertanto, seguendo la teoria del doppio contratto, che considera il definitivo come una manifestazione di autonomia negoziale delle parti, il cui esercizio è incompatibile con l’intervento sostitutivo di un terzo creditore, una parte della giurisprudenza, in passato, escludeva la possibilità di esercitare in via surrogatoria l’azione ex art. 2932 c.c. Con la sentenza n. 5875/2006, invece, la Cassazione ha mostrato di aderire all’impostazione che privilegia la natura solutoria del contratto definitivo, con la conseguenza che non vi sarebbe nessun ostacolo all’esercitabilità in via surrogatoria dell’azione di cui all’art. 2932 c.c. Peraltro, una volta accolta, in giurisprudenza, la soluzione dell’esperibilità dell’azione surrogatoria in relazione ai c.d. preliminari a catena, ci si è poi chiesti se il promissario acquirente possa promuovere, in un medesimo giudizio, sia l’azione surrogatoria per l’esecuzione in forma specifica del preliminare, spettante al proprio promittente venditore nei confronti del proprietario del bene, sia l’azione ex art. 2932 c.c. direttamente nei confronti del proprio promittente venditore. - In passato, la giurisprudenza negava l’esercizio dell’azione di cui all’art. 2932 c.c. nei confronti del promittente venditore che non abbia conseguito la titolarità 14 del bene per difetto di interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), perché la sentenza emanata sarebbe comunque inutile per l’attore, in quanto non eseguibile nei confronti del promittente venditore, non proprietario del bene promesso. - L’orientamento più recente della giurisprudenza, invece, ritiene che, poiché i presupposti e le condizioni dell’azione devono sussistere al momento della sentenza, e non già al momento della domanda, l’azione ex art. 2932 c.c. è ammissibile tutte le volte in cui il promittente venditore convenuto abbia acquistato la proprietà del bene nel corso del giudizio, prima della pronuncia della sentenza. Peraltro, tale orientamento nota come la circostanza che il promittente venditore fosse divenuto proprietario del bene già al momento della proposizione della domanda, è irrilevante, laddove si consideri che la sentenza emanata in esito al giudizio ex art. 2932 c.c., avendo natura costitutiva, produce effetti traslativi ex nunc. 2) Sotto il secondo profilo, cioè per l’ipotesi in cui il bene promesso in vendita sia soltanto in parte altrui, e dunque il promittente venditore sia solo pro quota titolare del bene promesso, in giurisprudenza si è posto il problema della possibilità, per il promissario acquirente, di agire ex art. 2932 c.c. per ottenere il trasferimento in via giudiziale della sola quota del promittente venditore, comproprietario del bene che ha promesso in vendita per l’intero, laddove egli non sia riuscito a procurare il trasferimento delle quote degli altri comproprietari. In particolare, il problema si è posto in maniera distinta nelle ipotesi di comunione ordinaria e di comunione legale tra coniugi. a) In relazione alla comunione ordinaria, in passato, mentre una parte della giurisprudenza escludeva l’ammissibilità dell’azione ex art. 2932 c.c., in base al 15 principio dell’intangibilità della volontà negoziale delle parti, che intendevano vendere l’intero bene indiviso, e della necessaria identità contenutistica tra preliminare e sentenza ex art. 2932 c.c.; un’altra parte della giurisprudenza riteneva invece ammissibile l’azione, sul presupposto che il contratto preliminare non è invalido, ma è solo parzialmente inefficace. L’inefficacia, infatti, riguarda solo la parte del preliminare relativa alle quote degli altri comproprietari, mentre il contratto resta pienamente efficace in relazione alla quota del promittente venditore, per il trasferimento della quale non vi è motivo di escludere l’ammissibilità dell’azione de qua. Sulla questione, le Sezioni Unite della Cassazione (con sentenza 08.07.1993 n. 7481) hanno affermato che, in questo caso, il contratto non è semplicemente inefficace, ma è inesistente perché il comproprietario, promittente venditore, non ha un potere di disposizione delle altre quote, con la conseguenza che non è ammissibile l’azione ex art. 2932 c.c. b) In relazione all’ipotesi in cui un coniuge abbia promesso in vendita un bene che forma oggetto di comunione legale, senza il consenso dell’altro coniuge, la giurisprudenza ha innanzitutto sottolineato che la comunione legale, a differenza della comunione ordinaria, non è una comunione per quote. Nella comunione legale, il concetto di quota rileva solo per indicare la misura entro la quale i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari di ciascun coniuge, nonché la porzione dei beni spettante a ciascuno al momento dello scioglimento. Per la comunione legale l’art. 180 c.c. prevede che, a differenza degli atti di ordinaria amministrazione, gli atti di straordinaria amministrazione (tra i quali rientra il preliminare di vendita immobiliare) devono essere compiuti 16 congiuntamente da entrambi i coniugi. Il consenso dell’altro coniuge non ha natura di atto autorizzativo che attribuisce un potere dispositivo al coniuge stipulante, ma ha l’effetto di rimuovere un limite all’esercizio del potere di disposizione dell’intero a quest’ultimo spettante. Pertanto, l’atto di disposizione (e quindi anche la promessa di vendita) di un bene della comunione legale, compiuto da un coniuge senza il consenso dell’altro, non è inefficace, bensì semplicemente annullabile ex art. 184 c.c. Dalla semplice annullabilità del contratto discende che lo stesso è efficace fino al momento in cui il coniuge pretermesso non agisca per ottenerne l’annullamento entro il termine di un anno dalla conoscenza dell’atto, dalla trascrizione dello stesso, ovvero dallo scioglimento della comunione (art. 184 comma 2 c.c.), per cui la giurisprudenza ritiene ammissibile l’azione ex art. 2932 c.c. fino a quando il preliminare non venga annullato. Tale soluzione è stata implicitamente accolta dalle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 17952/2007) che, occupandosi di un profilo processuale attinente alla necessaria partecipazione del coniuge pretermesso, quale litisconsorte necessario, al giudizio ex art. 2932 c.c., ne hanno ammesso la relativa azione nella fattispecie de qua. Un’ultima questione giurisprudenziale, che merita di essere segnalata, riguarda la prassi, invalsa soprattutto nelle compravendite immobiliari, riguardante il c.d. preliminare di preliminare. In particolare, si è posto il problema di stabilire se sia valido e vincolante l’accordo, concluso nel corso delle trattative e antecedente alla stipula del vero e proprio preliminare, con cui le parti si impegnano a concludere un successivo contratto preliminare. 17 La questione ha ricevuto risposte diverse in giurisprudenza, in quanto, mentre una parte minoritaria di essa ammette che anche questa forma di accordo sia valida ed impegni le parti alla conclusione del successivo iter negoziale, l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, seguito dalla prevalente dottrina, ritiene inefficace il preliminare di preliminare, dal momento che l’ordinamento prevede, quale strumento di controllo delle sopravvenienze, prodromico al contratto definitivo, il solo contratto preliminare, senza conoscere altre forme negoziali che costituiscano, in una fase ancora antecedente, dei vincoli obbligatori alla conclusione del preliminare. Peraltro, dalla soluzione della questione dipende il riconoscimento o meno del diritto del mediatore ad ottenere il pagamento della provvigione. Infatti, soltanto se si ritiene che il preliminare di preliminare abbia natura di negozio giuridico vincolante per le parti, dovrà ritenersi integrata quella conclusione dell’affare, cui l’art. 1755 c.c. riconduce il sorgere del diritto del mediatore alla provvigione. Se, invece, seguendo l’orientamento maggioritario, si ritiene che il preliminare di preliminare non abbia un valore giuridico vincolante, esso non darà luogo ad un affare concluso, con la conseguenza che il mediatore avrà diritto alla provvigione soltanto se e quando le parti addiverranno alla stipula del contratto preliminare. 18