Einstein tra “anarchismo epistemologico” e unità del

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Einstein tra “anarchismo epistemologico” e unità del
sapere
Matteo Settura
Il dibattito intorno allo statuto epistemologico della relatività einsteiniana appare, almeno a chi abbia
intenzione di considerarne le profonde implicazioni storico-concettuali, lontano da una soluzione
univoca. Einstein stesso ha riconosciuto talvolta, riflettendo sul proprio lavoro di scienziato, una sorta
di fecondo “anarchismo epistemologico” 1 che finisce necessariamente per confondere lo studioso di
filosofia che vi si accosti:
Non appena l’epistemologo, nella sua ricerca di un sistema chiaro, riesce ad aprirsi la via verso di
esso, è portato a interpretare il contenuto di pensiero della scienza secondo il suo sistema, e a
rifiutare tutto ciò che al suo sistema non si adatta. Lo scienziato, però, non può spingere fino a
questo punto la sua esigenza di una sistematica epistemologica; ma le condizioni esterne, che per
lui sono date dai fatti dell’esperienza, non gli permettono di accettare condizioni troppo
restrittive, nella costruzione del suo mondo concettuale, in base all’autorità di un sistema
epistemologico. È inevitabile, quindi, che appaia all’epistemologo sistematico come una specie di
opportunista senza scrupoli: che egli appaia come realista, poiché cerca di descrivere il mondo
indipendentemente dagli atti della percezione; come un idealista, poiché considera i concetti e le
teorie come libere invenzioni dello spirito umano (non deducibili logicamente dal dato empirico);
come un positivista, poiché ritiene che i suoi concetti e le sue teorie siano giustificati soltanto
nella misura in cui forniscono una rappresentazione logica delle relazioni tra esperienze
sensoriali. Può addirittura sembrargli un platonico o un pitagorico, in quanto considera il criterio
di semplicità logica come strumento indispensabile ed efficace della sua ricerca 2.
Fin dal momento della prima diffusione della teoria della relatività, d’altra parte, i tentativi di salutare
la rivoluzione che essa rappresentò come “svolta” in una direzione o in un’altra del territorio
1
Con questa espressione intendiamo affatto accostare il pensiero einsteiniano all’epistemologia di Paul Feyerabend, ma
semplicemente definire in maniera la posizione espressa da Einstein, mettendone in evidenza l’irriducibilità. Per un
confronto tra l’“anarchismo epistemologico” einsteiniano e quello di Feyerabend si veda F. Selleri-V. Tonini (ed.), Dove
va la scienza: la questione del realismo, Dedalo, Bari 1990, pp. 14 ss.
2
A. Einstein, “Replica alle osservazioni di vari autori”, in P.A. Schlipp (ed.), Albert Einstein scienziato-filosofo (1949),
Bollati Boringhieri, Torino 1958, pp. 609-35, p. 630.
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epistemologico furono numerosi e contrapposti. Si pensi solo alle ben note letture di Moritz Schlick3
e Hans Reichenbach 4 , incentrate sul superamento definitivo da parte di Einstein del paradigma
aprioristico-trascendentale kantiano, e si consideri quanto diverga da esse la lettura “neo-kantiana” di
Ernst Cassirer 5 , che vede in Einstein un esponente del lignaggio gnoseologico eminentemente
moderno caratterizzato dalla progressiva sostituzione del concetto di sostanza con il concetto di
funzione. Torneremo più avanti su queste due letture, sebbene in questa sede non vi sia spazio per
tentare di dirimere la questione. Vorremmo solo limitarci a chiarificare alcuni elementi che ruotano
attorno all’anomalia epistemologica einsteiniana.
L’«inattualità» di Einstein
Come noto, la teoria di Einstein ha ingenerato una radicale riformulazione dei concetti fondamentali
della fisica moderna. Questa fecondità trasformativa dipende tuttavia da una precisa idea di scienza
che si distacca di molto dalle coordinate filosofiche dominanti dell’epoca. A questo proposito, Jürgen
Renn ha parlato di «inattualità»6 di Einstein: egli si muove su un piano di non-contemporaneità, tanto
rispetto al neokantismo accademico quanto al positivismo della sua epoca. Ciò che contraddistingue
il percorso einsteiniano è infatti innanzitutto, una visione del mondo scientifica 7. A nostro avviso,
occorre soffermarsi appunto sul significato di questa espressione: essa non indica l’opzione
preliminare per una determinata posizione “filosofica” – sia essa un’assunzione consapevole o basata
su presupposizioni inindagate. La wissenschaftliche Weltanschauung di Einstein consiste piuttosto in
una concezione critico-sistematica del compito scientifico nel suo rapporto alla totalità del sapere. Il
lavoro dello scienziato si inserisce nella prospettiva unitaria del sapere umano e partecipa ad un
compito di rischiaramento il più possibile completo e condiviso. La lotta contro il mito, che è parte
integrante del compito di rischiaramento complessivo, è per Einstein innanzitutto lotta contro la
“mitologia scientifica”, che vorrebbe ridurre la comprensione del mondo e dell’uomo alla sua
prospettiva particolare 8. Il sapere scientifico non si pone quindi, in Einstein, come impresa parziale
3
M. Schlick, Spazio e tempo nella fisica contemporanea. Una introduzione alla teoria della relatività e della gravitazione
(1922), Bibliopolis, Napoli 1979.
4
H. Reichenbach, Filosofia dello spazio e del tempo (1928), Feltrinelli, Milano 1970.
5
E. Cassirer, Teoria della relatività di Einstein. Considerazioni gnoseologiche (1921), Newton Compton, Roma 1981.
6
J. Renn, “Sull’utilità della filosofia per la fisica: Einstein e la nascita della relatività generale”, in G. Pisent, J. Renn,
L’eredità di Einstein, Il Poligrafo, Padova 1994, pp. 113-33, p. 128.
7
Cfr. ibi, p. 125-26.
8
Con “mitologia scientifica” intendiamo quel particolare atteggiamento dogmatico e proprio del senso comune
contemporaneo, molto diffuso oggi anche per mezzo di particolari strategie comunicative, che consiste nel considerare la
scienza e, soprattutto i suoi “risultati” (divulgati in maniera più o meno corretta), come racconti inconfutabili, appartenenti
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che ascrive a sé, in una decisione totalizzante-totalitaria, tutti gli aspetti del conoscere.
Questa intuizione del mondo scientifica, lungi dal costituire una “divagazione filosofica” o
un’opinione accessoria slegata dal contenuto vero e proprio delle teorie (come alcuni sembrerebbero
considerarla), costituisce al contrario il motore interno e l’intima coerenza del percorso teorico di
Einstein. Il movimento costante di questo percorso è infatti la riflessione sul significato dei singoli
risultati delle branche particolari della fisica in rapporto alla fisica come totalità da realizzare. Ciò
implica, da un lato, un’eccezionale padronanza dei concetti e dei risultati specialistici, dall’altro, il
riconoscimento di questi stessi risultati come, appunto, “parziali”, bisognosi di una continua opera di
mediazione capace di reintegrarli in una prospettiva totale. Al contrario, una visione prettamente
specialistica tende necessariamente a cristallizzare il risultato scientifico in un “dato di fatto” per
conferire sensatezza al proprio stesso operare, isolandolo dalle sue relazioni con l’intero.
In questo senso, dunque, la trasformazione concettuale conseguita dalla teoria della relatività è legata
a doppio filo con l’idea di scienza di Einstein: la revisione del paradigma, almeno nel caso della
relatività, è legata allo sforzo di integrazione del particolare risultato con il sapere come unità che non
intende lasciare fuori di sé nessuna parte, nessun “dato di fatto” o “presupposizione” non giustificata.
Ma questa è appunto una visione critico-sistematica del compito scientifico, la quale a sua volta
necessariamente si riflette sul problema di come dovrebbe essere costruita una “buona” teoria,
legando la dimensione pratica e la dimensione teoretica. A sua volta, infatti, l’unità della fisica non
coincide con “tutto quello che c’è”, ma è una parte del processo di rischiaramento che, di nuovo,
necessita di essere considerata attraverso di esso e in esso integrata.
A dispetto quindi di quanto potrebbe risultare a un primo sguardo, la dichiarazione einsteiniana di
“anarchismo epistemologico” non si muove nella beffarda e un po’ puerile spensieratezza della
gioiosa sottomissione al “dato di fatto”, in cui galleggiano alcuni scienziati e molti divulgatori odierni,
i quali contrappongono, secondo una strategia discorsiva per giunta di origine eminentemente
filosofica, il “sapere” e la “scienza” degli “scienziati” alla “retorica” o alla “sofistica” dei “filosofi”.
Al contrario, l’inassegnabilità epistemologica di Einstein è legata ad un’idea di scienza che ha le sue
radici nell’idealismo tedesco e nell’idea del sapere come sistema, ed è dunque, già nell’aetas
einsteiniana, del tutto «inattuale» nel senso nietzscheano: quello di una feconda, creatrice,
incommensurabilità alla propria epoca (così come alla nostra). Lungi dal risolvere il problema,
tuttavia, questo inquadramento lo rilancia: in che senso, infatti, questa anarchia è compatibile con
un’idea così classica del sapere? O, più semplicemente, le due sono davvero compatibili?
ad una sfera non contestabile, non criticabile e, dunque, in ultima istanza non spiegabile né comprensibile razionalmente,
ma tale da essere oggetto di una credenza “oracolare” e di una adesione puramente passiva da parte dei soggetti.
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L’attenzione all’epistemologia
Per porre la questione in maniera adeguata, occorrerebbe insistere sulla distinzione accennata più
sopra: quella tra la prospettiva specialistica, che tende necessariamente a cristallizzare il risultato
parziale, e la prospettiva critico-sistematica, che integra il parziale nel dinamismo della totalità. Come
abbiamo suggerito, il cuore della distinzione si trova nella dimensione soggettiva che si trova sottesa
all’operare scientifico. L’attività dello scienziato, come ogni attività umana in generale, implica il
versante soggettivo di un «conferimento di senso» senza il quale essa semplicemente non è 9. Quale
che sia l’“idea” che il ricercatore “si fa” sulla propria disciplina, sia questa idea più o meno rigorosa,
più o meno vasta, e, a maggior ragione, sia anche completamente inconsapevole e implicita, essa è
nondimeno presente nel corso del suo operare e lo condiziona. Sarebbe errato intendere sempre questo
condizionamento come l’intrusione di un’inclinazione arbitraria che inficia i risultati di questo
operare: come detto, infatti, il versante soggettivo è ineliminabile e necessario. Nondimeno, nella
misura in cui il senso del proprio fare resta opaco e non chiarito, esso condurrà necessariamente a
fraintendere il risultato del fare stesso.
Le diverse “posizioni epistemologiche” che Einstein elenca e attraversa nel passaggio che abbiamo
citato, sono altrettante prese di posizione connesse a questo necessario «conferimento di senso». In
altre parole, il conferimento di senso soggettivo e la posizione epistemologica, soprattutto se implicita,
sono strettamente collegati. Così, come abbiamo detto, lo scienziato che vive la sua attività come
contributo specialistico ad un determinato campo, separato o addirittura indifferente rispetto agli altri,
sarà condotto a considerare i suoi risultati come “dati di fatto” nella prospettiva che potremmo
chiamare “realismo ingenuo”. Questa posizione epistemologica, a sua volta e tanto più nella misura
in cui resta implicita, rischia di rendere impossibile la composizione dei singoli risultati all’interno di
una totalità sistematicamente integrata. Non esistono dunque posizioni epistemologiche
“praticamente neutrali”, che cioè non siano connesse con una determinata idea del compito dello
scienziato e del significato dell’impresa scientifica in generale, e in particolare il sopracitato
“realismo ingenuo” si trova connesso con una idea di scienza che tende verso la mitologia scientifica.
L’“anarchismo epistemologico” einsteiniano non costituisce una testimonianza di indifferenza alla
problematica epistemologica, ma, al contrario, una spia della costante attenzione che Einstein rivolse
alle conseguenze epistemologiche delle proprie teorie e ai problemi che esse avrebbero sollevato,
riguardanti il conoscere in senso pieno 10. Se dunque l’opera di Einstein non si lascia “catturare” dallo
sguardo del filosofo, pronto a mettere in risalto i presupposti concettuali implicati nelle singole teorie,
è perché Einstein stesso si pose fin dall’inizio e con sempre maggiore consapevolezza il problema di
9
Si rimanda a questo proposito e per le considerazioni che seguono al fondamentale E. Husserl, La crisi delle scienze
europee e la fenomenologia trascendentale (1959), Il Saggiatore, Milano 2008.
10
Basti a tal proposito, oltre agli elementi già introdotti, citare un’affermazione risalente agli ultimi anni della vita di
Einstein: «la scienza senza epistemologia, se pure si può concepire, è primitiva e informe».
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integrare i risultati sperimentali con i presupposti concettuali: senza fissare in maniera pregiudiziale
una gerarchia tra questi due versanti indispensabili del sapere scientifico. In questa prospettiva, è
appunto l’autochiarificazione dell’idea di scienza come costruzione intersoggettiva, che realizza
tramite la mediazione e la riflessione una sempre maggiore integrazione del sapere inteso come unità
sistematica, a rendere necessaria e irrinunciabile questa “motilità” epistemologica.
Il punto di vista critico-sistematico, la necessità di non lasciare alcun elemento “esteriore”, in forma
di mera presupposizione rispetto alla teoria stessa, implica l’attraversamento delle diverse posizioni
– ma questo attraversamento, non essendo mai realizzato una volta per tutte, non conduce ad una
presa di posizione definitiva: essa coinciderebbe con una integrazione totale, la quale non è mai
garantita in partenza, ma neanche costitutivamente impossibile. Le perplessità di Einstein rispetto alla
fisica quantistica nella forma fondamentale conferitale da Bohr e Heisenberg dovrebbero, a nostro
avviso, essere lette in questo senso e su ciò torneremo a breve.
D’altra parte, che questo motivo critico-sistematico fosse l’elemento centrale del percorso
einsteiniano emerge innanzitutto dal progressivo allargamento della relatività in direzione della
«teoria del campo totale» 11. Sfortunatamente, proprio questo sforzo di integrazione culminante nel
tentativo “fallimentare” che occupò gli ultimi trent’anni della vita di Einstein è oggetto oggi di una
vasta, anche se non completa, damnatio memoriae. Al di là del suo contenuto, che qui non siamo in
grado nemmeno di accennare, questo esito ultimo del percorso, che rivela ampiamente, nel suo
progetto, il carattere della einsteiniana intuizione scientifica del mondo, sembra essere obliato, ben
più che in alcune ipotesi particolari, nel suo senso complessivo. Quest’ultima circostanza parrebbe
un ulteriore indizio del fatto che in realtà si va proprio nella direzione opposta a Einstein, e che
l’inattualità che gli abbiamo ascritto rispetto alla sua epoca, vale a maggior ragione per quanto
riguarda la nostra.
La concezione dello spazio e del tempo
L’operazione fondamentale compiuta da Einstein è proprio la dimostrazione di come sia non solo
possibile, ma anche conveniente, dal punto di vista di una descrizione perspicua della natura,
rinunciare al presupposto newtoniano dello spazio assoluto e pensare tempo e spazio in termini
puramente differenziali. Secondo la posizione degli empiristi logici o neopositivisti viennesi suoi
contemporanei, con la sua scoperta Einstein pone fine al secolare dibattito tra relativisti ed assolutisti.
Oggi c’è chi afferma che la posizione newtoniana debba tornare ad essere una sfida per la relatività 12.
11
Su questo tema ci rifacciamo alle osservazioni del prof. Gianluigi Piardi, alcune delle quali sono riassunte
nell’intervento all’intero di questo volume.
12
R. Di Salle, Capire lo spazio-tempo. Lo sviluppo filosofico della fisica da Newton ad Einstein, Bollati Boringhieri,
Torino 2009.
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Non sono in grado di prendere posizione in questo dibattito, ma, se ci limitiamo alla relatività speciale,
Einstein sembra proporre un ritorno all’impostazione propria della filosofia classica, da Aristotele a
Leibniz, e dunque di uno spazio semplicemente relativo, inseparabile dal movimento. Se invece
consideriamo anche la relatività generale e poi il progetto di una teoria del campo totale, Einstein
propende piuttosto in ultima istanza per una rinuncia al concetto di spazio, troppo compromesso da
questa secolare contrapposizione, in direzione della nuova centralità del concetto di campo 13. Questo
percorso è riassunto nel detto einsteiniano secondo il quale la sua relatività toglierebbe «anche
l’ultimo residuo di oggettività fisica ai concetti di spazio e tempo».
Sorge tuttavia il problema seguente: in che senso a una “perdita di oggettività” può corrispondere una
“purificazione concettuale”? Sarà prima di tutto necessario, per far fronte a questa domanda, ripensare
in termini radicali i termini stessi dell’oggettività, distinguendo innanzitutto tra l’oggettività in quanto
«proprietà di essere-oggetto» e l’oggettività in quanto «struttura sempre di nuovo universalizzabile».
È chiaro che la perdita di oggettività va qui intesa nel primo senso, come conferma la classica
interpretazione di Moritz Schlick:
L’affermazione della relatività generale di tutti i moti e di tutte le accelerazioni è equivalente
all’affermazione della mancanza di oggettività fisica di spazio e tempo. Con l’una viene assicurata
anche l’altra. Spazio e tempo non sono misurabili per se stessi, essi costituiscono soltanto uno
schema di ordinamento, nel quale ordiniamo gli eventi fisici […] Un ordinamento non esiste di
per sé, esso ha realtà soltanto nelle cose ordinate 14.
Questa perdita di oggettività costituisce il superamento dello schema classico della fisica preeinsteiniana, per il quale lo spazio mantiene le sue prerogative indipendentemente dalla materia. Al
contrario, da Einstein in poi «lo “spazio” è possibile solo quando è presente la materia, e questo
determina le sue qualità fisiche» 15. Siamo quindi di fronte alla «unità di spazio, tempo e cose». Con
una terminologia aliena a Schlick, potremmo definire questa una “de-reificazione” dello spazio e del
tempo. Ora, Schlick sottolinea come la strategia einsteniana, risponda ad una duplice esigenza: da un
lato, quella di carattere squisitamente fisico di rendere conto dell’equivalenza di massa inerziale e
massa gravitazionale, che nel sistema newtoniano si presenta come un mero “dato di fatto”; dall’altro,
all’esigenza tipica della «teoria della conoscenza»: quella della «sistematicità». Non sarà difficile
tuttavia mostrare che la prima esigenza, quella squisitamente fisica, è interamente riducibile alla
13
Si veda in proposito il fondamentale M. Jammer, Storia del concetto di spazio (1954), Feltrinelli, Milano 1979.
14
M. Schlick, cit., p. 76.
15
Ibi, p. 77.
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seconda: l’esibizione del mero “dato di fatto” dell’equivalenza tra massa inerziale e massa
gravitazionale non può soddisfare l’idea di fisica propria di Einstein, appunto perché in essa si fa
valere un’istanza, quella che sopra abbiamo indicato come “visione scientifica del mondo”, che non
può accontentarsi di lasciare valere tale fondamentale equivalenza sine ratio. Il motore interno
dell’impresa einsteniana non è comprensibile se si prescinde da quel fondamentale intento di
unificazione e integrazione sistematica che abbiamo sopra indicato.
Sottraendo realtà fisica allo spazio e al tempo, Einstein conferisce loro un’oggettività più alta, quella
di costrutti concettuali simmetricamente trasformabili in tutti i sistemi di riferimento e non soltanto
in quelli inerziali. Questa operazione, tuttavia, ha un carattere, che già si lascia intravvedere,
profondamente ambiguo. Precisamente dalla sopracitata “perdita di oggettività” è anche possibile
delineare l’ambiguità fondamentale che sorge dalla trasformazione einsteiniana: tramite una critica
dei fondamenti osservativi della scienza naturale condotta sulla base di un criterio non metafisico né
metodologico in senso classico, bensì operazionale, egli perviene ad una purificazione concettuale
che riformula in maniera radicale la “teoria quadro” della fisica moderna. Questa purificazione, a sua
volta, tende ad una “de-reificazione” degli elementi decisivi interni alla teoria quadro stessa. È
precisamente a questa ambiguità che si può agganciare la lettura neokantiana di Cassirer, il quale ha
buon gioco nel mostrare che il distacco radicale, ingenerato dalla relatività, tra spazio (o tempo)
psicologico-intuitivo e spazio (o tempo) fisico va precisamente nella medesima direzione seguita
dalla scienza e dalla ragione moderna nel suo complesso: quella di un progressiva “funzionalizzazione”
della Natura, di una progressiva dissoluzione della sostanza nella funzione. Lungi dal rappresentare
quindi una confutazione dell’estetica trascendentale kantiana, l’operazione einsteiniana costituirebbe
un ulteriore sviluppo in direzione di quella “purezza” trascendentale che, correttamente intesa, ha
poco da spartire con una spazio-temporalità detta “intuitiva” in senso solo psicologico. Il
“superamento del kantismo” assumerebbe così un volto molto particolare, che viene così descritto da
Paolo Vidali:
Il superamento dell’impostazione kantiana non avviene negando legittimità all’a priori, ma
moltiplicandone la correttezza assiomatica, garantendo di scegliere il sistema formale
assiomatizzato che meglio risponde alla verità empirica 16.
Il ruolo della critica
Ciò che è essenziale a questo percorso, e che pertanto non andrebbe mai dimenticato, è che esso si
mantiene costantemente nei termini di una critica dei concetti che orientano e strutturano la messa
16
P. Vidali, “La struttura dello spazio nel suo sviluppo epistemologico”, in G. Boniolo (ed.), Aspetti epistemologici dello
spazio e del tempo, Borla, Padova 1987, pp. 15-55, p. 47.
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alla prova sperimentale, e che pertanto l’esigenza di sistematicità è un’esigenza non meramente
speculativa, ma applicata all’esperire stesso, sebbene solo in quanto esperire scientificamente
strutturato. In questo senso, con la relatività si fa avanti una “de-naturalizzazione” dell’esperienza
scientifica che finalmente si rivela pienamente a se stessa in quanto “struttura concettuale” e si libera
dall’ingenuità di cui sopra. Quelle di Einstein non sono, né nelle ipotesi né nelle conclusioni, “teorie
filosofiche”, ma in esse si fa sentire un’esigenza che, almeno fino all’idealismo tedesco, è stata
avanzata soprattutto in filosofia: quella della completezza sistematica. Ciò che costituisce
l’eccezionalità del pensiero di Einstein è che tale esigenza di sistematicità faccia appunto tutt’uno con
una critica operativa e, ma su ciò torneremo in conclusione, con un compito etico.
Ecco che l’ambivalenza, che poteva apparire paradossale, si rivela essere una continuità: la
contraddizione tra punto di vista operativo-sperimentale e punto di vista teoretico-sistematico si
mostra come un pregiudizio proprio di quel “realismo ingenuo” che Einstein combatté. Al contrario,
una critica conseguente dei fondamenti osservativi rivela e rimanda all’esigenza sistematica e fa
tutt’uno con essa, ne fa appunto una prospettiva critico-sistematica. Questa osservazione permette,
d’altro canto, di affermare la distanza di Einstein anche da un'altra idea di scienza dominante nella
sua epoca. Alcuni scienziati si dedicavano, con iniziative del tutto isolate ed autoescludendosi in
misura maggiore o minore dalla scienza professionale, alla critica dei fondamenti di singole discipline.
Mach per la fisica, Poincaré per la matematica, Helmholtz per la geometria, et alii. Costoro saranno
fondamentali per lo sviluppo del pensiero di Einstein. Ma la loro critica era appunto una critica che
si rivolgeva per lo più ai fondamenti di singole discipline. Nessuno di essi poteva intraprendere un
percorso di radicale messa in questione della scienza nella sua totalità, guidata dall’interrogativo
intorno al sapere scientifico considerato nel suo complesso in relazione al suo compito, al suo
significato e al suo senso in rapporto all’umanità. Essi stessi erano in ultima istanza un prodotto del
processo di specializzazione progressiva ingenerato dal positivismo.
L’esigenza sistematica: la teoria del campo totale
Rivenendo al pensiero di Einstein, occorre domandarsi: in che modo, dopo la fondamentale
rivoluzione costituita dalla relatività generale, si fa ancora sentire l’esigenza sistematica che guida il
suo percorso? Lo sviluppo del pensiero einsteiniano in direzione di una teoria del “campo totale”
sembra darci alcune indicazioni. L’«unità di tempo, spazio e cose» di cui sopra, non andrebbe appunto
intesa come un punto d’approdo sostanzializzante, ma proprio come una via d’accesso a quel concetto
di campo nel quale l’istanza sistematica che Einstein assegnava alla fisica e alla scienza in generale
avrebbe dovuto riconoscere un elemento decisivo. Se infatti, come osservato da Schlick, la relatività
significa la non-indipendenza dello spazio dalla materia che lo “occupa”, essa significa anche, per
eccellenza e correlativamente, la possibilità di ridurre questa stessa materia ad energia. Senza
addentrarci, per ragioni di spazio, nelle complicazioni ulteriori che il concetto di energia implica, in
particolare riguardo al rapporto con la tradizione filosofica, sarà sufficiente attestarsi su una
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osservazione semplice e a prima vista superficiale: il percorso einsteiniano, rispondendo nel suo
sviluppo all’esigenza sistematica, va in direzione di una critica radicale del concetto ingenuo di
“oggetto” che si trova (in molti casi ancora oggi) al cuore della fisica moderna. Questo concetto
implica una “discontinuità” che permetterebbe di determinare ciò che è “obbiettivamente esistente”,
cioè esistente indipendentemente dalla rappresentazione. Qualunque cosa sia, l’oggetto (ad es. la
particella) è dunque una “singolarità” nei pressi della quale il soggetto della conoscenza “incontra” il
reale. Nel contesto della suddetta «unità di spazio, tempo e cose», sulla base dello spazio-tempo di
Minkowski 17, la relatività tratta però «eventi» in un sistema quadridimensionale. Il “reale” sarebbe
dunque un “punto quadridimensionale” che rivela una discontinuità soltanto all’interno del
continuum quadridimensionale stesso. In che senso però, il pensiero einsteiniano tenderebbe a
risolvere questa discontinuità? Prima di rispondere a questa domanda, occorre mostrare in che senso
il concetto tradizionale di “particella” costituirebbe un problema per la concezione sistematica della
scienza che guida il pensiero di Einstein. Un esemplificazione di questa problematicità può essere
trovata in Bridgman:
I concetti di particella e di spiegazione sembrano in un certo senso incompatibili. Se si cerca di
spiegare perché la particella ha queste proprietà si è portati a fare assunzioni inconciliabili col
concetto di particella. […] Se ci capitasse di penetrare nella particella e ammettere che ha una
struttura, cesserebbe di essere una particella 18.
Il concetto di particella (in particolare in quanto inteso in contrapposizione a quello di onda) resiste
“per essenza” alla possibilità di spiegazione. Esso introduce, nelle sue ultime conseguenze, una
frammentazione del sistema della fisica che finisce per precludere l’accesso stesso al reale, almeno
se quest’ultimo viene definito nei termini della stretta correlazione tra realtà e completezza
sistematica che ritroviamo nel celebre articolo passato alla storia come EPR: «every element of the
physical reality must have a counterpart in the physical theory»19. Questa celebre affermazione è
stata considerata come una professione di fede filosofica da parte di Einstein, e conseguentemente,
insieme alle sue posizioni nel dibattito con Bohr, cassata come non del tutto pertinente. Tuttavia, ad
uno sguardo più attento, è chiaro che Einstein, nel famoso articolo, enuncia una vera e propria idea
razionale di scienza, più che una posizione “realista” in senso classico (oltre naturalmente al famoso
17
H. Minkowski, “Raum und Zeit”, in Jahresbericht der Deutschen Mathematiker-Vereinigung, BG Teubner, Leipzig
1909, pp. 75–88.
18
P. Bridgman, La critica operazionale della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 1969.
19
A. Einstein, B. Podolski, N. Rosen, “Can Quantum-Mechanical Description of Physical Reality be Considered
Complete?”, in Physical Review, 47 (1935), pp. 777-80.
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paradosso EPR che avrebbe a lungo occupato i quantistici). Egli non si contrappone alla meccanica
quantistica innanzitutto in quanto “realista”, ma in quanto scienziato preoccupato della
«completezza» sistematica della teoria che diveniva ormai dominante. Anzi, potremmo persino
azzardare, la sua posizione è “realista” solo nell’intento di opporsi al “realismo ingenuo” che
intravvede, nascosto, all’interno del positivismo dei suoi avversari. È dunque ancora una volta intorno
alla esigenza sistematica e razionale del conoscere scientifico che si organizza la strategia einsteiniana.
In questo senso, Einstein potrebbe essere giudicato a maggior ragione come un “razionalista”. E
tuttavia, se si confronta la sentenza appena citata con la dichiarazione di “anarchismo epistemologico”
di cui sopra, dobbiamo sicuramente chiarire il senso di questo “razionalismo”.
Il primato etico della razionalità
Einstein fu, come abbiamo visto più sopra, profondamente consapevole del divario che separava il
mondo dell’intuizione dal mondo esatto della fisica, e il suo concetto di realtà sta in perfetta continuità
con il processo di matematizzazione del reale che guida la scienza moderna. Egli dunque sembra
domandarsi innanzitutto se, nel modo di pensare i fondamenti osservativi, non si annidassero per caso
presupposizioni implicite derivanti dalla sfera intuitiva, che, in quanto non consapevoli, avrebbero
rischiato di creare dei controsensi nei risultati stessi delle osservazioni. Prima di rinunciare alle
possibilità di comprensione, egli preferiva distruggere e ristrutturare, anche in modo del tutto radicale,
i fondamenti osservativi stessi. Questo modo di procedere gli aveva permesso di raggiungere i risultati
della relatività speciale e generale.
In questo primato etico della razionalità, intesa ancora una volta come tensione alla completezza
sistematica, rispetto agli strumenti che permettono in una dato momento dello sviluppo storico della
scienza di raggiungerla e fissarla in una determinazione, consiste anche la chiave per comprendere il
senso della sua epistemologia, solo apparentemente aleatoria e “opportunista”. Si veda dunque come
le posizioni si rovesciano: è facile attribuire agli avversari teoretici di Einstein quel “realismo
dogmatico” del quale Einstein fu tacciato. Una insufficiente riflessione intorno ai fondamenti
osservativi, infatti, finisce necessariamente per far valere all’interno di essi delle presupposizioni
implicite che danno luogo a controsensi:
Consideriamo il paradosso, spesso citato, in cui un elettrone non ha individualità o identità. Il
paradosso scompare non appena non si considera più l’elettrone come un “oggetto”, ma come un
aspetto di ciò che accade in certe situazioni fisiche; si include nella situazione fisica tutta la
strumentazione per mezzo della quale l’elettrone è rivelato e misurato. In tali condizioni non ha
senso domandarsi se l’elettrone che noi osserviamo ora è lo “stesso” elettrone osservato un
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istante prima più di quanto non ne abbia chiedersi se il vento che rinfresca adesso le nostre
guance è lo stesso vento che soffiava ieri 20.
Se prendiamo sul serio questa paradossale indicazione di Bridgman, ci rendiamo conto di quanto il
concetto di “particella”, ad es., sia ancora legato ad una concezione “obbiettivistica” e
fondamentalmente connessa al senso comune, che induce quanto meno a sospettare dei concetti che
vengono impiegati per descrivere i risultati sperimentali. Di fronte al divario, che egli riconosceva,
tra la sfera del mondo intuitivo, la sfera del mondo reale-obbiettivo e la sfera delle leggi fisiche,
Einstein non si rifugiò semplicemente nella “arbitrarietà” di queste ultime, ma considerò il principio
della “completezza sistematica” come una bussola che permette di orientare e progressivamente
ridurre, in un continuo processo di determinazione, il divario stesso. Poiché ogni osservazione è
sempre costitutivamente una pratica e una tecnologia strutturata che implica determinati fondamenti
concettuali, prima di rinunciare alla comprensibilità dei suoi risultati, sarebbe necessaria una critica
pienamente razionale dei fondamenti implicati nella pratica e nella tecnologia osservativa stessa. È
così l’idea stessa di razionalità che emerge dall’istanza di completezza sistematica della scienza a
trovarsi completamente implicata nel processo di progressiva determinazione. Come sottolinea
Eftichios Bitsakis, il realismo ed il determinismo einsteiniano non si confondono con il “realismo
ingenuo” né con il determinismo meccanicistico. Si tratta piuttosto di un «realismo processuale» e di
un «determinismo dinamico», nel quale la razionalità è impegnata a determinare se stessa nel corso
dell’opera di determinazione del reale, dove quest’ultimo, a sua volta, non è inteso né come uno
statico “dato di fatto” né come un “nulla” la cui determinazione effettiva dipenderebbe in ultima
istanza da un arbitrio osservativo 21.
Il significato della scienza per l’uomo
Come abbiamo accennato sopra, questo atteggiamento è anche la conseguenza di una opzione etica
fondamentale intorno al significato del lavoro dello scienziato nei confronti dell’umanità.
er quanto si muova nei termini di una rigorosa distinzione tra la sfera intuitiva e la sfera speculativa,
o forse proprio in ragione di questo, il pensiero di Einstein si rifiuta di rinunciare ad un principio di
comprensibilità razionale senza il quale la scienza stessa cesserebbe appunto di essere pensiero. La
scienza, nella sua relazione essenziale all’unità del sapere, non può abdicare al proprio ruolo di
rischiaramento, pena la sua stessa autosoppressione in quanto scienza. Ciò rimanda, dal punto di vista
20
P. Bridgman, “Determinism in modern science”, in S. Hook (ed.), Determinism and Freedom in the Age of Modern
Science, pp. 57-75, p. 61.
21
E. Bitsakis, Basi della fisica moderna. La svolta neorealista nella fisica fondamentale, Dedalo, Bari 1992, in particolare
pp. 255-89.
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del soggetto che fa scienza, a quanto abbiamo detto sopra riguardo all’elemento del «conferimento di
senso» che va legato ad ogni attività umana in generale e a quella scientifica in particolare. Questo,
d’altra parte, non comporta l’introduzione di elementi soggettivi non pertinenti, ma piuttosto il
riconoscimento della scienza come attività umana e legata ai destini dell’umanità, invece che come
registrazione di risultati osservativi tra di loro sconnessi. Così, in conclusione, torniamo all’inattualità
di Einstein. All’epoca di Einstein era già tramontata da tempo, infatti, insieme all’idealismo tedesco,
e pareva ormai del tutto impossibile la riflessione sulla scienza in relazione al suo significato per
l’uomo che aveva avuto corso a partire da Kant, e poi con Fichte e Schelling e Hegel 22. Oggi la
possibilità di un controllo pragmatico della scienza come sistema sociale ha praticamente sostituito i
tentativi d’integrazione teoretica rivolti verso la creazione di un’immagine del mondo scientifica 23.
Come sottolinea Jürgen Renn, vi è oggi un tentativo di orientare in senso pratico la scienza attraverso
fondazioni private o pubbliche, tutte comunque ugualmente incuranti e insufficienti rispetto
all’esigenza di una riflessione sul senso complessivo della scienza in relazione all’uomo e alla vita.
L’esigenza interdisciplinare è lasciata ai filosofi o all’iniziativa estemporanea e spesso malvista del
singolo ricercatore e la divulgazione impedisce questa riflessione che dovrebbe essere pubblica e
rigorosa rivelandosi come la riconversione sistematicamente organizzata della scienza in una
mitologia scientifica. Einstein operava contrapponendosi attivamente a questa tendenza: egli non
aveva semplicisticamente alcune convinzioni e alcuni risultati che gli permettevano di rispondere a
piccoli problemi specialistici, ma innanzitutto una «immagine scientifica del mondo», una «capacità
di riconoscere i rapporti concettuali tra le spesso apparentemente disparate sottodiscipline della
fisica», già allora, una tale «immagine del mondo» era qualcosa di profondamente «inattuale»24. Egli
tentava di tenere insieme in un unico tentativo: a) contenuti della conoscenza scientifica; b) la
comunità scientifica come modello politico-morale; c) la scienza come rinnovata religione
(contrapposta innanzitutto alla mitologia scientifica).
Einstein si erge già unico con il suo incessante tentativo verso la mediazione e la riflessione della
totalità della fisica 25.
Matteo Settura
Università degli Studi di Padova
22
A questo proposito si veda W. Lefévre, “La raccomandazione di Max Talmey. L’esperienza formativa del giovane
Einstein”, in G. Pisent, J. Renn (eds.), cit., pp. 21-30.
23
J. Renn, cit., p. 127.
24
Ibi, p. 128.
25
Ibi, p. 131.
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