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Sviluppo tipico e atipico: normalità o patologia?
a cura di Roberta Casadio
La psicopatologia è quella materia che si propone di studiare in modo sistematico il disagio ed i disturbi della
psiche. Non è però semplice, in particolare nei primi anni di vita, definire tali manifestazioni, come e quando
comincino, terminino, e dove si collochino in modo da poterle trattare o prevenire. In età evolutiva ed adulta,
vi è la convinzione che lo sviluppo epigenetico prenda forma a seconda dell’ambiente con cui il bambino
viene a contatto e in questo senso l’individualità si forma come risultato della continua interazione tra
soggetto ed ambiente in costante cambiamento durante tutto l’arco di vita. Data la complessità e la
multifattorialità dei fenomeni della mente, emerge quanto sia difficile stabilire cosa si possa intendere per
normalità e se esista un preciso confine tra normalità e patologia, sopratutto in età evolutiva. Benessere e
disagio sono agli opposti di un continuum che è importante tenere in mente nel comprendere il
funzionamento umano in tutti i momenti di sviluppo, particolarmente in quelli di transizione come
l’adolescenza. Per determinare se un determinato fenomeno sia più o meno adattivo per il soggetto è anche
necessario capire cosa non lo sia, e quali siano i normali compiti di sviluppo durante tutto l’arco di vita.
Diverso infatti è il valore del segno che la famiglia o la scuola colgono e trasformano in segnale attribuendoli
un significato di indicatore di disagio, che al loro volta i professionisti trasformano in valutazione clinica
definendo così un quadro inteso come insieme di segni di disagio ricorrente in una certa cultura ad una certa
età.
Si potrebbe considerare con sufficiente certezza che il disagio nasca da un tentativo di difesa o di
adattamento del soggetto, fallito per eccesso o per carenza, o per inadeguatezza sulla base di una particolare
fragilità personale, o di particolari difficoltà ambientali o di incontro tra soggetto e ambiente in un particolare
momento. E’ altrettanto fondamentale comprendere le conseguenze a lungo termine di particolari pattern di
adattamento. Certi pattern che sembrano adattivi durante un certo periodo possono diventare essi stessi
maladattivi qualora persistano troppo a lungo impedendo così lo sviluppo di altri pattern più avanzati e
funzionali. Una delle difficoltà maggiori del clinico che si occupa dei primi anni di vita, consiste nel rischio
di confondere comportamenti adeguati alla tappa di sviluppo del bambino con la patologia e questo è reso
ancor più difficile in età evolutiva dove i pattern cambiano da contesto a contesto, da persona a persona e
molto velocemente (Achemnbach, 1993). La decisione relativa alla formulazione clinica in età evolutiva
richiede sempre di prendere in considerazione molti fattori e, salvo casi eccezionali, di rivedere il bambino o
i genitori più di una volta, per osservare il cambiamento rispetto ai segni lamentati, ai vissuti rispetto ad essi
e rispetto al nostro stesso intervento.
Il bambino cognitivo, sociale ed affettivo: alla ricerca di una teoria.
Nonostante i progressi empirici che sono stati fatti nel campo della salute mentale negli ultimi
decenni, manca una teoria omnicomprensiva che integri vari livelli di analisi che servo per comprendere lo
sviluppo del disagio. Le prime riflessioni teoriche risalgono alla seconda metà del XIX secolo con Darwin. Il
XX secolo è iniziato con la teoria psicoanalitica di Freud che ha dominato il campo per circa 50 anni. Come
è noto, tra le componenti corporee, la pulsione è stata posta da Freud quale punto di partenza
dell’organizzazione mentale del bambino per il percorso di realizzazione di una omeostasi caratterizzata
dall’investimento dell’energia libidica in oggetti diversi a seconda delle varie fasi di sviluppo.
La capacità di esprimere, riconoscere e gestire le emozioni è diventata a partire dagli anni Ottanta e Novanta
oggetto di una sempre crescente quantità di studi nell’ambito delle discipline psicologiche. Fino agli anni
sessanta ha dominato un interesse scientifico per quello che potremmo chiamare il bambino cognitivo,
definito in termini di capacità di costruire le fondamentali categorie del pensiero ed elaborare le informazioni
provenienti dall’ambiente. In Europa la massima influenza esercitata in questo approccio è stata esercitata da
Piaget, il cui interesse esplicito di natura epistemologica lo portava ad analizzare come, nel bambino, si
costruissero gli strumenti fondamentali dell’intelligenza e della coscienza del reale, dagli schemi sesomotori
dei primi 18 mesi alle operazioni formali dell’età adolescenziale e oltre. Dal mondo anglosassone è invece
pervenuto il modello dello Human Information Processing (Licklider, 1965), che ha concettualizzato lo
sviluppo in termini di progressivo ampliamento e di sempre maggiore efficienza del sistema di elaborazione
delle informazioni. L’immagine che emerge da questi studi è quella di un bambino alle prese con i problemi
relativi al mondo delle cose fisiche o al dominio delle relazioni logiche. A partire dagli anni settanta
principalmente per autori quali Bruner, Schaffer e Kaye nascono concezioni teoriche che rivalutano il ruolo
dell’ambiente sociale e delle relazioni interpersonali come parte integrante del processo di sviluppo.
L’interesse si sposta quindi sul bambino sociale, il quale viene studiato come individuo impegnato nella
costruzione di rapporti significativi, nell’acquisizione di regole comunicativo-interattive nonché di contenuti
della coscienza tipici della sua cultura di appartenenza. In questo approccio detto sociocostruttivista il
bambino è visto come intrinsecamente sociale fin dall’inizio, che però necessita di aiuti strutturati da parte di
adulti competenti per acquisire tutte quelle abilità necessarie alla interazione quotidiana con l’ambiente
circostante. L’interesse per gli aspetti psicologici legati alle dinamiche relazionali più profonde e durature
proviene dall’etologia e dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby (1976). Essa deriva dalla biologia nata per
studiare il comportamento animale ed è stata applicata alla specie umana, alla fine degli anni sessanta, ed
elaborata successivamente da autrici come Ainsworth, Main, Crittenden etc. in un’ottica più specificamente
psicologica. Tale approccio alla spiegazione dello sviluppo relazionale affettivo, ha innanzitutto enfatizzato
la predisposizione biologica all’uso precoce di segnali comunicativi per ottenere e mantenere la vicinanza
protettiva dell’adulto e successivamente ha elaborato un modello che vede la costruzione del legame di
attaccamento non solo come mezzo di sopravvivenza psicofisica, ma anche come prototipo delle relazioni
interpersonali (vita affettiva ed esperienze sociorelazionali) che ogni individuo stabilirà con i membri della
propria specie (Bowlby, 1975; 1976; 1983). Bowlby ha quindi parlato di un bisogno di protezione da parte
del mondo esterno che si concretizza nei Modelli Operativi Interni, cioè particolari rappresentazioni su base
interattiva caratterizzate da componenti affettive e cognitive che hanno la funzione di guidare il soggetto
nella sua esplorazione-azione del mondo circostante e nell’instaurazione di aspettative su di sé, gli altri e la
relazione sé-altri. Durante lo sviluppo, le diverse rappresentazioni si organizzano nella formazione della
mente come insieme di attività psichiche in una dinamica affettivo-relazionale che ne determina contenuti e
forma.
Il corpo e la mente tra vulnerabilità, rischio e resilienza
Il cervello costituisce il supporto biologico della organizzazione più complessa della mente. Mente e
corpo sono interconnessi e interdipendenti durante tutto l’arco di vita. E’ necessario quindi comprendere la
reciproca integrazione di meccanismi biologici e psicologici coinvolti nello sviluppo del disagio psichico e
quindi di sviluppare una formulazione che consideri i diversi fattori di sviluppo di e che li metta in relazione
tra loro (Pennington, 2002). Consideriamo per esempio un bambino con profonda tristezza. Secondo la
prospettiva biologica, il clinico ricercherebbe la spiegazione di tale condizione nei recettori dei
neurotrasmettitori, mentre uno psicologo potrebbe ricercare una spiegazione nelle differenze di stile di
attaccamento sviluppato nella prima infanzia. Ci sono diversi modi di pensare agli stessi fenomeni clinici, e
tali modi non entrano per forza in collisione. Al contrario, potrebbero essere complementari, ognuno dei
quali opera ad un diverso livello di analisi. Comunque, sia per la prospettiva biologica che per quella
psicologica pensare a come queste due spiegazioni si relazionano a vicenda non è così scontato e questo
paradigma sta emergendo solo di recente. E’ infatti importante realizzare che oggi è auspicabile risolvere il
dualismo cervello-comprtamento, o mente-problemi fisici. Non è abbastanza dare una spiegazione di un
fenomeno solamente in termini di costrutti mentali o psicologici. Allo stesso tempo, dare spiegazioni solo in
termini di variabili celebrali sarebbe riduzionistico e non esplicativo poiché rimarrebbe l’incognita di come
tali differenze a livello neurobiologico portano a cambiamenti a livello fenomenologico. Il problema di tale
dualismo risiede nel fatto che molti costrutti mentali siano di frequente studiati senza considerate come essi
siano implementali a livello celebrale. Ecco un esempio di come sia necessaria la integrazione tra costrutti
psicologici e variabili celebrali: come la personalità di un individuo influenza le sue risposte a degli stimoli
misurate attraverso la risonanza magnetica funzionale (Canli, e colleghi, 2001). In questo studio sono state
considerate due dimensioni di personalità: estroversione (es. tendenza ad essere socievole ed ottimista) e
nevroticismo (tendenza ad essere ansioso e socialmente insicuro). I soggetti del primo gruppo tendevano ad
avere più elevate risposte celebrali agli stimoli positivi rispetto alle persone con bassi livelli di estroversione.
I soggetti con alti livelli di nevroticismo tendevano ad avere più elevate risposte celebrali verso stimoli
negativi. In questo caso è interessante vedere come un costrutto psicologico (personalità) media delle
funzioni celebrali definite in risposta ad stimoli emozionali negativi e positivi. Ancora una volta emerge
come il costrutto psicologico non può influenzare il comportamento senza prima determinare le funzioni
celebrali. Una spiegazione integrata deve prendere in considerazione come fattori biologici e psicologici
influenzino le funzioni del soggetto.
La relazione mente e corpo è in costante cambiamento, condizionata da vari fattori che presentano momento
per momento un impatto diverso sullo sviluppo delle funzioni e dell’individuo a seconda delle condizioni
ambientali. Osserviamo attraverso la clinica e gli studi longitudinali che esistono dei bambini che di fronte
alle stesse situazioni ambientali hanno capacità significativamente maggiori o minori di sviluppare una
psicopatologia (Anthony 1974; Mastern, 1989; Mastern, Best e Garmezy, 1990). Si parla di Vulnerabilità
intendendo una minore resistenza a tutto ciò che può nuocere il soggetto; è in continuo cambiamento e può
essere definitiva o temporanea, immediata o differita, e riguardare tutto l’individuo o solo alcuni suoi aspetti.
Vi sono una soglia ed un livello di vulnerabilità che rappresentano la risultante di fattori genetici ed
ambientali incorporati nell’individuo che ne costituiscono, momento per momento, le competenze. La
nozione di invulnerabilità fa invece pensare a meccanismi più rigidi, che permettono all’individuo di
costruirsi una corazza difensiva intorno a sé con cui resistere alle avversità; si tratta di una difesa ad oltranza
che non lascia emergere i bisogni nascosti, i quali sono alla base di non rari ed improvvisi scompensi.
Si cerca di evitare l’insorgenza di problemi psichici, o per lo meno di limitarne la gravità, mettendo in atto
misure che riducano i fattori di rischio e rilevando gli indicatori precoci di disagio. I fattori di rischio
possono essere collegati al bambino e/o all’ambiente. Alcuni di questi bambini pur in situazioni ambientali
difficili, riescono a superare brillantemente le difficoltà, mostrano cioè una resilienza, vale a dire la capacità
di resistere ai fattori negativi, e di stress fino a compiere una metamorfosi del dolore fisico e psichico.
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