Istituto Alti Studi per la Difesa Petrolio ed Energia tra Politica e

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y:\iasd\area consultazione 66^\66^ sessione\seminari\5° seminario sistema paese\clo'\relazione alberto clo' iasd.docx Petrolio ed Energia tra Politica e Mercato Prof. Alberto Clò Roma, 26 febbraio 2015 Istituto Alti Studi per la Difesa 1 Il groviglio di tensioni geopolitiche come mai accaduto in passato in
aree energeticamente critiche (Irak, Iran, Libia, Yemen, Russia-Ucraina,
Nigeria); il moltiplicarsi di azioni di terrorismo del fondamentalismo
islamico contro impianti e infrastrutture energetiche; l’utilizzo del metano
come arma di pressione politica (Russia), sono alcune delle ragioni che
hanno riproposto all’attenzione generale la questione della sicurezza
energetica e lo stretto nesso che la lega alle relazioni internazionali,
all’economia, alla sovranità degli stati, .
L’orologio della storia sembra tornato ai tempi che precedettero e
seguirono la prima guerra mondiale; al famoso discorso che nel 1913
Winston Churchill, Primo Lord dell’ammiragliato, tenne alla Camera dei
Comuni, dopo la decisione di impiegare la nafta nella flotta inglese, in
luogo del carbone, per battere in velocità quella tedesca, ove sostenne
conforza la criticità che la «questione petrolifera» avrebbe assunto per la
stessa sopravvivenza della nazione britannica.
A suo avviso, la Gran Bretagna doveva divenire ««proprietario
diretto e produttore indipendente dei suoi propri approvvigionamenti di
petrolio». Quel che avvenne con l’acquisto dell’Anglo-Persian Oil Cy., dal
1954 British Petroleum, che deteneva in un’unica concessione ogni diritto
di sfruttamento del petrolio in Iran. Quanto a come accrescere la sicurezza
energetica la risposta di Churchill fu «Safety and certainty in oil lie in
variety and variety alone».
Da allora, gli Stati moderni hanno considerato l’energia come bene
specifico per la sua rilevanza nello sviluppo delle economie; nei rapporti di
forza internazionali; nella “difesa e sicurezza nazionale” Da qui, il
convincimento che le scelte non potessero essere delegate al mercato, alle
grandi corporazioni private, agli Stati esteri da cui si dipendeva. Ragione
ed obiettivo delle “politiche energetiche” dovevano essere la salvaguardia
della sovranità nazionale e di “interessi superiori” che solo gli Stati
potevano tutelare. Un convincimento che si consolida nei circoli militari
prima ancora che nelle élites governative, sul presupposto che il nuovo
“ordine internazionale” che andava a prefigurarsi e che ascesa o declino
delle potenze, dipendesse dal disporre di energia in modo sicuro, nelle
quantità/qualità necessarie, a prezzi equi.
Con il petrolio, lo sviluppo economico, prima basato sugli utilizzi di
carbone di origine interna, si disgiunge dalla proprietà della fonte di
energia su cui più si incardinava il suo futuro. Distribuzione geopolitica
della domanda e dell’offerta tendono vieppiù a divaricarsi. I paesi che
2 dominano sul piano industriale vedono ridursi la loro autonomia su quello
energetico: derivandone rischi di vulnerabilità e di inquietante sudditanza.
Col petrolio, l’energia cessa, in sostanza, di essere fatto essenzialmente
economico per divenire motivo e arena di scontro politico tra gli Stati per
acquisire il controllo delle risorse petrolifere, accrescere la sicurezza dei
rifornimenti, consolidare la propria potenza.
Questo è valso per gli Stati Uniti, che nel 1945 affermano il proprio
dominio nell’area medio-orientale, ma anche per l’Europa. La rilevanza
strategica dell’energia – ieri come oggi – spiega il particolare status che ha
avuto nella costruzione dell’edificio europeo. Nonostante l’energia abbia
riguardato i primi atti fondativi dell’Unione Europea – con l’istituzione nel
1951 della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) nel
1957 dell’Euratom del 1957 – essa è rimasta fino a tempi recenti, e in parte
ancora, formalmente estranea alle politiche europee, specie alla sua
politica estera, dove in alcun momento è parso delinearsi un comune
sentire ed un comune agire.
L’energia è sempre stata considerata altro. Un convincimento che si
rafforza dopo le crisi petrolifere degli anni Settanta quando il mondo
occidentale è messo sotto scacco dall’embargo dei paesi arabi con prezzi
del petrolio schizzati da 2,5 a 40,0 doll/bbl (di allora). Quelle crisi
significano anche l’affermarsi di un «nuovo ordine internazionale»: con
una re-distribuzione della ricchezza dal Nord al Sud del mondo ed un
parallelo ridursi della supremazia degli Stati Uniti e delle altre maggiori
potenze occidentali nel controllo delle risorse petrolifere.
A quelle crisi l’Occidente risponde con prontezza e determinatezza.
In sei mesi il governo francese di Jacques Chirac, col pieno sostegno del
Parlamento e del paese, lanciò e sovvenzionò il più grande piano di
costruzione di centrali nucleari – circa 60 – con l’obiettivo tutto politico di
azzerare l’impiego del petrolio nella generazione elettrica: così da rendere
la Francia indipendente nella forma di energia su cui si sarebbe basato il
suo progresso.
La convergenza e l’intensità delle politiche occidentali avrebbero
portato ad un riequilibrio dei mercati, con prezzi del petrolio che
recuperano dalla metà degli anni Ottanta i livelli reali pre-crisi, favorendo
la più lunga fase espansiva del secolo scorso. Allo spettro della scarsità
energetica si sostituiva il mito di una ritrovata abbondanza, anche in
relazione allo sgretolarsi dell’Unione Soveitica. L’effetto fu di far
prevalere nelle politiche pubbliche dalla fine degli Novanta la filosofia del
3 mercato, sulla base di una duplice illusoria convinzione: che le cause di
quelle crisi fossero strutturalmente venute meno e che l’intervento dello
Stato avesse perso ogni ragion d’essere.
Riforme in senso liberale portano alla riduzione dell’intervento
pubblico nella comune idea che l’energia non presentasse alcun elemento
di specificità rispetto ad ogni altra commodity, merce, servizio. Che unico
compito degli stati fosse dar spazio al mercato nel convincimento che
fosse in grado di soddisfare ogni interesse generale, inclusa la sicurezza
energetica. Alla dimensione politica dell’energia, si sarebbe sostituita una
duplice priorità: completamento del mercato interno e questione
ambientale.
L’insieme di queste illusioni svanisce col Nuovo Millennio per due
ordini di ragioni: (a) politiche: l’attacco terroristico alle Twin Towers di
New York dell’11 settembre 2001; le reazioni americane all’«Asse del
Male» (Irak, Iran, Libia) denunciato dal George W.Bush Jr. nel discorso
sullo Stato dell’Unione del 29 gennaio 2002; la Guerra del Golfo del 2003;
(b) economiche: con la nuova esplosione dei prezzi del petrolio – dai 19,0
doll/bbl del 1999 a punte nel 2008 prossime ai 150,0 doll/bbl del 2008 –
dietro la pressione della domanda di energia dei paesi emergenti cui
l’offerta faticava a tener dietro.
Scoppia una nuova crisi: per la saturazione della capacità produttiva
disponibile di petrolio; la sua concentrazione nei paesi del Golfo Persico;
l’azzeramento di ogni margine di flessibilità nei flussi internazionali.
L’insostituibilità a breve di ogni barile di petrolio o metro cubo di metano
rafforzava il potere negoziale dei paesi produttori, con un triplice effetto:
accentuarne l’intransigenza politica internazionale; acuirne le spinte
nazionalistiche interne; attenuare i gradi di libertà dei paesi occidentali a
fronte di azioni avverse dei paesi produttori. “Se l’America si fosse trovata
nel 1986 a dipendere dalla Libia – scrisse James Schlesinger, Segretario
alla Difesa e all’Energia americano – non avrebbe potuto applicarle
sanzioni economiche per il sostegno dato al terrorismo internazionale”.
Che le cose fossero cambiate lo si comprende con la Russia di
Vladimir Putin, che nei primi giorni del 2006 taglia le forniture di metano
all’Ucraina – e a parte dell’Europa – formalmente per costringerla ad
accettare una revisione dei prezzi del metano, sostanzialmente per
spingerla a rivedere le posizioni filo-occidentali assunte dopo la
‘rivoluzione arancione’ del 2005. A quella crisi e alla politica
espansionista russa l’Europa non prestò alcuna attenzione.
4 In un documento strategico del Cremlino del 2003 si affermava che
«petrolio e metano sono i principali strumenti della politica interna e
internazionale della Russia e che dal ruolo che essa saprà guadagnare sui
mercati energetici mondiali dipenderà la sua influenza geopolitica»
internazionale. In queste parole è condensata la «dottrina energetica» di
Putin e l’offensiva interna, contro gli oligarchi che si erano impadroniti
delle risorse nazionali; esterna contro i paesi confinanti che l’avessero
condizionata.
Alla similarità delle cause tra vecchie e nuova crisi, si contrapponeva
una profonda diversità delle risposte, un tempo pubbliche oggi private.
Diversamente da allora, nessuna decisione di una certa rilevanza veniva
adottata dai governi, orfani d’ogni strumento di intervento. Le politiche
pubbliche si dimostrano inerti ed inermi, col mercato lasciato ad una
indistrubata speculazione.
Il prevalere della «filosofia del mercato» sarebbe avvenuta nei paesi
industrializzati, ma non in quelli emergenti. Un’asimmetria che
oggettivamente rafforza questi ultimi per la possibilità di avvalersi delle
imprese pubbliche come strumenti di espansione, di assetti interni ancora
monopolistici, di governance centralistiche. In primis Cina e India, per i
quali la sicurezza sulle forniture estere di cui vieppiù abbisognano è
divenuto un imperativo categorico, se non un’ossessione. Da qui la loro
politica espansiva nei paesi africani e medio-orientali attraverso accordi di
lungo periodo di scambio tra sviluppo interno e forniture.
Un’espansione che è avvenuta in parallelo al graduale disimpegno da
quelle aree degli Stati Uniti forti della rivoluzione tecnologica interna dello
shale gas/oil che consente loro una progressiva riduzione della dipendenza
estera. L’obiettivo dell’indipendenza, ossessione di ogni presidenza
americana, per gli Stati Uniti è ormai a portata di mano. Una prospettiva
diametralmente opposta a quella europea – con percewntuali di dipendenza
estera zia pe petrolio che per metano prossime al 90% - incapace di
colmare il vuoto che gli Stati Uniti hanno lasciato nelle aree da cui più si
approvvigiona.
Ad oltre quarant’anni dall’embargo dei paesi arabi, la questione della
sicurezza energetica è ridivenuta prioritaria a motivo delle molteplici crisi
geopolitiche, offuscate dalla temporanea caduta dei prezzi del petrolio per
la sua ritrovata abbondanza, che potrebbero degenerare in crisi
difficilmente governabili.
5 Prioritaria ma, al contempo, molto più complessa per due ordini di
ragioni: trasversalità e multidimensionalità. Trasversalità: se un tempo i
rischi erano riferiti al petrolio, oggi investe ancor più il metano: controllato
da un ristrettissimo numero di paesi. L’illusione che il metano fosse altro
dal petrolio è svanita.
Multidimensionalità: per il combinarsi di tre ordini di rischi: fisici,
politici, economici.
 Fisici: vulnerabilità nelle infrastrutture internazionali. Ogni giorno
circa 55 milioni di barili di petrolio solcano i mari (40 nel 2006). Due
gli snodi critici: lo Stretto di Hormuz, unica via d’acqua di
esportazione dal Golfo Persico (controllato dall’Iran) attraverso cui
transita circa 1/3 del commercio internazionale; lo Stretto di
Malacca, tra l’isola di Sumatra e Malesia, attraverso cui transita un
altro 27%, infestato da attacchi di pirateria e dei gruppi terroristici.
 Politici: rischio dell’utilizzo politico delle esportazioni come arma di
pressione verso i paesi acquirenti o che ne derivi una loro posizione
di soggezione, come accaduto dopo la crisi tra Russia e Georgia
dell’agosto 2008.
 Economici per la vulnerabilità delle economie agli shocks di prezzo.
La convenienza della scelta nucleare non stava tanto nel suo minor
costo di produzione, ma ancor prima nel fatto che consentiva di
rendere stabile e prevedibile il costo/prezzo dell’energia.
Venendo alla crisi Russia-Ucraina, il metano non ne è stato come in
passato l’aspetto centrale, ma resta nondimeno un’arma di cui la Russia si
sta avvalendo contro l’Europa col taglio delle forniture da ottobre del 40%,
presa per decisione politica e non commerciale. Taglio che non ha
provocato sinora ripercussioni per il buon clima e l’alto livello delle scorte
accumulate ed un tiraggio nei tre principali paesi (Francia, Germania,
Italia) come mai osservato in passato (27 mld. mc). La crisi ha evidenziato,
comunque, l’incapacità dell’Europa di disinnescarne la portata e di
adottare un’azione coordinata in grado di fronteggiare un non escludibile
«peggio».
La forza del Cremlino ha tratto alimento dalla latitanza e debolezza
dell’Unione, incapace ad elaborare una qualsiasi strategia in grado di
coniugare i divergenti interessi tra gli Stati membri, divisi in tre blocchi:
(a) chi è indipendente dal metano russo ed è pronto far la voce grossa con
Mosca, come la Gran Bretagna, indisponibile comunque a condividere le
sue risorse energetiche; (b) chi dipende ampiamente dalla Russia – in
6 primis Germania (2013: 43% totale import, 37% consumi) e Italia (2013:
45% import, 40% consumi); (c) chi, le ex-repubbliche sovietiche, vi
dipende quasi totalmente e farebbe di tutto pur di sottrarsene.
Comunque vadano le cose alla questione metano va trovata una
soluzione duratura per evitare il rischio di costituire continua occasione di
tensioni. Partendo da un banale presupposto: che l’Europa non può fare a
meno del gas russo (circa 1/3 del suo consumo, veicolato per la metà viaUcraina) così come la Russia non può fare – almeno per anni – del mercato
europeo (cui destina oltre il 90% delle sue esportazioni di metano).
L’impossibilità a trovare soluzioni operative capaci di disinnescare la
questione metano dalle relazioni politiche russo-ucraina ha incancrenito la
situazione, spingendo la Russia a dirottare in futuro le sue esportazioni
verso Cina e Turchia; a cancellare il progetto di gasdotto South Stream –
osteggiato da Bruxelles – che avrebbe dovuto aggirare l’Ucraina; lasciando
l’Europa col ‘cerino in metano’ dei suoi futuri approvvigionamenti.
Volgendo alla conclusione, come impostare globalmente la questione
della ‘sicurezza energetica’?.
Primo: la sicurezza energetica è questione politica, è un bene
pubblico che non può trovare adeguate risposte nei meccanismi di
mercato. Altro è il modo in cui riuscirvi in un assetto in cui a decidere
sono operatori privati, che perseguono il loro interesse particolare e non
generale. Una contraddizione evidente nell’Italia: ove più si aggravava la
crisi ucraina più aumentava la sua dipendenza dal metano russo: dal 24%
dei consumi nel 2012 al 41% nel 2014.
Secondo: la sicurezza è questione globale attenuabile ma non
risolvibile a livello nazionale. La geopolitica degli idrocarburi non può
essere interpretata come “gioco a somma zero”, in cui gli interessi degli
uni si realizzano a discapito degli interessi altrui. La via della cooperazione
è ineludibile ancorchè maledettamente dificile.
Terzo: la storia insegna che non è mai la politica di per sé ad
impattare sull’economia del petrolio o del metano. Vi sono stati grandi
crisi senza impatto alcuno sui prezzi del greggio. E’ quando i fondamentali
di mercato sono in tensione, quando vi è scarsità fisica, che la politica
assume un potere dirompente.
L’attuale crollo dei prezzi sembra cancellare questi rischi in una
ritrovata abbondanza. La capacità di fronteggiare le tensioni internazionali
non può dirsi invece acquisita, mentre la stretta interazione tra petrolio e
geopolitica non consente d’aver chiara evidenza delle conseguenze che
7 potrebbero derivare dall’esplosione delle situazioni politiche interne in
molti paesi produttori.
Specie guardando la lotta politica, religiosa, militare per il controllo
del Medio Oriente da parte delle sue maggiori potenze, Arabia Saudita ed
Iran, col coinvolgimento di tutti i paesi dello scacchiere regionale che
hanno fatto dell’Irak l’ideale terreno di scontro delle due grandi
componenti dell’Islam: sciita e sunnita. Scontro che il crollo dei prezzi ha
finito per oscurare, nell’illusione che i mercati possano rimanerne
impermeabili. Così non è e non sarà.
La caduta dei prezzi impatterà inevitabilmente sugli investimenti, e
quindi sulla futura offerta. Il mondo non può fare affidamento solo sulla
buona stella americana per fronteggiare l’aumento della domanda nel
lungo termine. Abbisognerà anche della produzione incrementale di Irak,
Iran, Brasile, Africa, area caspica. Alle ragioni di ottimismo guardando al
presente non corrispondono, in conclusione, eguali sentimenti sul futuro.
Più forte sarà oggi la contrazione dei prezzi, più forti domani contraccolpi.
Nell’arena dell’energia non vi sono né vincitori nè vinti. La stabilità giova
a tutti. La risposta è nella politica e, non è retorica dirlo, nella pace. È
questo dà conto di come sia difficile darvi una stabile e duratura risposta.
Infine l’Europa, che molto potrebbe fare per rafforzare la sicurezza
energetica, ma poco sinora ha saputo fare, nell’incapacità di individuare un
minimo comune denominatore tra gli altrimenti contrastanti interesse dei
paesi membri, con una più decisa azione politica verso:
 la diversificazione delle fonti in un’ottica europea;
 non potendosi escludere nucleare e cabrone pulito;
 la costruzione di un vero ed effettivo mercato unico;
 un rafforzamento delle interconnessioni transfrontaliere;
 l’adozione di meccanismi di solidarietà e soccorso;
 la messa in comune degli stoccaggi e delle risorse disponibili;
 il coordinamento delle politiche estere.
Anche nell’energia vi sarebbe bisogno di più Europa. DI Più Europa
unita. La sua inerzia danneggia tutti senza aiutare nessuno. La risposta non
può che venire da un’azione concordata tra i maggiori paesi – Germania,
Francia, Italia, Gran Bretagna – su alcuni grandi progetti che abbiano la
‘sicurezza energetica’ come obiettivo prioritario. Una prospettiva tuttavia
che appare ancora lontana dall’avverarsi.
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