argomento 1 La natura giuridica della responsabilità del medico

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Argomento 1
La natura giuridica
della responsabilità del medico
Sommario: 1. L’istituto. – 2. La sentenza. – a. Tribunale di Milano, Sez. I Civile, 17 luglio
2014, n. 9693 (Giudice/Estensore Gattari). – b. Tribunale di Milano, Sez. V civile, 18 novembre 2014, n. 13574 (Giudice/Estensore Andrea M. Borrelli). – 3. Il tema svolto.
1.L’istituto
La responsabilità contrattuale costituisce la sanzione per l’inosservanza di un obbligo specifico: a fronte dell’orientamento tradizionale,
secondo cui la suddetta forma di responsabilità deriva soltanto dall’inadempimento di obbligazioni contrattuali mentre la responsabilità aquiliana
sanziona la violazione di tutti gli obblighi diversi, riassunti nella formula
del neminem laedere, parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene,
alla luce del principio di atipicità delle fonti delle obbligazioni di cui all’art.
1173, c.c., che la responsabilità contrattuale consegua anche alla violazione di doveri specifici che trovano fonte non già in un contratto ma
direttamente nell’ordinamento giuridico, in forza di un “contatto sociale
qualificato”.
Tra gli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità
dell’ordinamento giuridico ex art. 1173, c.c., infatti, dottrina e giurisprudenza individuano anche il contatto sociale qualificato.
L’espressione “contatto sociale” indica un rapporto socialmente tipico, che ingenera nei soggetti coinvolti un obiettivo affidamento, in ragione
del fatto che si tratta di un rapporto “qualificato” dall’ordinamento giuridico, il quale vi ricollega una serie di doveri specifici di comportamento
attivo.
Si pensi, al riguardo, alla relazione che si instaura tra il paziente e il
medico, sul quale grava, a prescindere dalla sussistenza di un contratto,
un obbligo (specifico) di cura che tende alla tutela del diritto fondamentale
alla salute: in tali ipotesi il soggetto che ha subìto la violazione del dovere
specifico non può considerarsi alla stregua di un extraneus rispetto all’agente, in base al mero dato formale della mancanza di un vincolo contrattuale.
argomenti probabili (diritto civile)
Questa teoria ingloba nell’area della responsabilità contrattuale anche quei casi in cui non c’è una violazione di obblighi di prestazione
discendenti da un contratto, ma la violazione di obblighi di protezione
che non si affiancano a quelli prestazionali e che discendono da un contatto sociale che l’ordinamento equipara, per intensità degli obblighi ed entità
delle sanzioni, ad un vero e proprio contratto.
Nel nostro ordinamento, negli ultimi anni è stata tentata una fuga
dal sistema aquiliano, tanto in dottrina, quanto in giurisprudenza, soprattutto per quelle situazioni in cui manchi un contratto, ma che vede
coinvolti soggetti non del tutto estranei tra di loro, proprio al fine di sottrarre il danneggiato alla disciplina debole (quanto meno con riferimento
ai regimi probatorio e prescrizionale) della responsabilità ex delicto, e
consentirgli di approdare verso i più comodi lidi della responsabilità contrattuale.
Ciò si è verificato rispetto a varie ipotesi, quali la responsabilità del
medico dipendente da una casa di cura, la responsabilità della banca per
false informazioni, la responsabilità del docente e dell’istituto scolastico per
autolesioni del minore e la responsabilità della P.A. per i danni cagionati
nell’attività provvedimentale ed in sede procedimentale.
In particolar modo, l’obbligo di cura del sanitario può trovare fondamento in un contratto diretto con il paziente, in una fonte legale o
provvedimentale (es. ordinanze contingibili e urgenti), oppure nel rapporto di lavoro alle dipendenze di una struttura sanitaria pubblica o privata.
In quest’ultimo caso il paziente stipula con la casa di cura un contratto
atipico, denominato contratto di spedalità o di assistenza, e viene affidato
(o sceglie egli stesso di affidarsi) ad un medico dalla stessa dipendente. È
dunque evidente la dicotomia sussistente tra la parte formale del contratto
di cura e il soggetto che effettivamente esegue la prestazione pattuita, con
la conseguenza che, sulla natura della responsabilità del medico dipendente è fiorito un significativo dibattito.
L’orientamento tradizionale ravvisava in capo al medico dipendente
dalla casa di cura una responsabilità di tipo extracontrattuale per i
danni cagionati dalla sua attività diagnostica o terapeutica, essendo il medico estraneo al rapporto contrattuale intercorso tra la stessa casa di cura
e il paziente.
Secondo la giurisprudenza più recente e maggioritaria, invece,
l’ente ospedaliero risponde a titolo contrattuale per i danni subiti da
un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica da parte di un medico proprio dipendente, mentre l’obbligazione
di quest’ultimo nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul “contatto sociale”, ha natura contrattuale, atteso che ad
esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a
garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a
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Argomento 1. La natura giuridica della responsabilità del medico
pericolo in occasione del contatto stesso. Tale situazione si riscontra nei
confronti dell’operatore di una professione c.d. protetta (per la quale cioè
è richiesta una speciale abilitazione), particolarmente quando essa abbia
ad oggetto beni costituzionalmente garantiti come il bene della salute
tutelato dall’art. 32 cost. Ne consegue che alla responsabilità contrattuale
del medico per il danno alla persona, causato da imperizia nell’esecuzione
di un’operazione chirurgica, si applica l’ordinario termine di prescrizione
decennale.
2. La sentenza
a. Tribunale di Milano, Sez. I Civile, 17 luglio 2014, n. 9693 (Giudice/
Estensore Gattari)
Il tenore letterale dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi e l’intenzione
del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e
quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d’opera (diverso dal contratto
concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del 2012 alla
responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l’obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli
elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (che il danneggiato ha l’onere di
provare). In ogni caso l’alleggerimento della responsabilità (anche) civile
del medico “ospedaliero”, che deriva dall’applicazione del criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria indicato dalla legge Balduzzi
(art. 2043 c.c.), non ha alcuna incidenza sulla distinta responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una
impresa privata non convenzionata), che è comunque di tipo “contrattuale” ex art. 1218 c.c. (sia che si ritenga che l’obbligo di adempiere le prestazioni per la struttura sanitaria derivi dalla legge istitutiva del S.S.N. sia
che si preferisca far derivare tale obbligo dalla conclusione del contratto
atipico di “spedalità” o “assistenza sanitaria” con la sola accettazione del
paziente presso la struttura).
…omissis…
2.3. L’impatto della legge n. 189 del 2012 (cd “legge Balduzzi”) sul sistema della
responsabilità civile in ambito sanitario.
Su tale contesto normativo e giurisprudenziale è intervenuta alla fine del 2012 la
“legge Balduzzi” – L. 8 novembre 2012 n. 189 che ha convertito con modificazioni
il D.L. 13 settembre 2012 n. 158 – la quale ha espressamente inteso contenere la
spesa pubblica e arginare il fenomeno della “medicina difensiva”, sia attraverso una
restrizione delle ipotesi di responsabilità medica (spesso alla base delle scelte diagnostiche e terapeutiche “difensive” che hanno un’evidente ricaduta negativa sul-
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argomenti probabili (diritto civile)
le finanze pubbliche) sia attraverso una limitazione dell’entità del danno biologico
risarcibile al danneggiato in caso di responsabilità dell’esercente una professione
sanitaria.
L’art. 3 della legge (“Responsabilità professionale dell’esercente le professioni
sanitarie”) prevede al comma 1 che “l’esercente la professione sanitaria che nello
svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi
resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice,
anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto
della condotta di cui al primo periodo”.
Occorre dunque valutare l’impatto dell’art. 3 della L. n. 189 del 2012 (“legge
Balduzzi”) sul delineato sistema della responsabilità in ambito sanitario e sulla responsabilità del medico in particolare.
Il dibattito che si è sviluppato in dottrina dopo l’entrata in vigore della legge
si è incentrato principalmente sul secondo inciso della norma (“In tali casi resta
comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile”) ed è caratterizzato da opinioni contrapposte, rispecchiate nelle pronunce giurisprudenziali di
merito note.
Il richiamo esplicito alla disciplina della responsabilità risarcitoria da fatto illecito
(art. 2043) è stato visto da alcuni come una sorta di “atecnico” rinvio alla responsabilità risarcitoria dell’esercente la professione sanitaria (in tal senso, fra gli altri, Tribunale di Arezzo 14/2/2013 e Tribunale di Cremona 19/9/2013), mentre altri (Tribunale
di Varese 29/12/2012) hanno inteso da subito vedere nella previsione in esame una
indicazione legislativa (di portata indirettamente/implicitamente interpretativa) volta a
chiarire che, in assenza di un contratto concluso con il paziente, la responsabilità del
medico non andrebbe ricondotta nell’alveo della responsabilità da inadempimento/
inesatto adempimento (comunemente detta «contrattuale») bensì in quello della responsabilità da fatto illecito (comunemente detta «extracontrattuale»).
Gli estremi delle contrapposte opinioni emerse nella giurisprudenza di merito
paiono ben rappresentati da una pronuncia del Tribunale di Torino del 26/2/2013 e
da quella del Tribunale di Rovereto del 29/12/2013.
Secondo il giudice piemontese il legislatore del 2012 avrebbe dettato una norma che smentisce l’intera elaborazione giurisprudenziale precedente e l’art. 2043
sarebbe ora la norma a cui ricondurre sia la responsabilità del medico pubblico
dipendente sia quella della struttura pubblica nella quale opera (non essendo ipotizzabile secondo quel giudice un diverso regime di responsabilità del medico e
della struttura), per cui l’art. 3 della legge Balduzzi cambierebbe il “diritto vivente”
operando una scelta di campo del tutto chiara e congruente con la finalità di contenimento degli oneri risarcitori della sanità pubblica e “getta alle ortiche” la utilizzabilità in concreto della teorica del contatto sociale.
Il giudice trentino ha ritenuto invece che nessuna portata innovatrice deriverebbe dalla legge Balduzzi in merito alla responsabilità civile del medico in quanto
il richiamo all’art. 2043 c.c. contenuto nell’art. 3 andrebbe riferito solo al giudice
penale per il caso di esercizio dell’azione civile in sede penale, mentre la responsabilità civile del medico andrebbe comunque ricondotta al disposto dell’art. 1218
c.c. in caso di inadempimento e/o inesatto adempimento dell’obbligazione “legale”
gravante anche sul singolo operatore sanitario e che troverebbe fonte nella legge
istitutiva del S.S.N. (L. n. 833 del 1978).
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Argomento 1. La natura giuridica della responsabilità del medico
Anche la Suprema Corte si è pronunciata sulla possibile portata innovatrice
della legge Balduzzi nel regime della responsabilità civile medica, sinora escludendola.
In una prima decisione del febbraio 2013 la Cassazione (in un “obiter”) ha
affermato che “(…) la materia della responsabilità civile segue le sue regole consolidate (…) anche per la c.d. responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale”, richiamando quale “punto fermo, ai fini della
nomofilachia, gli arresti delle sentenze delle Sezioni Unite nel novembre 2008
(…)” (Cass. 19/2/2013 n. 4030). In tale sentenza non sono fornite indicazioni
interpretative del secondo inciso dell’art. 3 comma 1 L. 189/2012, che invece si
rinvengono nella successiva pronuncia della Cassazione del 17/4/2014 n. 8940
così massimata: “l’art. 3, comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189, nel prevedere che
“l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività
si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica
non risponde penalmente per colpa lieve”, fermo restando, in tali casi, “l’obbligo
di cui all’articolo 2043 del codice civile”, non esprime alcuna opzione da parte
del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come
responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma intende solo escludere, in
tale ambito, l’irrilevanza della colpa lieve”.
Non sono condivisibili le concrete applicazioni dell’art. 3 comma 1 della legge
Balduzzi fatte in alcune delle pronunce di merito sopra richiamate, mentre l’interpretazione della norma operata dalla Cassazione nell’ordinanza n. 8940 del 2014
risulta solo in parte convincente.
Come si è già avuto modo di argomentare più diffusamente, il tenore letterale
del comma 1 dell’art. 3 L. 189/2012 e le esplicite finalità perseguite dal legislatore
del 2012 – di contenimento della spesa pubblica e di porre rimedio al cd fenomeno della medicina difensiva anche attraverso una limitazione della responsabilità dei medici – non sembrano legittimare semplicisticamente un’interpretazione
della norma nel senso che il richiamo all’art. 2043 c.c. sia atecnico o frutto di una
svista.
Prima di prendere posizione sulle possibili ricadute che la legge del 2012 pare
avere sulla responsabilità del medico, è tuttavia opportuno far chiarezza sul suo
ambito applicativo e sgombrare il campo da alcune riferite letture della nuova previsione normativa che non convincono affatto.
Innanzitutto, nessuna portata innovativa può avere l’art. 3 della legge
189/2012 – che si riferisce espressamente alla responsabilità dell’esercente una
professione sanitaria autore della condotta illecita – sulla natura “contrattuale”
della responsabilità civile (ex artt. 1218 e 1228 c.c.) della struttura sanitaria (pubblica o privata) nella controversia risarcitoria promossa nei suoi confronti dal danneggiato.
Sia che si ritenga ravvisabile un contratto atipico fra la struttura sanitaria ed
il paziente, sia che si preferisca individuare nella legge la fonte dell’obbligo per
la struttura (pubblica o convenzionata) inserita nel S.S.N. di erogare determinate
prestazioni in favore del paziente, in ogni caso come detto la struttura sanitaria convenuta dal danneggiato è responsabile ai sensi dell’art. 1218 c.c. per il risarcimento
dei danni derivati dall’inadempimento (o dall’inesatto adempimento) di una delle
prestazioni a cui è direttamente obbligata.
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Argomento 1. La natura giuridica della responsabilità del medico
della decisione (cfr. fra le altre, Cass. 8/2/2007 n. 2746 e Cass. 17/4/2013 n.
9240).
b. Tribunale di Milano, Sez. V civile, 18 novembre 2014, n. 13574 (Giudice/Estensore Andrea M. Borrelli)
Il primo comma dell’art. 3 del D.L. Balduzzi come sostituito dalla legge di
conversione si riferisce, esplicitamente, ai (soli) casi di colpa lieve dell’esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica. L’ossequio alla lettera della
nuova disposizione dovrebbe comportare anche adeguata valorizzazione
dell’incipit dell’inciso immediatamente successivo alla proposizione che
esclude la responsabilità penale del sanitario in detti casi, per effetto del
quale deve ritenersi che esso si riferisca soltanto – appunto – a “tali casi”
(di colpa lieve del sanitario che abbia seguito linee guida ecc.). la norma,
pertanto, in alcun modo modifica il precedente regime della responsabilità
del medico
…omissis…
L’orientamento interpretativo della Sezione I Civile del Tribunale di Milano si
fonda – come rilevato – sul postulato che il Legislatore agisca sempre in modo
consapevole e razionale. Conseguentemente, secondo quel Giudice, deve escludersi che l’inciso contenuto nell’art. 3 co. I del D.L. Balduzzi, come sostituito dalla
legge di conversione n. 189/2012, possa essere ritenuto frutto di una mera “svista”.
Detto orientamento, tuttavia, non può fare a meno di attribuire al medesimo Legislatore altra, non meno grave, svista: quella consistente nell’aver del tutto dimenticato di distinguere la disciplina applicabile ai casi in cui il paziente si sia rivolto direttamente e personalmente a un medico di sua fiducia, per i quali, come
correttamente afferma Trib. Milano Sez. I, 17.7.2014 cit., il regime della responsabilità per i danni causati nell’esercizio dell’attività professionale medica rimane
quello dettato dall’art. 1218 c.c. 1, dalla disciplina da applicarsi invece ai casi in cui
il paziente si sia rivolto alla struttura sanitaria (ospedale, clinica, ambulatorio) e non
al medico, per i quali, in conseguenza dell’entrata in vigore della norma in questione (L. 189/2012 cit.), «il criterio attributivo della responsabilità civile al medico (e
agli altri esercenti una professione sanitaria) va individuato in quello della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c.» (Trib. Milano Sez. I cit.). L’interpretazione
additiva proposta dal Giudice della Prima Sezione del Tribunale di Milano, risultando sostanzialmente manipolativa della norma in esame (che in realtà tace sulle
fattispecie di responsabilità contrattuale e non menziona la degenza ospedaliera o
altro rapporto con struttura sanitaria quale proprio presupposto di fatto), pare contrastare anch’essa con la presunzione di consapevolezza di cui sopra e si presta,
perciò, alla medesima critica che essa rivolge all’interpretazione fatta propria da
Cass. n. 8940/2014 cit., che limita la portata della norma in parola alla riaffermazione del principio che, nel giudizio risarcitorio civile, diversamente che in quello penale, et levissima culpa venit. Introducendo la distinzione di cui sopra (non presente
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argomenti probabili (diritto civile)
nel dato normativo), l’interpretazione che si tenta qui di confutare finisce col tenere in vita la categoria delle fattispecie originate da contatto sociale (per differenziarne il trattamento) proprio nel momento in cui ne afferma intervenuto il tramonto definitivo. Alle considerazioni che precedono può aggiungersi che il primo
comma dell’art. 3 del D.L. Balduzzi come sostituito dalla legge di conversione si
riferisce, esplicitamente, ai (soli) casi di colpa lieve dell’esercente la professione
sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. L’ossequio alla lettera della nuova disposizione dovrebbe comportare anche adeguata valorizzazione dell’incipit dell’inciso immediatamente
successivo alla proposizione che esclude la responsabilità penale del sanitario in
detti casi 2, per effetto del quale deve ritenersi che esso si riferisca soltanto – appunto – a “tali casi” (di colpa lieve del sanitario che abbia seguito linee guida
ecc.). In senso conforme a quanto appena osservato si è espresso il Tribunale di
Brindisi con sentenza in data 18.7.2014. Che aggiunge doversi escludere l’efficacia retroattiva della norma de qua (art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale): con conseguente inidoneità dell’art. 3 co. I D.L. 158/2012 come sostituito
dalla L. 189/2012 a regolamentare rapporti – quale quello oggetto del presente
giudizio – venuti a esistenza nella vigenza del precedente quadro normativo–giurisprudenziale. D’altra parte, secondo questo il giudice, la presunzione di consapevolezza che si vuole assista l’azione del Legislatore impone di ritenere che
esso, ove avesse effettivamente inteso ricondurre una volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero (e figure affini) sotto il (solo) regime della responsabilità extracontrattuale, escludendo l’applicabilità della disciplina di cui all’art.
1218 c.c. e così cancellando lustri di elaborazione giurisprudenziale, avrebbe
certamente impiegato proposizione univoca (come per es. “la responsabilità
dell’esercente la professione sanitaria per l’attività prestata quale dipendente o
collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata dall’art. 2043 del
codice civile”) anziché il breve inciso in commento. Insomma, pur non essendo
qui d’aiuto il noto brocardo ubi lex voluit dixit, poiché il Legislatore, effettivamente,
aliquid dixit, non può comunque ritenersi – ad avviso di chi scrive – che la locuzione meramente “eccettuativa” (così Trib. Brindisi cit.) di cui trattasi abbia inequivocabilmente reso manifesta la volontà del Legislatore stesso di negare la configurabilità di responsabilità contrattuale in capo al medico ospedaliero etc. Inoltre,
ritenere che l’esercente la professione sanitaria, ogni qual volta svolga la propria
attività all’interno di una struttura, sia tenuto, nei confronti del paziente, a rispettare soltanto il precetto generale dell’art. 2043 c.c. (sintetizzabile nel comando di
non nuocere al prossimo: alterum non laedere), valido per la totalità dei soggetti,
anche non esercenti la professione sanitaria, e non debba invece rispettare l’obbligo di diligenza professionale posto dall’art. 1176 co. II c.c., appare a questo
giudice oltremodo riduttivo della funzione sociale dell’esercente la professione
sanitaria. Infine, se è vero che dall’opzione interpretativa che esclude l’applicabilità della disciplina della responsabilità contrattuale all’attività dell’esercente la
professione sanitaria in ambito ospedaliero discendono conseguenze sia in tema
di riparto dell’onere di allegazione e prova (che diverrebbe assai più gravoso per
il danneggiato), sia in ordine al termine di prescrizione del diritto al risarcimento
del danno (che risulterebbe dimezzato), e che tali conseguenze appaiono, al Giudice della Prima Sez., coerenti con l’intento del Legislatore di contenere la spesa
pubblica e di arginare il dilagante fenomeno della “medicina difensiva” (che su
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Argomento 1. La natura giuridica della responsabilità del medico
detta spesa incide), è altresì vero che quell’opzione comporterebbe l’inapplicabilità al sanitario del limite alla responsabilità del prestatore d’opera posto dall’art.
2236 c.c. (in materia contrattuale), ciò che – ad avviso di chi scrive – darebbe
nuova linfa proprio a quell’atteggiamento “difensivo” che in realtà si vorrebbe debellare. Dunque, neppure l’argomento della ratio legis appare poter sostenere
l’opzione interpretativa che sottrae l’attività del sanitario al regime della responsabilità contrattuale. Non resta, perciò, che adeguarsi alla già ricordata interpretazione proposta da Cass. 17.4.2014 n. 8940, secondo cui la volontà del Legislatore oggettivatasi nel dato normativo altro non è che quella di escludere la
responsabilità penale del sanitario (che abbia seguito le linee guida ecc.) in caso
di colpa lieve, tenendo però al contempo aperta la possibilità che – anche in caso
di assoluzione penale per levità della colpa – al danneggiato possa spettare un
risarcimento civilistico (secondo il brocardo: in lege aquilia et levissima culpa venit). Per le considerazioni che precedono questo giudice ritiene di non discostarsi
dal proprio precedente orientamento (conforme all’insegnamento della Cassazione e alla giurisprudenza della Sez. V civ. del Tribunale di Milano) e di inquadrare
la fattispecie oggetto di causa nell’ambito della disciplina della responsabilità
contrattuale. Si continua cioè a ritenere che sia l’obbligazione del nosocomio nei
confronti del paziente, sia quella del medico, ancorché non fondate, talvolta l’una,
talvolta l’altra, su una stipulazione negoziale di tipo ordinario, ma su un mero
contatto sociale, abbiano comunque natura contrattuale, atteso che a detto contatto si ricollegano specifici obblighi di comportamento di varia natura, diretti a
garantire che siano tutelati gli interessi (nella fattispecie quello preso in considerazione dall’art. 32 Cost.) che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione
del contatto stesso.
…omissis…
3. Il tema svolto
Premessi cenni sulla responsabilità professionale, tratti il candidato della
natura giuridica della responsabilità del medico.
Tradizionalmente la dottrina civilistica è solita distinguere, all’interno
della macro-categoria delle obbligazioni, le obbligazioni di mezzi da quelle di risultato, definendo le prime come quelle obbligazioni in cui il debitore
si impegna semplicemente ad assicurare l’esecuzione di una prestazione
secondo diligenza ordinaria (art. 1176, comma 1, c.c.) o qualificata (art.
1176, comma 2, c.c.), a prescindere dal raggiungimento di un dato risultato,
e le seconde come quelle obbligazioni in cui il debitore si impegna a raggiungere proprio il risultato avuto di mira dal creditore, a prescindere dalle
modalità adempitive.
Storicamente le obbligazioni professionali (quali quella del medico o
dell’avvocato) sono assurte ad emblema delle obbligazioni di mezzi: al
professionista, considerata l’aleatorietà del risultato da raggiungere (condizionato dal concorso di vari fattori, anche estranei alla sua sfera di compe-
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argomenti probabili (diritto civile)
tenza) si richiedeva di eseguire la prestazione conformemente al livello
di diligenza esigibile in relazione alla specifica obbligazione e non anche
di perseguire il risultato avuto di mira dal creditore. La prestazione che il
professionista è tenuto a compiere a vantaggio del cliente consiste, infatti, in un’attività di prevalente carattere intellettuale, i cui tratti peculiari
si delineano in un lavoro che, per quanto svolto in maniera continuativa viene pur sempre compiuto con piena autonomia e discrezionalità. Il
contenuto principale dell’obbligazione veniva, così, individuato nel dovere di compiere quanto necessario in vista del risultato che il cliente spera
di perseguire.
Se questo è condivisibile in linea di principio, non può negarsi, tuttavia,
che in taluni casi anche la prestazione del professionista vada qualificata
quale obbligazione di risultato: ad esempio l’ingegnere a cui è affidato un
progetto di ristrutturazione è debitore di un’obbligazione di risultato (la realizzazione del progetto).
L’obbligazione medica è per definizione una obbligazione di mezzi,
con la conseguenza che l’inosservanza del dovere di diligente esecuzione
della prestazione rappresenta l’in sé dell’inadempimento, mentre il mancato conseguimento del risultato terapeutico costituisce il danno-evento,
conseguente all’inadempimento dell’obbligazione.
Nell’obbligazione di mezzi non c’è dunque una scissione, ma una
confusione tra il profilo dell’inadempimento e quello della imputabilità, perché l’inadempimento rappresenta in sé anche il profilo dell’errore e
dell’addebitabilità.
Fatta questa premessa definitoria, va detto che prima dell’intervento delle Sezioni unite del 2001 (sentenza del 30.10.2001, n. 13533) si
usava effettuare una distinzione circa il piano dell’allocazione dell’onere
della prova fra due tipologie di interventi medico-chirurgici: gli interventi
routinari, che comportano una guarigione sostanzialmente sicura a fronte di una statistica di esiti negativi marginale, e gli interventi complessi,
caratterizzati da quella che viene definita da alcuni “l’alea terapeutica”,
vi rispetto ai quali è configurabile un rischio rilevante e significativo di
esito infausto.
Per quanto concerne gli interventi semplici, si affermava che in capo
al soggetto creditore sottoposto a cura (ovvero ai suoi parenti in caso di
decesso) competesse esclusivamente l’onere di provare la routinarietà
dell’intervento; una volta acclarata la cosiddetta routinarietà, in base ad
una logica presuntiva, si desumeva che l’esito infausto non potesse che
essere conseguenza di un errore terapeutico dal momento che, nella normalità dei casi, a fronte di un intervento diligente non vi sarebbe stato
esito infausto. Conseguentemente, si riteneva che il soggetto creditore
non fosse tenuto a dimostrare l’errore, in quanto presunto, e che competesse invece al medico provare di avere osservato le misure di diligenza
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Argomento 1. La natura giuridica della responsabilità del medico
da lui esigibili e che quindi l’esito infausto fosse frutto di un’alea a lui non
addebitabile.
Al contrario, negli interventi complessi, dove questa presunzione non
poteva essere considerata applicabile perché si riteneva che fosse l’alea
terapeutica a giustificare l’esito infausto, e non necessariamente l’errore
presuntivo, si affermava che una volta acclarata, sulla base di prova fornita
dal medico, la complessità dell’intervento, non avrebbe operato la presunzione, espressione del principio res ipsa loquitur, e sarebbe spettato al
paziente dimostrare l’errore compiuto nel corso dell’esecuzione dell’intervento.
Questa allocazione differenziata dell’onere della prova in funzione
della complessità dell’intervento è una regola che non ha trovato accoglimento nella sentenza delle Sez. Un. del 2001, che ha chiarito come
il regime della prova in caso di inadempimento sia il medesimo per ogni
rimedio di reazione all’inadempimento.
Quindi, ogniqualvolta il creditore reagisce all’inadempimento o
con l’azione di esatto adempimento o con quella di risoluzione, ovvero
ancora con l’azione di risarcimento, il riparto probatorio è il medesimo, nel senso che in ognuno di queste ipotesi al creditore è richiesta la
duplice prova:
– della fonte del diritto che lui considera insoddisfatto, e cioè la contratto o, secondo la giurisprudenza, del contatto sociale equiparato al
contratto, dalla quale il creditore è esonerato nel caso in cui sia ravvisabile una ricognizione di debito o una promessa di pagamento ex art. 1988,
c.c.;
– delle conseguenze dell’inadempimento, consistenti nel danno economico o non economico, che il creditore ha subito per effetto dell’inadempimento stesso.
Dunque, il creditore deve provare la fonte del diritto e le conseguenze dannose della lesione, ivi compresa il rapporto causale tra
inadempimento e danno (la prova della causalità giuridica afferisce infatti
alla prova del danno ai sensi dell’art. 1223, c.c.). Non gli è richiesto, invece, di provare ciò che è temporalmente collocato tra la fonte del diritto e le
conseguenze della sua lesione, ovvero l’inadempimento.
Significative pronunce delle sezioni semplici.
Calando questo principio nelle obbligazioni professionali di mezzi
la Cassazione ha affermato che le soluzioni adottate dalle Sez. Un. del
2001 vanno applicate integralmente anche nell’area della responsabilità
professionale: anche in tale fattispecie il paziente ha esclusivamente l’onere di allegare l’inadempimento e non di provarlo, con la conseguenza che incombe, viceversa, sul medico la prova di avere esattamente realizzato la prestazione e quindi di avere osservato diligentemente l’obbligo
di prestazione terapeutica.
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