Il contributo del medico competente alla valutazione e gestione

I cambiamenti del mondo del lavoro oggi. La valutazione dei fattori psico-sociali
Prof. Giovanni Costa
Dipartimento di Medicina del Lavoro “Clinica del lavoro L. Devoto”, Università di Milano e
Fondazione IRCSS Ospedale Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena,
Via S. Barnaba 8, 20122 Milano
Nuove tecnologie, modificazioni strutturali, cambiamenti nel contesto sociale e
nell’organizzazione del lavoro sono tutte condizioni implicate nell’attuale accentuazione dei
problemi cosiddetti “stress correlati”, che vengono denunciati sia a livello individuale che
collettivo.
Secondo i modelli interpretativi più accreditati, lo stress lavorativo rappresenta il prodotto
dell’interazione dinamica fra la persona e il contesto organizzativo e sociale in cui lavora,
costituendo la risultante del rapporto (distorto) tra le sollecitazioni imposte dall’attività svolta nelle
sue diverse componenti (chimico-fisiche, cognitive, emozionali, relazionali) e le capacità
dell'operatore (in termini di “risposta” psico-fisiologica, comportamentale, operativa) a farvi fronte.
I fattori che influenzano il primo aspetto riguardano in particolare la natura e i contenuti del
compito e l'organizzazione del lavoro (soprattutto in termini di orari, autonomia, controllo e
partecipazione), mentre quelli che influenzano le modalità di risposta (coping) dell’individuo
riguardano molteplici aspetti di carattere personale, quali età, personalità, condizioni e stili di vita,
formazione professionale, atteggiamenti comportamentali (motivazione, interesse), condizioni di
salute fisica e mentale. Inoltre, sia gli uni che gli altri sono influenzati da fattori sociali, quali ad es.
le modalità di relazione e integrazione del soggetto nel gruppo di lavoro, nella famiglia e nella
società in generale.
Lo stress lavorativo, che non necessariamente una connotazione negativa a priori, può quindi
divenire una condizione di rischio per la salute qualora si verifichi uno sbilanciamento tra i fattori
sopracitati, per cui la persona non è più capace di fronteggiare in maniera adeguata le sollecitazioni
cui è sottoposto.
I principali fattori connessi con i compiti e l’organizzazione del lavoro, che possono costituire
un rischio per la salute dei lavoratori, si riferiscono in particolare a: contenuto del lavoro (ad es.
complessità, imprevedibilità/incertezza, possibilità di controllo, significato, competenze richieste);
carichi e ritmi di lavoro (sovra o sottocarico fisico e/o mentale, pressione del tempo); grado di
responsabilità e gravità delle possibili conseguenze dell’errore; orari di lavoro (orari prolungati,
orari variabili, turni notturni); livello di partecipazione/decisione; possibilità di carriera; mobilità
attiva o passiva; ruolo nell’organizzazione (ambiguità e conflitti di ruolo); formazione e
addestramento (livello di adeguatezza); funzione e cultura organizzativa (comunicazione, stile di
gestione, soluzione di problemi); relazioni interpersonali sul lavoro (conflitti, isolamento, carenza di
supporto); rapporti/interferenze casa-lavoro (carichi familiari, pendolarismo, servizi sociali carenti).
Secondo il modello interpretativo dello stress lavorativo proposto da Karasek, Theorell e
Johnson ("Demand/Control/Support" model), è maggiormente probabile che alti livelli di stress, con
conseguenti disturbi e malattie, si manifestino in quelle attività lavorative in cui vi siano elevate
sollecitazioni psicologiche associate a scarsa possibilità decisionale e inadeguato supporto sia da
parte del gruppo di lavoro che dal contesto sociale ("high strain job").
Al contrario, le mansioni che, pur imponendo alti carichi psicologici, consentono un alto
potere decisionale e garantiscono un adeguato supporto sociale, sono maggiormente in grado di
determinare un comportamento attivo, che stimola l'apprendimento, la motivazione e l'efficienza
lavorativa, riducendo quindi gli effetti negativi dello stress.
In base al modello “Effort-Reward Imbalance” (ERI) di Siegrist, una mancanza di reciprocità
tra «sforzi/costi» impegnati e «compensazioni/guadagni» ricevuti determina uno stato di sofferenza
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emozionale con iperattivazione del sistema autonomo e conseguenti reazioni e patologie da stress.
Ciò è ulteriomente accentuato in condizioni di elevato impegno/investimento nel lavoro
(“overcommitment”) e, particolarmente, se la poca compensazione è sperimentata in termini di
precaria stabilità lavorativa, cambio forzato di mansione, mobilità tendente verso il basso, o
mancanza di prospettive di carriera (scarso o nullo controllo occupazionale).
In base alla più recente indagine sulle condizioni di lavoro nell’Unione Europea, promossa
dalla Fondazione Europea per il miglioramento delle Condizioni di Vita e di Lavoro (3rd EU
Survey, 2000) lo stress lavorativo è stato indicato essere la prevalente condizione associata al
deterioramento della salute dal 28% dei 21500 lavoratori intervistati, con maggiore prevalenza tra i
colletti bianchi (36%) rispetto ai lavoratori manuali (23%).
Ciò rappresenta un costo elevato sia in termini di salute che di riduzione della prestazione, sia
come produttività che come servizio. Infatti, se da una parte lo stress può provocare serie
conseguenze sulla salute fisica e mentale, d’altra parte altrettanto importanti sono le conseguenze in
termini di ”sintomi lavorativi” quali: alti livelli di assenteismo e di turnover, scarsa adesione ed
applicazione alle procedure di sicurezza, basso senso di appartenenza e spirito di gruppo, scarsa
iniziativa e ridotta produttività (ILO 1992, Commissione Europea 2000, Cox et al. 2000).
In termini monetari vi sono parecchi studi che hanno stimato i costi diretti ed indiretti connessi
con situazioni di stress; a titolo esemplificativo se ne citano alcuni:
- in Danimarca: 20% di rischio attribuibile allo stress sulle patologie cardiovascolari (Olsen e
Kristensen, 1991);
- in Svizzera, secondo uno studio di Ramacciotti e Perriard (2000) i costi annuali dovuti allo stress
ammontano a circa 4.2 miliardi di franchi, pari al 1,2% del PIL, comprendendo le spese mediche
(1,4 miliardi) e di automedicazione (0,348 mil), le assenze e la perdita di produzione (2,4 mil);
- in UK, è stato stimato che circa 40 milioni di giornate lavorative vengono perse ogni anno per
problemi connessi a situazioni di stress (CBI 1999);
- in Svezia, il National Social Insurance Board (1999) segnala che il 14% delle assenze prolungate dal
lavoro, in un campione di 15000 lavoratori, sono dovute a patologie stress correlate;
- in USA, viene denunciato il 15% di incidenza dello stress sulle cardiopatie lavoro-correlate, e costi
totali di 22.5 miliardi di dollari nel 1998 (con aumento del 33% in 6 anni), pari al 25-30% della
spesa sanitaria aziendale (Leigh e Schmall, 2000);
- un recente studio europeo (“Stress Impact”, 2005) coordinato dall’Università del Surrey (UK) ha
stimato in più di 20 miliardi di Euro il costo globale dello stress nell’Unione Europea,
comprendendo costi lavorativi, personali e sociali.
Vi sono inoltre da considerare le interrelazioni tra situazioni che la persona deve affrontare
durante e a causa della sua attività lavorativa e quelle che incontra quotidianamente in ambito extralavorativo; esse possono essere complesse, ma sostanzialmente di due tipi: sommazione di
situazioni negative con sinergismo fra gli stressors, oppure compensazione del peso di fattori
negativi (lavorativi e non) da parte di situazioni positive (lavorative e non).
Di determinante importanza rimane comunque la risposta individuale agli stimoli, negativi o
positivi, che si originano in ambiente lavorativo ed extra-lavorativo; il risultato finale, in termini di
patologia o di mantenimento della salute, dipende in ogni caso dall'elaborazione che essi subiscono
nell'individuo in forma di valutazione cognitiva e attivazione emozionale con le conseguenti
risposte fisiologiche e psico-comportamentali. Ciò non significa che lo stress è un problema
individuale, ma che esso può presentare una elevata variabilità inter ad intra-individuale, sia in
termini di maggiore o minore vulnerabilità sia per quanto riguarda le sue diverse manifestazioni e
conseguenze.
La condizione di strain soggettivo può svilupparsi in tempi relativamente brevi, mentre le
modifiche obiettivabili dello stato di salute possono essere inizialmente di grado modesto e passare
parecchio tempo per manifestarsi chiaramente: ciò da un lato rende più difficile l’individuazione del
rapporto stress-lavoro, ma, dall’altro, offre maggiori possibilità di attuare interventi preventivi e
correttivi utili.
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Le manifestazioni patologiche conseguenti a stress lavorativo comprendono quindi sintomi
generici e quadri clinici specifici, che riguardano principalmente il sistema neuropsichico e gli
apparati cardiocircolatorio e gastrointestinale. I più comuni sintomi generici, di solito presenti
inizialmente, sono un dichiarato senso di insoddisfazione, facile irritabilità, turbe dell'emotività,
svogliatezza, disinteresse, attitudine negativa verso le persone ed i problemi quotidiani, cefalea,
dispepsia, disturbi del sonno. Questi sintomi vaghi o generici possono sfociare spesso in quadri
assai più definiti, sia in termini di disturbi che di malattie, quali in particolare la nevrosi d'ansia
cronica, la depressione, le alterazioni permanenti del sonno, le patologie a carico dell'apparato
digerente (gastrite, gastroduodenite, ulcera duodenale, colonpatia funzionale) e dell'apparato
cardiocircolatorio (aritmie, cardiopatia ischemica, ipertensione).
A differenza dei rischi “tradizionali”, la partecipazione e il contributo del medico del lavoro
sia alla valutazione che alla gestione del rischio rivestono qui una particolare rilevanza e si rendono
oltremodo necessari, in quanto, come già sottolineato, non è solo importante la “quantificazione”
del “carico” esterno (“stressor”), ma è altrettanto determinante la valutazione della risposta
dell’individuo (“strain”) che, il più delle volte, è il fattore condizionante lo sviluppo di una
condizione di squilibrio psico-fisico e quindi di innesco di conseguenze patologiche.
Conseguentemente, occorre rilevare come non esistano criteri assoluti di “quantificazione” del
rischio, ma come esso debba essere piuttosto valutato in termini relativi, ossia rapportato alle
specifiche situazioni lavorative e caratteristiche delle persone coinvolte.
Il ruolo del Medico del Lavoro si presenta quindi molto complesso e delicato, essendo il
problema molto articolato e sfaccettato, sia a livello individuale che collettivo, e dovendo tenere in
considerazione in modo integrato tutte le diverse componenti del complesso fenomeno; ciò richiede
il contributo di esperti di altre discipline, quali la fisiologia, la psicologia, la sociologia,
l’ergonomia, l’economia, l’organizzazione del lavoro, la giurisprudenza.
Dal punto di vista collettivo (ossia come rischio per tutti i lavoratori esposti) è chiaro che una
determinata attività lavorativa può comportare un rischio maggiore rispetto ad altre; ciò può essere
ipotizzato (e definito) a priori sulla base dei dati di letteratura che documentano un rischio maggiore
in certi attività e/o condizioni di lavoro (ad es. il cosiddetto “Threat-avoidant vigilant work”: piloti e
controllori del traffico aereo, conducenti di mezzi di trasporto, chirurghi). Tali condizioni vanno
comunque verificate e valutate nella situazione specifica in relazione alle peculiari condizioni
presenti, sia in riferimento all’organizzazione del lavoro che alle caratteristiche delle persone
coinvolte.
Dal punto di vista individuale, vi è da tener conto che spesso prevalgono aspetti “soggettivi” e
“qualitativi” rispetto a quelli “oggettivi” e “quantitativi”; quindi i modelli tradizionali di valutazione
del rischio, in termini di causa-effetto, non sono meccanicisticamente applicabili in tale contesto, in
quanto l’effetto sulla salute può essere principalmente condizionato da fattori “intercorrenti” relativi
alle singole persone (es. modalità di coping, personalità, atteggiamenti comportamentali, condizioni
familiari e sociali). E’ possibile quindi verificare come alcune attività ritenute “stressanti” a priori
non risultino tali per molte persone; mentre, per converso, attività ritenute “non particolarmente
stressanti” a priori possano divenirlo in particolari condizioni di organizzazione del lavoro o per
determinate persone.
In altri termini, la condizione di “rischio da stress” non può essere definita a priori sulla base
di parametri di riferimento esterno (ad es. non esiste un ben definito valore-soglia né criteri
oggettivi in assoluto), ma va chiaramente identificata e valutata in modo critico sulla base delle
modalità di risposta del gruppo di lavoratori interessati, in riferimento ad una serie più o meno
allargata di parametri che indagano i diversi aspetti del problema (ad es. caratteristiche sociodemografiche, tipo e quantità del carico di lavoro, modalità di coping, possibilità di autonomia e
controllo sul lavoro, metodi organizzativi, orari, bisogni e supporto ricevuto).
In concreto, il medico competente può avvalersi di metodi di analisi validati e standardizzati
in letteratura (ad es. il Job Content di Karasek, l’Effort/Reward Imbalance di Siegrist, o
l’Occupational Stress Indicator di Cooper), ovvero predisporre delle check-lists ad hoc, atte ad
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indirizzare l’analisi in maniera il più possibile articolata e comprensiva delle condizioni di lavoro.
E’ chiaro che la scelta dello strumento di valutazione deve derivare da una attenta analisi delle
condizioni specifiche e del modello concettuale cui si fa riferimento. Occorre tener conto, ad
esempio, che il modello Transazionale di Lazarus (Lazarus e Folkman 1984) si focalizza sul
processo interattivo uomo-ambiente basato sulla valutazione cognitiva e le modalità di coping, il
Job Demand-Control/Support di Karasek si orienta principalmente sulle modalità di lavoro, mentre
l’Effort/Reward di Siegrist valorizza maggiormente le differenti percezioni e caratteristiche
individuali, spostando il target dell’analisi dal “controllo” alla “ricompensa”.
Pertanto,
l’applicazione pedissequa o acritica di uno strumento predefinito, pur validato a livello
internazionale, non necessariamente può risultare utile alla comprensione e valutazione del
problema specifico: non è detto, ad esempio, che lo stesso strumento abbia la stessa efficacia
esaminando condizioni diverse sia dal punto di vista socio-economico che culturale (ad es. lavoro a
tempo indeterminato/determinato, lavoro atipico, situazione geopolitica, tutela sociale).
D’altro canto il medico del lavoro può altresì documentare eventuali indicatori di effetto, sia
di tipo soggettivo (ad es. modificazioni comportamentali e disturbi di tipo psicosomatico) che
oggettivo, che possono riguardare sia le condizioni psico-fisiche della persona (ad es. risposta
ormonale, metabolica e cardiovascolare, sintomi e segni di malattia) sia la prestazione lavorativa
(ad es. errori, assenze, infortuni, turnover, abbandono).
A tale riguardo va posto un caveat operativo, relativo al fatto che la diversa natura dei dati
raccolti con metodi differenti (questionari soggettivi, osservazione diretta, misura di variabili
fisiologiche, riscontri clinici) li rende il più delle volte incommensurabili, sia in relazione ai diversi
parametri e criteri si valutazione (quantitativi e/o qualitativi) che in ragione del diverso significato
dell’effetto rappresentato (ad es. a breve, medio, lungo termine) a seconda delle varie
influenze/interazioni esterne che ognuno di essi può avere. Ad es., la risposta cortisolemica o
pressoria registrata in un giorno non necessariamente correla con lo sviluppo di una patologia
cardiovascolare cronica negli anni o con la percezione soggettiva, e viceversa.
In relazione a tali peculiari aspetti vi è inoltre da sottolineare come la valutazione del rischio
non possa essere vista solo in funzione della mera sorveglianza sanitaria, ma debba essere
principalmente orientata al controllo e alla prevenzione del rischio.
Quindi, l’intervento del medico competente in tale contesto va richiesto per se, date le
peculiarità degli effetti dello stress che richiedono l’apporto necessario di competenze bio-mediche;
ciò anche indipendentemente dall’eventuale necessità di formulare un giudizio di idoneità al lavoro,
il che può essere molto limitante per l’attività del medico competente e del tutto inefficace per
l’organizzazione del lavoro e la risoluzione dl problema.
Anche per quanto riguarda la gestione del rischio, il contributo del medico del lavoro risulta
altrettanto rilevante sia a livello collettivo che, in particolar modo, a livello individuale.
A livello di gestione del rischio collettivo, egli può offrire la sua specifica competenza per
l’individuazione delle più appropriate azioni di carattere preventivo e/o correttivo da mettere in atto,
e nella successiva verifica della loro efficacia, mediante il riscontro epidemiologico delle condizioni
di benessere e salute dei lavoratori: ciò può essere fatto, in modo trasversale, mediante confronto tra
gruppi a maggior o minor rischio, o con gruppi di “controllo”, e soprattutto, in senso longitudinale,
con un preciso monitoraggio periodico nel corso del tempo.
Per quanto riguarda l’apporto a livello individuale, il processo diagnostico decisionale si
configura in una attento esame delle condizioni psico-fisiche della persona, atto a valutarne
eventuali alterazioni dello stato di salute, l’appropriatezza o meno delle modalità di risposta e
coping, nonché i possibili fattori “intercorrenti” (lavorativi e non) in grado di influenzare
sensibilmente gli effetti negativi sulla salute. Nel far questo è opportuno che il medico competente
si avvalga del contributo di specialisti di altre discipline biomediche e psico-sociali, in modo da
valutare in modo appropriato i diversi quadri clinici che si possono presentare (a prevalente
carattere psicosomatico e genesi multifattoriale), verificarne la plausibilità biologica di relazione
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con lo stress, ed interpretare correttamente l’eventuale impiego di questionari/checklists concernenti
fattori di personalità, atteggiamenti comportamentali e disturbi psichici.
Le conseguenti azioni devono quindi orientarsi in diverse direzioni e a diversi livelli: da un
lato, promuovere interventi preventivi e correttivi relativi alla (ri)configurazione del compito e/o
delle condizioni di lavoro (livello dell’organizzazione e livello dell’interfaccia lavoro/individuo);
dall’altro, fornire alla persona un adeguato counselling circa le modalità di coping, nonché
appropriati interventi di tipo terapeutico-riabilitativo sia dal punto di vista fisico che psichico
(livello del sostegno alla persona).
L’eventuale giudizio di “idoneità al lavoro specifico”, con le conseguenti implicazioni in
termini di prescrizioni o limitazioni, deve quindi necessariamente essere la risultante finale di un
valutazione strettamente integrata con la valutazione del rischio, non soltanto in termini di possibile
o probabile relazione “causa-effetto” (non sempre facile da dimostrare), ma soprattutto nella
prospettiva di opportuni interventi di prevenzione primaria (sull’organizzazione del lavoro) e
secondaria (sulla persona).
Vale la pena infine di rimarcare che tali interventi si collocano principalmente nel campo della
promozione (oltrechè della protezione) della salute, e la valutazione della loro bontà e
appropriatezza va quindi misurata sia a livello di gruppo, in termini di “costo/efficacia”, sia a livello
individuale, in termini di “rischio/beneficio”.
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