44 — l’altra musica Il flauto magico dei Jethro Tull La band di Ian Anderson in concerto a Padova L l’altra musica a stor ia del la musica rock di Tommaso Gastaldi Piazzola sul Brenta (Pd) è zeppa di muAnfiteatro Camerini sicisti leggendari, che 16 luglio, ore 20.30 attraverso innovazioni tecniche e compositive hanno valorizzato nel corso degli anni l’utilizzo di questo o quello strumento. Se nella maggior parte dei casi si tratta di chitarristi, bassisti, tastieristi e batteristi, c’è però un unico caso in cui un flautista entra di diritto nell’olimpo della storia della musica. Ian Anderson è stato il primo e unico musicista a introdurre l’uso del flauto traverso nelle composizioni di musica rock. Un innovatore, così come lo era stato l’agronomo inglese del XVIII secolo Jethro Tull, inventore della seminatrice meccanica e teorizzatore della moderna agricoltura, dal quale prese il nome il gruppo che Anderson fondò nel 1967. I Jethro Tull rappresentano un caso unico, una band che in quanto a longevità è seconda solo ai Rolling Stones e che da più di quarant’anni offre musica di ottima qualità, godendo anche di un profondo legame con il proprio pubblico, che ancora oggi accorre instancabile e fedele ai loro concerti. Ventuno dischi da studio, senza contare i live e le raccolte, e un numero impressionante di copie vendute che si aggira attorno ai sessanta mi- lioni. Sono passati indenni attraverso le molteplici metamorfosi della discografia e della musica rock, riuscendo a creare uno stile unico che negli anni ha continuato a seguire il flauto magico di Ander- son nell’esplorazione di molti generi musicali, dal blues al folk, fino al progressive e all’hard-rock. Quando il gruppo ha mosso i primi passi in Inghilterra era molto diffuso il british blues ed è proprio partendo da queste influenze che nasce il primo loro disco, This Was del 1968, nel quale spicca «Song for Jeffrey», prima di molte canzoni dedicate all’amico Jeffrey Hammond. L’anno successivo è la volta di Stand Up, in cui troviamo uno dei brani di maggior successo del gruppo, «Boureé», che altro non è che una rivisitazione in chiave jazz di una suite per liuto di J.S. Bach. Dopo Benefit, del 1970, arriva quello che è considerato il loro lavoro migliore, Aqualung. Un riff di chitarra tagliente e oscuro è il biglietto da visita per il pezzo che dà il titolo all’album e che rimarrà la canzone di maggior riferimento per i Jethro Tull. Un album crudo come l’immagine del barbone in copertina o le invettive contro la chiesa anglicana nel testo di «My god». Thick as a Brick è l’altra pietra miliare del gruppo, un concept album sviluppato attraverso un’unica suite composta da due sole lunghe tracce (divisione all’epoca forzata dalle due facciate dei vinili). Siamo in piena epoca progressive, nella quale il rock vuole elevarsi, creare forme più lunghe e complesse della semplice forma canzone, ispirandosi anche a elementi di musica classica. Il cammino continua e i Jethro Tull questa volta decidono di abbracciare il folk: tre album, Songs from the wood, Heavy Horses e Storm Watch per un ritorno alle origini della cultura rurale inglese e a una maggiore attenzione ai problemi ambientali. Negli anni ottanta anche Anderson rimane affascinato dal suono delle tastiere elettroniche che coltiva in album come A e The Broadsword and The Beast del 1982. Ancora un cambio di rotta, questa volta verso un sound più metal, con il disco Crest of a Knave, che a sorpresa varrà al gruppo il premio come miglior band heavy metal nel 1989. Se negli anni successivi ci sarà un breve ritorno alle sonorità blues e jazz degli inizi della loro carriera, la discografia più recente è invece composta da riedizioni di album precedenti come This Was, nel quarantesimo anniversario dalla pubblicazione, o Aqualung Live, e da pubblicazioni rimasterizzate di concerti come quello al Madison Square Garden del 1978. Assieme a Martin Barre, chitarrista della band dal 1969, Ian Anderson, passato per alcuni problemi di salute, non è più il folletto che incantava il pubblico suonando su un piede solo ma continua a portare instancabile in giro per il mondo i suoi Jethro Tull, senza aver mai perso quel magnetismo, quel carisma e quella inesauribile voglia di suonare solo per il piacere di creare ottima musica. ◼ Ian Anderson (www.j-tull.com). Piazza San Marco abbraccia Aznavour C harles Aznavour vivrà una serata da protagonista a Venezia il 16 luglio, quando salirà sul palco appositamente allestito in piazza San Marco per un concerto celebrativo di una lunghissima carriera. Chiediamo a Giò Alajmo – firma storica del Gazzettino – come vede questo legame tra Venezia e Aznavour. Fra Charles Aznavour e Venezia c’è un legame indissolubile rappresentato da quella canzone molto malinconica e molto romantica che fu «Com’è triste Venezia», racconto di un amore finito e con esso la magia della città da cartolina. Aznavour ha avuto un vero e proprio periodo di gloria in Italia in passato, lo ricordi? Aznavour è stata forse la voce francese più famosa in Italia negli anni sessanta e settanta, quando ancora la cultura anglosassone non era penetrata del tutto sulla scia della beatlemania e di Hollywood. Era ancora l’epoca delle versioni in lingua, con le canzoni francesi tradotte in italiano che assumevano un fascino esotico per l’accento un po’ nasale e l’erre moscia. Eppure poteva non essere affatto francese... Poteva nascere americano, Aznavour. Strano destino il suo. La madre ebbe le doglie a Parigi, in attesa del visto per gli Usa. Era il 1924. Così l’armeno Shahnour Vaghinagh Aznavourian, nipote del cuoco dello zar Nicola II, si ritrovò francese e forse fu la sua fortuna. Una carriera cominciata presto no? Cresciuto nel ristorante di famiglia meta di artisti, a nove anni Charles calcava già i palcoscenici teatrali facendosi chiamare Aznavour. A ventidue Edith Piaf se lo portò in tour in America. A trentadue cantava all’Olympia sulla scia del successo di «Sur ma vie» mentre in Usa il rock’n’roll era agli albori e ci si chiedeva chi diavolo fosse quel tal Elvis Presley. I critici non lo consideravano una gran voce, ma il pubblico adorava il suo carisma e la capacità di comunicare emozioni, scrivendo e interpretando canzoni mai banali, spesso velate di malinconia e sconfitta e talvolta coraggiose nell’affrontare temi scomodi. Una carriera lunghissima la sua, e a Venezia avrà anche ospiti d’eccezione. A ottantasei anni, Aznavour può ben permettersi di regalarsi un omaggio di carriera cantando nel salotto d’Europa. Con lui, a parte l’orchestra d’archi della Fenice diretta da Eric Wilm, saranno tre artisti italiani che in qualche modo gli devono qualcosa, Massimo Ranieri, Patty Pravo e Franco Battiato. Sono solo alcuni dei tanti che hanno inciso o renterpretato le sue canzoni. Ranieri in particolare ha ricordato di recente di aver avuto proprio Aznavour come modello per la sua carriera giocata tra musica e teatro. Ma cosa possiamo dire di Aznavour cantante? Charles Aznavour è stato un gigante della canzone. È stato un attore popolare. È stato forse il personaggio di spettacolo la cui carriera più si può avvicinare a quella di Frank Sinatra, altro inimitabile gigante. Il fatto di poter cantare in sei lingue lo ha reso popolarissimo in ogni parte del mondo. E l’aver scritto o interpretato più di mille canzoni, la maggior parte d’amore, ne fa uno degli interpreti e autori più prolifici di sempre. Ma quel che non ha fatto la musica ha fatto il cinema. Sono più i film nel suo carniere che non i dischi, e se la maggior parte delle pellicole lo vede protagonista di copioni popolari e non particolarmente raffinati, non mancano lavori di alta qualità che portano la firma di Truffaut, Cocteau, Chabrol. Anche come attore ha comiciato presto... Il suo primo ruolo è del ’36, ma è anche nel primo film della nouvelle vague francese, La fossa dei disperati, in cui interpreta un pazzo nel ’58, ben prima di Basaglia e del Nido del cucùlo. Come mai questa popolarità? La sua faccia segnata, gli occhi tristi, il naso pronunciato, la statura non rimarchevole, ne fanno un personaggio che può stare al passo dei divi americani, una specie di Spencer Tracy europeo. Lavora con tanti, per tutta la sua vita. In circa sessanta film, fra cui Morire d’amore presentato a Venezia nel ’71. Il ruolo forse più importante è però il più recente: nel 2002 interpreta un regista armeno in Ararat di Egoyan, facendosi carico in prima persona di rievocare la tragedia dimenticata del popolo armeno, il genocidio perpetrato dai turchi nel 1915. Di questa eredità storica Aznavour si farà interprete non dimenticando le sue radici, accettando qualche anno fa di essere ambasciatore dell’Unesco in Armenia. Un artista scontroso, malinconico, riservato o disponibile? Da cantante la sua fama è stata pari alla sua disponibilità. In Italia ha partecipato a un Festivalbar, a tre Festival di Sanremo in varia veste. A innamorarsi delle sue canzoni – anche grazie alle splendide traduzioni di Calabrese – sono stati in tanti e in epoche diverse, da Modugno con la classica «La mamma» a Mina, da Ornella Vanoni a Mia Martini alla Zanicchi, da Enrico Ruggeri a Battiato, da Massimo Ranieri a Renato Zero che si sono entrambi riconosciuti nell’«Istrione». Attraverso le sue canzoni sono passati sessant’anni di storia e cultura francese, ma anche un po’ della nostra. (l.m.) ◼ Charles Aznavour ed Edith Piaf (da: http://monsieuraznavour.free.fr). l’altra musica l’altra musica — 45 46 — dossier licei musicali Paco de Lucía, artista universale Alla Fenice per il Venezia Jazz Festival dossier licei musicali I di José María Velázquez-Gaztelu stato di allerta, in sintonia con ciò che potremmo chiamare ispirazione, trae origine l’unicità della sua espressione artistica, che divide la storia della chitarra flamenca in due periodi significativi, entrambi nettamente definiti: prima e dopo Paco de Lucía. «Esistono fattori – sentimenti, ricordi, ecc. – che ti spingono a comporre?» gli chiesi nel 1994 in un’altra intervista. «Nel processo compositivo, come disse qualcuno (Thomas Alva Edison, ndt.), c’è il dieci per cento di ispirazione e il novanta di sudorazione. Bisogna lavorare, rinchiudersi con la chitarra per ore e ore fino a quando arrivi ciò che chiamiamo ispirazione», fu la sua risposta. Paco è attorniato dalla grazia della costruzione musicale, da quella qualità innata che è l’inventiva, la quale lo eleva alla condizione di illuminato. Ma in questo caso si tratta di un illuminato razionale, che anche ricevendo gli impulsi di scoperte spontanee e straordinarie, dispone comunque coscientemente di essi e li ordina fino a dar loro la forma che richiede la sua personale necessità artistica. Se da un lato il potenziale creativo di Paco de Lucía ha modificato la rotta della chitarra flamenca, innalzandola a un’altra dimensione e dotandola di un ricchissimo e inesauribile universo melodico, dall’altro lato ha rivoluzionato il concetto stesso di esecuzione, ma con una naturalezza tale che il suo virtuosismo non sembra nemmeno intenzionale: la velocità delle sue picchiate vertiginose sui tasti, il dominio assoluto del manico della tastiera in tutta la sua estensione, la pulizia cristallina del tremulo, l’esattezza nel fraseggio, l’accordatura perfetta, gli accordi inediti e sorprendenti e gli arpeggi originali hanno permesso alla chitarra flamenca, nelle sue mani, di accedere ad ambiti fino a ora impensabili, e hanno accelerato il suo sviluppo attraverso un fertile processo evolutivo. Con la Medaglia d’Oro delle Belle Arti, il Premio Príncipe de Asturias per le Arti, le lauree honoris causa all’Università di Cadice e al Berklee College of Music dell’Università di Boston, per citare soltanto alcune delle sue onorificenze, Paco de Lucía è uno dei grandi musicisti del nostro tempo, un artista universale che ha creato un nuovo linguaggio per la chitarra flamenca. ◼ l flamenco possiede una sua peculiarità, che fa sì che il chitarrista possa essere allo stesso tempo compositore e interprete. Dall’epoca lontana dei maestri nati nel secolo XIX, come Paco el de Lucena, Patiño, Paco el Barbero o anche Ramón Montoya, la tradizione ha trasformato i chitarristi flamenchi in musicisti totali, in grado di manifestare il proprio impulso creativo e allo stesso tempo eseguirlo. Naturalmente questa particolarità ha delle ripercussioni non solo nei risultati finali – nei quali si coglie l’intensità delle sonorità, l’originalità di ciascun brano e la speciale enfasi di ogni passaggio – ma anche nello sviluppo di opere di per sé aperte (cioè mai imprigionate in strutture definitive) e per questo suscettibili di approdare al terreno dell’improvvisazione. Questa caratteristica di libertà musicale, anche se all’interno di schemi stabiliti, conferisce infatti al chitarrista flamenco, se le circostanze lo richiedono, la prerogativa di improvvisare. Nell’inverno del 1973, durante il montaggio di un documentario per la televisione, feci a Paco de Lucía la seguente domanda: «Parlando di tecnica e improvvisazione, quale credi sia la relazione tra questi due concetti?» E lui mi rispose: «Penso che l’improvvisazione possa realizzarsi soltanto se si possiede un grande dominio tecnico. L’improvvisazione per me è l’espressione dell’artista secondo il suo stato d’animo, ma se questi ha dei problemi con le dita, essa non può esistere...». In quel periodo aveva ventisei anni e già allora dimostrava di avere il dono della creatività, che in lui sorge in modo compulsivo, come un’inesauribile sorgente che irriga la sua opera con raffiche abbaglianti. È difficile essere posseduto da questo potere, che secondo Paco non nasce per caso, ma è invece il prodotto di un continuo lavoro, della perseveranza e del contatto prolungato Venezia – Teatro La Fenice con lo strumento. Da questo permanente 29 luglio, ore 21.00 Traduzione di Eva Rico Al centro, Paco De Lucía. l’altra musica — 47 Venticinque anni in musica per Suzanne Vega University, Suzanne comincia a esibirsi in piccoli locali e nel 1984 ottiene il primo contratto discografico, che, l’anno successivo, la porta alla pubblicazione del suo album d’esordio, Suzanne Vega, disco introspettivo che ottiene un buon successo di pubblico e critica. Solitude Standing, del 1987, è il disco che contiene due tra i suoi singoli forse più conosciuti e amati: «Tom’s Diner», la cui bellissima versione originale a cappella è stata in seguito reinterpretata e remixata da numearà l’xi edizione di «Tra Ville e Giarrosi artisti – molte di queste versioni sono dini», itinerario di danza e musica nelle ville e corti del Polesine, a ospi- Rovigo – Chiostro Olivetano state pubblicate nella raccolta Tom’s Album, tra esse anche una dei R.E.M. pubblicata tare una delle due date italiane del Close up 4 luglio, ore 20.30 sotto uno pseudonimo – e «Luka», pezzo Tour di Suzanne Vega. Il 4 luglio, infatti, scritto dal punto di vista di un bambino la cantautrice americana sarà a Rovigo per che subisce violenze domestiche, argomento piuttosto inbrindare ai suoi venticinque anni di carriera e presentare solito per un successo pop. E nel 1988 anche la nostrana un nuovo album antologico, Suzanne Vega Close up Vol.1: Paola Turci incide una cover italiana di «Luka» con il titoLove Songs, uscito in Italia lo scorso 15 giugno. lo «Mi chiamo Luka»: contenuto nell’album Ragazza sola, Fattasi conoscere all’inizio degli anni ottanta suonanragazza blu, il do canzoni folk nei bar del Greenwich Village, la brano perVega in questo suo nuovo album, il primo di quatde però ogni tro, rilegge le proprie canzoni in chiave acustica. r ifer i menA Rovigo la cantautrice presenterà uno spettacolo to a violenze che alla vocazione folk mescolerà suoni più elettrisessuali. ci e innovativi. A portaNata l’11 luglio del 1959 a Santa Monica, in Calire un camfornia, all’età di un anno la piccola Suzanne si trabiamento sferisce con la madre e il padre adottivo a New di rotta nelYork, dove cresce nei quartieri socialmente «difficilo stile delli», quelli di Spanish Harlem e dell’Upper West Sila Vega è de. All’età di nove anni comincia a scrivere poesie il terzo ale a quattordici dà vita alla sua prima canzone. Alla bum, Days of New York High School of PerforOpen Hand. ming Arts (la scuola in cui È il 1990, e è ambientato il film la musica di e musical SaranSuzanne dino famosi) studia v ie ne più danza modersperimentana. Ma la mule. Due anni sica rimane il dopo, nel ’92, esce nei negozi 99.9Fº («ninety-nine point suo primo e grannein Fahrenheit degrees»), che consiste in una miscela de amore. Studeneclettica di musica folk, dance e industriale, con canzoni tessa alla Columbia brevi e stile minimale. Il quinto album è del ’96. Si tratta di Nine Objects of Desire, con una musica che varia da uno stile semplice ed essenziale a una produzione industriale come quella del disco precedente, e che contiene il brano «Caramel», incluso nel film di Michael Lehmann Un uomo in prestito (The Truth About Cats and Dogs, 1996), e «Woman On The Tier», usato da David Robbins, che ne curava le musiche, nel film diretto da Tim Robbins nel ’95 Dead Man Walking. Nel settembre del 2001 viene dato alle stampe Songs in Red and Grey, disco che prende spunto dal divorzio della Vega da suo marito, il produttore discografico Mitchell Froom, a cui seguono Retrospective – The Best of Suzanne Vega e Beauty & Crime. Oltre a Rovigo, la Vega il 6 luglio aprirà l’Arezzo Festival. Due date esclusive da non perdere. (i.p.) ◼ A sinistra: Suzanne Vega (wikimedia.org). Sopra: la copertina del suo ultimo album. l’altra musica S 48 — l’altra musica La grande musica in Piazza San Marco profondo riesca a infondere molta comunicativa e a tratti fascinosa spettacolarità, al punto da guadagnarsi, Norah e Pat, la stima di audience eterogenee, dai puristi ai fricchettoni, dagli amanti dell’hard-bop ai fan del tranquillo mainstream. Presi individualmente ecco quindi che la ventinovenne, graziosissima Norah potrebbe rientrare nel novero delle folksinger o cantautrici statunitensi, con quel tocco in più di accesa musicalità che, ad esempio, nelle giovani colleghe inglesi, da Joss Stone a Amy Winehouse, è condito di di Guido Michelone blues o di soul: la Jones invece preferisce una canzone venata di uno swing delicato, mentre sul pianche quest ’anno il Festival di no armonico viene subito da pensare al reVenezia sul jazz punta su grossi noVenezia cupero degli stilemi bianchi country & wemi, su jazz star in tutto e per tutto, Piazza San Marco stern. In effetti, se non fosse per l’imprinin quanto a successo e notorietà, figure paPat Metheny Group ting fornito di solito da un gruppo acustico ragonabili ai divi del pop o del rock: oltre 23 luglio, ore 20.30 paragonabile al classico jazz quartet, i braa Paco De Lucia (cfr. p. 46), la nuova edini della Jones guardano alle tradizioni canzione lancia soprattutto Norah Jones e Pat Norah Jones 24 luglio, ore 20.30 tautorali delle Joni Mitchell o delle Laura Metheny, che proprio al pop e al rock venNyro, che negli anni settanta rinnovano la gono spesso associati, sia pur con diverse white song nordamericana; tuttavia c’è in Norah un modo motivazioni. Cantante la prima, chitarrista il secondo, oldi porsi che attiene pure, nel timbro vocale, alle balladeutre la fama massiccia, la Jones e Metheny hanno in comuses di scuola jazzy, con l’eredità quasi naturale del lirismo ne una versatilità artistica raffinata, che porta entrammalinconico da romantica crooner; l’interpretazione piabi a relazionare gli elementi del jazz (melodia, timbrica, na, controllata, talvolta sofferta, per la Jones è tutto: non improvvisazione) con altre musiche, soprattutto odierne a caso, all’uopo, si serve di un repertorio straordinario e giovanili. Già di per sé il jazz è musica di contaminain cui alterna le proprie melodie a evergreen, cozioni, assimilazione, ibridazioni, ma nei casi di Nover e standard. La novità, rispetto ad album rah e Pat il loro approccio di stile pop-jazz o e tournée precedenti, sarà ascoltarla a rock-jazz può ritenersi una variabile fusion Venezia solo voce e chitarra (lei che al quadrato o, culturalmente, all’ennedi solito suona il pianoforte), agsima potenza. giungendo così atmosfere anTutto questo riguarda anzitutto il cora più raccolte e intimiste. denominatore comune di musiciTutt’altra musica per Pat sti seri e preparati, che però reMetheny, 55 anni, ormai stano lontani per anagrafe, ruoincanutito capellone: mulo, forma mentis e bagaglio intelsica strumentale per chilettuale. Presi singolarmente tarre e band più o meno Norah Jones e Pat Metheny riallargate, con un lavoro velano insomma le tante strade sul jazz assai più speriche, ora, sta percorrendo il jazz mentalista e multidiscidella postmodernità, un jazz plinare, senza però diche smette con gli invecchiati sattendere i gusti meno avanguardismi, le futili virtuoesigenti e più afsità, le pacchiane gigionerie, per fini al crossover guardarsi attorno, dentro, in netodierno; già i to controluce e forse con autorevole sincerità. Ciò non toglie che tale status Pat Metheny e Norah Jones al Venezia Jazz Festival l’altra musica A l’altra musica — 49 Il clarinetto di Lucio Dalla per Fortuny L’iniziativa della Venice Foundation copre le spese di restauro U simo diversi elementi del post-bop, della musica black, della canzone yankee e persino delle suggestioni brasilere e ispano-americane. Dagli anni settanta dei fortunati esordi, in parallelo ai mostri sacri John McLaughlin, Carlos Santana, Joe Pass, Lee Ritenour, fino alle conferme attuali, il suono del Group sostanzialmente non cambia, magari si avvicina ai trend correnti, benché in parallelo Metheny voglia e riesca di frequente a cimentarsi con linguaggi sonori ardimentosi, dal free al solo, dal guitar jazz trio classico a un’orchestra meccanica autodiretta. I fan di Pat non sempre amano tali escursioni, preferendo il tipico «fusionista» con le tirate chitarristiche dai toni sognanti, in mezzo ai ritmi commisti a loro volta ai già citati virtuosismi romanticheggianti. E sotto quest’ultime prospettive sia Norah Jones sia Pat Metheny hanno un altro bel segno condiviso: quello di non deludere mai le loro platee, offrendo show carichi di sentimento, arte, professionalità. ◼ Sopra: Pat Metheny in concerto (foto di Manfred Schweda, www.thisfabtrek.com). A fronte: Norah Jones (norahjones.com). di Manuela Pivato na serata tutta lunare con il clarinetto di Lucio Dalla e un menù a tema per aiutare i tesori di Palazzo Fortuny. Dopo le dorature del soffitto della Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, Venice Foundation si è presa a cuore le sorti del modellino del Teatro delle Feste, dei disegni preparatori per i tessili e dei dipinti dell’atelier conservati del museo di campo San Beneto, e l’ha fatto con una cena specialissima, il 26 giugno scorso, nel giardino di Ca’ Rezzonico. Trecento ospiti che hanno accolto l’invito di Franca Coin, presidente della Fondazione, ad «adottare» un pezzettino del Fortuny per coprire le spese del restauro, e che in cambio hanno ricevuto una festa ispirata alla luna. Prima una mostra con i pastelli di Giorgio Tonelli, poi le fotografie e le poesie di Marco Alemanno, quindi le note di plenilunio di Lucio Dalla, infine la cena celestiale. La nuova «avventura», come la chiama Franca Coin, riguarda i disegni per i tessili, i dipinti dell’atelier e, soprattutto, il grande modello del Teatro delle Feste, un vero e proprio teatro in miniatura ideato da Mariano Fortuny nel 1912 insieme a Gabriele D’Annunzio e Lucien Hesse. Il teatro avrebbe dovuto sorgere a Parigi e consisteva in una scena e una sala coperta da una gigantesca cupola in tela, dando cosi l’impressione di trovarsi all’aperto. Un gioiellino che rimase limitato al modello in miniatura del Fortuny, incredibilmente rifinito anche nell’apparato tecnico, e che ora il restauro vuole rendere nuovamente funzionante. ◼ Mariano Fortuny y Madrazo, Autoritratto (1947, tempera su cartone, Venezia, Palazzo Fortuny) e Lucio Dalla. l’altra musica primi album del Pat Metheny Group, proprio in quanto incisi con la bavarese ECM (celebre per un’avanguardia sobria, fruibile, cesellata, da Keith Jarrett a Jan Garbarek), mettevano in luce un compositore, un bandleader e soprattutto virtuoso allo strumento sia elettrico sia acustico, in grado di accogliere nel proprio sound originalis- 50 — l’altra musica Patti Smith, rock senza età re da quasi quindici anni, al basso, la figlia Jesse Smith al pianoforte e Mike Campbell alla chitarra. Con questa formazione Patti Smith salirà sul palco di Piazza San Marco a incantare il suo pubblico, fatto di ragazzi dai venti ai settant’anni, tre generazioni unite dall’adorazione verso la poetessa indiscussa del rock, come se non fossero passati oltre trent’anni da quando, a 28 anni, Patti Smith entrò nel mondo della musica prima con reading di poesia e suoni, quindi con singoli di etichette indipendenti, infine con un album prodotto da Jodi Manuela Pivato hn Cale. Per alcuni anni Patti fu la regina di un rock nuovo e impegnato, conquistando i critici e scalanagrissima , voce dolente , sguardo le classifiche anche con passaggi spericolati. do febbrile, ha segnato la storia del Dopo uno strepitoso tour italiano, nel 1979 rock aggiudicandosi il titolo di sacerVenezia la Smith si ritira dalle scene e sposa il chitarridotessa «maudit». «Maledetta» e impegnata da Piazza San Marco sta degli MC5 Fred «Sonic» Smith, a cui è dedisempre e per sempre, quindi anche al fianco di 1 agosto, ore 21.00 cato il brano «Frederick» e dal quale ebbe due Emergency, l’associazione umanitaria di Gino figli, Jackson e Jessica. Dieci anni dopo pubStrada a cui Patti Smith dedicherà un concerto blica un disco gradevole ma che la critica giudica non speciale in Piazza San Marco il primo agosto. Un concerabbastanza incisivo – Dream of Life – a cui seguirono alto attesissimo che la laguna è riuscita a includere nel cartri anni di silenzio. Gli anni novanta furono molto diftellone degli eventi estivi sotto le stelle dopo lunghe tratficili: Patti perse il fidatative, per la somma gioto pianista Richard Soia dei suoi fans. hl e Robert MapplethorLa data veneziana è pe, compagno degli anni stata inserita nel tour giovanili, il fratello Tod We Shall Live Again, doe il marito Fred, morto po l’incontro folgoranper un attacco di cuore. te tra la Smith ed EmerIl dolore, però, la spinge gency l’anno scorso a Fia ritornare a fare musica renze. Nel corso dell’ote completa l’album che tavo raduno nazionaprogettava da tempo con le con i volontari, la canFred con il nome di Gotante di Chicago ha dene Again. dicato all’associazione di Negli anni successivi Strada la sua indimenticontinua a calcare i palcabile «People Have The coscenici con concerti in Power» e sono incomintutto il mondo, mentre le ciati i contatti per realizsue canzoni non cessazare il concerto in Piazza no di denunciare gli orSan Marco, organizzato rori e le follie del mondo: in collaborazione con il l’invasione cinese del TiCentro Pace di Venezia e bet, la morte di Ginsberg International Music. e Burroughs, il Vietnam, Sostenitrice di infinite Madre Teresa e il mito di battaglie per i diritti soHo Chi Minh, a cui Patciali e ideale ponte tra la ti dedica il suo album Beat Generation e gli ardel 2000. Il disco ineditisti contemporanei, Patto più recente è Trampin, ti Smith, 64 anni, è redudel 2004, con una picce dall’enorme succescola apparizione della so del suo libro-biografiglia Jessica che, come fia Just Kids e, con il nuoannunciato, sarà al suo vo tour europeo, ritorfianco il primo agosto na a proporre i suoi sucin Piazza San Marco. ◼ cessi e a offrirci un’anticipazione del suo prossimo progetto musicale. Un tour – We Shall Live Again – totalmente acustico, con gli storici Lenny Kaye alla chitarra e Jay Dee Daugherty alle Patti Smith percussioni, Tony Sha(elaborazione grafica nahan, suo collaboratoda wikimedia.org). A San Marco un concerto speciale per Emergency l’altra musica M l’altra musica — 51 Il gruppo di Montepulciano presenta i «Mistici dell’Occidente» D di John Vignola andato il rock in Italia, se in classifica o fuori dai riflettori. Oggi… … grazie al cielo non ci sono più steccati precisi. Se gli Afterhours vanno a Sanremo a presentare altre band, si possono giudicare per ciò che fanno, non per il gruppetto di amici di cui fanno parte. È un’evoluzione. Nel frattempo, i dischi vendono sempre meno, o spariscono del tutto. Ci sono nuove forme di consumo musicale: non bisogna essere troppo ortodossi, in questo periodo. L’importante è trattare bene chi viene ai concerti, segue quello che fai come artista, ti apprezza: è ritornato importante un rapporto diretto fra musicista e appassionato. Nella sfera della passione, la ricerca sulle sonorità piene vi ha portato a lavorare con un produttore come Pat McCarthy. Siamo riusciti a lavorare con uno dei nostri punti di riferimento, almeno per un certo tipo di sound. Ci ha dato molta libertà di manovra e ha permesso alle canzoni di suonare in maniera diversa dal solito. L a malavita, I mistici dell’Occidente: quinto album in quasi dieci anni pieni, per i Baustelle di Montepulciano. Un gruppo che è riuscito nella difficile impresa di farsi apprezzare dalla critica più esigente, quella che stigmatizza il cosiddetto pop italiano, e una mole considerevole di ascoltatori fuori dagli schemi. Oggi, Francesco Bianconi e compagni escono ancora di più dai cliché: ce lo racconta lui stesso, in prima persona, nell’attesa del suo primo romanzo, che verrà pubblicato da Mondadori alla fine dell’anno. Le vostre nuove canzoni sono meno legate alla melodia di quanto ci si potesse aspettare: non tentate, insomma, di compiacere chi vi ascolta. Non abbiamo mai scritto per compiacenza, semmai per urgenza. A esser sinceri, tante volte le idee musicali arrivano da suggestioni incontrollate. È pur vero che per I mistici dell’Occidente l’idea di base era quella di uscire dai binari della prevedibilità. Meno pop e più rock? Se vuoi, sì. Meno sicurezze e più nostalgia, come ne «Le rane», che fa i conti con un senso di perdita che accompagna da tempo la mia generazione. In musica, soprattutto nelle canzoni di chi ha la tua età, il rimpianIn che senso? to sembra essere una costante ineliminabile. In Italia i timbri sono tremendamente piatti: un disco Se diventa uno strumento narrativo, può andare bene, inglese o americano ha dinamiche più movimentate, che nel senso che non c’è, almeno da parte mia, la pretesa siamo riusciti a ottenere. La sostanza, però, è che non vodi una necessaria appartenenza generazionale. Di siculevamo sembrare troppo contemporanei. ro c’è l’inquietudine rispetto ai tempi moderni, chiamiaDavvero? moli così. Davvero. I riferimenti più importanti per I mistici… si I testi sono volutamente sfuggenti: non solo quelli del cd, anche trovano, grosso modo, fra il 1966 e il 1973… quelli che hai scritto per Irene Grandi («Bruci la città» del 2007 Stai per esordire con un romanzo, per una grande casa editrice: si e «La cometa di Halley», brano presentato a Sanremo tratta di un atto di sfida, rispetto al panorama narrativo di oggi? 2010, ndr.). Spero di no. Confrontarmi con la scrittura a largo respiNon amo essere riconosciuto, forse, ma penso che il ro per me è un’avventura, un rischio. Sopratmodo in cui scrivo sia abbastanza chiaro: cantutto, è un’aspirazione che coltivo fin da adotare e mettere in versi le parole non è, comunlescente. ◼ que, dare corpo a un pensiero, a un ragionaPadova mento. Dovrebbe essere, invece, affidarsi alle Parcheggio Nord suggestioni. L’interpretazione è sempre libera. Stadio Euganeo Quando avete cominciato, ci si chiedeva dove sarebbe 2 luglio, ore 20.30 Baustelle (foto di Gianluca Moro). opo l’altra musica I Baustelle allo Sherwood Festival 52 — l’altra musica L’Heineken Jammin’ Festival torna a Venezia irlandesi, nati nel 1990, propongono fin dai primi anni un sound pop rock molto particolare. Vengono scoperti da un’etichetta indipendente, la Xeric Records, che permette ai quattro musicisti di registrare il primo demo. È l’inizio di un grande successo, che li porta a vendere in tutto il mondo più di cinquanta milioni di dischi. Dopo un silenzio che durava dal 2003, nel 2009 la band annuncia il proprio ritorno con un nuovo tour e brani inediti. È poi la volta dei gallesi Stereophonics, che rappresenn cast d’ eccezione per l’edizione tano una delle band più importanti nel panora2010 dell’Heineken Jammin’ Festival, ma della scena rock alternativa mondiale, e dei che, dal 3 al 6 luglio, vedrà alternarsi Mestre Plan de fuga, gruppo che muove i primi passul palco principale allestito nel Parco di San Parco San Giuliano si a Brescia nel 2005, suonando dal vivo i proGiuliano, in riva alla laguna, gli Aerosmith, i dal 3 al 6 luglio pri prezzi originali; ed è del 2009 il loro primo Cranberries, i Massive Attack, i Black Eye Pealbum, In a Minute, tra contaminazioni pop, funk e dark. as, i Green Day, i 30 Seconds to Mars, i Pearl Jam, Ben Il 4 luglio sul palco dell’Heineken approdano i Green Harper, gli Skunk Anansie, i Gossip e molti altri ancora. Day, considerati la band punk-rock migliore del momento. Il loro merito più grande è forse la capacità di rilanciare in chiave pop la musica punk, rendendola commestibile anche a chi non mastica Ramones, Clash e Sex Pistols. l’altra musica U Tutti gli artisti si esibiranno in un’unica data italiana nella magica cornice del Parco di Mestre, allestito per l’occasione con due palchi, un’area relax e una dedicata allo sport, numerosi luoghi di ristoro, un campeggio, un cinema e zone di incontro per chi desidera approfondire l’argomento della musica intesa come professione. Inoltre, grande novità di quest’anno è un enorme ristorante che serve piatti tipici della cucina veneta, e un servizio di gommoni che permetterà, a chi lo desidera, di raggiungere Venezia via acqua. Si comincia dunque il 3 luglio con gli Aerosmith, tra gli artisti più celebri di tutta la storia del rock, che hanno influenzato gran parte della musica degli anni settanta e ottanta, contribuendo allo sviluppo di diversi generi tra cui il metal e l’hard rock. La serata procede con i Cranberries: A seguire, i 30 Seconds to Mars, fondati nel 1998 da Jared Leto (voce e chitarra) e da suo fratello Shannon (batteria). Si tratta di una cult band dalle atmosfere cupe come la notte, voci passionali e sound intenso e corposo. Si continua con gli Editors, la risposta inglese alle atmosfere dark dei newyorkesi Interpol, con i Rise Against, band hardcore punk in grado di imporsi in poco tempo sulla scena mondiale, e con i Bastard Sons of Dioniso, formazione punk rock italiana che raggiunge la notorietà nel 2009 grazie al talent show «X Factor». Il 5 luglio approdano all’Heineken i Black Eyed Peas, band formatasi a Los Angeles nel 1998 con ricette a base di breakdancing e rime, e divenuta in breve tempo formazione in grado di raggiungere incassi da record. A seguire i Massive Attack e il loro sound ipnotico che nasce dalla fusione di dub, elettronica e atmosfere dark, i Cypress Hill, gruppo hip hop statunitense, considerato tra i pilastri del latin rap e del rap-rock, i N.E.R.D., la cui pronuncia esatta è «en ii ar dii» e le cui sonorità sono un po’ rock ma anche hip hop e soul, i Club Dogo, gruppo l’altra musica — 53 dance. A seguire, la band indie-rock dei Gomez. A esibirsi durante questa nuova e attesissima edizione dell’Heineken, anche le trenta band vincitrici del concorso «Contest», selezione curata da Rock Tv, che porta sui due palchi del San Giuliano i migliori gruppi emergenti italiani, offrendo loro l’opportunità di farsi conoscere a livello internazionale. E se dal 7 al 9 luglio il parco rimarrà chiuso al pubblico per ragioni di sicurezza (in quanto tutte le strutture del festival resteranno montate), il 10 riaprirà i cancelli per un Ben Harper, cantante e polistrumentista, vero e proprio genio nel mescolare pop, rock, funk, blues, reggae e folk. Nel 2008 l’idea di fondare i Relentless Seven insieme a Jason Mozersky (chitarra solista), Jesse Ingalls (basso e tastiere) e Jordan Richardson (batteria), con i quali salirà sul palco del festival veneziano. Sarà quindi la volta degli Skunk Anansie, uno dei gruppi più viscerali e controversi degli ultimi anni. La serata prosegue con i Gossip, trio americano formatosi in Arkansas nel 1999 dall’incontro tra la cantante Beth Ditto, il chitarrista Brace Paine e la batterista Kathy Mendonca: un cocktail esplosivo ottenuto da un mix di ingredienti tra cui il punk, il funk e la ultimo appuntamento in musica: l’Electro Venice Festival, una giornata intera dedicata a sedici tra i migliori dj del mondo, dal duo belga 2Many Djs al tedesco Richie Hawtin, dal brasiliano Gui Boratto allo statunitense Steve Aoki, agli italiani Bloody Beetrots e Marco Carola. (i.p.) ◼ l’altra musica metropolitano attivo a Milano fin dagli anni novanta, che ha fatto dell’hip hop la propria bandiera, e Airys che altro non è se non Syria «allo specchio», un progetto con cui la cantante romana si rilancia sul palcoscenico della musica italiana e non solo. Il 6 luglio aprono i Pearl Jam, gruppo imprescindibile del movimento grunge insieme a Nirvana, Soundgarden e Alice in Chains. La loro evoluzione degli ultimi anni li porta a un rock più morbido in cui si possono ancora riconoscere alcuni tratti dei vecchi dischi. Si prosegue con A fronte: a sinistra, Green Day (divertimentitalia.com); a destra, Skunk Anansie (elaborazione grafica da lastfm.it). Sopra: a sinistra, Cranberries (testigratis.com); a destra, Black Eye Peas (video-musicali.com). Sotto, a sinistra Aerosmith (wordpress.com); a destra, 30 Seconds to Mars (inforo.com). 54 — l’altra musica Ma sono solo canzonette? La vera storia di «Nina» T di Gualtiero Bertelli Gualtiero, anni così non pensavo proprio che sarebbero arrivati. Nel nostro mestiere ci sono alti e bassi, come tu sai, ma così… Praticamente ho tirato avanti, da dieci anni a ‘sta parte, con i diritti di una canzone…». Era un Gino Paoli interdetto, più che preoccupato, quello che mi parlava in quel mese di dicembre del 1981. l’altra musica « i assicuro, L’avevo invitato a tenere un concerto a Dolo, all’interno di una rassegna organizzata da Mira, Dolo e Fiesso, il prologo di quella che sarebbe stata la collaborazione tra tutti i Comuni della Riviera del Brenta in quella stagione ricca di creatività culturale. È arrivato con il suo pianista; un Paoli intimo, ricordava quello dei maglioni neri e degli occhiali scuri degli anni sessanta. «Ho vissuto – continuava – con la SIAE di “Sapore di sale”. Meno male che ci hanno fatto i film!» Erano gli anni in cui Gianni Moranti si era ritirato a studiare il contrabbasso, Dalla scriveva cose bellissime con i testi del poeta Roversi, ma vendeva poco, e i nomi nuovi erano Guccini, De Gregori, Venditti oppure Area, PFM, Banco e così via. Soltanto tre anni dopo Paoli riesplodeva: girava con un’orchestra, luci, suoni, tutto in grande, anche il prezzo, e mentre Dalla, dopo il successo di «Banana Republic», si preparava a fare il bis con il riesumato Morandi, Canzonieri vari riponevano le chitarre e l’Italia riprendeva la sua strada dopo la tormentata stagione delle canzoni contro. Riflusso?? È di quel periodo l’invenzione di una frase che di primo acchito non capivo bene cosa volesse dire in concreto, ma che mi ha aggiustato «ideologica- mente»: «Il personale è politico», dove per «personale» non si intendono le maestranze di un’azienda, che ci saremmo ritrovati nel più ovvio pan-sindacalismo, ma le proprie esigenze personali, i sentimenti, le speranze, gli obiettivi anche se disgiunti dal sol dell’avvenire. Sembra poco, sembra ovvio, ma mica tanto, almeno a quei tempi, per quelli come me! Non ho mai amato molto Milano e men che meno la Milano uggiosa dell’inverno. Ma in quei primi di febbraio del ‘95 avevo una buonissima ragione per soprassedere ed essere moderatamente soddisfatto di esserci. Si sposava Emanuele – un mio carissimo amico divenuto poi collega – con Donatella, e per gli amici, circa duecento, aveva affittato il circolo ARCI di Sesto Marelli. Ci arrivai con tre colleghi di Venezia e subito fummo coinvolti in una bagarre dal sapore antico. Bicchieri di vino, panini e altro, musica: un gruppo improvvisato di amici che armeggiava attorno ad amplificatori, chitarre, tastiere. Dopo circa un’ora di chiacchiere e canti a squarciagola, un chitarrista che aveva appena finito di clonare gli Inti Illimani mi chiama e mi chiede di cantare «Nina». Aderisco, lo faccio, più o meno silenzio, applausi commossi, torno dagli amici. Si avvicina un uomo tra i quaranta e i cinquant’anni, alto, barbuto, che, in un italiano eccellente, benché seconda o terza lingua, mi chiede: «Sei Gualtiero Bertelli? – e al mio cenno – L’avrei giurato. Stavo parlando quando hai incominciato a cantare e mi son detto: ma questa voce? è lui!!!» Poi, rendendosi conto del mio interdetto stupore, ha continuato: «Sono di Bratislava, vivo e insegno in Italia e sono uno scrittore. Mi chiamo Alf Schneditz e ho scritto racconti e romanzi sia in tedesco che in italiano. Nel 1972 un amico mi ha regalato una cassetta di canzoni italiane registrate durante dei concerti a Salisburgo. Tra le altre c’era “Nina”. La melodia e la tua voce mi hanno preso. Non capivo nulla del testo e a me sembrava una ninnananna e così l’ho cantata, con una lingua che ti lascio immaginare, a mia figlia che era appena nata e che è cresciuta con la tua canzone. Quando poi sono venuto in Italia mi hanno spiegato cosa diceva il canto e chi la cantava. Ecco perché poco fa ho riconosciuto subito la tua voce ed ho provato una grande emozione» e via con ringraziamenti di cui, davvero, non avevo alcun merito. È incredibile come una canzone, nata così, a volte per caso, a volte per ispirazione, ma forse sono la stessa cosa, possa determinare l’immagine di una persona, caratterizzare in modi diversi la sua vita, a volte determinarne una svolta imprevedibile. Non avrei mai pensato, quel giorno di febbraio del 1966, che quel foglio di quaderno con le righe di quinta che si stava riempiendo rapidamente di versi e di strofe sarebbe diventato la «mia» canzone. Prudentemente appoggiato sul tavolino a tre zampe del nostro salotto «all’inglese», nella mia casa di famiglia alla Giudecca, scrivevo rapidamente, come sotto dettatura (e vedevo scorrere davanti ai miei oc- chi dieci, venti visi come in un film), le parole di «Dopo sie ani» divenuta poi «Nina ti te ricordi». La cantai la sera stessa a Luisa Ronchini. «Sì… bella… però è una canzone d’amore…» Come tutte quelle che affioravano dalla ricerca e che tanto ci facevano invidiare i bei repertori di monda o di filanda dell’Emilia e della Lombardia così espliciti, così «di lotta». Possibile che in questa regione di preti e suore, pensavamo, non ci sia stato il benché minimo rigurgito non dico rivoluzionario, ma almeno protestatario! Luisa si consolava con il repertorio anarchico che aveva raccolto da una preziosa registrazione con Armando Borghi, l’ultimo dei grandi anarchici tra Otto e Novecento, ma restava l’amaro in bocca per non aver anche noi un bel repertorio battagliero da proporre. Per questo grande fu la soddisfazione quando emersero «Povere filandine» da una registrazione di Maddalena Lucco, e «Semo tute impiraresse» mutuata da varie registrazioni incomplete, fino a quella effettuata con Bianca Medici, divenuta poi l’edizione di riferimento. Quindi si spiega la disillusione di Luisa e il mio imbarazzo a eseguire quella canzone. Piegai il foglietto, lo riposi in tasca con l’idea di lasciarlo lì sepolto a lungo. Dal 4 marzo al 1 aprile a Milano, nel teatro della Società Umanitaria, si teneva la seconda rassegna organizzata dal Nuovo Canzoniere Italiano e denominata «L’altra Italia». Presentava concerti e spettacoli sui temi più diversi. Quell’anno i titoli furono cinque: «La canzone popolare narrativa. Prova di concerto numero uno» a cura di Roberto Leydi e Franco Coggiola (l’ultimo lavoro di Leydi con il NCI), «La opposizione. Trenta canzoni per la resistenza di sempre» a cura di Michele L. Straniero, «Altri vent’anni. La protesta» a cura di Cesare Bermani e Ivan Della Mea, «Piadena, un paese della pianura padana» a cura della Biblioteca popolare di Piadena, e infine «Gorizia. Ricerca di un linguaggio e di dimensioni teatrali» a cura di Paola Boccardo e Tullio Savi con la regia di Virgilio Puecher. Luisa Ronchini, Alberto D’Amico ed io, cioè il Canzoniere Popolare Veneto, prendemmo parte allo spettacolo «Gorizia» mentre io partecipai anche ad «Altri vent’anni» che ragionava sul dopoguerra attraverso le canzoni della lotta popolare, in particolare braccianti e mondine, e dei nuovi autori, e in quel caso oltre a Ivan e a me c’era anche Fausto Amodei. Dopo una prima parte strutturata ci fu un epilogo libero, dove ognuno poteva eseguire ciò che più lo rappresentava in quel momento. Mentre mi interrogavo sul che fare Fausto ci sorprese con una canzone d’amore. In un attimo mi sentii libero di tirare fuori il foglietto che prudentemente mi ero infilato nel taschino della camicia, riporlo sul leggio e intonare con qualche patema «Nina». L’applauso del pubblico assiepato fu davvero sorprendente, lungo e convinto. Leydi esclamò «Questa è la nuova canzone popolare» (me l’hanno riportato perché io ero in totale confusione) e Sandra Mantovani mi chiese immediatamente il testo che io non potevo fornirle seduta stante in quanto era scritto a mano in copia unica. Ho pensato più volte: «E se quella copia l’avessi persa?» «Nina » si è diffusa con una rapidità incredibile. L’ho incisa un anno dopo in un 45 giri della Linea Rossa, con mio fratello Tiziano, distribuito in un numero limitatissimo di copie e soltanto nel 1978 ha avuto lo spazio di un LP, eppure ovunque era già nota e cantata, è finita in varie raccolte di canzoni da eseguire in coro, comprese alcune pubblicazioni dei boys scout, ha avuto un numero imprecisato di incisioni, prime tra tutte quella di Giovanna Marini e di Maria Monti. La cosa sorprendente è che ovunque la cantassi, alla terza sillaba scattava l’applauso del pubblico. Anche a Parigi, a Vienna, a Salisburgo. Certo in quel periodo si girava molto e c’erano ovunque giovani italiani, ma non solo, vista la storia di Alf Schneditz sopra raccontata. Ho ricevuto decine di testimonianze di incontri propiziati dalle note dolenti di quel valzerone e una signora mi ha inviato per e-mail la registrazione dell’esecuzione che i suoi due figli, entrambi attorno ai dieci anni di età, le hanno regalato per il suo compleanno. Dopo la ripresa che ne hanno fatto nel cd Il fischio del vapore Francesco De Gregori e Giovanna Marini, l’interesse per Nina si è rinvigorito con esecuzioni che spaziano dalla musica antica alla salsa, non sempre con esiti illuminanti, ma quanto meno curiosi. Me la son sentita spacciare per autentico canto popolare vecchio di chissà quanti anni e per molti sono diventato «Quello di Nina». Non mi sono mantenuto con i proventi dei diritti d’autore, questo no, ma d’altra parte nessuno ci ha ancora fatto un film sopra! Chissà. Eppure se mi chiedessero qual è la più bella canzone che ho scritto farei fatica a decidere, ma non penserei a «Nina»; per i miei canoni musicali e poetici non è «la più bella». Ma che cosa vuol dire «la più bella»? Eppoi sono le canzoni «più belle» quelle che hanno successo? Faccio fatica a crederlo con gli esempi che corrono. E allora perché Nina sì e altre dieci altrettanto amare, altrettanto poetiche, altrettanto «vere» invece no? Sono domande alle quali ancora non so dare risposta. Mi sfugge l’insieme delle concause che determinano la dimensione di certi successi, anche perché da «Nel blu dipinto di blu» a «Vamos a la playa» ne corre di strada. Sono riflessioni che lascio volentieri ai sociologi della musica e della canzone. Quello che però non avrei mai potuto immaginare quarantaquattro anni fa, in un pomeriggio d’inverno, alla vigilia del mio ventiduesimo compleanno è che oggi, all’alba del terzo millennio, dopo aver ascoltato ciò che stava uscendo da quelle righe, un giovane mi avrebbe detto: «Bella quella canzone, sembra fatta ieri. Per noi è ancora tutto vero». ◼ Alla pagina fronte, in alto, da sinistra: Tiziano e Gualtiero Bertelli cantano «Nina» nel 1967 (Venezia, Ca’ Giustinian); sotto: copertina del 45 giri «Nina» (1967). Sopra: copertina del cd del Dizionario della canzone Italiana di Enzo Arbore con «Nina». l’altra musica l’altra musica — 55