Alzheimer e inibitori delle colinesterasi: c`è qualcosa di nuovo?

bollettino d’informazione sui farmaci
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2006
Alzheimer e inibitori delle colinesterasi:
c’è qualcosa di nuovo?
Riassunto
sional issue, involving not only medical aspects but also
social problems related to the patient and to her/his caregiver(s). In Italy the licensed drugs for the treatment of
Alzheimers’ disease are the reversible cholinesterase inhibitors donepezil, rivastigmine and galantamine. As
shown in several controlled trials, they can temporarily
improve cognition and functional abilities in patients
with mild to moderate Alzheimers’ disease. Recent studies
though, while confirming the mentioned benefits, substantially question their effect on other more relevant
outcomes, such as delay in nursing home placement or
caregiver burden. This new evidence will have to be considered while tracing health care pathways for people with
Alzheimers’ disease and their carers, whose needs and expectations could find effective answers in the Alzheimer’s
Evaluation Units as well as in non pharmacological strategies of proven efficacy. This article is aimed at reviewing
the most recent literature on cholinesterase inhibitors in
the treatment of Alzheimer’s disease, and to clarify if
these drugs offer new opportunities of care.
Le demenze, nel cui ambito la malattia di Alzheimer
è la forma più frequente, rappresentano per il nostro
paese una priorità assistenziale destinata ad assumere
proporzioni progressivamente maggiori nei prossimi
anni. Il deterioramento cognitivo e funzionale associato alla demenza porta a una progressiva perdita
dell’autonomia del malato che, nelle fasi avanzate della
malattia, diviene totalmente dipendente nelle attività
della vita quotidiana. Ciò crea problematiche assistenziali particolarmente complesse che includono
bisogni sia strettamente medici, sia socio-assistenziali,
riguardanti il paziente e chi lo assiste (caregiver). Gli
unici farmaci che in Italia possiedono indicazioni registrate per la terapia del declino cognitivo e funzionale
nella malattia di Alzheimer di grado lieve-moderato
sono gli inibitori reversibili delle colinesterasi (donepezil, rivastigmina e galantamina) dimostratisi efficaci nel migliorare transitoriamente le performance
cognitive e funzionali. Recentemente sono state pubblicate nuove prove che, pur confermando i benefici
dimostrati dagli inibitori delle colinesterasi nell’ambito
di studi precedenti, ne ridimensionano le ricadute su
esiti rilevanti, come ad esempio il ritardo nella istituzionalizzazione del malato o l’entità del carico assistenziale per i caregiver. Costruendo percorsi di cura
per i pazienti con demenza, all’interno dei quali le
Unità di Valutazione Alzheimer dovrebbero rivestire un
ruolo cruciale, si dovrà tenere conto di queste nuove
evidenze, considerando anche forme assistenziali non
farmacologiche di provata efficacia. Il presente articolo
esamina e illustra le recenti pubblicazioni scientifiche
nel tentativo di fare il punto sulle reali nuove opportunità di cura con gli inibitori delle colinesterasi.
Introduzione
a demenza, una delle principali cause di disabilità e di disagio sociale per il mondo occidentale, rappresenta una priorità assistenziale la
cui rilevanza, soprattutto in termini di costi
sociali, è destinata ad aumentare nei prossimi
anni a causa del progressivo invecchiamento
della popolazione associato all’aumento dell’aspettativa di vita. Stime di prevalenza indicano
che, rispetto al 2001, nei paesi dell’Europa occidentale ci si dovrà aspettare un incremento del
43% del numero di persone affette da demenza
entro il 2020, e del 100% entro il 20401. Considerando la malattia di Alzheimer (DA) la più frequente tra le cause di demenza (43%-64%)2,3, il
numero stimato di pazienti nella popolazione
italiana ultrasessantacinquenne del 2001 è di
492.000 (range 357.000-627.000), con una prevalenza del 3,5% (IC 95% 2,5-4,5)4, mentre la sua
incidenza è di 23,8 per 1000 anni/persona (IC
95% 17,3-31,7)5.
Gli inibitori reversibili delle acetilcolinesterasi
(IACh) sono gli unici farmaci approvati in Italia
per il trattamento della DA. Attualmente le mo-
L
Abstract
In Italy, as well as in other industrialized countries,
dementia is a health care priority that in the next few
years will become more and more relevant as a public
health issue. Alzheimers’ disease is the commonest form
of dementia. It causes a cognitive and functional impairment that eventually makes the patient totally dependent during the activities of daily living. Therefore
health care for these patients becomes a multi-dimen-
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AGGIORNAMENTI
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settimane), mentre utilizzando la sezione cognitiva della scala a 70 punti Alzheimer Disease
Assessment Scale (ADAS-Cog) si osserva un miglioramento di 2,0 e 3,1 punti (rispettivamente
con 5 e 10 mg/die per 24 settimane)7. Il quadro
clinico globale valutato mediante la scala a 7
punti Clinician’s Interview Based Impression of
Change (CIBIC plus) migliora di circa 0,5 punti6,8.
Gli effetti avversi più frequenti associati all’uso
del donepezil sono di tipo colinergico: diarrea
(Absolute Risk Increase rispetto al placebo, ARI =
12%) e nausea (ARI = 5%).
L’interruzione della terapia a causa di effetti
avversi è significativamente maggiore tra i trattati
con donepezil rispetto a quelli con placebo (ARI
= 6%)9, mentre la frequenza di eventi avversi gravi
non differisce significativamente10.
lecole presenti in commercio sono donepezil, rivastigmina e galantamina, con indicazione registrata nella DA di grado lieve-moderato, rimborsati
dal Servizio Sanitario Nazionale e sottoposti alle limitazioni della nota AIFA n. 85.
La premessa su cui si è basata l’introduzione in
commercio di questi farmaci era la dimostrazione
di una loro efficacia nel ritardare il declino cognitivo e funzionale associato alla DA, a fronte di
un buon profilo di tollerabilità. Tali premesse
sembrano però non essere confermate dai risultati
di recenti revisioni sistematiche e di uno studio
controllato di ampie dimensioni.
Scopo di questo articolo è di fornire una panoramica della letteratura recentemente pubblicata sull’efficacia degli IAch nella DA, analizzandone le problematiche più rilevanti sotto il
profilo clinico e metodologico e le conseguenti
possibili ricadute assistenziali nel nostro paese.
LO STUDIO AD 2000
Comparso sulla rivista The Lancet nel giugno
2004 e finanziato dal servizio sanitario britannico, lo studio AD 200011-13 merita una considerazione particolare in quanto ha il follow-up
più lungo mai realizzato su pazienti affetti da AD
in trattamento con IACh (3 anni), ed è l’unico
tra gli RCT pubblicati ad avere considerato il
rischio di istituzionalizzazione come outcome
primario. Dei 565 pazienti affetti da AD di grado
lieve-moderato, 282 sono stati assegnati a trattamento con donepezil e 283 a
placebo; 292 pazienti sono stati
La premessa
seguiti per 60 setsu cui si è basata
timane e 111 fino a
l’introduzione
114 settimane. I risultati mostrano che
in commercio di
il rischio di istituzioquesti farmaci
nalizzazione dei pazienti sottoposti a
era la
con dodimostrazione di trattamento
nepezil non difuna loro efficacia ferisce significativamente da quello
nel ritardare il
pazienti del
declino cognitivo dei
gruppo placebo
e funzionale
(rischio relativo
0,97; IC 95% 0,72associato alla
1,30 p = 0,80).
DA, a fronte di
Anche combinando
il rischio di istituzioun buon profilo
nalizzazione e di
di tollerabilità
progressione della
Sintesi delle prove di efficacia
Donepezil, rivastigmina e galantamina sono
stati confrontati con il placebo in numerosi studi
randomizzati controllati (RCT), inclusi in varie
revisioni sistematiche. Non vi sono RCT che confrontino le diverse molecole di IACh tra loro.
Questa lacuna è determinata dal fatto che per la
registrazione di un farmaco è sufficiente un confronto con il placebo, e quindi il reclutamento di
un numero più contenuto di pazienti, oltre che
tempi più brevi per il completamento dello
studio, rispetto a quanto sarebbe necessario nel
caso di confronto tra due principi attivi (studio
di non inferiorità). La carenza di studi testa-atesta è tuttavia una carenza importante, in
quanto dal confronto diretto sarebbe possibile ricavare dati più affidabili sulla efficacia e sulla sicurezza relativa di un farmaco rispetto ad altri
della stessa classe.
“
Donepezil
Recenti revisioni sistematiche hanno sintetizzato i risultati degli RCT che hanno confrontato donepezil e placebo 6,7 . Rispetto al
placebo il donepezil somministrato al dosaggio di
5 o 10 mg/die per periodi che vanno da 3 a 12
mesi produce un miglioramento cognitivo statisticamente significativo. Utilizzando il Mini
Mental State Examination (MMSE, punteggio
massimo 30 punti) la differenza osservata è di 1,8
punti a favore del donepezil (10 mg/die per 52
”
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Rivastigmina
Una revisione sistematica Cochrane 14 aggiornata al 2003 ha analizzato i risultati di 8 RCT
(pubblicati e non) sulla rivastigmina. Rispetto al
placebo, il farmaco somministrato a dosi di 6-12
mg/die produce, al termine di un follow-up di 26
settimane, un miglioramento cognitivo quantificabile in 2,1 punti alla ADAS-Cog e un miglioramento funzionale pari a 2,2 punti della Progressive Disability Scale (PDS) nell’attività della
vita quotidiana. Nausea (ARI = 17%) e vomito
(ARI = 14%) sono gli effetti avversi più comunemente associati alla terapia, e causano il 9% in
più di sospensioni del trattamento rispetto al
placebo8,9.
disabilità non sono state osservate differenze significative tra donepezil e placebo (rischio relativo
0,96; IC 95% 0,74-1,24 p = 0,70). Anche per gli
altri outcome considerati dallo studio (sintomi
comportamentali, psicopatologia dei caregiver,
costi assistenziali, tempo non retribuito impiegato dai caregiver per l’assistenza al malato,
eventi avversi o decessi, dosi diverse di donepezil) non sono state osservate differenze statisticamente significative rispetto al placebo. I
pazienti in trattamento con donepezil hanno
mostrato nelle prime 12 settimane un miglioramento medio di 0,9 punti del MMSE e di 1
punto della scala funzionale Bristol Activities of
Daily Living (BADLS). Successivamente, entrambi i gruppi (donepezil e placebo) hanno mostrato un ritmo analogo di peggioramento nel
tempo. Durante lo studio, 167 pazienti hanno
sospeso in cieco il trattamento con donepezil
senza mostrare particolari problemi dopo l’interruzione. Gli autori dello studio hanno inoltre
effettuato una valutazione economica mostrando che, nell’ambito del servizio sanitario
britannico, la terapia con donepezil non produce
sostanziali riduzioni dei costi assistenziali per i
pazienti con DA. In sostanza lo studio ha confermato i risultati dei precedenti RCT sugli IACh,
dimostrando che l’uso di donepezil produce un
miglioramento dei punteggi nelle scale cognitive
e funzionali, ma ha messo in dubbio la rilevanza
clinica di questi outcome e la costo-efficacia del
farmaco. La pubblicazione dello studio ha innescato un dibattito sulla utilità clinica del donepezil (e quindi anche degli altri IACh, vista
l’assenza di provate differenze in termini di efficacia tra molecole diverse) nella terapia della
DA 10,11 . Numerose sono state le critiche su
aspetti metodologici relativi al disegno e alla
conduzione di questa indagine. In particolare è
stato sottolineato che la ridotta numerosità di
reclutamento rispetto a quanto programmato
(565 pazienti invece di 3000), pur permettendo
di raggiungere la potenza necessaria per dimostrare o confutare le ipotesi legate agli outcome
primari, ha portato ad avere stime con intervalli
di confidenza relativamente ampi (compatibili
con circa 30% di riduzione e 30% di aumento del
rischio associato alla terapia con donepezil).
Secondo alcuni autori inoltre 12,13 , i ripetuti
periodi di washout al termine delle varie fasi
dello studio potrebbero avere provocato una
perdita dei benefici ottenuti mediante terapia
con donepezil.
Galantamina
Una revisione sistematica15 che ha incluso 8
trial, di cui 6 pubblicati, mostra un miglioramento
cognitivo (testato mediante la scala ADAS-Cog) e
globale (scale CIBIC plus o CGIC) rispetto al
placebo a dosi comprese tra 16 e 36 mg/die in
soggetti con DA di grado lieve-moderato. L’effetto
sulla sfera cognitiva sembra aumentare con la
durata del trattamento, che tuttavia negli studi
considerati non supera i 6 mesi. Fino al 20% dei
pazienti trattati con galantamina presenta effetti
avversi di tipo colinergico, che causano più frequentemente del placebo sospensioni della
terapia (ARI = 14%)8,9.
Le metanalisi sugli IACh
Due metanalisi, pubblicate nel 20039 e nel
200516, hanno analizzato in maniera cumulativa
i risultati di RCT di confronto tra i vari IACh in
commercio e il placebo. Sostanzialmente le conclusioni dei due lavori sono simili: nei pazienti
con DA il trattamento con IACh produce benefici
statisticamente significativi sia utilizzando
strumenti di valutazione globale (scala CIBIC plus
o la scala GCI), sia quando si utilizzano scale cognitive (ad es. la ADAS-Cog).
L’effetto terapeutico sul quadro clinico globale
degli IACh rispetto al placebo è del 9% (IC 95%
6-12), corrispondente a un Number Needed to
Treat (NNT) di 12 (IC 95% 9-16). Ciò significa che
per ottenere un miglioramento clinico globale di
qualsiasi entità in un nuovo paziente è necessario
trattare 12 pazienti con IACh. L’analisi dei dati di
sicurezza, cioè il calcolo del Number Needed to
Harm (NNH), porta a stime analoghe: ogni 12 pazienti trattati con IACh (IC 95% 10-18) si avrà un
nuovo paziente con effetti avversi9. Per quanto
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Implicazioni cliniche dei recenti risultati
Italiana del Farmaco e da altre istituzioni estere,
come il britannico National Institute for Clinical
Excellence (NICE)17 – consiste nel decidere la
prosecuzione del trattamento sulla base della risposta clinica a 3 mesi: solo i pazienti che dopo
3 mesi di trattamento non peggiorano o mostrano un miglioramento del punteggio MMSE
rispetto alla baseline saranno candidabili a continuare la terapia con IACh. I risultati dello
studio osservazionale CRONOS mostrano,
infatti, che la presenza di una risposta al trattamento dopo 3 mesi aumenta significativamente la probabilità di mantenere un miglioramento cognitivo anche 9 mesi dopo l’inizio
della terapia (OR = 20,6; IC 95% 17,2–24,6)18.
Poiché tuttavia si è visto che i miglioramenti cognitivi associati al trattamento con IACh sono di
modesta entità, dovendosi basare sulla risposta
individuale di singoli pazienti è opportuno
chiedersi se il MMSE, unitamente a una valutazione clinica informale e soggettiva, sia un
criterio appropriato per decidere la prosecuzione
del trattamento con IACh, considerando che:
• nessuno dei trial sugli IACh nella DA ha utilizzato il punteggio MMSE come outcome
cognitivo primario, che nella maggioranza
degli studi è rappresentato dalla scala ADASCog; il MMSE infatti non è ritenuto, dalla
maggior parte degli autori, uno strumento
adeguato a misurare l’efficacia degli IACh19;
• analizzando gli studi in cui il MMSE è stato
utilizzato come test cognitivo nella DA
risulta che il deterioramento atteso annualmente in pazienti non trattati è di circa
3,3 punti (IC 95% 2,9-3,7)20, e che le differenze osservate tra effetto dei farmaci e
placebo (0,68-1,36 punti) sono minori dell’errore medio di stima del MMSE (2,8
punti)21;
• i risultati di recenti RCT10 mostrano, confermando precedenti osservazioni22, che il
miglioramento osservato al MMSE durante i
primi 3-6 mesi di terapia con donepezil non
è predittivo della risposta a lungo termine.
Tra i pazienti affetti da DA la percentuale
attesa di responder alla terapia con IACh, intesi
come individui che mostrano un qualsiasi miglioramento accertabile mediante una scala
clinica globale, è circa del 10%9. Poiché non vi
è modo di individuare in anticipo i pazienti che
risponderanno alla terapia, una possibile
strategia prescrittiva – adottata dall’Agenzia
Pur senza togliere importanza alla scelta di
strumenti idonei a monitorare lo stato cognitivo
e funzionale, l’aspetto sostanziale da considerare
quando si interpretano i risultati degli studi sugli
IACh nella DA è tuttavia un altro, e riguarda la
rilevanza clinica delle differenze osservate. Tutti
gli RCT pubblicati, eccetto lo studio AD 2000,
hanno considerato come outcome primario una
concerne la sicurezza degli IACh considerati globalmente, la proporzione dei pazienti trattati che
interrompe la terapia è maggiore che nel gruppo
placebo (ARI = 8%), particolarmente a causa di
effetti avversi (ARI = 7%)9.
L’apparente “pareggio” tra benefici e rischi, in
termini di NNT e NNH, va interpretato considerando l’importanza di un potenziale guadagno
in termini di deterioramento clinico in un paziente affetto da DA a fronte della comparsa di
effetti avversi che, pur potendo portare in molti
casi a una sospensione del trattamento, sono reversibili e non gravi.
L’entità del miglioramento clinico globale è
tuttavia modesta, e la sua ricaduta su esiti assistenziali rilevanti, quali il carico assistenziale per
i caregiver o un ritardo nella istituzionalizzazione
del paziente, resta
ancora da chiarire.
La revisione di
Kaduszkiewicz
et
La
al.16 include una vapubblicazione
lutazione accurata
della qualità metodello studio
dologica dei singoli
AD 2000
RCT dalla quale
ha innescato
emergono problemi
sostanziali riguarun dibattito sulla
danti il disegno deutilità clinica
gli studi e l’analisi
del donepezil
dei dati. Scelte metodologiche inapnella terapia
propriate potrebbedella DA
ro aver introdotto
dei bias che hanno
particolarmente enfatizzato i benefici associati all’uso degli IACh
(box). La presenza di carenze metodologiche e di
modesti vantaggi clinici fa concludere gli autori
che “le basi scientifiche per raccomandare gli
IACh nel trattamento della DA sono discutibili”16.
“
”
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Box
PROBLEMI
METODOLOGICI DEGLI STUDI SUGLI
IACH
NELLA
23
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DA16,23
Mancata analisi “intention-to-treat”
L’inclusione nell’analisi di tutti i pazienti randomizzati (principio della “intention-to-treat”) è sempre indispensabile
per garantire la validità dei risultati degli studi controllati. Qualora (come succede negli studi sugli IACh) in fase di analisi vengano considerate le differenze medie di punteggio tra il braccio di trattamento e il braccio placebo utilizzando
scale cliniche numeriche, il rispetto del principio della “intention-to-treat” diventa particolarmente importante. L’esclusione di pazienti con punteggi molto bassi o molto alti, infatti, può condizionare in modo sostanziale il risultato
medio finale. In 15 dei 22 studi individuati dalla revisione sistematica di Kaduszkiewicz et al.16 si rileva l’esclusione di
pazienti dall’analisi dopo la randomizzazione. In 4 studi il numero dei partecipanti inclusi nell’analisi al termine dello
studio per ognuno dei bracci era specificato solo in parte o per nulla; in merito ai pazienti esclusi non venivano fornite
informazioni che potessero permettere una stima dell’effetto dell’esclusione sui risultati.
Dropout e periodo di esposizione al trattamento
Per quanto riguarda i dropout, cioè i pazienti che interrompono il trattamento prima del termine dello studio (ad esempio
a causa di effetti avversi), è importante conoscere il momento in cui avviene l’interruzione e quindi il periodo durante il
quale i pazienti sono stati esposti al trattamento, in particolar modo se i dropout vengono analizzati secondo il metodo
della “last observation carried forward” (LOCF), cioè considerando l’ultima osservazione come misura di esito. In una malattia cronica progressiva come la DA, infatti, se nel braccio di trattamento vi sono molti dropout e si utilizza il metodo LOCF
senza tenere conto del momento di abbandono della terapia, ciò può introdurre un bias simulando una riduzione della
progressione di malattia nel braccio di trattamento e amplificando la positività dei risultati a favore del farmaco studiato.
In tutti gli studi sugli IACh nella DA il tasso di abbandono per effetti avversi è più alto nel gruppo di trattamento rispetto al gruppo placebo. In 8 di essi è stato utilizzato il metodo LOCF, senza specificare mai per i dropout il momento esatto dell’abbandono.
Eventi avversi e cecità
La terapia con IACh è associata a eventi avversi evidenti e tipici, che più frequentemente consistono in nausea, vomito,
diarrea e calo ponderale. In tutti gli studi sulla galantamina e rivastigmina, e in 4 di 11 sul donepezil, si è osservata una
differenza statisticamente significativa tra braccio di trattamento e placebo per almeno due di questi effetti avversi. Il rischio di bias in questo caso è legato alla possibilità che, sulla base degli effetti avversi osservati, i ricercatori potrebbero
aver intuito quali pazienti stavano assumendo il farmaco e quali il placebo, riducendo così l’efficienza della cecità.
Generalizzabilità dei risultati dei singoli RCT
I pazienti reclutati negli studi clinici sono scarsamente rappresentativi di popolazioni non selezionate di pazienti con
DA21. In Italia è stato condotto su scala nazionale uno studio osservazionale di “Post Marketing Surveillance” (progetto CRONOS)27, per valutare la trasferibilità nella pratica clinica dei risultati ottenuti negli studi pre-registrativi
degli IACh. Analizzando le informazioni raccolte da oltre 5400 pazienti il progetto CRONOS ha mostrato che i pazienti reclutati nei trial registrativi di donepezil, rivastigmina e galatamina non sono rappresentativi della popolazione italiana affetta da DA candidabile al trattamento con IACh. I pazienti affetti da DA seguiti presso le Unità di Valutazione Alzheimer italiane sono infatti più anziani, con una maggiore prevalenza di donne e di soggetti che assumono anche altri farmaci per il sistema nervoso centrale.
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aspetto che non ha ancora avuto sufficiente attenzione è rappresentato dal gravoso carico assistenziale per i pazienti con DA in fase
avanzata che, nel 50% dei casi, si traduce in
almeno 46 ore settimanali dedicate all’assistenza, costringendo un familiare su due a
ridurre l’orario lavorativo. Ciò si accompagna
ad una prevalenza di depressione del 43%
durante gli ultimi mesi di vita del malato: una
frequenza superiore a quella rilevata in ambiti
assistenziali familiari di pazienti con altre malattie terminali, come ad esempio il cancro26,28.
La demenza in fase avanzata non viene percepita come una malattia terminale e di conseguenza i malati hanno meno probabilità di ricevere forme di assistenza palliativa dimostratesi
efficaci nel ridurre il carico assistenziale dei caregiver di pazienti affetti da altre malattie terminali (ad esempio malati neoplastici).
In attesa che la ricerca offra nuove e più efficienti strategie terapeutiche, le Unità di Valutazione Alzheimer (UVA) andrebbero rivalutate non solo come centri di dispensazione
controllata di farmaci, ma come fulcro di
un’assistenza multidimensionale all’interno
della quale la terapia farmacologica riveste per
ora un ruolo minore e principalmente sintomatico. Non dimentichiamo che all’epoca
della loro approvazione gli IACh furono
oggetto di grandi aspettative in una patologia
orfana di trattamenti specifici, e una riflessione
dopo alcuni anni di uso clinico sul loro ruolo
effettivo nella assistenza ai malati di DA può
essere molto utile.
variazione del punteggio di scale cliniche che
consentono quantificazioni formali di deterioramento cognitivo, globale o funzionale. Questa
scelta nasce dal fatto che, per ottenere l’approvazione di un farmaco come agente antidemenza, la Food and Drug Administration americana richiede la dimostrazione di una differenza
significativa rispetto al placebo, utilizzando una
delle suddette scale24. Come già accennato in precedenza, non è tuttavia chiaro se ai miglioramenti rilevati mediante questi outcome surrogati corrisponda un beneficio anche su misure
di esito più rilevanti per i pazienti con DA che
vivono in comunità, quali un ritardo della istituzionalizzazione, un miglioramento della
qualità di vita per il paziente e per chi lo assiste
e un risparmio in termini di risorse assistenziali
(ricoveri, accessi a visite specialistiche, utilizzo di
altri farmaci, ecc.).
Problemi connessi alla terapia
Gli scarsi vantaggi dimostrati dagli IACh nei
confronti del placebo impongono di considerare
con attenzione anche altre strategie potenzialmente efficaci su esiti assistenziali rilevanti.
È stato dimostrato che interventi mirati sui caregiver sono efficaci nel ridurre lo stress psicologico associato all’assistenza del malato 25 ,
mentre programmi di supporto e counselling
per i familiari conviventi con malati di DA di
grado lieve-moderato possono ritardarne significativamente la istituzionalizzazione26,27. Un
Conclusioni
La valutazione critica delle
prove di efficacia che hanno promosso gli IACh all’attuale
ruolo nella terapia della DA
insieme con le più recenti
revisioni sistematiche e
studi clinici portano a
dover tenere conto che:
• rispetto al placebo,
nei pazienti affetti da
DA, la terapia con
IACh produce benefici cognitivi e funzionali di modesta
entità;
“Le Unità di
Valutazione
Alzheimer (UVA)
andrebbero
rivalutate non
solo come centri
di dispensazione
controllata di
farmaci, ma
come fulcro di
un’assistenza
multidimensionale
all’interno della
quale la terapia
farmacologica
riveste per ora
un ruolo minore
e principalmente
sintomatico”.
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• questi benefici non hanno ricadute su esiti
clinicamente e socialmente più rilevanti,
come il rischio di istituzionalizzazione, la
progressione della disabilità e il carico assistenziale per i caregiver;
• la percezione di efficacia che ha portato alla
registrazione e alla rimborsabilità di queste
molecole è nata dalle conclusioni positive
di singoli RCT i cui risultati potrebbero
essere stati distorti a favore degli IACh in
conseguenza di discutibili scelte metodologiche riguardanti il disegno dello studio
e l’analisi dei dati.
Il dibattito suscitato dalla pubblicazione di
nuovi dati relativi all’efficacia di questi farmaci
nelle terapie della DA pone interrogativi a cui
clinici e decisori istituzionali dovranno necessariamente rispondere per una distribuzione efficiente delle risorse.
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