Referendum abrogativo L`articolo 75 della Costituzione riserva l

Referendum abrogativo
L'articolo 75 della Costituzione riserva l'iniziativa referendaria ai cittadini (500.000
elettori) e alle Regioni (5 Consigli regionali), questi possono proporre all'elettorato
"l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge", dove
per legge si deve intendere una legge in senso formale, approvata dal Parlamento
secondo il procedimento ordinario, e per "atto avente valore di legge" un decreto legge
(approvato dal governo in casi eccezionali di necessità e di urgenza e convertito entro
60 giorni dal parlamento) o un decreto legislativo (adottato dal governo su delega
parlamentare). Il quorum indica il numero minimo di elettori che devono partecipare
alla votazione perché il referendum sia valido e perciò idoneo ad abrogare la
disposizione oggetto del quesito: esso è fissato nella maggioranza degli aventi diritto
al voto. L'articolo 75 stabilisce inoltre che deve essere raggiunta la maggioranza dei
voti validamente espressi.
Non tutte le leggi possono essere oggetto di abrogazione tramite referendum: alcune
materie sono sottratte dal secondo comma dello stesso art. 75 della Costituzione
dall'azione dell'istituto. La disposizione costituzionale cita espressamente "le leggi
tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati
internazionali". In più non è possibile abrogare mediante referendum disposizioni
costituzionali, gerarchicamente sovraordinate alla legge ordinaria e quindi abrogabili
solo mediante il procedimento aggravato previsto dall'art. 138 Cost. La Corte
Costituzionale, che deve pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del referendum,
ha esteso l'elenco ritenendo inammissibili referendum che non abbiano oggetto unitario
o il cui esito positivo paralizzerebbe l'attività di un organo costituzionale, determinando
un vuoto legislativo.
Referendum abrogativo
La disciplina dell'art. 75
Secondo l'opinione dell'onorevole Gianfranco Pasquino, per un quarto di secolo sia la
maggioranza democristiana sia l'opposizione comunista non si interessarono a dare
attuazione all'art. 75 della Costituzione. I partiti non soltanto non volevano rinunciare
al controllo sulla legislazione, ma temevano che qualsiasi pronunciamento popolare
mettesse in evidenza una loro mancanza di sintonia con l'elettorato.[4]
L'approvazione della legge n. 352 del 1970 che disciplina il ricorso alle consultazioni
referendarie previste dalla Costituzione è il frutto di vicende connesse al movimento di
opinione pubblica per l'istituzione della legge sul divorzio e per la pressione sulla Dc
di vasti settori del mondo cattolico contrari a essa. Tra i due provvedimenti ci fu un
rapporto di causa ed effetto. Il referendum fu la contropartita data alla Dc perché sul
divorzio non si determinasse in parlamento tra le forze politiche una rottura troppo
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radicale. Una parte del mondo cattolico covava l'illusione che appellandosi
direttamente al corpo elettorale, su tale questione si sarebbe pronunciata una
maggioranza conservatrice e clericale.[5]
Con la legge di attuazione del referendum il Parlamento oltre ad applicare il dettato
costituzionale introdusse una serie di principi che resero palese la volontà del
legislatore di voler circoscrivere il referendum abrogativo:[6]
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"Il deposito presso la cancelleria della Corte di cassazione di tutti i fogli contenenti le firme e
dei certificati elettorali dei sottoscrittori deve essere effettuato entro tre mesi dalla data del
timbro apposto sui fogli medesimi" (art. 28)
"Non può essere depositata richiesta di referendum nell'anno anteriore alla scadenza di una
delle due Camere e nei sei mesi successivi alla data di convocazione dei comizi elettorali per
l'elezione di una delle Camere medesime" (art. 31)
"Le richieste di referendum devono essere depositate in ciascun anno soltanto dal 1º gennaio
al 30 settembre" (art. 32)
I referendum sono sottoposti a un duplice controllo di legittimità: al momento del deposito
delle firme, a opera dell'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione;
successivamente la Corte Costituzionale dovrà decidere se la richiesta referendaria riguardi o
meno le leggi previste nell'art. 75 Cost." (artt. 32 e 33)
Le consultazioni referendarie possono svolgersi soltanto in una domenica compresa tra il 15
aprile e il 15 giugno. Nel caso di scioglimento anticipato delle Camere o di una di esse, il
referendum già indetto si intende automaticamente sospeso. (art. 34)
"Se prima della data dello svolgimento del referendum, la legge, o l'atto avente forza di legge,
o le singole disposizioni di essi cui il referendum si riferisce, siano stati abrogati, l'Ufficio
centrale per il referendum dichiara che le operazioni relative non hanno più corso."(art. 39).
La Corte Costituzionale, con sentenza 16-17 maggio 1978, n. 68 ha però dichiarato
l'illegittimità costituzionale di questo articolo, limitatamente alla parte in cui non prevede che
se l'abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum venga
accompagnata da altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori
della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli
precetti, il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative.
La giurisprudenza costituzionale
Oltre alla disciplina dettata nella legge n. 352 del 1970, ulteriori limiti nell'accesso al
referendum abrogativo arrivavano a seguito delle sentenze di ammissibilità della Corte
Costituzionale.
Sentenza n. 16 del 1978
Sottoposti al giudizio di ammissibilità vi erano otto quesiti avanzati dal Partito
Radicale. Respinti furono quelli riguardanti l'abrogazione del Tribunale Militare, del
codice penale militare, del Concordato e dei reati di opinione e associazione.
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La Corte si muove da due ipotesi fondamentali: il referendum abrogativo è un atto con
forza di legge ordinaria e quindi tutti gli atti con forza giuridica superiore alla legge
ordinaria non sono sottoponibili a esso; il referendum deve consentire una consapevole
e libera decisione dei cittadini.
I limiti consequenziali a questi due presupposti sono quattro:
1. Il referendum abrogativo non è applicabile alla Costituzione, alle leggi di revisione
costituzionale e gli atti con forza di legge passiva peculiare (per es. le leggi di esecuzione e
attuazione di un trattato internazionale)
2. Non è applicabile alle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato e solo parzialmente a
quelle costituzionalmente obbligatorie, ovvero soltanto se l'esito del referendum non ha come
risultato definitivo quello di abrogarle in toto
3. Il referendum non è ammissibile se la forma del suo quesito non si presenti omogenea e chiara.
4. Inammissibili sono le disposizioni produttive di effetti collegati in modo così stretto all'ambito
di operatività delle leggi espressamente indicate dall'art. 75, che la preclusione deve ritenersi
sottintesa.
Sentenze nn. 27, 28, 29, 30, 31 del 1981
Era in questione l'ammissibilità di dieci referendum abrogativi avanzati dal Partito
Radicale. Venivano respinti quattro quesiti che mettevano l'accento su interessi e
tematiche «nuove» come la caccia, la legalizzazione delle droghe leggere, la
smilitarizzazione della Guardia di Finanza, la localizzazione delle centrali nucleari e
nuovamente il quesito sui reati di opinione e associazione.
La Corte Costituzionale pur partendo dalla sentenza n. 16/1978, arricchiva di nuovi
sviluppi e ulteriori specificazioni i limiti di ammissibilità. Questo ha riguardato in
particolare il requisito dell'"omogeneità" sviluppato nel significato ulteriore della
necessità di "semplicità, chiarezza e inconfondibilità del quesito", dato che nel
referendum "non è concepibile una risposta articolata", ma è richiesta "la nettezza della
scelta" oppure l'"univocità della domanda", tale da evitare la "contraddittorietà del
quesito proposto all'elettore".
Anche il limite delle "leggi collegate" a quelle espressamente indicate dalla
Costituzione fu esteso ulteriormente, comprendendo nel caso di leggi di autorizzazione
alla ratifica dei trattati internazionali anche le «norme per le quali non vi sia un margine
di discrezionalità quanto alla loro esistenza e al loro contenuto, ma solo l'alternativa tra
il dare esecuzione all'obbligo assunto sul piano internazionale e il violarlo, non
emendando la norma e abrogandola dopo averla emanata». [7]
Sentenze nn. 28 e 29/1987
In queste sentenze la Corte Costituzionale dichiarava inammissibili due quesiti
promossi dal Partito Radicale e dai Verdi sull'abrogazione di alcune norme riguardanti
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la disciplina della caccia, e un quesito del Partito Radicale sull'abrogazione del sistema
elettorale del CSM. La decisione venne presa facendo nuovamente riferimento al
criterio della "omogeneità" del quesito referendario, ulteriormente esteso nel divieto di
quesiti esposti ad "ambiguità di significato", ovvero incapaci di esprimere in modo
evidente il fine dell'abrogazione referendaria.
La richiesta referendaria proponeva all'elettorato l'abrogazione dell'art. 3, che vietava
in tutto il territorio nazionale, ogni forma di uccellagione; dell'art. 10, secondo cui il
territorio nazionale è sottoposto al regime gratuito di caccia controllata; dell'art. 11,
primo comma, che pone il divieto di abbattere, catturare, detenere o commerciare
esemplari di qualsiasi specie di mammiferi e uccelli appartenenti alla fauna selvatica
italiana; dell'art. 20, che contiene un elenco di specifici divieti; dell'art. 31, che prevede
le sanzioni amministrative. Secondo i giudici «la richiesta di abrogazione degli indicati
articoli sembra volta a limitare, non già l'attività venatoria, ma la protezione e la tutela
della fauna. Vero è che, chiedendosi anche l'abrogazione dell'art. 8, a sensi del quale
l'esercizio della caccia è consentito, sembrerebbe mirarsi al divieto di caccia, ma la
constatazione che dalla richiesta referendaria sono esclusi gli artt. 21 e 22, i quali
lasciano sopravvivere la licenza di porto d'armi per uso di caccia e l'abilitazione
all'esercizio venatorio, rende ambiguo anche questo punto».
Questo limite non guardava più al fatto che l'oggetto della domanda referendaria
doveva essere "omogeneo", ma guardava a quello che i promotori lasciavano fuori della
richiesta, cioè le omissioni della domanda referendaria.
In particolare poi nel caso del quesito abrogativo di alcune norme sulla costituzione e
il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, per la prima volta, veniva
posto un ulteriore divieto, su referendum abrogativi (totali o parziali) di leggi elettorali,
sulla base dell'argomento che il venir meno delle regole per il rinnovo dell'organo ne
avrebbe comportato l'impossibilità di funzionamento regolare, eventualità questa che
andava considerata del tutto inammissibile trattandosi di organi costituzionali o a
rilevanza costituzionale.
Questa decisione diveniva un precedente rilevante per l'ammissibilità dei quesiti
elettorali, proposti negli anni novanta, e le loro rispettive riformulazioni.
Sentenza n. 468/1990
Nel 1987 vinse il referendum promosso dal Partito Radicale, dal Partito Liberale
Italiano e dal Partito Socialista Italiano, che abrogava gli articoli 55, 56 e 74 del Codice
di procedura civile, che impedivano al magistrato di rispondere in sede civile dei suoi
errori. Dopo quel risultato il 13 aprile del 1988 il Parlamento approvava la legge n.
117, voluta dal ministro Guardasigilli Vassalli, titolata «Risarcimento dei danni
cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati»
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che si allontanava dal principio della responsabilità personale del magistrato, per
affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato. Con la nuova legge il
cittadino che subiva un danno a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte
di un magistrato, non poteva fare causa al magistrato stesso, ma doveva chiamare in
giudizio lo Stato e chiedere a esso il risarcimento del danno. Successivamente era lo
Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, se colpevole, e che, a quel punto,
poteva rispondere in prima persona, entro il limite di un terzo di annualità dello
stipendio. Il Tribunale di Napoli con ordinanza dell'8 novembre 1989 e il Tribunale di
Roma con ordinanza del 19 aprile 1990, sollevarono questione di legittimità
costituzionale in merito ad alcuni articoli della nuova legge n. 117 che entravano in
conflitto con gli esiti del referendum abrogativo.
La Corte Costituzionale con questa sentenza affermava il principio per cui il legislatore
politico non può riprodurre una normativa abrogata da un referendum abrogativo, ma
nei limiti di ripristino formale e sostanziale della disciplina abrogata può correggere,
modificare e integrare la disciplina residua (legittima era quindi anche la legge
"Vassalli").
Inoltre il divieto di riprodurre la disciplina è temporale, anche se in merito alla sua
durata le tesi della dottrina sono contrastanti e non si riscontrano sentenze della Corte
che possano sciogliere il dilemma.
Sentenza n.47/1991
Questa sentenza riveste una grande importanza: per la prima volta è stato aperto un
varco all'ammissibilità del referendum in una materia - quella elettorale - sulla quale il
ricorso alla consultazione popolare era sempre stato assai controverso, fin dal dibattito
in Assemblea costituente. La Corte Costituzionale doveva decidere la legittimità di tre
referendum elettorali. Il quesito giudicato ammissibile dalla Corte era quello che
mirava a modificare la legge elettorale per la Camera in modo da eliminare la
possibilità per gli elettori di esprimere più di una preferenza nell'ambito della lista
votata. La pronuncia, inoltre, riprese ed estese la decisione del 1987, dichiarando
inammissibili i due quesiti volti a modificare in senso decisamente maggioritario il
sistema elettorale del Senato e quello in vigore per i Comuni di grandi dimensioni,
perché i quesiti referendari non si limitavano a perseguire, attraverso l'eliminazione di
parti più o meno cospicue del testo legislativo, l'abrogazione parziale di quel testo, ma
miravano a sostituire la disciplina stabilita dal legislatore con un'altra, diversa, voluta
dal corpo elettorale.
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Sentenze nn. 2, 11, 12/1995
Non superavano il giudizio di ammissibilità della Corte Costituzionale due quesiti
referendari avanzati dal Movimento dei Club Pannella-Riformatori e Lega Nord sulla
pubblicità RAI e la tesoreria unica, e altri cinque esclusivamente dei radicali.
Le ragioni erano differenti, riconducibili alla pregressa giurisprudenza di
ammissibilità, arricchita però da ulteriori sviluppi ermeneutici.
I referendum relativi all'abrogazione dell'obbligo di iscrizione al Servizio Sanitario
Nazionale, del sostituto d'imposta e della tesoreria unica, vennero dichiarati
inammissibili in quanto le norme colpite erano riconducibili, nei primi due casi, alla
categoria delle «leggi tributarie» e, nel terzo, alla categoria delle «leggi di bilancio»,
sia pure intendendole in un'accezione estensiva rispetto alle nozioni contenute nelle
norme costituzionali.[8]
I due quesiti sulla pubblicità RAI e sulla cassa integrazione straordinaria furono respinti
perché vi era discrepanza tra l'oggetto e l'intento soggettivo dei promotori. Il quesito
elettorale di Camera e Senato, nell'eliminare la quota di seggi assegnati con metodo
proporzionale, non assicurava la costante operatività dell'organo, dato che per i seggi
corrispondenti alla quota proporzionale, la normativa di risulta non ne consentiva
l'assegnazione con un metodo alternativo.
Sentenze nn. 26, 27, 28, 30, 34, 36, 37, 38, 39, 40, 42 del 1997
Al vaglio della Consulta vi erano venti referendum abrogativi promossi dal Movimento
dei Club Pannella-Riformatori. Due quesiti (assistenza sindacale patti in deroga e
liberalizzazione Enel) furono considerati non conformi alla legge dall'Ufficio Centrale
della Corte di Cassazione.
I quesiti elettorali diretti ad abolire la quota di seggi assegnati con metodo
proporzionale per l'elezione di Camera e Senato erano nuovamente respinti, così come
nel 1995, per carenza di normativa di risulta autoapplicativa[9].
Nelle altre decisioni di inammissibilità, accanto ai criteri di giudizio divenuti canonici
(quesiti non autoapplicativi, omogeneità dei quesiti, leggi collegate ai limiti espressi),
si registrava un consistente ampliamento dei moduli decisori, con l'estensione del
limite delle "leggi tributarie" o del criterio della «chiarezza del quesito» (comprensivo,
quale elemento decisivo ai fini del giudizio, dell'intenzione soggettiva dei promotori),
o di quello della completezza del quesito (rimodulato nel senso che non sarebbe stato
sufficiente individuare una «matrice razionalmente unitaria» della domanda, ma
avrebbero dovuto indicarsi tutte le disposizioni, anche quelle di puro dettaglio,
riguardanti l'oggetto da abrogare).
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Si introdussero poi dei nuovi limiti: il criterio dell'"ambiguità" del quesito o quello
della "inidoneità della domanda a raggiungere lo scopo", che richiamava il sindacato
intorno alla ragionevolezza delle leggi. In altri casi la Corte Costituzionale trasformava
il giudizio di ammissibilità in un giudizio preventivo di legittimità, in cui rilevare il
contrasto tra richiesta abrogativa e principi o valori costituzionali, anche quando
oggetto dei quesiti erano semplicemente le modalità stabilite in concreto per
l'attuazione di quei valori o principi.[10]
Sentenze nn. 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 45, 46, 49, 50, 51/2000
Queste sentenze respinsero tredici referendum presentati dalla Lista Bonino. La Corte
Costituzionale tornava a dilatare i criteri di giudizio sull'ammissibilità del referendum
abrogativo, basti pensare che il limite derivante dal criterio dell'"effetto di sistema"
applicato fino al quel momento solo per i quesiti elettorali, veniva generalizzato nei
confronti di qualsiasi richiesta.
Il giudice costituzionale superava anche i limiti tradizionali. Il criterio
dell'"omogeneità" veniva declinato nel criterio dell'"idoneità dell'abrogazione
referendaria a raggiungere lo scopo", scambiandosi ormai in modo definitivo giudizio
di ammissibilità e sindacato di ragionevolezza delle leggi.
Il limite delle leggi tributarie era trasformato fino in fondo nel limite delle leggi che
disciplinano qualsiasi aspetto del rapporto tributario; mentre quello delle leggi di
autorizzazione alla ratifica era esteso alle "situazioni di pre-conformazione dell'obbligo
di adeguamento" al diritto sovranazionale.
Si realizzava inoltre confusione tra il concetto di "leggi a contenuto costituzionalmente
vincolato" e "leggi necessarie", con la conseguente esclusione dal referendum di
qualsivoglia legge costituzionalmente prevista per dare attuazione al testo. [11]
Sentenza n. 45/2005
La Consulta respinse il referendum unico di abrogazione totale della legge n. 40/2004,
promosso dai Radicali Italiani e dall'Associazione Luca Coscioni, perché definiva
"costituzionalmente necessaria" la disciplina sulla procreazione medicalmente
assistita, considerando, inoltre, "tale motivo di ammissibilità assorbente rispetto agli
altri parametri di giudizio". I quattro quesiti parziali erano invece possibili perché frutto
di scelte legislative discrezionali.
L'art. 2 Cost. assegna alla Repubblica il compito di proteggere i diritti inviolabili
dell'uomo. Tra questi si collocano i diritti connessi alla procreazione, perciò secondo
la Corte senza la legge n. 40/2004 sarebbe rimasta senza disciplina un settore in cui la
Costituzione esige una regolamentazione e una protezione.
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Con questa decisione si determinava ancora un'evoluzione nello scarto tra un contenuto
davvero vincolato (art. 75 Cost.), e un contenuto che, oltre una soglia minima,
ammetteva margini di copertura costituzionale. Infatti il limite in questione, introdotto
per la prima volta dalla sentenza n. 16 del 1978, è stato in seguito (1981, 1987, 1997,
2000) "oggetto di vari aggiustamenti e integrazioni".[12]
I limiti temporali del procedimento di indizione
Per legge, i referendum abrogativi non possono essere espletati nello stesso anno in cui
ci sono le votazioni per il rinnovo del Parlamento. La loro indizione, a opera del capo
dello Stato e in una data la cui scelta spetta al Consiglio dei ministri, si presta dunque,
come nell'esempio prossimo, a essere dilazionata nel caso sopraggiunga lo
scioglimento delle Camere.
Nel 1971 fu proposto un referendum (da effettuarsi nell'anno seguente) sulla
disposizione che aveva istituito per la prima volta il divorzio in Italia. Al fine di
rimandarne il compimento, nel 1972 alcuni partiti ottennero appunto dall'allora
presidente della Repubblica Giovanni Leone le prime elezioni politiche anticipate del
dopoguerra. Ma la scelta della data di queste ultime da parte del Governo ebbe come
effetto quello di produrre un'ulteriore proroga.
Un'altra previsione della normativa che inquadra l'attuazione dei referendum abrogativi
(regolamentazione approvata nel 1971 e quindi in sospetta contiguità cronologica con
gli eventi contingenti), infatti, è che essi abbiano luogo in una domenica compresa tra
il 15 aprile e il 15 giugno e comunque non prima che siano passati almeno 365 giorni
dallo svolgimento dell'ultimo suffragio nazionale. Considerato che, sempre per la
stessa normativa, la campagna referendaria deve svilupparsi obbligatoriamente per un
minimo di 45 giorni, l'aver fissato a suo tempo la tornata elettorale per il 7 maggio 1972
comportò il fatto che non ci sarebbero poi stati i tempo tecnici necessari per tenere il
referendum neanche nel 1973, facendolo così slittare definitivamente all'anno
successivo.
Il medesimo effetto non si è potuto invece avere nel 2008 nei riguardi della
consultazione sui tre quesiti Guzzetta-Segni visto che le elezioni anticipate in tal caso
si sono avute l'11 e 12 aprile di quell'anno lasciando così aperta una piccola "finestra"
di due settimane (comprendente le tre domeniche del 31 maggio e del 7 e 14 giugno)
per la sua effettuazione durante il 2009.
Ed ecco dunque spiegato il motivo per il quale, a fronte del tentativo di evitare la
seconda di queste date (che, essendo quella dedicate alle votazioni europee e a quelle
amministrative, non era gradita da coloro che puntavano, come poi è avvenuto,
all'invalidazione del referendum per non raggiungimento del quorum), si è poi
attribuito al presidente Giorgio Napolitano il compito di promulgare un provvedimento
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ad hoc per consentire lo svolgimento del referendum in questione nelle giornate del 21
e 22 giugno 2009.[13]
Gli effetti del referendum abrogativo
Gli effetti descritti del referendum abrogativo fanno sì che esso, o per meglio dire, la
"normativa di risulta" (in pratica il decreto presidenziale che dichiara l'avvenuta
abrogazione totale o parziale della legge sottoposta a consultazione popolare) venga
qualificata tra gli atti aventi forza di legge.
Il Parlamento sarà vincolato dall'esito abrogativo del referendum e cioè sarà
impossibilitato a disciplinare in maniera identica la materia così come abrogata dalla
consultazione popolare "senza che si sia determinato, successivamente all'abrogazione,
alcun mutamento né del quadro politico, né delle circostanze di fatto, tale da
giustificare un simile effetto.".[14]Secondo un'interpretazione dottrinale il mutamento
del quadro politico può essere inteso come nuove elezioni politiche, che comunque non
escluderebbero la necessità di "un'attenta valutazione circa l’opportunità politica della
reintroduzione della normativa abrogata".[15]
L'articolo 38 della suddetta legge n. 352/1970 prevede poi che se l'esito è stato contrario
all'abrogazione di una legge o di parte di essa, questa non possa essere oggetto di una
nuova consultazione referendaria prima di 5 anni.
La Corte costituzionale può essere adita se una nuova legge non rispetta gli esiti del
referendum popolare.[senza fonte] Non è ammissibile il ricorso per atti normativi
dell'Unione Europea o leggi che li recepiscono, anche se questi sono contrari agli esiti
di un referendum precedente.
Il mancato raggiungimento del quorum di partecipazione non è invece considerato
avente gli stessi effetti preclusivi che si hanno in caso di prevalenza dei voti contrari
all'abrogazione nel caso il quorum sia stato raggiunto. Ma la giurisprudenza, su
quest'ultimo punto, è divisa.[senza fonte]
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