FACOLTÀ DI TEOLOGIA DI LUGANO
CATTEDRA DI ETICA SOCIALE CRISTIANA
E DI DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
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Prof. Dr. Markus Krienke
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Ripensare l’identità. Cosa significa essere un sindacato cristiano oggi?
Relazione per la giornata di formazione OCST, Lucino, 7 maggio 2008
Riflettere sulla propria identità, oggi, non è più un’impresa straordinaria: l’Unione europea,
solo per cominciare con l’esempio più “famoso”, si trova ormai da un bel po’ in questo processo, anche gli “Italiani” si chiedono se sono veramente “Italiani”, la Chiesa sta svolgendo
questa riflessione nel momento in cui deve ridurre i costi per i suoi servizi sociali, e in Germania tutti i partiti politici stanno rielaborando la loro piattaforma programmatica. Chi non
riesce a distinguersi, nella società post-moderna della pluralizzazione sterminata delle possibilità e delle offerte, si gioca la propria esistenza. L‘autoriflessione sulla propria identità diventa
allora l’elisir di lunga vita delle istituzioni nella società di oggi. In questo senso, il processo
che l’Organizzazione Cristiano-Sociale Ticinese inizia, con quest’oggi, è di estrema importanza e non è . È comunque un processo e ciò significa che non terminerà con il nostro incontro di oggi, o che rimarrà un discorso puramente teoretico.
Ancora non ci conosciamo a vicenda e così ho cercato di trovare nei documenti della Dottrina
sociale della Chiesa e negli scritti del “fondatore ideale” di questo sindacato, Mons. Del Pietro
alcune risposte a sei domande che mi sono state sottoposte,. Cercherò di dare una prima risposta, fondata sulle riflessioni teoretiche, un primo riscontro che le vostre domande hanno trovato nei testi che trattano astrattamente dei “valori” e dei “principi”. Da questa riflessione, poi,
derivano nuove, ulteriori domande, a loro volta già più specifiche che vorrei rilanciarvi, iniziando così un processo più preciso di riflessione che poi può essere portato avanti in gruppi
più piccoli, con temi specifici e a scelta.
Il fondamento
Vorrei cominciare con la frase centrale sull’identità dell’OCST, contenuta negli Statuti
all’articolo 3: “Scopo dell’OCST è la promozione spirituale, culturale e materiale dei lavoratori, contribuendo all’attuazione di un ordine economico e sociale fondato sul pieno riconoscimento della dignità della persona e sul primato del lavoro sul capitale”. In questa frase troviamo espresso in un modo alquanto denso e pregno di teoria il vero e proprio “codice genetico”, per così dire, di questo sindacato, quell‘impronta essenziale che esso porta sempre con sé
e che nello studio della sua identitàdeve essere analizzata per prima. Poi, come un organismo
non si riduce al suo “codice genetico” ma viene co-determinato anche dal suo sviluppo concreto e reale, la mia analisi si trasforma, alla fine di queste considerazioni, in domande indirizzate ad una riflessione sulla situazione concreta dell’OCST rispetto ai temi trattati.
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Per un sindacato il punto culminante di questa formula è senz’altro il suo fine, ossia
l’affermazione del “primato del lavoro sul capitale”. Questa è una delle costanti dell’annuncio
sociale della Chiesa anche se in questo modo esplicito viene formulata solo dall’Enciclica di
Giovanni Paolo II Laborem exercens del 1981. Ma troviamo una simile frase già in uno dei
“fondatori” dell’OCST, Mons. Del Pietro, quando scrive: “Il lavoro prima del capitale,
l’uomo prima del lavoro: tale il vero ordine dell’economia umana” (1941) [Una vita per la
giustizia, 835].
Cosa significa la precedenza del “lavoro” dal “capitale”? Secondo la Laborem exercens, questa è la formula per un ordinamento economico “giusto”, perché quando un lavoratore è costretto a “vendere” il suo lavoro come una “merce”, in quel momento viene leso l’ordine della
giustizia: il suo lavoro non ha più importanza di per sé ma viene sottomesso ai criteri del capitale diventa cioè un puro “fattore di produzione”. È stata questa la ragione per cui, il capitalismo nascente, ha condotto nel XIX secolo alla cosiddetta “questione sociale” cioè
all’impoverimento delle masse degli operai: gli operai non erano considerati nella loro “dignità personale” ma solo come persone che non hanno niente altro da offrire al meccanismo capitalistico che il loro “lavoro”.
In questa situazione nasce l’idea del sindacato nella sua versione socialista: viene proclamata
la “lotta” di “classe” degli operai contro il sistema capitalistico, ma non sulla base di una rivalutazione della “dignità” del lavoro umano bensì entro la stessa logica del capitalismo: quella
di considerare il “lavoro” una forma di “capitale”. Proprio per questo, l’idea socialista non
appare alla Dottrina sociale della Chiesa una soluzione al problema del nostro ordinamento
economico, perché condivide con il capitalismo la stessa “valutazione” di fondo: cioè di considerare il “lavoro” un “fattore di produzione” e di sottometterlo quindi al “capitale”. Per questo le “lotte” tra associazioni sindacali e padronali, come si esprime Mons. Del Pietro in merito, non possono portare ad una soluzione, perché ci si ferma al livello degli interessi superficiali e non si arriva alla vera radice del problema: di chiarire il rapporto tra “lavoro” e “capitale”. Quelli che da queste “lotte” escono come i più danneggiati ed i meno aiutati sono, come
sempre, i più deboli perché non hanno una lobby in questa contesa. Conclude Del Pietro: “E
la condizione della classe operaia non migliora perché in mezzo alla disorganizzazione economica chi ne svantaggia è sempre il debole” [Una vita…, 110].
Entrambe le prospettive vengono denunciate dalla Laborem exercens come “l’errore
dell’economismo, se si considera il lavoro umano esclusivamente secondo la sua finalità economica” (13). Entrambe si basano, in altre parole, sulla stessa immagine dell’uomo che è
l’immagine di un essere che agisce sostanzialmente in modo egoistico, cioè appunto secondo i
propri “interessi”. Afferma lapidariamente Del Pietro: “L’egoismo proletario coincide con
l’egoismo capitalista” [Una vita…, 842].
La risposta della Dottrina sociale della Chiesa è ben diversa, e in quanto tale essa è diventata
il fondamento del lavoro dell’OCST: l’uomo non si riduce ad una struttura di interesse, che
per l’interesse “fondamentale” di sopravvivere potrebbe anche “vendere” l’ultimo “capitale”
che ha, cioè il suo lavoro. Anzi, per i principi fondamentali cattolici, nel lavoro si esprime la
persona umana, esso non costituisce una “parte” dell’uomo che egli potrebbe “vendere”, ma
in quanto in esso egli esprime anche se stesso, diventa luogo in cui ci si deve verificare ed
assicurare la propria personale dignità. Quest’ultima, per il Cristianesimo, è fondata
nell’essere l’uomo immagine di Dio e non a caso troviamo proprio nel racconto della Genesi
questa stretta connessione tra “dignità umana” e “lavoro”: dal momento che è stato creato a
“somiglianza” ed “immagine” di Dio, la vocazione dell’uomo di “soggiogare la terra” non
deve essere fraintesa nel senso di dominarla despoticamente, di sfruttarla spudoratamente e di
esercitare il suo dominio spietatamente, bensì significa una grande responsabilità che si articola soprattutto attraverso il lavoro umano con cui egli coltiva il mondo, attraverso il “significato etico del lavoro”, come si esprime la Laborem exercens.
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L’insegnamento della Dottrina sociale della Chiesa si basa quindi sulla precedenza del “lavoro” al “capitale” in quanto solo in questo ordine si esprime la “dignità umana”. Promuovere
quest’ordine sta al centro del programma dell’OCST e in questo senso ci chiediamo ora come
questo discorso si potrebbe concretizzare nella nostra società – in una società per la quale è
sempre meno chiaro e scontato che cosa significa effettivamente questa parola astratta “dignità”. Fatto sta che è proprio questo fondamento che sta alla base della considerazione “integrale” che l’OCST ha dell’uomo; e che senza questa base anche il programma stesso di questo
sindacato si ridurrebbe ad “interesse”, per cui, di conseguenza, l’OCST perderebbe proprio
quel che lo distingue da altri sindacati.
Affrontiamo, in questa consapevolezza, un po’ più concretamente questa parola. A tal fine, mi
sono state consegnate da parte vostra alcune domande che strutturano la seconda parte. Sottometterò ciascuna ad una riflessione social-etica e cercando di rispondere con altrettante domande, più concrete, per portare un po’ più avanti le nostre riflessioni.
Alcune applicazioni
Dalle premesse possiamo quindi trarre, insieme alla Laborem exercens, la conclusione:
“L’insegnamento della Chiesa ha sempre espresso la ferma e profonda convinzione che il lavoro umano non riguarda soltanto l’economia, ma coinvolge anche, e soprattutto, i valori personali” (15). Un sindacato che non solo rispetta questo principio ma che riconosce in esso il
suo fondamento ispiratore, si distingue ovviamente da un altro che si autodefinisce come portatore di un specifico interesse di tutti i membri con il compito di “lottare”, con parole ed azioni, continuamente per questo interesse.
1) Il tema della comunità
Come un primo tema, certamente caratterizzante l’OCST, viene menzionato la “comunità” la
quale è specificata negli elementi “collaborazione effettiva”, “condivisione dei valori ideali” e
“sentirsi sempre parte dell’azione del sindacato”. Queste parole riprendono proprio
un’intuizione della Laborem exercens secondo la quale il lavoro non è un’attività individualistica ma un luogo in cui gli uomini si incontrano: chi lavora con questo spirito, non lo fa da
“individualista”, da “egoista”, ma gli è propria, per così dire, una tensione “comunioniale” di
lavoro.
Gli uomini, lavorando, si scoprono, così la Laborem exercens, “corresponsabil[i] e coartefic[i] al banco di lavoro“ (15). Il lavoro è intimamente connesso con la mia persona ma
non rimane un fatto individuale, egoistico, in quanto viene svolto “per altri” e “con altri”: il
lavoro, considerato in chiave antropologica, ha dunque già di per sé una dimensione interpersonale, relazionale, che crea una comunità con gli altri. In questo senso, uomini che lavorano
secondo i valori cristiani, cercano la comunità; e in questo senso afferma Del Pietro: “Il fenomeno ‘associativo’ è stato e resta una delle caratteristiche delle civiltà create dal Cristianesimo: la sostituzione della cooperazione e l’unione per la vita alla lotta per la vita” [Una vita…, 441]. Il messaggio del cristianesimo, sul quale insistono le Encicliche sociali, è precisamente quello di portare il “calore” dell’amore cristiano e delle relazioni interpersonali in un
mondo dominato da strutture fredde. Il senso del sindacato cristiano non sta quindi nella massa dei lavoratori associati di per sé, nella pura “solidarietà” che si attualizza solo nei momenti
in cui viene richiesta. Questo condurrebbe ad una concezione di un sindacato “di emergenza”
[Una vita…, 211], come affermava Del Pietro. Invece la sostanza è ben più profonda e cioè
nei legami intra-umani che creano dalla massa una “comunità”: “alla ‘solidarietà’ frutto della
evoluzione sociale, cemento del proletariato ecc. il cristianesimo vuole la solidarietà basata
sull’amore, sulla rinuncia personale a favore del prossimo, sul sacrificio di sè per il bene degli
altri. E così salva la libertà e salva anche i diritti sociali” [Una vita…, 743].
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Ovviamente questo legame di “comunità” non è un valore che si lascerebbe “definire”, “impostare”, ma è piuttosto una realtà che deve crescere: crescere attraverso delle possibilità di
incontrarsi e di scambiarsi idee anche al di fuori degli orari lavorativi, attraverso dei programmi svolti insieme, ad esempio dei programmi formativi, come ha luogo oggi: questi sono
i momenti di accertarsi sui valori condivisi, appunto di creare una “comunità”, un insieme di
legami che vada oltre la solita e puntuale solidarizzazione “di interesse”.
Questa idea di “comunità” comporta, allo stesso momento, che il rapporto tra la “base” e la
“direzione” non deve finire in un rapporto puramente burocratico, di amministrazione, ma
che, attraverso una comunicazione funzionante e viva, i problemi e le preoccupazioni dalla
“base” vengono trasmesse alle persone responsabili – la stessa cosa vale anche in direzione
opposta: accessibilità della parte dirigente agli associati e trasparenza delle loro azioni tramite
un sistema informativo.
A tale punto sarebbe da chiedere, quali elementi di “comunità” vengono realizzati attualmente? I membri del sindacato sentono un legame di “comunità” che abbracci il
sindacato, si sentono corresponsabili per la “comunità” dell’OCST? Il rapporto fra
l’organizzazione e la base è puramente burocratico o c’è un vivo interesse e coinvolgimento reciproco? Quali sono i punti forti già realizzati e quali potrebbero essere le strategie per ulteriori sviluppi?
2) Il tema del bene comune
A questo aspetto della “comunità” segue direttamente l’attenzione per il “bene comune”: la
lotta, come viene ribadito giustamente, per l’OCST non è fine ma mezzo. Un’impostazione
distorta del rapporto fra “lavoro” e “capitale” conduce, senz’altro, alla conclusione di riconoscere nell’ “interesse” il programma e nella “lotta” la fine dell’azione sindacale: cioè la “demonizzazione” delle strutture lavorative di dipendenza e il trovare la propria identità nella
continua attività e “lotta” contro di esse. Contro una tale concezione di fondo, la Laborem
exercens afferma in un primo momento il semplice fatto che strutture di dipendenza sono delle condizioni necessarie del lavoro: “non possiamo, invece, affermare che esso [l’insieme delle strutture e del capitale produttivo] costituisca quasi il ‘soggetto’ anonimo che rende dipendente l’uomo e il suo lavoro” (13) e propone quindi, alcuni paragrafi dopo, una reinterpretazione della stessa parola “lotta”: “Tuttavia, questa ‘lotta’ deve essere vista come un normale
adoperarsi ‘per’ il giusto bene: in questo caso, per il bene che corrisponde alle necessità e ai
meriti degli uomini del lavoro, associati secondo le professioni; ma questa non è una lotta
‘contro’ gli altri. Se nelle questioni controverse essa assume anche un carattere di opposizione agli altri, ciò avviene in considerazione del bene della giustizia sociale, e non per ‘la lotta’,
oppure per eliminare l’avversario” (20). Questa forma di lotta mette a rischio quindi il bene
comune, perché realizza una solidarietà che è limitata al proprio gruppo: se esso si relaziona
in forma di “lotta” all’altro, il bene superiore cessa di definirsi a partire dalle questioni fondamentali della persona, come afferma Mons. Del Pietro: “Gli scopi di questi sindacalismi
non sono il bene professionale comune, ma il dominio di una classe sull’altra” [Una vita…,
109]. Lotta, in questo senso, funge come espressione di una solidarietà limitata al proprio
gruppo, come una certa solidarietà egoistica quindi rispetto alla società in quanto tale. La Laborem exercens parla a questo proposito di un “‘egoismo’ di gruppo o di classe” (20). Quando
invece viene ricongiunta con il suo fondamento cioè la dignità umana, di per sé la “solidarietà” si estende a tutte persone, uomini. La struttura base della solidarietà nel senso cristiano,
ossia dell’amore, è universale: e per questa base, per questo riconoscere nell’uomo stesso il
vero fine di ogni sua azione, la prospettiva del sindacato cristiano è il bene comune. La “solidarietà”, espressa dal sindacato cristiano, non significa contrapposizione, non significa solidarietà esclusiva.
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Una tale apertura universale deriva dalla struttura del lavoro stesso che non è solo “prerogativa”, “diritto”, “interesse personale”, ma anche “obbligo” e “dovere”, come afferma la Laborem exercens: dovere in ultima analisi verso Dio, ma dovere già “per riguardo al prossimo,
specialmente per riguardo alla propria famiglia, ma anche alla società, alla quale appartiene,
alla nazione, della quale è figlio o figlia, all'intera famiglia umana, di cui è membro, essendo
erede del lavoro di generazioni e insieme co-artefice del futuro di coloro che verranno dopo di
lui nel succedersi della storia. Tutto ciò costituisce l'obbligo morale del lavoro, inteso nella
sua ampia accezione” (16). Attraverso il bene comune diventa quindi possibile interrogarsi sul
“vero interesse della professione” che proprio in una “lotta” o “guerra” di classe non trova la
sua salvaguardia [Una vita…, 211].
Oggi, nella società pluralistica, prevale la tendenza ad accentuare fortemente i propri interessi,
a sottolineare quel che distingue, per essere riconoscibile nella società e per non “morire” come soggetto collettivistico. Per questo, tali aperture “universali” suscitano spesso delle paure
ed angosce all’interno, appunto di non essere più identificabili, di “vendere” la propria identità ecc. Questi argomenti si sciolgono però qualora si tematizza inequivocabilmente la solidarietà orientata al bene comune. Anzi, come abbiamo visto prima, è proprio questo il momento
dal quale deriva l’identità per un sindacato cristiano, di non limitarsi a lottare per quegli interessi per i quali già gli altri sindacati fanno fatica a mobilitare la gente e ad acquisire nuovi
membri. Un sindacato cristiano si distingue proprio per la sua prospettiva fondamentale, universale, cosa che esso deve far percepire anche nella sua concreta realtà e nelle sue azioni.
Ci sono momenti in cui il sindacato OCST tende ad abbandonare questa prospettiva
universale della dignità umana e si rinchiude in interessi particolari? In quali momenti
invece percepiamo lucidamente la “solidarietà universale”? Una tale apertura di prospettiva causa la paura di perdere la propria identità? L’OCST si fa portavoce del “bene
comune”?
3) Il tema dell’attenzione alla persona
Essere d’aiuto, nel senso cristiano, non significa un assistenzialismo paternalistico che deresponsabilizzerebbe i singoli membri. Alla centralità della “dignità umana”, appunto, niente
sarebbe più lontano che un atteggiamento organizzativo che tratterebbe i membri in modo
totalmente passivo. In questo senso, il principio di sussidiarietà, che deriva direttamente dalle
nostre considerazioni sulla “dignità umana”, è anche un mezzo per la strutturazione interna
del sindacato: aiutare in modo “sussidiario” significa aiutare le persone in modo efficiente,
cioè dare quegli incentivi necessari affinché la loro partecipazione sia sempre anche collaborazione e non solo un “ricevere passivamente”. Questo può valere riguardo a certe organizzazioni decentrali, gruppi all’interno dell’OCST, gli aiuti per le famiglie, programmi di formazione ecc.
Questo modo si basa, non per ultimo, sulla concezione, espressa nella Laborem exercens, che
l’uomo non ha solo diritti e pretese, ma proprio per il suo essere indirizzato verso la comunità
ed il bene comune, si deve riconoscere anche portatore di “obblighi” o “doveri”. L’uomo deve
essere aiutato proprio nell’adempiere i doveri soprannominati; sostituirlo in questo compito
non corrisponderebbe alla concezione cristiana della “dignità umana”. In questo senso, la Laborem exercens tematizza esplicitamente l’ “impegno di carattere istruttivo, educativo e di
promozione dell’auto-educazione” (20). È nel rispetto del principio della dignità personale
che un tale programma educativo si distingue nettamente da un “programma
d’indottrinamento”.
Proprio il rispetto della dignità umana esige a questo punto il classico discorso dell’Etica sociale cristiana sul “giusto salario”. E non a caso la Laborem exercens riprende questo tema,
presente nella tradizione dalla Rerum novarum in poi, quando dice: “Il problema-chiave dell'etica sociale, in questo caso, è quello della giusta remunerazione per il lavoro che viene ese5
guito. Non c’è nel contesto attuale un altro modo più importante per realizzare la giustizia nei
rapporti lavoratore-datore di lavoro, di quello costituito appunto dalla remunerazione del lavoro” (19). Il salario non è un atto di “benevolenza” verso il lavoratore ma gli deve dare quel
che gli “spetta”, suum cuique, secondo il principio della giustizia. “Attenzione alla persona”
significa quindi farle pervenire quel che le spetta – l’azione di un sindacato cristiano proprio
in questo punto deve essere inequivocabile.
Da questo punto dell’ “attenzione alla persona” derivano quindi le domande: in che senso in alcuni casi il programma dell’OCST rispecchia più un piano assistenzialistico o
generalmente riesca anche a considerare positivamente la responsabilità delle piccole
strutture e dei singoli membri? Contiene, d’altro canto, gli incentivi giusti ed efficienti
per suscitare nei membri un’attiva partecipazione? Com’è, in altre parole, la “struttura
motivazionale” del programma e della realtà dell’OCST? In che senso l’OCST rispecchia nelle sue azioni il suo impegno per la persona umana e per la sua personale dignità?
4) Il tema della creatività
Vivere nella fede cristiana la sua dignità personale non significa avvalersi di una “prerogativa”, ma costituisce sostanzialmente la sfida, l’impegnocontinuo a migliorare la propria impostazione dell’atteggiamento, del lavoro, anche a mettere tra parentesi i personali interessi se
uno incontra delle situazioni difficili nella quotidianità lavorativa e nei contatti con gli altri. In
questo senso, dalle situazioni imprevedibili di ogni giorno viene suscitata la “creatività” di
ognuno di noi. Nello spirito della collaborazione, che si contrappone allo spirito della “lotta”,
il Cristiano sente nelle situazioni di difficoltà la sua responsabilità di fare il primo passo, di
contribuire con pazienza ed intelligenza alla soluzione pacifica della situazione, perché mette
in primo piano il “bene comune”. D’altro canto, però, sa anche difendersi e prendere parte per
chi è svantaggiato, o individuare le strutture che non rendono giustizia alla “persona umana”.
Ci sono occasioni concrete dell’OCST o di ciascun membro nella sua realtà lavorativa
che hanno richiesto un particolare potenziale di “creatività” e di capacità prudenziale
per risolverle?
5) Il tema dell’identità cristiana
In un certo senso, questo punto ha carattere riassuntivo di quanto sviluppato nella prima parte
e soprattutto nei primi punti di questa seconda parte. Esso consiste precisamente nella rivalutazione di che cosa è da considerare “mezzo” e cosa è invece da ritenere “fine” nella realtà
dell’economia: “Il che vuol dire che se pur le condizioni economiche, il progresso, il lavoro,
la prosperità, la pace, non sono per i cristiani semplici mezzi avendo una loro dignità di fine
che la Chiesa apprezza, non sono tuttavia che fini intermedi subordinati, nel mentre vengono
considerati come fine ultimo dai materialisti” [Mons. Del Pietro, Una vita…, 167]. E Del Pietro cita a questo punto il Papa Giovanni XXIII: “qualora si garantisca nelle attività e nelle
istituzioni temporali l’apertura ai valori spirituali ed ai fini soprannaturali, si rafforza in esse
la efficienza rispetto ai loro fini specifici ed immediati” (MM 271).
Questa considerazione del lavoro nel suo giusto ordine, nel senso che esso fa parte della struttura finalistica dell’uomo stesso che non può mai essere abbassato a puro mezzo degli altri, è
una prospettiva che distingue la prospettiva cristiana sul lavoro da quella “liberalista” e da
quella “socialista”.
La concretizzazione forse più ovvia di questa distinzione la troviamo nella valutazione dello
sciopero. Mentre da parte socialista esso è il mezzo ordinario per l’organizzazione della “lotta”, per la Dottrina sociale della Chiesa è – e cito dalla Laborem exercens – “un metodo riconosciuto dalla dottrina sociale cattolica come legittimo alle debite condizioni e nei giusti limiti” (20). Esso viene giustificato come ultima ratio prima della quale l’uomo ha però ben altri
mezzi per ottenere una situazione favorevole per entrambe le parti e cioè l’orientamento al
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bene comune. E Mons. Del Pietro, che ricordiamo anche per qualche sciopero coraggiosamente realizzato, si trova pienamente conforme con questa dottrina quando fa riflettere sul fatto
che “uno sciopero anche senza alcuna violenza è sempre un mezzo di forza: una guerra sociale” [Una vita… 286].
Oltre questo tema, la Laborem exercens menziona ulteriori tre campi specifici per l’interesse
cristiano al lavoro: ossia il lavoro agricolo, l’attenzione verso le persone handicappate, ed il
prendersi cura del problema dell’immigrazione. Quanto al primo aspetto, viene ricordato il
valore fondamentale del settore agricolo che anche oggi si trova in specifiche difficoltà. Nel
secondo aspetto, Giovanni Paolo II riflette invece sul problema per le persone handicappate di
trovare lavoro: spesso, un pieno funzionamento del corpo umano verrebbe elevato a “fine” e
quindi viene a sostituire la “dignità umana”; al contrario, al centro dovrebbe stare l’uomo e
non il “vantaggio economico”. In questo senso, un sindacato cristiano si riconosce avvocato
proprio di quelle persone ai margini della vita lavorativa e quindi del “riconoscimento” sociale, esso deve creare o pretendere spazi e servizi per loro. Perché alla base del pieno riconoscimento degli handicappati nel mondo lavorativo sta, come afferma l’Enciclica, un “giusto”
concetto del “lavoro” umano.
Anche gli immigrati costituiscono un gruppo di lavoratori che sono strutturalmente svantaggiati nel mondo di lavoro di oggi. Anche in questo caso è la carità cristiana che spinge ad aiutarli nel trovare e far valere i loro diritti. Del Pietro, in questo senso, esorta più volte a rivolgere una particolare attenzione cristiana verso queste persone bisognose: “Bisogna dapprima
rendersi conto delle situazioni spesso disagiate in cui vengono a trovarsi questi nostri colleghi
di lavoro: lontananza dalla famiglia, non conoscenza della lingua parlata nella regione: diversità di usi e costumi: condizioni spesso penose di abitazione” [Una vita…, 477], ma anche
difesa degli immigrati dagli “usurai”.
Come ultimo elemento di una comprensione autenticamente cristiana del lavoro, la Laborem
exercens sviluppa elementi di una “spiritualità del lavoro” per “aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite [del lavoro] a Dio” (24). Quindi non è un distoglimento dei lavoratori, un impedimento della loro produttività ma al contrario una fonte di forza e creatività. In
questo senso, viene citata anche la Gaudium et spes che in questo senso ha sottolineato gli
effetti positivi del Cristianesimo per l’economia ed il mondo del lavoro: “Il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall’incitarli a
disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più pressante” (GS 25).
La stessa cosa vale, in senso più stretto, per l’identità del sindacato stesso che, in quanto sindacato cristiano, rimane sempre “sindacato”. Anche in questo caso però vale, secondo la ferma convinzione di Del Pietro, che la qualificazione “cristiana” del sindacato non lo indebolisce, non lo distrae dai suoi duri compiti nella società di oggi, ma che anzi lo porta ad una
maggiore efficienza: “Sempre più nel futuro apparirà che la qualifica di ‘cristiano’ aggiunta a
‘sindacalismo’ non toglierà nulla né al significato né al valore né alla efficacia del sostantivo”
[Una vita…, 841].
Come ulteriore aspetto, vorrei sottolineare non solo la ripetuta affermazione dell’importanza
del riposo nelle encicliche sociali, ma anche il loro significato cristiano: le domeniche e le
festività, in una concezione cristiana del lavoro, non sono “il contrario” dei giorni lavorativi,
ma sono la loro integrazione: come non ci può essere lavoro senza riposo non c’è riposo senza
lavoro. L’uomo non ha solo bisogno di ricreazione fisica, ma anche di rimettersi spiritualmente e di riconfermare il fondamento spirituale del suo lavoro.
In quali strutture si rispecchia concretamente la caratteristica “cristiana” che il capitale
è a servizio del lavoro ed il lavoro a servizio dell’uomo? Quali sono le strutture che
prendono delle responsabilità concrete per le persone svantaggiate? Come si inseriscono
gli handicappati e gli immigrati nell’OCST? L’esperienza con i “frontalieri” porta qualche esperienza in più? Vengono realizzati elementi di “spiritualità di lavoro”? Il mes7
saggio cristiano viene vissuto come una forza in più, come un elemento che arricchisce il
lavoro sindacale? Quale importanza hanno la domenica e le feste cristiane per l’OCST?
6) Il tema della sussidiarietà
Dopo che, durante queste considerazioni senz’altro introduttive ed ancora molto “generali“ si
è parlato ripetutamente di “personalità” e “solidarietà” o “amore/carità”, evidentemente manca ancora un principio della Dottrina sociale della Chiesa che invece è di suprema importanza
ed è il principio di “sussidiarietà” che viene richiesto dall’ultima delle sei domande consegnatemi. Questo principio è il risultato immediato dalla considerazione di non mettere le strutture
e la “lotta” al primo posto della considerazione sociale e del lavoro, bensì la “dignità personale” dell’individuo e perciò Del Pietro ha tentato di riformulare il principio di sussidiarietà in
questo modo: “Lo Stato dovrà favorire l’associazione per fini particolari perché possa mettere
in grado gli individui di proseguire dei fini particolari senza che intervenga per sé stesso direttamente” [Una vita…, 77].
Dall’ampiezza delle applicazioni di questo principio vorrei scegliere oggi solo la prospettiva
riguardo alla famiglia: in quanto la famiglia è la più piccola “società naturale”, è lì dove
l’uomo acquisisce le necessarie competenze educative e relazionali che poi sono competenze
richieste dal mondo di lavoro (del “capitale umano”). Vediamo che in un certo senso la “base”
del funzionamento economico non può essere essa stessa quantificata economicamente: quel
che l’uomo impara in famiglia per la società non può essere sottomesso ad un calcolo di redditività; e chi potrebbe quantificare in ultima analisi l’amore famigliare? È proprio quella “fiducia ontologica” che all’uomo viene trasferita nella famiglia che si rivela di prima importanza per il funzionamento della società stessa. Per questo uno dei valori centrali di un sindacato
cristiano è la famiglia ed ecco perché ci si impegna politicamente per la famiglia. Preferire
alla competenza universale dello Stato le strutture più vicine all’uomo significa rafforzare le
famiglie. A questo punto diventa nuovamente palese la differenza specifica di un sindacato
cristiano, in quanto in un sindacato di ispirazione socialista manca l’attenzione all’importanza
della famiglia: non viene infatti considerata come un “valore aggiunto”. Si tratta invece di un
elemento essenziale per una concezione cristiana integrale del “lavoro” stesso: “infatti, la famiglia è al tempo stesso una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di
lavoro per ogni uomo” (LE 10). È proprio attraverso l’importanza della famiglia che si esprime nuovamente la chiara scelta dei valori da parte della Dottrina sociale cristiana ossia: il
“lavoro prima del capitale, l’uomo prima del lavoro”.
Le domande che derivano da questo punto riguardano ovviamente il valore e lo stato
della famiglia all’interno dell’OCST, ma anche la presenza del tema della famiglia nel
concreto lavoro sindacale, nelle trattative con gli imprenditori e produttori e a livello
politico.
© Prof. Markus Krienke, Facoltà di Teologia di Lugano, Via G. Buffi, CH-6904 Lugano
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