WERNER HEISENBERG
Estratto dalla relazione di dottorato di Costanza Altavilla, Fisica, epistemologie e filosofia
nel pensiero di Werner Heisenberg
I primi due decenni del Novecento sono caratterizzati da grandi cambiamenti verificatesi
all’interno della scienza. Si tratta di vere e proprie rivoluzioni: i presupposti su cui la fisica
classica ha fondato per anni la sua apparente solida impalcatura, dalla continuità al rapporto
di causa-effetto, la reversibilità dei fenomeni, la precisione della misurazione e quindi il
postulato dell’osservabilità, vengono interamente smentiti da innovative scoperte.
Colui il quale ha contribuito maggiormente a mettere in crisi l’ormai anacronistica certezza
della scienza classica è Werner Heisenberg che, con la teorizzazione del principio di
indeterminazione.
Werner Heisenberg ripensando alle affermazioni che nel 1913 Niels Bohr aveva fatto a
proposito della struttura dell’atomo, vi scopre come una lacuna, o meglio, una parte
mancante.
Uno dei primi modelli della struttura atomica risale a John Thomson che, come dice
Gamow, “allo stesso modo come i semi neri sono distribuiti nella polpa rossa di una
anguria”, immaginò l’atomo come costituito da una superficie sferica carica positivamente
nella quale si trovano gli elettroni che, essendo di carica negativa, rendono l’atomo neutro.
Questa staticità che caratterizza il modello della struttura atomica di Thomson fu presto
superata da Ernest Rutherford che, nel 1911, rappresentò, mettendo in movimento
l’immagine atomica precedente, il suo modello in maniera simile ad un vero e proprio
sistema planetario dove il centro, o meglio, il nucleo dell’atomo veniva considerato come
contenente tutta la carica positiva e la massa attorno alla quale gli elettroni avrebbero
dovuto ruotare velocemente.
Tenendo presente che tale modello contraddiceva la “stabilità” dell’atomo, presupposto
scientifico ormai provato sperimentalmente e legato alla constatazione del fatto che, in base
alle leggi dell’elettrodinamica di Maxwell, il ruotare da parte degli elettroni intorno al
nucleo implicherebbe una continua emissione di energia e, conseguentemente il loro
“collasso” nel nucleo, tenendo presente ciò Bohr farà delle riflessioni che lo porteranno, dal
1915, alla elaborazione del cosiddetto principio di corrispondenza.
L’ambiguità della situazione appena descritta trovava infatti, secondo Bohr, una soluzione
ipotizzando una stretta corrispondenza fra le leggi della fisica classica e quelle della
meccanica quantistica all’interno della struttura atomica. Gli elettroni possono percorrere
intorno al nucleo soltanto alcune orbite, determinate da relazioni quantiche, e le definì stati
stazionari. Distinse, tra questi, uno stato normale, il più basso, nel quale l’elettrone si trova
quando non subisce perturbazioni esterne e nel quale torna sempre dopo la cessazione di
eventuali interferenze; e degli stati eccitati nei quali l’elettrone salta, in seguito all’azione di
altre forze, senza però obbedire più alle leggi classiche. Queste ultime quindi valgono per
gli elettroni in moto nelle varie orbite consentite, ma non hanno più efficacia quando
avviene il salto da un orbita all’altra. Le orbite consentite dalle relazioni quantiche erano
definite stati stazionari per indicare che quando si trova in essi l’elettrone non emette alcun
irragiamento, quindi non perde energia e per questa ragione non collassa nel nucleo;
l’emissione o irragiamento avviene quindi solo durante il salto da un orbita all’altra.
La lacuna, insita in questo principio, che Heisenberg si prefisse di colmare consisteva nel
tentativo di verificare, attraverso l’osservazione dell’esperimento, ciò che accade durante il
salto dell’elettrone.
L’osservazione era, cioè, limitata al fatto che l’elettrone, una volta eccitato, compiva un
salto, ma lo sperimentatore non era in grado di definire né la posizione dell’elettrone prima
di compiere il salto né il punto di arrivo di quest’ultimo dopo aver compiuto il salto; poteva,
più semplicemente, osservare esclusivamente gli “effetti”.
Alla luce di ciò Heisenberg, ai fini del rispetto dei parametri tradizionali del principio di
osservabilità, principio a cui egli non intende rinunciare, si rende conto del fatto che è
necessario cambiare il calcolo numerico a cui finora si è fatto riferimento. Anzicché
quantificare con un numero ben definito la posizione iniziale e quella finale dell’elettrone,
Heisenberg sceglie quella che lui stesso ha definito una “famiglia di numeri” paragonabile,
sotto certi aspetti, al noto concetto di insieme.
Questa operazione, apparentemente semplice, ha una forte valenza tanto in ambito
scientifico quanto in quello epistemologico e filosofico.
Dal punto di vista scientifico, la scelta di fare riferimento non più al singolo numero ma ad
un gruppo di numeri ha una importante implicazione principalmente per due motivi.
Innanzi tutto la precisione e la certezza che la matematica tradizionale garantiva lasciano il
posto ad un calcolo di tipo essenzialmente probabilistico: è cioè possibile calcolare solo
statisticamente la posizione iniziale e finale dell’elettrone la cui individuazione è, in un
certo senso, legata all’interno del margine del gruppo numerico ed inoltre, cosa ancora più
importante, tale calcolo matriciale ha una caratteristica ben precisa: il prodotto fra le due
quantità non è commutativo.
Mentre precedentemente dire che A x B era lo stesso che dire B x A con questo tipo di
meccanica simili affermazioni non possono più essere ritenute valide.
La constatazione di ciò mette in crisi, con ripercussioni anche in ambito epistemologico, tre
presupposti scientifici ritenuti fondamentali dalla fisica classica: il concetto di identità, la
reversibilità dei fenomeni e la causalità intesa in termini di rigoroso determinismo.
La consapevolezza da parte del fisico di poter identificare con certezza l’elettrone trova,
nella statistica della meccanica matriciale, un limite insuperabile, come anche ineliminabile
risulta essere l’osservazione del fatto che i fenomeni fisici, lungi dall’essere reversibili e
senza direzione, come per molto tempo si è creduto, caratteristica questa che consentiva allo
scienziato classico di poter tornare esattamente indietro una volta ottenuto il risultato di un
esperimento, attraverso i medesimi procedimenti meccanici che lo avevano
portato a quel risultato; i fenomeni fisici, dicevo, sono, piuttosto, irreversibili, o meglio,
unidirezionali e non lasciano spazio ad alcuna possibilità di poter tornare indietro o di
invertire i fattori.
Alla luce di ciò si comprende anche che il vacillare della causalità, un tempo rigorosa, non è
altro che una stretta conseguenza di quanto è stato appena detto: se la probabilità viene a
sostituire la certezza caratteristica della fisica classica e se i fenomeni sono irreversibili,
allora non è più neanche possibile fare riferimento al principio secondo cui ad ogni effetto
deve necessariamente essere collegata una causa e dunque che dall’effetto si possa risalire
alla causa e viceversa.
Si ha quindi la crisi della causalità definitivamente messa in discussione dal principio di
indeterminazione.
La non ripetitività dell’esperimento e quindi di fatto l’irreversibilità dei fenomeni, il
conseguente passaggio dalla certezza alla probabilità e l’enunciazione stessa del principio di
indeterminazione, inducono Heisenberg a ripensare il concetto di causa-effetto in termini
diversi rispetto al senso riduttivamente deterministico tipico del meccanicismo
galileianonewtoniano.