partizione dell`India britannica

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Lucio Gentilini
LA PARTIZIONE DELL’INDIA BRITANNICA
Introduzione
Col suo miliardo e 200 milioni di abitanti l’India è la seconda entità geografica per
diversità culturale, linguistica e somatica dopo l’Africa ed i suoi numerosi popoli,
lingue e religioni sono un groviglio inestricabile.
Anche se le sue etnie principali sono fondamentalmente due, quella settentrionale
ariana (statura alta e pelle chiara) e quella meridionale dravidica (statura bassa e pelle
scura), numerosissime sono però le sfumature e le derivazioni nate dal loro
incrociarsi e fondersi.
La sua costituzione addirittura non ha adottato una lingua nazionale e, anche se
l’hindi è la lingua ufficiale del governo e l’inglese è considerato ‘lingua ufficiale
sussidiaria’, essa riconosce altre 21 lingue (utilizzate anche nei documenti pubblici
dei vari stati) mentre c’è chi ha calcolato che il numero dei suoi dialetti è ben 1.652.
Coi suoi oltre 160 milioni di abitanti il Pakistan è una repubblica islamica più
omogenea dal punto di vista religioso, ma la sua articolazione etnica è fortemente
composita: il gruppo etnico più numeroso è il punjabi (ariani ben numerosi anche in
India) seguito da quello dei sindi, ma ad est dell’Indo sono presenti i pashtun di stirpe
iranica originari dall’Afghanistan (di cui costituiscono il gruppo più numeroso, oltre
il 40% del totale) ed i baluchi presenti anche in Afghanistan e nell’Iran del sud.
Come si vede, la popolazione del Pakistan non solo non è omogenea, ma molti dei
popoli che ci vivono sono popoli divisi in quanto molto presenti anche in altri stati
(India e Afghanistan soprattutto) e ciò si riflette anche nella lingua: l’urdu è la lingua
nazionale e l’inglese è la lingua ufficiale usata negli atti governativi, negli affari,
nelle università pubbliche e dall’élite urbana, ma oltre a queste quasi tutti i pakistani
parlano la lingua del loro gruppo (appunto il punjabi, il sindhi, il pashtun ed il
baluchi).
Coi suoi oltre 160 milioni di abitanti il Bangladesh è etnicamente compatto, dato che
il 98% della sua popolazione è bengalese, parla bengalese (anche se l’inglese è
utilizzato come seconda lingua ed è diffuso soprattutto fra le classi alte e
nell’istruzione superiore) ed è per il 90% di religione mussulmana (il resto è
prevalentemente indù), tuttavia la regione geografica, etnica e linguistica del Bengala
comprende anche la confinante regione indiana del (appunto) Bengala occidentale
che conta altri oltre 145 milioni di abitanti e, insomma, se tutti gli abitanti del
Bangladesh sono bengalesi, solo i 3/5 circa dei bengalesi vivono in Bangladesh.
Coi suoi 21 milioni di abitanti lo Sri Lanka è popolato da cingalesi (82%), tamil
indiani (5%), tamil (4,4%) e mori discendenti dagli arabi (8%): è per il 77%
buddhista e per il 15% induista e le sue lingue ufficiali sono il singalese e il tamil,
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definite anche lingue nazionali, cui si aggiunge l’inglese come lingua di
collegamento.
Con i suoi 51 milioni di abitanti il Myanmar è per il 70% di etnia Bamar (di qui il
precedente nome ‘Birmania’) ed il resto della popolazione è frazionato in numerosi
gruppi minori: la religione di gran lunga più praticata è il buddhismo mentre
cristianesimo ed islam sono adottati ognuno da un 4% della popolazione.
Questi scarni dati, pur tanto elementari, bastano già a porre il problema di come e
perché questi stati (e soprattutto India, Pakistan e Bangladesh) si sono formati con
confini che oggi dividono stessi popoli (e religioni) ed al loro interno ne includono di
molto diversi.
Queste pagine vogliono così provare a rispondere a questa domanda e vogliono
cercare di illustrarne la risposta che in effetti è assai semplice: questi stati sono nati
infatti dopo che già l’impero Moghul ne aveva assoggettato (ed unificato!) una buona
parte, soprattutto dopo che l’Inghilterra li aveva conquistati ed uniti tutti in una
stessa colonia e quando infine questi si liberarono da tale giogo.
Essi sono insomma il risultato della partizione dell’India britannica.
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Gli europei in India
Quando Aurangzeb morì nel 1707 (vedere il mio ‘Aurangzeb e l’Islam in India
nell’età moderna’) l’impero Moghul in India si era tanto esteso quanto indebolito
per le lotte e per le divisioni interne (e non solo religiose) e
fu da allora che gli europei poterono cominciare la loro
opera di progressiva conquista che nel 1858 avrebbe
portato alla definitiva trasformazione dell’immenso
subcontinente in un’unica colonia britannica.
I primi europei a sbarcare in India erano stati i portoghesi:
il 20 maggio 1498, per la prima volta nella storia del
mondo e dopo una navigazione diretta dall’Europa iniziata
oltre dieci mesi prima, i portoghesi di Vasco da Gama
avevano infatti preso terra a Capocate (poche miglia a nord
di Calicut sulla costa del Malabar, nell’India sudoccidentale).
Alla ricerca delle importantissime spezie, nel tentativo di
rimediare al blocco delle rotte mediterranee operato dai
turchi conquistatori dell’impero bizantino e volendo
prendere alle spalle gli odiatissimi mussulmani, essi
avevano finalmente aperto la ‘Carrera da India’, cioè il
collegamento marittimo diretto fra Europa ed Asia ottenuto
grazie alla circumnavigazione dell’Africa.
I portoghesi erano stati interessati al commercio ed a spazzare quindi via dall’oceano
Indiano gli arabi (mussulmani) che fino a quel momento l’avevano controllato: una
spedizione dopo l’altra, essi avevano saputo inserirsi nelle lotte e nelle rivalità fra i
vari potentati locali indiani, costruire tutta una serie di fortezze, di porti e di basi su
tutte le coste dell’oceano Indiano (ma non erano riusciti ad impadronirsi di Aden e
quindi a chiudere il mar Rosso) ed erano arrivati anche nel Pacifico così da
monopolizzare i traffici dall’Oriente al Mediterraneo ed all’Europa.
Essi tuttavia erano rimasti sempre sulla costa e – a parte i luoghi da essi conquistati –
non avevano influito quindi che marginalmente sulla storia dell’immensa India
mentre ben presto gli altissimi costi dell’impero, quelli di trasporto e le difficoltà di
smercio in Europa avevano reso la loro impresa sempre meno remunerativa.
Soprattutto però essi avevano dovuto soccombere all’assalto dei determinati ed
attivissimi olandesi: in guerra contro la Spagna per la propria indipendenza e dopo
che quest’ultima si era annessa il Portogallo (1580) - divenuto dunque anche questo
un nemico - anche l’Olanda si era infatti lanciata sugli oceani.
Dopo il successo della loro prima spedizione alla ricerca di pepe nel 1595 (che era
costata comunque la vita ai 2/3 degli equipaggi), il suo governo nel 1602 aveva
assicurato il monopolio commerciale con l’Asia, l’autorità di edificare fortezze, di
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stipulare trattati e di muovere guerra – poteri insomma sovrani - alla (privata)
Compagnia delle Indie Orientali (VOC), anch’essa alla ricerca delle richiestissime
spezie.
Gli olandesi si erano mossi subito con grande determinazione (e ferocia), ma avevano
puntato prima sulle Molucche (Indonesia), la vera fonte delle spezie, e da lì, strappata
Malacca ai portoghesi, verso l’India, espugnando una dopo l’altra le fortezze e le loro
basi finchè alla metà del XVII a questi ultimi era restato poco più di Goa (la loro excapitale) e delle isolette (Daman e Diu).
Mentre i portoghesi si erano quindi sempre più volti al Brasile ed ai loro
possedimenti africani, gli olandesi erano divenuti la massima potenza marittima del
mondo con quasi la metà di tutto il tonnellaggio internazionale: la loro ascesa era
stata travolgente, ma anche per loro era arrivato il momento di cedere le armi di
fronte alla nuova potenza emergente sugli oceani, l’Inghilterra.
Accomunati all’Olanda nella guerra contro la Spagna, gli inglesi si erano concentrati
inizialmente sulla conquista ed sul dominio dell’Atlantico, ma già nel 1600 era nata
anche in Inghilterra la Compagnia delle Indie Orientali che a sua volta aveva iniziato
la sua penetrazione in India: lo scontro con l’Olanda era stato inevitabile e nella
seconda metà del XVII ben quattro guerre anglo-olandesi, combattute con tutti i
mezzi sui sette mari, avevano assicurato la vittoria agli inglesi.
Le guerre erano cessate quando nel 1688, in seguito alla seconda (o gloriosa)
rivoluzione inglese, il governatore dell’Olanda Guglielmo d’Orange (marito di Maria
II Stuart, figlia del re d’Inghilterra Giacomo II) era divenuto re d’Inghilterra: senza
entrare nel complicato scacchiere europeo che aveva giustificato quest’evento
straordinario, qui basti chiarire che l’Olanda a questo punto aveva smesso di opporsi
all’Inghilterra preferendo accettare ormai una posizione di secondo piano, mentre
l’Inghilterra era in piena espansione e procedeva di conquista in conquista.
Tuttavia anch’essa aveva dovuto ben presto fronteggiare nuovi nemici sui mari, i
francesi, partiti per ultimi ma con grandi ambizioni.
In realtà la prima Compagnia delle Indie Orientali francese era stata fondata nel 1601,
ma, dati i prevalenti interessi della Francia per le questioni europee ed i suoi disordini
interni, era ben presto languita: fu così che solo al tempo di Luigi XIV l’attivissimo
Colbert, campione della prevalente mentalità mercantilistica del tempo, aveva
fondato ben cinque compagnie commerciali privilegiate (cioè volute e protette dalla
Corona) fra cui, nel 1664, appunto la Compagnia delle Indie Orientali.
Le ambizioni di grandezza francesi si erano indirizzate dunque anche verso l’India e
lo scontro fra le potenze europee per il dominio degli scambi intercontinentali si era
complicato ulteriormente.
E’ degno di nota che le varie Compagnie, i loro mercanti ed i loro rispettivi stati si
erano sempre mossi di comune accordo e che, insomma, non era esistita in pratica
nessuna distinzione fra pubblico e privato: non si era trattato semplicemente del fatto
che ogni stato proteggeva le sue Compagnie, ma che queste ultime oltremare erano
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autorizzate ad esercitare autonomi (!) poteri sovrani potendo però sempre contare
sull’appoggio e la protezione dei propri governi.
Sempre in competizione fra loro, Francia ed Inghilterra – fra le altre cose – si erano
ritagliate zone d’influenza sempre più ampie in India finchè con la guerra dei Sette
Anni (1756-63) erano arrivate alla resa dei conti: senza entrare nel merito di tutte le
motivazioni della guerra e delle altre questioni e decisioni prese ai tavoli di pace, in
questa sede interessa che in base al trattato di Parigi (1763), con la perdita di
Calcutta, del Bengala e della regione del Bihar (nell’India nord-orientale), della città
di Pondicherry (sulla costa sud-orientale) e dell’intera regione del Deccan (il grande
altopiano centrale), la Francia era stata di fatto estromessa dall’India e l’Inghilterra
non aveva ormai più rivali europei nell’immenso subcontinente.
La Compagnia in India
Nel 1784 l’Indian Act - la legge voluta da William Pitt (il vecchio) che stabilizzò e
regolamentò la posizione inglese in India - concesse al governatore generale della
Compagnia la facoltà di agire in nome del governo di Londra ed i vari governatori
generali che si succedettero nella carica, grazie al dominio dei mari, alla superiorità
del loro esercito moderno ed allo sfruttamento delle divisioni interne fra i vari stati
indiani, procedettero all’ulteriore conquista dell’immenso territorio finchè, al termine
delle guerre napoleoniche, nel 1818 gli inglesi dominavano ormai tutta l’India, ad
eccezione del bacino dell’Indo e dell’Assam (nell’estremo nord-est) ed
amministravano in maniera diretta la regioni più ricche con l’unica eccezione del
regno Sikh (nel nord-ovest), ma le conquiste continuarono anche nei decenni seguenti
con le occupazioni degli anni Quaranta del Sind (nell’India nord-occidentale) e del
regno Sikh.
Com’è noto, a metà Ottocento l’Inghilterra era la prima nazione industriale al mondo
e la padrona del ferro e del carbone, così che, come dice Headrick, ‘Lungo tutto il
bordo meridionale dell’Eurasia, ovunque potevano arrivare le sue navi e i suoi
battelli, l’Inghilterra aveva ben poco da temere da qualsiasi altra potenza’ (pag. 43).
La posizione della Compagnia era comunque estremamente particolare: lo stesso
Indian Act prevedeva infatti il controllo del parlamento sulla Compagnia (e sui suoi
dipendenti) cui quest’ultima doveva rispondere dei suoi comportamenti, ma,
contemporaneamente, il parlamento (ed i singoli uomini politici) non doveva
interferire sull’amministrazione della Compagnia stessa e sui suoi affari.
A ognuno il suo mestiere, verrebbe da dire: la politica al parlamento e l’economia alla
Compagnia che avrebbe dovuto comportarsi però nei confronti degli indiani secondo
le indicazioni, anzi, le direttive, del parlamento stesso e si sarebbe dovuta astenere da
nuove conquiste, evidentemente non più di sua competenza, ma manteneva intatti
tutti i suoi privilegi, cioè il monopolio del commercio (in pratica il controllo della vita
economica indigena).
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La Compagnia costruì dunque la sua egemonia coloniale limitandosi all’aspetto
commerciale-economico-finanziario: essa fece così dell’India il perno del suo intero
raggio d’affari in Asia perchè
a) monopolizzava a vantaggio proprio e della madrepatria il commercio fra India ed
Europa,
b) utilizzava le risorse fiscali dell’India per mantenere se stessa, le sue basi
commerciali ed i suoi domini territoriali in Asia,
c) ricorreva al cospicuo surplus commerciale dell’India verso il resto del mondo per
controbilanciare il cronico e crescente disavanzo commerciale dell’Inghilterra nei
confronti dell’Asia orientale.
Tuttavia, come sempre nel caso del colonialismo, gli europei portarono insieme alla
loro politica predatrice e sfruttatrice anche tutta una serie di miglioramenti, di
ammodernamenti e di sviluppi intesi a trasformare i dominati perché assomigliassero
sempre più ai loro dominatori: ciò era essenziale perché dominio e sfruttamento
fossero sempre più completi ed efficienti, ma ciò soddisfaceva anche l’(ipocrita)
ansia di ‘portare aiuto’ ai popoli che si riteneva ne fossero tanto bisognosi e rientrava
in pieno nella mentalità superba ed autocompiaciuta degli europei del tempo che si
sentivano del tutto superiori a tutte le altre civiltà e dunque in dovere di ‘elevarle’
perché si avvicinassero almeno alla loro: era insomma la (solita) infame ideologia del
‘fardello dell’uomo bianco’, così definita da Kipling, il massimo cantore di questa
missione ‘civilizzatrice’.
Come spesso nella cultura del colonialismo inglese, venivano ufficialmente enunciati
i princìpi del liberalismo, come avvenne nel Charter Act del 1833 che pomposamente
dichiarava che ‘… nessun nativo …dovrà essere inabilitato a detenere un qualsiasi
posto, ufficio od impiego alle dipendenze della Compagnia a causa della sua
religione, luogo di nascita, ascendenza, colore o uno qualsiasi dei detti motivi’.
Almeno all’inizio i giovani indiani formatisi nelle scuole e università inglesi
credettero sinceramente nelle dottrine liberali, nei valori morali e civici di cui la
cultura europea si faceva portatrice e così credettero anche che gli inglesi si sarebbero
comportati coerentemente con tali principî e avrebbero portato nel paese un profondo
e positivo rinnovamento.
Ma i proclami liberali erano in realtà poco più che parole e inevitabilmente la fiducia
cominciò ad incrinarsi di fronte alla continua chiusura degli inglesi nei confronti delle
sempre più insistenti richieste degli indiani occidentalizzati di rendere operanti i
princìpi e lo spirito espressi dal Charter Act (e dal proclama reale del 1858).
In ogni caso però tutta l’India britannica ricevette effettivamente moltissimi nuovi
impulsi in ogni campo: dal restauro e dalla riorganizzazione del sistema dei canali
alla riparazione delle vie di comunicazione, dalla creazione di un sistema di pubblica
istruzione alla sostituzione come lingua ufficiale del persiano con le lingue locali e
con l’inglese, dalla proibizione (almeno sulla carta) del lavoro minorile all’abolizione
della pratica del sati (il rogo delle vedove sulle pire dove bruciavano i cadaveri dei
mariti), la vita dell’immenso subcontinente veniva inesorabilmente trasformata
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mentre e perché il suo commercio estero e la sua economia venivano sempre più
gestiti dalla Compagnia e sottoposti agli interessi ormai planetari della madrepatria.
Durante il XIX secolo la politica britannica impegnata ad attuare un preciso piano di
occidentalizzazione del paese (cioè volendolo far incamminare sulla strada del
‘progresso’) divenne insomma sempre più intrusiva e sempre più paternalistica
adottando atteggiamenti e prendendo provvedimenti spesso offensivi e discriminatori
nei confronti degli indiani.
L’arrivo dei missionari e la loro campagna di proselitismo destò sentimenti di
inquietudine e il timore di una conversione forzata; ulteriore motivo di scontento fu la
perdita per molti indiani delle cariche pubbliche sempre più massicciamente occupate
da funzionari inglesi; la soppressione di antiche tradizioni indù - come il sati – e il
mancato rispetto da parte inglese di prescrizioni e usanze locali contribuivano ad
esasperare ed offendere gli animi.
Le numerose annessioni territoriali e la cacciata dei relativi prìncipi dal trono
occupato (magari da generazioni) concorsero anch’esse a suscitare sentimenti di forte
risentimento e talvolta di decisa volontà di riscatto: oltretutto alcuni di questi regni
erano annessi non in seguito ad un’azione militare (che sarebbe risultata almeno
comprensibile) ma col pretesto che da un confronto tra il sistema di governo inglese e
quello indiano il primo risultava senza dubbio di gran lunga migliore rispetto al
secondo e dunque era legittimo estenderlo!
Per legittimare le continue annessioni (piccole e grandi che fossero) addirittura
venne varata una legge (!) che stabiliva che un proprietario terriero o un regnante
potesse conservare controllo e profitti del suo territorio solo se il modo con cui lo
amministrava rispecchiava i parametri dell’efficienza inglese, mentre in caso
contrario l’intera area sarebbe passata agli inglesi stessi (che naturalmente si
ergevano a giudici della bontà delle amministrazioni indiane).
Un ulteriore provvedimento decretò la decadenza del diritto di successione al trono
dei figli adottivi (e l’inglobamento automatico dei territori in questione nei domini
inglesi) mentre era una tradizione plurisecolare che molti sovrani, per perpetuare la
loro stirpe regale, in caso di assenza di figli maschi legittimi adottassero eredi della
loro casta o famiglia con pieno diritto di successione.
Un dominio come quello esercitato dalla Compagnia (e, in generale, come tutti gli
altri del colonialismo) non si sarebbe tuttavia mai potuto esercitare senza l’accordo e
la convenienza di una parte della società indiana stessa: come Mao a suo tempo
avrebbe spiegato, l’occupante colonialista si allea infatti con le classi dominanti (o,
almeno, con una parte di esse) che hanno tutto l’interesse a rafforzare in questo modo
la loro oppressione sulle masse popolari che si trovano ora ad avere un nemico (molto
forte) in più che, alleato dei loro signori, collabora con loro per mantenerli nella loro
condizione di soggezione.
Fu così che in genere le classi superiori indiane furono favorevoli alla presenza della
Compagnia e ne trassero grandi vantaggi potendo aumentare i loro patrimoni terrieri
in cui le condizioni dei contadini peggiorarono sensibilmente spesso fino alla
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disperazione: non è del tutto esatto dunque parlare di sfruttamento degli indiani da
parte degli inglesi, bensì di sfruttamento delle masse popolari indiane da parte degli
inglesi e delle classi possidenti indiane – almeno nel XIX secolo.
Un grosso e radicale cambiamento si verificò comunque in seguito alla rivoluzione
industriale in Inghilterra: fino agli anni Venti dell’Ottocento le merci inglesi (ed
europee) non erano state competitive sui mercati dell’Asia e per quanto i dominatori
inglesi avessero cercato di imporsi, la loro bilancia commerciale con l’India non era
riuscita ad essere in attivo. Per impedire un vero e proprio drenaggio di valuta
(metallica) gli inglesi erano ricorsi addirittura alla produzione in India di oppio da
vendere sugli avidi mercati cinesi.
Tuttavia con la rivoluzione industriale l’Inghilterra potè cominciare a produrre in
grande quantità ed a costi molto bassi così che il suo vantaggio divenne incolmabile:
all’inizio furono i filati e le cotonate di Manchester che poterono dilagare in India
dove non esistevano barriere doganali alle merci inglesi (mentre l’Inghilterra ne
aveva di altissime sulle merci indiane) con l’ovvio risultato di distruggere in
pochissimo tempo l’artigianato cotoniero indiano.
Era una delle modalità classiche del colonialismo che, oltre a rapinare i paesi soggetti
del loro lavoro e delle loro risorse, li costringeva a diventare mercati di sbocco delle
produzioni della madrepatria e li costringeva ad esportarvi le loro materie prime (con
scarso valore aggiunto) a basso costo.
L’India dovette così intensificare l’esportazione di juta e di cotone greggio per
l’insaziabile industria tessile inglese, di tè per l’assetata madrepatria e soprattutto di
oppio per la Cina [e ciò comportò le due famose ‘guerre dell’oppio’ (1839-42 e 185660) che videro la sconfitta della Cina ed il suo conseguente ulteriore asservimento].
Per tutto il XIX secolo il monopolio governativo della produzione e della vendita
dell’oppio rappresentò una delle massime risorse dell’economia indiana e dopo
l’imposta fondiaria la seconda fonte fiscale dell’impero coloniale indiano, visto che –
ripetiamolo - erano gli indiani a dover pagare i costi del loro stesso asservimento.
Intanto, mentre gli inglesi venivano così plasmando il paese secondo la loro civiltà, la
loro religione e, soprattutto, in favore dei loro interessi, dal punto di vista politico la
Compagnia usurpò progressivamente sempre più potere dalla mani dell’imperatore
Moghul relegandolo nella gabbia dorata della sua corte idilliaca e poetica a Delhi:
tuttavia, anche se gli affari di stato erano diretti dal residente della Compagnia,
l’impero Moghul rimaneva pur sempre ufficialmente in piedi e l’imperatore, per
quanto manovrato ed eterodiretto, continuava a rimanere la fonte ufficiale e legittima
del potere.
La Compagnia insomma, di fatto padrona del paese e dotata di poteri sovrani, di una
propria burocrazia, di proprie forze armate, detentrice della direzione del commercio
e dell’economia indiane, rimaneva però pur sempre (almeno sulla carta) un’ospite ed
una partner dell’imperatore.
Questa situazione sicuramente precaria venne risolta dalla rivolta dei sepoys e dal suo
soffocamento.
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La rivolta dei sepoys
L’esercito che un pezzo dopo l’altro aveva conquistato l’India era stato sempre più
composto dagli stessi indiani appartenenti alle varie etnie, popoli, gruppi linguistici e
religiosi, che allora in fondo rendevano l’India un’espressione geografica.
La frammentazione etnica, politica, religiosa e culturale era la condizione delle
diverse regioni indiane che, legate a identità e storie differenti, quasi mai si erano
davvero trovate organizzate in un fronte comune e compatto e sotto un’unica
bandiera.
In India il concetto di nazione era completamente assente, né sarebbe stato possibile
nonostante la precedente conquista dei Moghul.
Un elemento di unità cominciò tuttavia ad essere fornito proprio dall’esercito
costruito dagli inglesi: anche se i nuovi regolamenti militari tenevano
necessariamente conto del sistema delle caste e delle sue prescrizioni, l’esercito per
definizione riorganizza e riassembla in un’unità elementi diversi, così i soldati
giuravano fedeltà ai superiori ed all’esercito inglesi e, obbedendo ai loro ordini,
finivano per combattere ogni volta contro altri eserciti indiani.
A garantire che il controllo e la direzione dell’esercito rimanesse in mano inglese era
l’occupazione delle posizioni di comando (mentre ai nativi erano naturalmente
riservati ruoli subordinati) e l’accesso alle munizioni, ai cannoni e ad ogni altro
aspetto vitale della macchina militare, ma nondimeno i soldati indiani – i sepoys godevano di vantaggi e di una posizione che in passato non avevano mai avuto: il
prestigio di indossare la divisa di un esercito tanto potente, armi sofisticate e
nettamente superiori a quelle locali, una paga regolare, (limitate) promozioni ed
incentivi finanziari.
Eppure, nonostante tutto ciò, il dominio inglese bruciava sull’orgoglio e sull’identità
stessa degli indiani, umiliati ed espropriati della loro terra, e questi sentimenti
esplosero durante la rivolta dei sepoys.
La rivolta dei sepoys (o, a seconda dei punti di vista, ‘Indian Mutiny’ e ‘prima
guerra d’indipendenza indiana’) si sviluppò dagli inizi del 1857 alla metà del 1858
soprattutto a Delhi e nell’area centro-settentrionale dell’India: i primi segni di un
crescente malcontento (con azioni incendiarie nelle aree di acquartieramento delle
truppe) erano cominciati già nel gennaio 1857, ma deflagrarono in maggio in seguito
ad un episodio (apparentemente) incredibile.
Il nuovo moschetto a canna rigata Pattern 1853 Enfield dato in dotazione ai sepoys
era un fucile molto più efficiente del precedente, ma richiedeva che il soldato
mordesse la punta della cartuccia per aprirla, ne mettesse la polvere nella canna e poi
la pallottola con l’apposita bacchetta: per mantenerla asciutta la cartuccia era unta di
grasso e, oltre al fatto che questo era disgustoso al palato e richiedeva continue
pulizie della canna, presto si sparse la voce che era grasso di vacca, animale sacro per
gli indù e che era dunque sacrilegio mettere in bocca, e di maiale, animale impuro per
i mussulmani e che dunque ancora una volta non poteva esser messo in bocca.
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Non servì a nulla che gli ingredienti del grasso venissero cambiati: i sepoys
rifiutarono le nuove armi.
Se essi fossero stati reclutati fra gli appartenenti alle caste inferiori forse il problema
non sarebbe stato avvertito in modo così acuto, ma la Compagnia preferiva sceglierli
fra gli appartenenti a caste più elevate, sia per ingraziarsele sia perché i suoi soldati
fossero più rispettati: sicuramente poi il risentimento era aggravato anche a causa
dell’aggressiva opera dei missionari, tanto che si rumoreggiò che le nuove cartucce
erano parte di un complotto per facilitare le conversioni al Cristianesimo.
La rivolta fu così animata da istanze politiche, sociali e da forti rivendicazioni
religiose che compattarono i differenti culti presenti nel paese: essa combattè contro
l’inarrestabile penetrazione occidentale e contro la sua minaccia sia alle religioni che
a tutto il sistema di vita indiani.
In maggio dunque la rivolta esplose e si trasformò in guerra aperta: essa si diffuse
infatti anche fra la popolazione civile al di fuori delle forze armate, ma a causa
dell’estrema disomogeneità delle società indiane essa non si trasformò mai in
un’insurrezione generale come i suoi capi avevano sperato.
La rivolta, iniziata vicino a Delhi, a poco a poco si propagò infatti in gran parte
dell’India settentrionale, ma la maggior parte dell’India meridionale ed il Punjab
(dove i sikhs non volevano il ritorno dell’impero Moghul) rimasero in genere estranei
alla lotta (anche perché non tutti quegli stati erano stati ancora assoggettati al dominio
della Compagnia) e nemmeno tutti i reparti dei sepoys si ribellarono.
Alla ricerca di simboli e di credibilità, i rivoltosi si rivolsero all’imperatore Moghul
Bahadur Shah II conosciuto come Zafar (il vittorioso), ventiduesimo discendente di
Babur, e lo acclamarono imperatore di tutta l’India, ma non fu una scelta felice: nato
nel 1775, Zafar aveva dunque 82 anni, e dal 1803, cioè fin dall’arrivo delle truppe
inglesi nella capitale, era diventato in pratica un pensionato della Compagnia.
Anche se aveva conservato il titolo di imperatore la sua giurisdizione non si
estendeva oltre le mura del Forte Rosso: egli viveva insomma ritirato in questa
splendida reggia di Delhi, dedito alla poesia e poco incline all’azione, così fu una
semplice copertura (e una vittima) dei ribelli.
Come sempre succede nelle rivolte, inizialmente il successo arrise ai sepoys che
riuscirono a respingere le forze della Compagnia ed a conquistare numerose
importanti città, ma quando gli inglesi reagirono, ricevettero rinforzi e partirono al
contrattacco, i sepoys non furono in grado di resistere: essi mancavano di un
comando centrale, i loro leaders erano troppo numerosi e per la maggior parte raja e
prìncipi, praticamente alla testa della rivolta per diritto dinastico e dunque spesso
incapaci ed opportunisti.
L’episodio culminante della guerra fu l’assedio di Delhi da parte degli inglesi: dalle
loro basi sul crinale (il famoso ‘ridge’) settentrionale di Delhi nel caldo soffocante
dell’estate indiana l’assedio di Delhi durò dal 1 luglio al 21 settembre e si concluse
con stragi della popolazione, feroce saccheggio ed indiscriminata devastazione della
capitale.
Massacri, ritorsioni, bombardamenti, furti e rapine furono perpetrati dagli inglesi con
cieco furore e senza alcuna considerazione per gli innocenti e le innumerevoli opere
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d’arte che andarono distrutte senza ritegno (come sarebbe successo l’anno seguente
con la distruzione del Palazzo d’Estate nei dintorni di Pechino): oltretutto gli inglesi
erano infiammati anche dalle notizie delle spietate uccisioni, avvenute per mano dei
sepoys, di europei (senza riguardo alla loro età e al loro sesso) e di quegli indiani che
avevano collaborato con loro.
Dopo Delhi gli inglesi si mossero per liberare città per città tutto il territorio perso
mentre nella madrepatria le notizie delle uccisioni di donne e bambini bianchi da
parte dei rivoltosi scosse profondamente l’opinione pubblica che pretese a gran voce
la punizione senza pietà dei colpevoli e non ascoltò più quei simpatizzanti della causa
indiana che pure esistevano anche in Inghilterra.
La fine della guerra, vittoriosa per gli inglesi, fu seguita dalla messa a morte della
grande maggioranza dei combattenti indiani, come pure di un vasto numero di civili
che si sospettava avessero avuto simpatia per la causa dei rivoltosi.
La rappresaglia inglese fu sicuramente terribile: la maggior parte dei sepoys
prigionieri fu impiccata o ‘legata al cannone’ per esserne sbriciolata - fine toccata
anche a quei sepoys che non avevano preso parte alle uccisioni - e non ci fu modo di
arrestare le ritorsioni.
E’ difficile credere che le spaventose rappresaglie scatenate dagli inglesi siano state
vendette per le analoghe violenze e le precedenti stragi perpetrate dai ribelli: esse
invece ne furono largamente indipendenti ed addirittura le precedettero spingendo
all’insurrezione anche sepoys e comunità indiane fino ad allora indecisi.
In ogni caso la ferocia fu generale in questa guerra che pure occupa poco spazio nei
testi di storia: fu una guerra violenta e brutale ed entrambi i contendenti si
macchiarono di tutti quelle atrocità che nel Novecento sarebbero stati definiti ‘crimini
di guerra’, ma naturalmente in termini numerici le perdite furono significativamente
pesanti solo per la parte indiana che aveva una folta popolazione civile a differenza
degli inglesi, relativamente pochi ed in genere soldati e funzionari.
Mentre i soldati fecero pochissimi prigionieri (e spesso anche questi furono giustiziati
in un secondo momento) interi villaggi furono poi rasi al suolo per il semplice
sospetto di simpatia per gli insorti: gli indiani chiamarono queste rappresaglie ‘il
vento del diavolo’ e stampa e governo inglesi non chiesero in alcun modo clemenza,
sebbene il governatore generale Canning mostrasse comprensione verso gli indiani e
si guadagnasse così lo sprezzante soprannome di ‘Clemenza Canning’.
Bahadur Shah II venne imprigionato e ricevette le teste mozzate dei suoi figli come
monito, punizione e vendetta: tuttavia in seguito, processato per altro tradimento (!)
da una commissione militare riunita a Delhi, sarebbe stato esiliato a Rangoon dove
sarebbe morto nel 1862. Così si sarebbe estinta la lunga e gloriosa dinastia Moghul.
Col senno di poi è agevole vedere che la rivolta dei sepoys era condannata al
fallimento fin dall’inizio: essa fu un confuso tentativo di ritorno al passato, il sogno di
ripristinare i fasti di un’età che era stata invece fatalmente travolta dai tempi nuovi
del commercio mondiale, della prima globalizzazione e dell’unificazione dei mercati.
Con una felice espressione Spear la definisce ‘il canto del cigno della vecchia India’
(pag.347).
12
L’India colonia britannica
La rivolta dei sepoys segnò una svolta nella storia dell’India ed in quella dell’impero
britannico stesso: per una sorta di contrappasso (o di ‘eterogenesi dei fini’) erano stati
infatti proprio gli inglesi ad unificare (od a ri-unificare) i numerosi popoli e stati che
vivevano nell’immenso subcontinente, ma, così facendo (e così non potendo non
fare), essi avevano compattato le società indiane e le avevano messe di fronte ad un
dominio ed un controllo unico ed esterno cui prima o poi avrebbero reagito.
Avvenne così che la rivolta dei sepoys
a) innanzitutto fu la prima manifestazione della nascita dello spirito nazionale indiano
e del suo desiderio di indipendenza;
b) costrinse gli inglesi a gettare la maschera della loro pretesa superiore civiltà: il loro
comportamento spietato e feroce mise in luce al contrario la loro barbarie e la
violenza sfrenata della loro brama di sfruttamento e di ricchezza;
c) soprattutto però mise in luce l’insufficienza della Compagnia a tenere sotto
controllo un territorio così smisurato e dalla popolazione così numerosa.
La Compagnia controllava direttamente oltre 1.432 kmq. di territorio con una
popolazione di quasi 90 milioni persone ed i suoi alleati e tributari erano 43milioni su
oltre 1.522mila kmq: solo 6 milioni di abitanti erano ancora indipendenti, seppur su
un territorio di 327.702 kmq.: non si poteva continuare in questo modo ed era
evidente che la Compagnia era insufficiente al compito, così l’Inghilterra stessa,
allarmata dalla guerra e dalla difficoltà oggettiva di dominare il subcontinente, decise
di prenderlo direttamente nelle sue mani e di gestirlo in prima persona.
Già in agosto il ‘Government of India Act 1858’ sciolse la Compagnia dopo oltre
due secoli e mezzo di esistenza e di stupefacenti realizzazioni così decisive per la
storia dell’Inghilterra (e del pianeta stesso) e ne trasferì i poteri alla Corona: nel
governo britannico venne così creato un nuovo ministero ad hoc, l’India Office, e
l’amministrazione dell’India fu affidata ad un funzionario governativo, il Segretario
di Stato per l’India, mentre il Governatore Generale dell’India divenne addirittura
Viceré dell’India, residente a Calcutta ed incaricato di attuare le politiche e le misure
volute dall’India Office.
Subito la nuova amministrazione coloniale britannica si lanciò nell’attuazione di un
vasto ciclo di riforme: come sempre nella politica coloniale si vollero integrare ed
associare le più alte caste indiane ed i signori locali nel governo della colonia stessa;
gli indiani furono ammessi nei servizi civili (naturalmente come subordinati); i
tentativi di occidentalizzare gli indiani vennero abbandonati e venne lasciato loro il
maggior spazio possibile purchè non interferisse coi piani (e cogli interessi) dei nuovi
signori; l’appropriazione di terre venne fermata; la tolleranza religiosa fu permessa.
In campo militare si aumentò il numero dei soldati britannici rispetto a quelli indiani;
furono mantenuti i reggimenti rimasti fedeli; furono accresciute le unità straniere
arruolate fra le cosiddette ‘martial races’ (quelle cioè che mostravano una maggior
predisposizione al mestiere delle armi e che non facevano parte della popolazione
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indiana predominante) come i temibilissimi Gurkha nepalesi, così decisivi nella
campagna di Delhi; si eliminò il sistema che aveva estraniato i sepoys dai loro
ufficiali britannici (ora molto più a contatto con loro) il cui numero peraltro calò
vistosamente dato che maggior fiducia e responsabilità vennero delegate agli ufficiali
indiani; tuttavia tutta l’artiglieria rimase in mano inglese.
Il significato di tutte queste riforme è lampante: gli inglesi da maestri del
colonialismo quali erano vollero fondere in un’unica compagine la miriade di popoli
a loro sottomessi in tutti i continenti amalgamandone le economie in un unico
mercato diretto da Londra (nel 1877 la Regina Vittoria divenne Imperatrice di tutte
le Indie): fu un’operazione ciclopica che (per quel che riguarda l’India almeno)
richiese
a) innanzitutto che i popoli indiani accettassero il dominio britannico - e per questo si
cercò di coinvolgerli il più possibile nell’amministrazione ma, ovviamente, sotto la
direzione e la supervisione inglese;
b) poi che le classi dominanti indigene si integrassero (seppur a un livello inferiore)
nella struttura di comando della colonia - accettando naturalmente la supremazia
inglese in cambio del riconoscimento del loro status precedente;
c) inoltre che gli indiani venissero disturbati il meno possibile nei loro costumi, nelle
loro religioni e nella loro cultura – a patto però che ciò non interferisse con le
esigenze dell’impero;
d) infine che gli indiani stessi venissero controllati militarmente – di qui la
formazione di reparti militari composti da soldati provenienti da altri popoli.
Gli inglesi erano convinti che la loro civiltà, la loro evidente superiorità e la loro
visione planetaria dell’impero si sarebbero imposte praticamente da sole grazie alla
loro stessa forza e capacità d’attrazione ed effettivamente fra le caste colte e
dominanti non furono rari i casi di volontario adeguamento, di adesione convinta e di
adozione dei costumi e della mentalità inglesi.
L’India, ormai saldamente di fatto unificata e coordinata e diretta dal suo efficiente
apparato amministrativo, l’ ‘Indian Civil Service’, continuò così il suo tumultuoso
cambiamento su basi più regolari e solide mentre l’Occidente era a sua volta entrato
in quel periodo di profonde innovazioni che va sotto il nome di ‘seconda rivoluzione
industriale’: i due processi si saldarono in India che, oltretutto, era diventata il perno
dell’intero impero britannico.
Le nuove possibilità della tecnologia che nel XIX secolo trasformarono la vita sul
pianeta e resero l’imperialismo coloniale ben più efficiente e possibile: esse furono
ovviamente numerose (rete stradale e canali di irrigazione compresi), ma quelle di
gran lunga più importanti furono sostanzialmente le seguenti:
innanzitutto il telegrafo che con le sue centinaia di migliaia di chilometri di cavi
(anche transoceanici!) permetteva il collegamento praticamente immediato di Londra
con tutta la rete planetaria delle stazioni dell’impero: il miglior esempio di questa
nuova meraviglia fu offerto il 22 giugno 1897, il ‘Giubileo del diamante’ in
occasione della celebrazione dei 60 anni di regno della regina-imperatrice Vittoria,
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quando quest’ultima in pochi secondi inviò il suo messaggio in tutti gli angoli del suo
impero, il più grande che la storia dell’umanità avesse (e abbia) mai conosciuto.
I tempi, pur cronologicamente vicini, in cui i dispacci arrivavano a destinazione dopo
mesi e mesi di navigazione (e altrettanti erano necessari per la risposta) apparivano
remoti – e lo erano davvero perché ora la situazione del colossale apparato coloniale
era tenuta costantemente e facilmente sotto controllo ed era possibile un
coordinamento, un’armonizzazione ed una capacità di reazione fino a poco prima
impensabili.
La navigazione a vapore abbreviò notevolmente i tempi di percorrenza, potè
ignorare i monsoni che costringevano la navigazione a vela entro limiti insuperabili
ed aumentare di molte volte i carichi trasportati che l’industria in pieno sviluppo
richiedeva sempre più consistenti.
Desta quindi un certo stupore che gli inglesi non si siano subito resi conto della
decisiva importanza del canale di Suez: com’è noto, il canale fu opera del francese
Ferdinand de Lesseps su progetto dell’ingegnere italiano (ma suddito austriaco) Luigi
Negrelli e venne realizzato con una compartecipazione franco-egiziana all’impresa,
tanto che alla cerimonia d’apertura, il 17 novembre 1869, quando per la prima volta
le acque del Mediterraneo si unirono a quelle del mar Rosso, fu presente lo stesso
Napoleone III.
L’Inghilterra era rimasta incredibilmente assente dall’avventura (anzi si era opposta
per rivalità con la Francia) della quale sarebbe pur stata la principale beneficiaria, ma
seppe riprendersi presto ed alla prima occasione: già nel novembre 1875 l’Egitto era
sull’orlo della bancarotta e i francesi tentarono di approfittarne offrendo prestiti ad un
tasso molto alto e pretendendo assicurazioni che li avrebbero portati a controllare
l’intero paese, ma il premier britannico Disraeli seppe agire con tempestività
facendosi vendere dal khedive Isma'il Pascià per 4 milioni di sterline (anticipati dal
banchiere Rothshild) la sua quota delle azioni (il 50%) della compagnia che aveva in
gestione il canale per 99 anni.
Disraeli si era mosso con velocità fulminea e con quella quota l’Inghilterra si era
assicurata con un colpo solo il controllo della rotta delle Indie, ma non bastò ancora
perché tale rotta era talmente vitale per l’Inghilterra che questa, ancora una volta alla
prima (solita) occasione, nel 1882 inviò truppe per proteggere il canale e, di fatto, con
questa mossa sottomise l’intero Egitto che entrava così anch’esso nel suo impero.
Fu un classico esempio della ‘coda che muove il cane’, cioè di esigenze di
geostrategia che spingono a nuove conquiste di per sé non volute, ma rese necessarie
dallo sviluppo degli eventi.
Come si è detto, per la sua stessa posizione geografica l’India era il perno dell’intero
impero britannico (l’aveva capito anche Napoleone al tempo della sua campagna
d’Egitto nel 1798), la ‘gemma più preziosa’ sulla corona della regina-imperatrice
Vittoria e per la conseguente necessità di svilupparla gli inglesi si lanciarono nella
costruzione della grandiosa rete ferroviaria indiana.
La costruzione di strade ferrate fu una delle grandi epopee del secondo XIX secolo
(dalla ‘coast to coast’ statunitense alla transiberiana russa) che vide tutta una serie di
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imprese colossali e stupefacenti, ma la rete ferroviaria dell’India merita una
menzione a parte.
L’Inghilterra, sicura padrona dei mari, controllava agevolmente le coste, ma un
dominio vero e proprio dell’immenso subcontinente - ed il suo conseguente
sfruttamento - incontravano ancora difficoltà insormontabili dovute alla lenta e
complicata rete dei trasporti che aumentava i costi delle merci fino a livelli proibitivi:
era quindi necessario dotare l’India di un moderno sistema ferroviario che per
Headrick ‘costituì il più mastodontico progetto dell’era coloniale’ (pag. 192) e che
l’Inghilterra intraprese con determinazione: i lavori, già iniziati nel 1852, dopo la
trasformazione dell’India in colonia britannica subirono così una decisa
accelerazione.
E’ evidente che sui terreni pianeggianti le difficoltà erano facilmente superabili, ma
dove l’altopiano del Deccan scende a picco di 550-600 metri, dove si dovette
procedere in salita e dove fu necessario scavalcare i grandi fiumi capaci di enormi
straripamenti gli ingegneri britannici furono sempre capaci di ottenere i risultati
voluti dimostrando tutto il loro valore tanto che nel 1868 le linee principali erano
state già ultimate (!).
Con le ferrovie arrivò tutto un nuovo modo di vivere e i costi del trasporto via terra
crollarono, ma ciò non preparò o favorì – come alcuni avevano sperato – la
rivoluzione industriale anche in India: le ferrovie indiane infatti non erano state certo
costruite per questo e l’India divenne invece ancora meglio e sempre più dipendente
dalle merci dell’industria britannica ed esportatrice di materie prime e di prodotti
agricoli, secondo il canone classico dei paesi colonialisti che sfruttavano le colonie
non solo per prelevarne le materie prime, ma, appunto, anche come mercati di sbocco
per le loro merci.
Il risultato fu evidentemente un progressivo e costante impoverimento della colonia
che, oltretutto, doveva anche coprire i costi della sua stessa colonizzazione.
Come si è detto, per tutto il XIX secolo l’India fu il centro economico dell’impero
coloniale britannico, essenziale al suo commercio ed ai suoi collegamenti, mentre
continuava a fornirgli la gran massa delle sue truppe, arruolate di prevalenza fra le
sue minoranze guerriere come i sikh, i rajput e i gurka, mentre le caste elevate
indigene continuavano a trarre vantaggi dalla sottomissione sempre più grave delle
caste inferiori e dei contadini.
Tuttavia allo stesso tempo era impossibile non vedere il miglioramento che la nuova
amministrazione portava in tutti settori e la vera e propria rivoluzione che l’avvento
di tante innovazioni tecnologiche produceva nella vita dello sterminato
subcontinente.
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La contraddizione del colonialismo britannico in India
La giustificazione ideologica del colonialismo britannico – come del resto del
colonialismo in generale - era l’incrollabile convinzione della superiorità della cultura
e della tradizione inglesi (ed europee) su quelle indiane (e su tutte le altre) visto che
in interi continenti secondo gli europei regnavano invece il disordine,
l’ineguaglianza, l’arretratezza, la miseria, in una parola, la barbarie: i colonialisti si
sentirono così sempre in dovere di portare ovunque la propria cultura e la propria
civiltà insieme al loro ordine, anch’esso superiore,.
Ma oltre a ciò erano le esigenze stesse del dominio coloniale a richiedere che i popoli
assoggettati partecipassero alla cultura dei loro signori: essi infatti (o, almeno, una
quota significativa di essi) dovevano collaborare e lavorare coi loro sfruttatori,
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condividerne gli obiettivi, essere convinti della bontà del nuovo regime che li portava
ad un livello incomparabilmente più alto, ecc., dovevano insomma diventare degli
occidentali anche loro, altrimenti il colonialismo stesso non sarebbe mai stato
possibile.
Fin dallo sbarco degli spagnoli in America – cioè fin dall’inizio dell’espansione
dell’Europa – questa era stata un’esigenza insopprimibile, ben compresa dai gesuiti
che ovunque avevano aperto scuole e così fecero – dovettero fare – anche gli inglesi
con gli indiani.
E la contraddizione era proprio questa, necessaria ed ineliminabile: diffondere la
cultura europea che parlava di libertà, di diritti civili, di stato di diritto e di
uguaglianza, a persone che si volevano invece dominare e mantenere in uno stato di
soggezione! Mostrare i benefici dello stato di diritto a chi ne doveva essere escluso! E
per di più pretendere che tutto ciò venisse accettato e ritenuto giusto!
Insomma, il colonialismo per la sua stessa struttura e natura non poteva non
diffondere la cultura che nei suoi stessi principi ne era una negazione e
implicitamente una contestazione! Non poteva cioè non fare a meno di offrire ai
dominati gli strumenti culturali per ribellarsi mentre, oltretutto, li unificava!
Esso si fondava su questo (apparente) paradosso.
Fu così che per esempio i giovani indiani cui si facevano frequentare scuole nate sul
modello di quelle in Inghilterra, che ne studiavano la lingua, la storia, la letteratura, la
filosofia, il diritto, ecc., furono educati alla cultura più liberale del tempo ma
contemporaneamente ogni giorno, usciti da scuola, vedevano che tali principi non
venivano applicati da quegli stessi che glieli insegnavano: agli indiani erano precluse
le cariche più importanti e direttive dell’amministrazione pubblica e, più in generale,
dovevano vivere in un regime al massimo paternalistico, ma comunque autoritario,
discriminatorio e spesso apertamente razzista nei loro confronti.
Coloro che a parole dicevano di fondarsi sui principi dell’uguaglianza, della giustizia
e della libertà, esibivano però diffidenza, arroganza e chiusura nei confronti di tutto
ciò che era indiano: il tempo in cui gli inglesi, agli albori della loro avventura
coloniale in India, avevano mostrato interesse ed un certo rispetto per le culture locali
era tramontato e si era trasformato in un atteggiamento di sfoggio della propria
superiorità culturale e addirittura razziale.
Era inevitabile poi che quegli indiani che si erano formati nelle scuole e università
inglesi e che avevano creduto ingenuamente nelle dottrine liberali e nei valori morali
e civici di cui la cultura europea si faceva portatrice dovettero ben presto ricredersi
posti di fronte alla sistematica chiusura degli inglesi ogni volta che erano richiesti di
passare dalle parole ai fatti.
Ma la forza di quelle idee, fatte ormai proprie dai giovani della nuova classe media
occidentalizzata, non venne meno per questo ed anzi furono proprio quelle idee il
motore della lotta di liberazione nazionale contro l’Inghilterra e di quella per
trasformazione dell’India in una repubblica democratica.
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Il Congresso Nazionale Indiano
La contraddizione del colonialismo nel caso dell’India britannica assunse toni
particolari e fu molto lenta ad esplodere, anche perché penetrò profondamente nelle
fibre delle società indiane del tempo.
Come ai tempi del dominio dei Moghul, in un primo tempo gli indiani avevano
creduto che con gli inglesi si fosse passati semplicemente da un signore straniero ad
un altro, ma ben presto si erano dovuti ricredere di fronte ai cambiamenti radicali che
l’immissione nel mercato mondiale, la rivoluzione culturale e quella tecnologica
stavano producendo nelle loro società: la reazione a questo terremoto era stata a volte
di cieco entusiasmo, ma più spesso di rifiuto in nome di un’intera tradizione
sconvolta.
La rivolta dei sepoys aveva segnato il culmine ed il fallimento del tentativo
antistorico di tornare al passato e per questo essa segna uno spartiacque nella storia
dell’India e l’inizio di una nuova éra nella quale gli indiani si resero conto che
avrebbero dovuto fare seriamente i conti con tutte le sconvolgenti novità che il
dominio britannico comportava ed alle quali non era più possibile sfuggire.
Dovevano imparare ad accettare l’Occidente, ma senza rinnegare e perdere se stessi.
Ancora una volta era evidente che erano gli inglesi stessi a scavare la fossa del loro
dominio coloniale grazie alle contraddizioni della sua logica interna stessa: furono gli
inglesi infatti a fornire agli indiani i quattro strumenti fondamentali per compattarli e
saldarli insieme: l’unificazione politica, la lingua, i trasporti e l’amministrazione.
L’unificazione politica formò anche la prima coscienza nazionale; l’utilizzo
dell’inglese, per quanto lingua straniera, come lingua professionale creò
un’omogeneità tra le classi colte mai vista prima - quando si parlavano invece
numerose lingue e dialetti diversi; la rivoluzione dei trasporti permise il contatto
fisico fra persone prima separate da distanze sterminate e difficilmente percorribili; il
nuovo, centralizzato e razionale apparato amministrativo introdotto dagli inglesi
cancellò o combattè numerose differenze e separazioni di casta, tradizione e sistemi
amministrativi stessi.
Anche i giornali ebbero poi un ruolo di primo piano nell’amalgamare società fino ad
allora estranee, diverse e lontane, e nel creare una prima coscienza nazionale indiana,
visto che ora si poteva infatti conoscere ciò che succedeva in tutto il subcontinente
considerato come un’unità.
Nel confuso e drammatico dibattito e fra le spinte contrastanti generate dalla
tumultuosa irruzione del XIX secolo nell’immenso e frastagliato subcontinente, la
voce più importante e più decisiva fu comunque quella del Congresso Nazionale
Indiano (o Partito del Congresso), un partito politico laico (seppur a larga
maggioranza indù) ispirato al liberalismo ma con un forte interesse per la questione
sociale e razziale.
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La scoperta di essere una comunità più vasta di quelle dei regni e dei gruppi etnici
diversi - e dunque la prospettiva di un’India nazione unita e unica - inevitabilmente
portava con sè anche il bisogno e la necessità della sua indipendenza dall’Inghilterra.
Fu in questo clima ancora agli albori che il Congresso Nazionale Indiano il 28
dicembre 1885 si riunì a Bombay per la prima volta. I suoi fondatori si ponevano
l’obiettivo di unificare gli sforzi di quanti operavano per la causa nazionale e di dare
vita ad una piattaforma dove fosse possibile impostare la discussione e programmi
operativi per l’intera India.
Lo spirito con cui il Congresso nacque non era affatto rivoluzionario bensì
improntato ad un grande lealismo nei confronti della Corona inglese (!), nella
convinzione che il legame tra India ed Inghilterra fosse benefico e necessario per
entrambe.
Quel 28 dicembre il Congresso si riunì così addirittura sotto gli auspici dell’allora
vicerè lord Ripon: era infatti desiderio del governo inglese promuovere la formazione
di un ceto dirigente indiano, fedele agli inglesi e capace di affiancarli
nell’amministrazione di un paese troppo vasto, complesso e popoloso, per le tutto
sommato limitate possibilità della burocrazia britannica.
Il Congresso rappresentava la classe media indiana occidentalizzata e puntava a
raggiungere i seguenti obiettivi:
1) il concreto accesso anche degli indiani alle cariche dirigenziali della burocrazia e
dell'esercito;
2) una politica economica non volta a favorire unicamente gli interessi inglesi;
3) istituzioni rappresentative della volontà del popolo indiano.
Come si vede, si voleva essere accettati dal regime esistente e non (ancora)
sostituirlo.
Il Congresso già nelle figure dei suoi tre fondatori mostrò la sua netta volontà di
occidentalizzare l’India e di collaborare con gli inglesi (seppur su un piano di parità e
di rispetto reciproco), tanto che, come si è visto, questi ultimi lo videro di buon
occhio e lo giudicarono necessario e positivo per la loro politica coloniale che
richiedeva necessariamente il sostegno dell’elemento indigeno (o, almeno, di una sua
parte significativa).
Uno dei tre fondatori fu addirittura un inglese, Allan Octavian Hume, che a
vent’anni, nel 1849, si era recato in India ed era entrato nel Bengal Civil Service
(l’ossatura amministrativa del paese) e si era poi distinto in varie attività fra cui
l’educazione e lo studio (era ornitologo), finchè nel 1882 era stato costretto alle
dimissioni per le sue idee ritenute troppo avanzate se non addirittura sovversive:
convinto che gli indiani dovevano elevarsi anche con le proprie forze, già l’anno
seguente aveva scritto una famosa lettera aperta ai laureati dell’università di Calcutta
invitandoli a scendere direttamente in politica ed a costituire un loro movimento
politico nazionale.
Un altro, Dadabhai Naoroji, proveniva da una famiglia di sacerdoti zoroastriani e,
già professore di matematica e di filosofia naturale, nel 1855 si era trasferito a Londra
come socio di una ditta inglese e a Liverpool aveva aperto una sede della prima
società indiana in Inghilterra: dopo soli tre anni si era già dimesso per motivi etici,
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ma nel 1859 aveva fondato una sua compagnia per il commercio del cotone. Tuttavia
l’attività economica – che pure mostrava il sempre più stretto collegamento fra India
e Inghilterra - non era stato il suo unico campo d’azione perché nello sforzo di unire i
due popoli su un piano di parità e di conoscenza reciproca era poi divenuto professore
di lingua gujarati all’University College of London e nel 1867 aveva contributo a
istituire l’East India Association allo scopo di far conoscere alla società britannica la
cultura indiana. L’Associazione aveva comunque dovuto lottare duramente - per
esempio contro le teorie dell’Ethnological Society of London che aveva sosteneva
invece la superiorità degli europei sugli asiatici.
Il terzo fondatore, sir Dinshaw Edulji Wacha, di nascita un parsi, cioè appartenente
ad una (la maggiore) delle due comunità zoroastriane dell’India, era un esperto in
economia e finanza e se ne occupò sempre e con irreprensibile precisione. Dopo la
fondazione del Congresso continuò con vigore la sua campagna per una politica
economica sana e stabile: nel 1897 per esempio egli mostrò di fronte alla
Commissione Welby a Londra che lo squilibrio finanziario dell’India dipendeva dal
continuo aumento delle spese (militari e civili) imposto all’India - ed effettivamente,
dato che i costi del colonialismo inglese ricadevano (ovviamente) sui colonizzati e
che, data l’importanza dell’India nell’impero britannico, l’esercito indiano era
numeroso e spesso inviato oltreconfine - le spese erano davvero ingenti ed esagerate.
Presidente del Congresso dal 1901, nel 1915 fu poi presidente della Indian
Merchants' Chamber finchè i suoi meriti furono ufficialmente riconosciuti dalla
Corona che lo nominò Sir nel 1917.
Questi brevi cenni sui tre fondatori del Congresso rivelano con chiarezza che il
coinvolgimento ed il ruolo degli indiani voluto dagli inglesi erano sinceri, ma
potevano funzionare solo se gli indiani accettavano che l’India rimanesse subalterna
all’Inghilterra all’interno del suo impero: questo era infatti lo scopo e la necessità
della politica inglese che fondeva in un’unica visione i suoi interessi imperiali con la
sua missione civilizzatrice.
Gli inglesi insomma rimanevano convinti di essere i portatori di una civiltà superiore
cui gli indiani dovevano adattarsi rimanendo entro i limiti imposti dalla supremazia
britannica: essi avevano ovviamente bisogno della collaborazione degli indiani e
favorivano tutte le iniziative in questo senso (come il Congresso) così gli indiani
dopo il fallimento della rivolta dei sepoys accettarono questa sorta di patto con gli
inglesi (che per parte loro non perdonavano gli atti ostili che anzi reprimevano con
durezza), ma questo equilibrio e questa collaborazione poterono durare solo finchè gli
indiani sentirono di aver bisogno degli inglesi nel loro sforzo verso la modernità e
l’occidentalizzazione.
Naturalmente in concreto le cose non erano poi così semplici ed il dibattito all’interno
del Congresso (e fuori) fu intenso come per esempio quello fra chi puntava prima
sull’indipendenza (Tilak) e poi sulle riforme e chi invece (Gokale) pensava che
l’India prima di diventare indipendente avrebbe avuto bisogno di essere seriamente
riformata, quindi ancora degli inglesi.
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La crisi di fine Ottocento
Per tutto il XIX secolo l’India rimase il perno economico essenziale dell’intero
impero coloniale britannico e la massima fornitrice delle sue truppe, in genere
provenienti dalle minoranze guerriere (come i sikh, i rajput e i gurka), ma gli effetti
negativi del dominio coloniale erano sempre più evidenti.
Tutto ciò favorì il risveglio dello spirito critico dei primi nazionalisti indiani, ma
avvertì anche gli inglesi (o almeno i meno ottusi di loro) che l’India stava diventando
ormai un ‘limone spremuto’ - com’era inequivocabilmente dimostrato dal costante
declino (dal 10% intorno al 1800 al 2% un secolo dopo) del contributo dell’India al
commercio mondiale - e che così non si poteva continuare.
La situazione dell’India divenne infatti drammatica alla fine del secolo: nel 1896 e
1897 le piogge non caddero provocando terribili carestie e nello stesso 1897 una nave
proveniente da un porto cinese portò nel paese una violenta epidemia di peste.
Il governo vicereale impose manu militari misure sanitarie severissime (ma razionali)
che però cozzavano contro costumi sociali e religiosi e pregiudizi della popolazione
indigena: l’urto fra le due culture fu durissimo tanto che il presidente della
commissione sanitaria venne ucciso, furono operati numerosi arresti (fra cui quello di
Tilak, accusato di sedizione, incarcerato e processato) e altre misure repressive
vennero prese contro il terrorismo che stava dilagando.
Fu proprio in questi frangenti che nel 1898 giunse in India il nuovo viceré, il famoso
lord Curzon, tipicissimo esempio di quella mentalità imperialistica secondo cui gli
inglesi erano stati chiamati ad adempiere al compito storico di civilizzare il mondo
assumendosi sulle spalle ‘the white man’s burden’ secondo la celeberrima
espressione di Kipling.
L’amministrazione di Curzon manifestò nel modo più chiaro l’errore di valutazione
dell’ideologia colonialistica: ottimo, capace e determinatissimo amministratore, egli
volle raggiungere il massimo dell’efficienza del suo governo vicereale, convinto che
i suoi sudditi non potessero avere altra aspirazione che quella di essere ben
amministrati, così si sforzò di accentrare al massimo tutti i poteri nelle sue mani.
Da convinto colonialista sostenitore dell’indubbia superiorità (senza paragoni) del
sistema europeo e britannico su quelli inaccettabili dei popoli extraeuropei, egli
ignorò le speranze e le aspirazioni del movimento nazionale indiano che da trent’anni
chiedeva che gli indiani stessi (o, almeno, anche gli indiani) potessero esercitare quei
poteri in casa propria. Per quanto buoni potessero essere i suoi numerosi interventi e
valide le misure da lui prese, l’esclusione degli indigeni ed il disprezzo manifestato
per loro e per la loro civiltà gli attirarono l’ostilità (comprensibilissima) della
popolazione.
L’acme dell’incomprensione e del malcontento fu toccata nel 1905 (l’ultimo anno di
Curzon in India) con la spartizione del Bengala: Curzon giudicava il ricco e popoloso
Bengala, centro della cultura e della letteratura dell’India contemporanea e
conseguentemente culla del movimento nazionale indiano, un pericoloso focolaio di
sovversione da spegnere al più presto e così con la scusa dell’efficienza
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amministrativa lo divise in Bengala occidentale (prevalentemente indù) e Bengala
orientale (prevalentemente musulmano).
Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso e la collera popolare esplose con
proteste, una nuova ondata di bellicosità mahratta, agitazioni nelle campagne,
violenze e veri e propri atti di terrorismo da parte di una serie di movimenti grandi e
piccoli, diversi e magari rivali, ma tutti intesi ad organizzare un conflitto armato
contro gli inglesi.
Nel riconoscimento che bisognava colpire l’Inghilterra anche negli interessi che la
spingevano al colonialismo, nacque poi anche un movimento di boicottaggio delle
sue merci e contemporaneamente di impulso alla produzione locale.
La reazione inglese fu la solita tristissima repressione poliziesca e giudiziaria che non
fece che inasprire la risposta terroristica ed alimentare il conflitto.
Dopo pochi anni la spartizione del Bengala fu annullata, ma intanto nel 1909 per
tutelare i diritti della cospicua comunità islamica indiana e per sostenerne le
rivendicazioni, a Dacca i fratelli Mohamed e Shaukat Ali fondarono la Lega
Mussulmana - che comunque condivideva la causa nazionalista del Congresso
(dominato tuttavia dagli indù).
L’annessione della Birmania all’India britannica
Proprio mentre in India nasceva il Congresso l’India britannica si accresceva della
Birmania ormai interamente conquistata: era stata la logica stessa del colonialismo
che aveva spinto gli inglesi ad accrescere i loro domini finchè non li avevano sentiti
al sicuro dalle minacce delle popolazioni vicine.
Insieme ai territori già conquistati gli inglesi ne avevano infatti ereditato anche i
problemi di politica estera (oltre al fatto che ovviamente intendevano mettere le mani
sul maggior numero di risorse possibile).
Anche la Birmania, il buddhista ‘Paese delle Pagode’, punto di arrivo e di
stanziamento di numerose popolazioni provenienti da nord e da est, dopo aver
alternato periodi di unione a periodi divisione, aveva avuto i primi veri contatti con
gli europei all’inizio del XVI in seguito all’arrivo dei portoghesi ed ai loro
insediamenti commerciali in India e nella penisola di Malacca.
Nei due secoli seguenti, come del resto altrove, olandesi, inglesi e francesi erano
entrati in competizione – prima coi portoghesi, poi fra essi stessi - nel tentativo di
strappare sempre più estesi diritti commerciali e quei possedimenti territoriali che li
rendessero possibili e li garantissero.
Nonostante ciò, o forse proprio per questo, nel 1752 si era affermata nel paese la
dinastia Konbaung i cui re non solo l’avevano riunificato, ma avevano occupato
l’Arakan (l’attuale fascia costiera occidentale) e trasformato i regni indiani di
Manipur (la regione più orientale dell’Assam con capitale Imphal) e l’Assam stesso
in stati vassalli.
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Con l’affermazione inglese, cioè con la presenza ormai di un solo dominatore in
India, la situazione non potè che precipitare ed i due espansionismi si trovarono
inevitabilmente in conflitto.
Nel 1823 Birmania ed Inghilterra entrarono in guerra nel territorio dell’attuale
Manipur: furono i birmani guidati dal re Alaungpaya ad attaccare gli inglesi
nell’Assam e lo scontro coinvolse anche i siamesi, da tempo in urto per conto loro
con la Birmania che aveva occupato il Tenasserim (la parte settentrionale della lunga
penisola che termina con l’attuale Malesia). Questa prima guerra anglo-birmana
durò tre anni ed alla fine i birmani, sconfitti ripetutamente, si arresero e cedettero agli
inglesi Arakan, Manipur e lo stesso Tenasserim.
Nel 1852 a causa di alcuni problemi legati al trattato che aveva posto fine alla prima
guerra anglo-birmana gli inglesi provocarono i birmani in uno scontro navale e
addirittura assediarono Rangoon.
Anche in questa seconda guerra anglo-birmana furono gli inglesi ad uscire
vittoriosi e l’anno seguente poterono così annettere alla loro enorme colonia indiana
anche la regione di Pegu, la parte sud-occidentale della Birmania.
A causa della crisi della Birmania sotto re Thibaw Min e della tensione creatasi
nuovamente fra i due stati, parte della popolazione inglese era stata costretta a fuggire
dalla Birmania. Oltretutto nel 1885 i francesi avevano intavolato trattative per
costruire filiali delle loro banche in Birmania e anche gli italiani avevano cominciato
a manifestare interesse per l’alta Birmania: gli inglesi decisero quindi di battere tutti
sul tempo e di risolvere il problema del difficile rapporto con l’inquieto vicino una
volta per tutte. Con un’invasione da sud dettero così il via alla terza guerra anglobirmana e il 9 novembre 1885 giunsero ad occupare l’allora capitale Mandalay.
Già nella prima notte di occupazione soldati inglesi ubriachi ed entusiasti diedero alle
fiamme il tesoro reale e pochi giorni dopo il trono fu portato a Calcutta e le sue
gemme più preziose inviate alla regina-imperatrice Vittoria (com’era già avvenuto
per esempio dal Punjab col celeberrimo diamante Koh-i-noor, lo storico gioiello dei
Moghul, una trentina d’anni prima).
Per la fine dell’anno l’invasione era già terminata ed il 1 gennaio 1886 la Birmania
sparì come stato indipendente: visto che non fu possibile trovare governanti-fantoccio
che dessero almeno una parvenza di autonomia al paese, esso venne dichiarato
possedimento inglese con capitale Rangoon e, nonostante tutte le sue diversità (dalla
razza alla religione, dalla lingua all’agricoltura, ecc.), esso venne annesso alla già
immensa India britannica e sottoposto al duplice sfruttamento sia da parte degli
inglesi che anche degli indiani stessi che lo penetrarono forzosamente.
A differenza che in India, in Birmania i conquistatori si trovarono comunque a dover
fronteggiare subito (dopo un solo paio di settimane) una continua e decisa guerriglia
partigiana condotta da ogni settore della popolazione, dai principi ai contadini, dai
briganti ai monaci buddhisti, cui risposero con la (solita) politica criminale del terrore
e colle (solite) brutali repressioni e rappresaglie: chiamando tutto ciò ‘pacificazione’
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si macchiarono dei (soliti) crimini contro l’umanità di cui non dovettero mai rendere
conto a nessun tribunale, nemmeno a quello della storia, visto che – del tutto
razzisticamente - mai un popolo o un regime europeo ha dovuto affrontare alcun
giudizio per gli orrori inflitti a popoli non-bianchi.
Naturalmente, inserita a forza nell’India britannica, anche la Birmania conobbe gli
stessi cambiamenti, ammodernamenti, mutamenti e la costruzione delle stesse abituali
infrastrutture coloniali (porti, strade, ponti, ferrovie, sistema amministrativo
occidentale, ecc.).
Degno di nota - ed anche questo è un aspetto fondamentale del colonialismo – fu che
le guerre contro i birmani furono combattute da soldati indiani inquadrati
nell’esercito coloniale da ufficiali inglesi.
Fu anche questa una storia che si è sempre ripetuta: non solo i colonizzati venivano
sfruttati e le loro risorse rapinate (per esempio sotto gli inglesi la Birmania divenne
uno dei più importanti esportatori di riso, alla coltivazione del quale furono adibite
nuove ampie zone), ma dovevano pagare i costi della loro stessa sottomissione e
fornire uomini e mezzi per le ulteriori guerre dei loro padroni.
Lo sfruttamento coloniale doveva essere a costo zero per i colonizzatori.
La svolta del Novecento
Col nuovo secolo gli eventi presero però un diverso andamento.
Innanzitutto l’irresistibile espansione europea nei quattro continenti subì un colpo
clamoroso in seguito alla schiacciante vittoria giapponese contro la Russia nel 1905
che rivelò al mondo che gli europei potevano essere sconfitti da un paese asiatico:
certo altre vittorie erano arrise ai popoli di colore nella loro resistenza contro i
colonialisti europei (per es. Khartoum o Adua), ma erano state battute d’arresto in
contesti particolari favorevoli ai resistenti mentre stavolta si trattava di una guerra
vera e propria combattuta coi mezzi più moderni allora a disposizione.
Il trionfo giapponese ebbe un profondo impatto sui nazionalisti di tutta l’Asia che
sentirono anche come loro quella vittoria – e soprattutto gli indiani che già avevano
seguito ‘con avida attenzione’ (Panikkar) la rivolta dei Boxers del 1900 a Pechino.
In secondo luogo in Inghilterra alle elezioni del 1906 i liberali conquistarono
un’ampia maggioranza in parlamento dove addirittura per la prima volta faceva il suo
ingresso un gruppo di 29 deputati laburisti: la netta svolta a sinistra del nuovo
governo di sir Henry Campbell-Bannermann (con sir Edward Grey agli Affari Esteri
e Winston Churchill primo sottosegretario alle Colonie) ebbe effetti anche in India
dove Curzon venne sostituito con Minto, vennero varate nuove riforme, gli indiani
poterono accedere in maggior numero alle cariche pubbliche anche alte, venne
cancellata la divisione del Bengala e Delhi divenne la nuova capitale al posto di
Calcutta.
Infine veniva a comporsi anche il ‘Grande Gioco’, cioè l’annoso scontro fra Russia e
Inghilterra (a questo proposito vedi il mio ‘Gli ultimi due secoli in Asia Centrale’)
che si sarebbe definitivamente concluso con la Convenzione anglo-russa del 31
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agosto 1907 e anche questo impressionò i nazionalisti indiani che videro ancora una
volta che gli europei non costituivano un blocco compatto e potevano essere fermati.
A tutto ciò seguirono poi la rivoluzione dei ‘Giovani Turchi’ nel 1908, il movimento
nazionalista persiano del 1910 e la rivoluzione cinese del 1911.
Gli anni che precedettero la prima guerra mondiale offrirono insomma un ampio
spettro di utili insegnamenti a quegli indiani che soprattutto nel Congresso
aspiravano ad essere liberi e padroni in casa propria, rafforzando l’ala di Tilak
(comunque imprigionato nel 1908) su quella di Gokhale.
La spettacolare avanzata europea in tutto il pianeta si era ormai esaurita per mancanza
di nuovi popoli e territori da sottomettere e conseguentemente le rivalità fra gli stati
europei ricominciavano ad emergere sempre più minacciose mentre, terminata la
conquista, si venivano manifestando ora i problemi di tenuta degli sconfinati imperi
coloniali.
L’India nella prima guerra mondiale
Quando la notte del 4 agosto 1914 l’esercito tedesco, attraversati Lussemburgo e
Belgio, invase la Francia, immediatamente l’Inghilterra le dichiarò guerra in aiuto
dell’alleata e dunque anche l’India si trovò coinvolta nel conflitto: era uno scontro fra
le potenze europee che, abbandonando ogni richiamo alla diplomazia e all’equilibrio,
volevano spartirsi l’Europa (e in fondo il pianeta stesso) e non certo una guerra che
riguardasse direttamente l’India, ma, nonostante questo, alla notizia dello scoppio
delle ostilità anche gli indiani, come i dissennati europei, si abbandonarono a
manifestazioni di giubilo e di entusiasmo, offrendo e promettendo all’Inghilterra
lealtà, aiuto e sostegno (anche finanziario) non chiedendo altro che di partecipare (!).
Gli inglesi tuttavia non pensarono di sfruttare il momento favorevole per rinnovare e
perfezionare il patto fra colonizzatori e colonizzati ma si limitarono a richiamare
soldati indiani da spedire sui campi di battaglia europei perdendo così un’occasione
d’oro: secondo Spear ‘gli inglesi mancavano di fantasia: nessuno capì quanto
facilmente quell’emozione, non tenuta nel debito conto o disprezzata, avrebbe potuto
trasformarsi in amarezza e odio’ (pag. 432), ma si sbaglia perché non di errore si
trattò, bensì della logica conseguenza dell’impostazione coloniale stessa.
Gli inglesi infatti non volevano e non potevano permettere che gli indiani
partecipassero su un piede di parità alle scelte ed alle strategie imperiali: il loro
contributo e la loro collaborazione, per quanto essenziali, secondo loro dovevano
invece rimanere relegati ad un livello di subalternità.
Era la stessa logica insomma che ispirava tutti i loro comportamenti in India, e cioè
far avanzare gli indiani nella gestione della colonia solo per quel tanto necessario al
suo funzionamento: un rapporto paritario dell’India con la madrepatria sarebbe stato
semplicemente in contraddizione con la precisa volontà di mantenerla, appunto, una
colonia.
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I
In ogni caso lo sforzo sostenuto dall’India nel conflitto fu notevole: essa fornì infatti
800mila combattenti e 400mila addetti ai servizi, ma si trattava di soldati preparati e
pensati per la difesa dell’India, non per essere spediti in terre lontane a combattere
contro i migliori eserciti del mondo.
Le derrate alimentari ed ogni tipo di rifornimenti che l’India dovette far arrivare
oltremare furono enormi e naturalmente più lo sforzo bellico si veniva intensificando,
più le richieste inglesi di uomini e mezzi aumentavano - fino all’aperta coercizione.
Eppure, nonostante tutto, l’India restò fedele e si sottomise ad ogni sacrificio, tanto
che l’Inghilterra potè lasciare nel paese sempre meno uomini giungendo ad un
minimo di 15mila, un’inezia in un territorio di quelle dimensioni.
Quando l’India era entrata in guerra il Congresso era dominato da Gokhale e dalla
sua maggioranza moderata, ma proprio nel giugno1914 Tilak era stato rilasciato dopo
sei anni di carcere e alla fine del 1916 (Gokhale era morto l’anno prima) era lui il
nuovo padrone del partito, addirittura con l’appoggio dei mussulmani cui aveva
concesso la divisione dei due elettorati a seconda della confessione religiosa dei
votanti: la lunghezza e la durezza inaspettate (per tutti) della guerra ed il
comportamento degli inglesi nei confronti degli indiani avevano presto spento gli
iniziali entusiasmi, nondimeno Tilak seppe muoversi con duttilità.
Egli infatti appoggiò lo sforzo bellico, rifiutò la violenza come arma per giungere
all’indipendenza, accolse favorevolmente la dichiarazione Montagu (20 agosto 1917)
che, fra l’altro, allargava notevolmente il diritto di voto agli indiani e permetteva loro
anche cariche ministeriali, ma non cessò mai di pretendere l’indipendenza, seppur
alla fine della guerra.
Come se la guerra stessa non fosse bastata, il peggio arrivò poi nel 1918-19 - a
guerra ormai conclusa! – con la famosa influenza ‘spagnola’ che infuriò in tutto il
mondo (commentando lo studio di Crosby Guido Majno la definì ‘una pagina del
Medioevo nel XX secolo’) e che in India fece 5 milioni di morti, una cifra terribile
anche per un paese purtroppo abituato alle stragi delle carestie (che comunque gli
inglesi avevano da tempo cercato di combattere e contenere).
II
Alla fine della guerra anche l’India era esausta ma, soprattutto, gli europei con essa
avevano perduto quel prestigio morale che tanto aveva impressionato i popoli
colonizzati; la pretesa superiorità degli europei era stata altrettanto compromessa se
non del tutto svanita nel bestiale ed insensato macello e nelle devastanti distruzioni
della guerra; l’unità degli occidentali appariva ora come assolutamente falsa … ed
inoltre a travolgere l’intera impostazione coloniale del pianeta si aggiungevano
adesso due fatti nuovi e sconvolgenti, la rivoluzione d’Ottobre (con l’appello di Lenin
agli ‘oppressi d’Asia’) ed i Quattordici punti di Wilson (fra cui spiccava il principio
dell’autodeterminazione dei popoli).
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La prima guerra mondiale fu insomma cruciale anche per la storia dell'India e non
solo per l’enorme costo economico e umano del conflitto, ma anche per la mancata
concessione dell’autonomia politica tante volte promessa dall’Inghilterra ed ora
rimangiata per timore che la rivoluzione comunista russa potesse in questo modo
estendersi anche al subcontinente indiano.
Ancora una volta, gli inglesi non erano soli ad allarmarsi per ogni accenno di protesta
popolare e per i primi limitati scioperi proclamati dai neonati sindacati: il timore dei
padroni inglesi era infatti pienamente condiviso dalle stesse élites indiane, loro
alleate nello sfruttamento delle masse lavoratrici - e che si sarebbero spinte
addirittura ad approvare, come si vedrà, l’insensato e criminale massacro di Amritsar.
III
Per i mussulmani indiani lo shock fu poi ancora più grande perché il sultano
ottomano, il capo spirituale e temporale dell’Islam entrato in guerra contro
l’Inghilterra, era stato completamente sconfitto; peggio ancora, al tavolo di pace
l’impero ottomano, il braccio armato dell’Islam, venne smembrato ed addirittura il
sultanato stesso sarebbe stato presto abolito!
(a questo proposito vedere le parti relative dei miei ‘ ‘Neve’ di Orhan Pamuk’ e
‘La ricomposizione etnica dell’Europa’).
Il problema della presenza dei mussulmani in India e dei loro rapporti con la grande
maggioranza indù erano comunque più profondi e di più vecchia data.
E’ molto difficile e forse impossibile stabilire con certezza quando l’impero Moghul
sia nato perché se ufficialmente se ne fa risalire l’avvento all’inizio del XVI secolo
con Babur, tuttavia erano secoli che i mussulmani si erano insediati in India e che ne
avevano conquistato porzioni enormi: in ogni caso con l’impero Moghul i
mussulmani avevano imposto il loro dominio culturale in India e circa 1/4 della
popolazione indiana era mussulmano.
Quando l’impero Moghul crollò sotto l’urto degli eserciti europei la comunità
musulmana dell’India si sentì comprensibilmente persa e disorientata, essendo
sottomessa agli inglesi e circondata da una grande maggioranza indù, cioè di infedeli.
Le cose peggiorarono ulteriormente quando, nel tentativo di scongiurare
l’indiscriminata occidentalizzazione, in India cominciò a formarsi un primo
sentimento nazionale e si cominciò a parlare di identità indiana da parte di molte
organizzazioni e di numerosi gruppi politicizzati, in genere indù: i mussulmani
temettero allora di finire marginalizzati ed assorbiti, prospettiva per loro
assolutamente inaccettabile.
Il Congresso aveva infatti cercato di unificare gli indiani al di là della loro
appartenenza religiosa, e in parte c’era anche riuscito, ma la frattura fra le due
comunità non si era ancora saldata – né lo sarebbe mai stata.
Accanto a quelle induiste si formarono allora anche numerose organizzazioni
mussulmane, che – sempre per reagire al colonialismo ed all’occidentalizzazione rivendicavano anch’esse la propria identità indiana, ma prettamente islamica.
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L’India fra le due guerre
Tilak non trascurò di curare i suoi rapporti politici con gli inglesi e trascorse
praticamente tutto il 1919 a Londra dove, visti inutili i suoi sforzi coi liberali, ruppe
gli indugi e si volse ai laburisti, allora in netta ascesa.
I
Tuttavia era ormai arrivata l’ora dell’entrata in scena del quarantanovenne avvocato
Gandhi.
Mohandas Karamchand Gandhi era nato il 2 ottobre 1869 nel Gujarat (stato sul
lembo nord-occidentale dell’India sull’oceano Indiano) in una famiglia dedita al
commercio, anche se suo padre era divenuto poi primo ministro del principato di
Rajkot.
A 12 anni si era dovuto sposare con un matrimonio combinato secondo la tradizione
indù (dal quale sarebbero nati quattro figli maschi) e a 18 anni era partito per Londra
dove si era laureato in giurisprudenza, ma solo due giorni dopo era tornato in India
(1891).
La svolta della sua vita era avvenuta quando nel 1894 la ditta indiana presso cui
lavorava l’aveva incaricato di difendere una causa in Sudafrica perché lì aveva potuto
sperimentare direttamente il razzismo inglese verso i neri e soprattutto verso i
150mila indiani colà residenti.
Nel giovane avvocato era così maturata un’evoluzione interiore spettacolare: di
orientamento jainista, egli in difesa degli indiani aveva infatti applicato con successo
la sua tattica rivoluzionaria della non-violenza, cioè della resistenza all’ingiustizia
mediante il rifiuto non-violento - costasse quel che costasse - di accettarla e di
sottomettersi ad essa.
Dopo vent’anni di permanenza aveva lasciato definitivamente il Sudafrica nel 1914,
proprio al momento dello scoppio della prima guerra mondiale: il 9 gennaio 1915
quand’era sbarcato a Mumbai, data la sua fama, era stato accolto come un eroe
nazionale e Gokhale lo aveva preso sotto la sua protezione consigliandogli di
viaggiare per l’India per conoscerne il vero volto e le vere condizioni in cui allora
essa versava.
Anche in India Gandhi volle ricorrere alla sua strategia della non-violenza e
l’occasione gliel’offrirono le proteste contro le ‘Rowlatt Acts’, vere e proprie leggi di
polizia che avrebbero permesso ai giudici di pronunciare sentenze senza giuria per gli
accusati di attività sovversive ed ai governi provinciali addirittura di imprigionare
senza processo i sospettati: nonostante le sue intenzioni, le manifestazioni sfociarono
però anche in violenze che ad Amristar (nel Punjab) costarono la vita a quattro
europei linciati dalla folla il 10 aprile 1919.
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La reazione del comandante locale, il generale Dyer, fu forsennata: tre giorni dopo
infatti egli, senza alcun preavviso, ordinò di aprire il fuoco su una folla di
manifestanti (non autorizzati) disarmati in uno spazio chiuso: dato che non esistevano
altre uscite oltre a quella già occupata dai soldati, la gente non potè nemmeno tentare
di scappare tanto che alcuni si gettarono in un pozzo per sfuggire al tiro dei proiettili
che continuò sino all’esaurimento delle munizioni, quando finalmente le truppe si
ritirarono senza fornire alcuna assistenza medica ai feriti. Solo l’impossibilità di
entrare nella piazza aveva impedito ad un’autoblindo di aprire il fuoco con la sua
mitragliatrice.
Secondo le cifre ufficiali i morti furono 379 e i feriti oltre 1.200, ma, non ancora
soddisfatto, Dyer proclamò la legge marziale e prese altre durissime misure razziste,
punitive ed umilianti.
La commissione d’inchiesta (quattro indiani e quattro inglesi sotto la presidenza di
uno di questi ultimi) e sconfessò poi l’operato di Dyer, ma per i membri indiani della
commissione la punizione del generale non fu assolutamente adeguata: contro Dyer
non venne infatti preso alcun provvedimento e venne soltanto costretto alle
dimissioni.
Amristar segnò il punto di non ritorno della causa indiana e segnò una netta svolta
anche nell’atteggiamento di Gandhi.
II
Fino a quel momento Gandhi era stato infatti per la cooperazione incondizionata con
gli inglesi, ai quali chiedeva però coerenza con la propria cultura e con i propri
princìpi, ma ora con la determinazione e la nettezza della sua mente rigorosa e della
sua ispirazione fortemente religiosa proclamò che ‘La cooperazione, sotto qualsiasi
forma, con questo governo satanico è peccaminosa’: la rottura con gli inglesi non
sarebbe potuta essere più netta e definitiva perché per Gandhi con essi non era più
possibile alcun dialogo.
Il Congresso fu con Gandhi.
Gandhi si identificò inoltre con gli ultimi della società e arrivava al punto di pulire le
latrine, compito riservato agli intoccabili (che lui chiamò ‘figli di Dio’), e dal 1921
cominciò a vestire come i contadini: egli venne sempre più considerato un santo ed
un profeta e riuscì in questo modo ad unire le masse al movimento di liberazione
nazionale fino a quel momento appannaggio della classe colta ed
occidentalizzata.
Gandhi, sempre rigorosamente non-violento, intensificò la sua campagna di
disobbedienza civile secondo la quale – rifuggendo da ogni violenza e non
opponendosi alle punizioni – bisognava però rifiutarsi di obbedire alle leggi immorali
e di adempiere agli ordini ingiusti.
Egli seppe mettere gli inglesi in contraddizione con se stessi e con i loro stessi
princìpi amalgamando il nazionalismo e la democrazia europei coi dettami jainisti
della non-violenza e della non-resistenza al nemico; egli volle così unire tutti gli
indiani indipendentemente dalla loro casta di nascita e dalla loro appartenenza
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religiosa ed allo stesso tempo impedire che il movimento di liberazione nazionale
sfociasse nel terrorismo e nello scontro armato.
In nome della non-violenza e della non-cooperazione col male Gandhi propose le
dimissioni degli indiani dalle cariche pubbliche, l’abbandono delle scuole inglesi e il
rifiuto di partecipare alle elezioni, ma su questo terreno furono in pochi a seguirlo.
Il nuovo vicerè Reading volle infatti andare a vedere le carte di Gandhi convinto
com’era che il suo programma fosse troppo astratto ed idealista e così, confidando
anche nel miglioramento della situazione economica, lo fece arrestare per sedizione e
condannare a sei anni (ma ne scontò solo due).
Venne inoltre varata una nuova costituzione che, più aperta e democratica, guadagnò
ulteriori consensi agli inglesi: in base ai suoi dettami fu attuato il decentramento
amministrativo ed aumentato il ruolo dei consigli provinciali mentre i mussulmani (e
i sikhs nel Punjab) ottennero collegi elettorali – per gli organi centrali e per quelli
periferici – riservati solo a loro.
L’India venne riconosciuta come un’entità politica autonoma ed entrò addirittura a far
parte della neonata Società delle Nazioni (!).
Anche se nel nuovo Consiglio sedevano tre inglesi e tre indiani, il vicerè rimaneva
tuttavia pur sempre responsabile di fronte al parlamento di Londra (e non certamente
a quello indiano) - e dunque era pur sempre Londra ad aver l’ultima parola sugli
affari dell’India - i progressi portati dalla nuova costituzione erano comunque
indubbi.
Con Gandhi ancora in carcere il suo movimento per la non-cooperazione si affievolì
notevolmente e prevalse la tattica di opporsi agli inglesi dall’interno delle istituzioni,
quindi collaborando (seppur in maniera critica) con loro, ma quando nel 1926 a
Reading successe Edward Wood (detto ‘lord Inwin’) la situazione mutò
profondamente.
III
Nel novembre dell’anno seguente venne infatti istituita una commissione (presieduta
da Simon) per verificare lo stato delle riforme e per avanzare nuove proposte, ma di
questa commissione non faceva parte nessun indiano (!) e la cosa non venne tollerata.
Già il mese seguente il Congresso non solo scelse infatti di boicottare la
commissione, ma affermò apertamente la volontà del popolo indiano di conseguire la
piena indipendenza nazionale e fu sull’onda di questa risoluzione rivoluzionaria che
fece il suo ingresso nella vita politica del paese il giovane Nehru.
Jawaharlal Nehru era nato il 14 novembre 1889 ad Allahabad, capitale dell’Uttar
Pradesh (la provincia dell’India settentrionale al confine col Nepal), e, figlio di un
avvocato, anche lui aveva fatto parte della nutrita schiera dei giovani che aveva
compiuto i suoi studi in Inghilterra: divenuto colà avvocato, era tornato India nel
1912 dove per qualche anno si era dedicato alla professione forense finchè era entrato
nel Congresso nel 1919, l’anno in cui il padre ne era divenuto presidente.
31
Anche il giovane Nehru aveva insomma condiviso e si era nutrito come tanti altri
giovani indiani della cultura inglese e anche lui aveva deciso di metterla al servizio
del suo paese che voleva sicuramente occidentalizzare ma insieme anche liberare e
rendere indipendente.
L’incontro con Gandhi lo convinse a divenirne poi un ardente ammiratore ed un
fervido sostenitore.
Intanto però i problemi politici del paese erano purtroppo molto difficili da risolvere.
Mentre la campagna per il boicottaggio della commissione era pienamente in corso,
giunse la proposta di una nuova costituzione che, se prevedeva un governo autonomo
per l’India che restava comunque un ‘dominion’ (cioè una comunità autonoma ma
all’interno dell’impero britannico che liberamente accettava di obbedire alla corona
inglese e di associarsi su un piede di parità agli altri membri del British
Commonwealth of Nations), aboliva però le distinzioni religiose dell’elettorato e ciò
provocò l’abbandono della conferenza da parte del leader mussulmano Jinnah che
temeva che in questo modo i suoi correligionari sarebbero spariti dal parlamento
sopraffatti dai molto più numerosi indù.
Ma non bastava ancora: il Congresso si autoproclamò unico rappresentante del
popolo indiano e, contestato lord Irwin nella sua pretesa di decidere da solo sulla
nuova costituzione, nel dicembre 1929 tornò a seguire Gandhi nella sua scelta della
disobbedienza civile di massa.
Questa volta la battaglia principale fu quella per l’abolizione dell’odiata tassa sul sale
e la proclamazione che gli indiani se lo sarebbero fabbricati da soli (illegalmente): il
primo fu Gandhi che dopo una celebre e ben reclamizzata marcia arrivò sulle rive
dell’oceano e lo estrasse con le proprie mani pubblicamente sulla spiaggia.
Le manifestazioni e le proteste si moltiplicarono come le dure reazioni degli inglesi
finchè alla fine di giugno ben 60mila persone erano state incarcerate.
Non si poteva continuare così: in cambio della sospensione della campagna della
disobbedienza civile il governo inglese dovette scarcerare i detenuti ed accettare la
presenza di indiani nella commissione: Gandhi fu nominato allora unico delegato
indiano alla conferenza stessa (!) e ciò diede la misura del suo prestigio e della
fiducia che il Congresso aveva in lui.
IV
A Londra tuttavia non si raggiunse nessun accordo (oltretutto nel 1931 la crisi colpiva
ancora molto duramente), il Congresso venne dominato dalla sua ala sinistra, la
campagna antinglese riprese e Gandhi finì in carcere solo dopo tre settimane dal suo
ritorno in India: fino al 1935 lo scontro continuò senza che nessuno dei due
contendenti potesse vincere, ma dopo due anni l’approvazione dell’India Act
rappresentò un serio passo avanti sulla via della modernizzazione della società
indiana in quanto esso abolì le divisioni fra le caste, permise un grande incremento
della partecipazione delle donne alla vita del paese ed aumentò il numero di scuole
femminili.
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Oltre a ciò, l’India Act estese la rappresentanza elettorale e fece dell’India una
federazione in cui ogni stato poteva entrare solo di propria volontà: l’India, oltre alla
parte dominata dagli inglesi, comprendeva infatti altri 565 (grandi e piccoli) stati
governati da maharajas, rajas e nawabs che tuttavia non seppero cogliere l’occasione
loro offerta, così pretesero di mantenere i loro privilegi, non entrarono nella
federazione e diffidarono del Congresso.
Ancora una volta però non tutto quel che luccicava era oro: nella neonata federazione
i governatori delle province infatti potevano comunque intervenire (seppur solo in
caso di estrema necessità) mentre al governo centrale vennero riservati poteri ‘ridotti’
alle sole finanze, difesa e politica estera - cioè al cuore del potere - e il vicerè
manteneva il controllo finale visto che poteva porre il veto alle leggi, licenziare i
ministri e addirittura sospendere la costituzione stessa (!).
Insomma: agli indiani era concesso di poter collaborare e così di poter meglio
sostenere il dominio inglese, liberandolo da tutta una serie di compiti minori.
L’India Act fu così altamente impopolare e Nehru lo definì una ‘Carta per la
schiavitù’, ma Gandhi gli fu invece favorevole e riuscì ancora una volta a convincere
il Congresso che un potere minore e condiviso era pur sempre un potere.
Gandhi aborriva la violenza e scelse Nehru invece di Chandra Bose come presidente
del Congresso perché si rendeva conto che sfidare ora l’Inghilterra sarebbe stato
disastroso: in questo modo riuscì a tenere legata a sé l’ala sinistra facendole rispettare
la nuova costituzione.
V
Il Congresso non seppe però valutare correttamente il problema dei 90 milioni di
mussulmani indiani cui non riconobbe il diritto di formare partiti islamici e rifiutò la
proposta di Jinnah di una coalizione Congresso-mussulmani pretendendo che questi
ultimi entrassero semplicemente (come gli indù) nel Congresso stesso.
Mohammed Ali Jinnah, nato a Karachi nel 1876 in una famiglia di ricchi
commercianti, aveva subito fatto parte di quell’élite di giovani destinata a diventare la
classe colta ed occidentalizzata del paese: nel 1892 si era trasferito in Inghilterra per
studiare legge e dopo la laurea aveva iniziato ad esercitare la professione a Bombay,
dove era divenuto presto un noto ed affermato avvocato.
Nel 1905 era entrato nel Congresso ed aveva fatto parte della delegazione che si era
recata in Inghilterra per sostenere la causa dell’autogoverno dell’India.
Tuttavia, preoccupato della sorte dei mussulmani in un paese a grande maggioranza
indù, nel 1913 aveva aderito alla Lega mussulmana divenendone in pochi anni uno
dei principali esponenti pur restando un deciso sostenitore dell’unità indùmusulmana: quando però nel 1928 Nehru aveva pubblicato il suo Rapporto che
delineava le linee-guida di un’India post-britannica, Jinnah l’aveva interpretato come
discriminatorio per la minoranza musulmana e si era trasferito a Londra.
Nel 1934 aveva però fatto ritorno in India per la forte pressione della Lega di cui era
divenuto presidente e che aveva riorganizzato.
33
Il problema di cui il Congresso non si rendeva conto era che i mussulmani si
sentivano sempre più minacciati in un’organizzazione in cui erano nettamente
minoritari (Jinnah definì il Congresso ‘fascismo indù’) e che conseguentemente
pretendevano proprie organizzazioni e spazi elettorali riservati a loro stessi.
La battaglia della Lega guidata da Jinnah fu vincente: la Lega ottenne che
mussulmani e indù tornassero ad avere liste elettorali diversificate in modo che i
secondi non venissero sommersi dai primi (ben più numerosi) ed in seguito alle
elezioni del 1937 occupò ben 108 dei 485 seggi parlamentari.
Era evidente che l’antagonismo fra indù e musulmani, un tempo essenzialmente
religioso, era ormai divenuto anche apertamente politico: la tempesta si stava
avvicinando a grandi passi.
VI
Degno infine di nota, nell’aprile 1937 l’India Act separò dall’India la Birmania che
divenne così una colonia a parte (Ba Maw capo di governo) con una nuova
costituzione ed un’assemblea eletta a suffragio universale: tutto ciò era lo sviluppo di
un processo già innescato fin dal 1920 – l’anno di nascita del nazionalismo birmano quando la Birmania aveva ottenuto una certa autonomia dall’India da cui era
profondamente diversa e di cui non sopportava l’ulteriore predominio e l’ulteriore
sfruttamento oltre a quelli inglesi.
I birmani giudicarono molto favorevolmente l’esclusione degli indiani da qualsiasi
attività legislativa che li riguardava, ma allo stesso tempo li incoraggiò ulteriormente
alla lotta per la totale indipendenza e infatti già nel 1938 un’ondata di proteste e di
sollevazioni che partì dai campi petroliferi della Birmania centrale e si trasformò
un’insurrezione generale.
India britannica e Birmania nella seconda guerra mondiale
Anche nel caso della seconda guerra mondiale gli eventi sono troppo numerosi,
complicati e soprattutto noti perché in questa sede valga la pena ripeterli e sarà così
sufficiente metterne in luce gli aspetti utili agli scopi del presente saggio.
I
La seconda guerra mondiale scoppiò mentre il dibattito in India era molto acceso e le
opzioni si scontravano senza che si riuscisse a trovare una via d’uscita o di
comportamento condivisa.
Inizialmente, nonostante il vicerè lord Lintithgow fin dal 3 settembre 1939
dichiarasse che l’India era in stato di guerra e ne sottolineasse la dipendenza
dall’Inghilterra, per quanto colpiti dalla fermezza inglese gli indiani non sentirono
34
come loro la guerra (come era invece avvenuto nel 1914) e la loro partecipazione allo
sforzo bellico, almeno nella prima fase, fu marginale.
Per convincere gli indiani a partecipare al conflitto vennero fatte loro numerose
promesse, ma mentre gli indiani chiedevano l’indipendenza prima della fine della
guerra, il governo inglese invertiva i termini e la prometteva solo dopo la vittoria.
In ogni caso, per poter affrontare le esigenze di guerra venne sempre più attuata
l’indianizzazione dell’India, cioè sempre più indiani assursero a posti di direzione e
di comando.
Durante la guerra emerse inoltre nettamente il carattere ambiguo della sistemazione
politica dell’India (e conseguentemente del suo esercito): l’India non era infatti né
pienamente indipendente né pienamente sottomessa all’Inghilterra, così il suo
esercito non obbediva del tutto né a Delhi né a Londra e rimaneva in una condizione
in cui la responsabilità e la catena di comando non erano chiaramente definite.
II
In seguito all’attacco giapponese a Pearl Harbour (7 dicembre 1941) l’estensione del
conflitto anche all’Asia pose comunque l’India (e l’Australia) in prima linea: in
seguito alla conquista giapponese di Singapore (il cuore della forza navale inglese in
Estremo Oriente si arrese il 15 febbraio 1942) e della penisola di Malacca, i
giapponesi (spalleggiati dai nazionalisti birmani del Burma Independence Army,
BIA) per consolidare le loro precedenti occupazioni e per tagliare i collegamenti (la
famosa ‘Burma Road’) fra Rangoon e la Cina (già invasa da 4 anni e che stava
resistendo), il 22-23 febbraio 1942 diedero poi inizio all’invasione anche della
Birmania facendone fuggire precipitosamente inglesi ed indiani.
L’India si trovò così la guerra alle porte e dovette impegnare tutte le sue forze
(notevolmente potenziate) per difendere i suoi confini orientali e per rifornire le
truppe americane ed inglesi colà impegnate.
III
Intanto il 1 agosto 1942 i giapponesi trionfanti potevano proclamare la nascita della
‘Sfera di co-prosperità’ in tutto l’Estremo Oriente in nome del loro principio ‘l’Asia
agli asiatici’ e della cacciata dei bianchi dall’intero continente: nonostante la loro
brutalità ed il loro razzismo il loro richiamo allettò e convinse numerosi nazionalisti.
In Birmania Ba Maw fu così a capo di un governo collaborazionista e filo-giapponese
ma, come dappertutto, il vero potere rimaneva nelle mani dei generali giapponesi che
in nome delle esigenze di guerra imponevano il loro controllo e duri sacrifici alle
popolazioni ‘liberate’, né questa situazione mutò con la proclamazione ufficiale
dell’indipendenza della Birmania il 1 agosto 1943 (e con la conseguente
dichiarazione di guerra agli USA e all’Inghilterra).
Col passare del tempo il carattere strumentale della politica dei giapponesi apparve
comunque sempre più evidente ed anche i birmani collaborazionisti che avevano
creduto in loro cambiarono fronte soprattutto quando divenne chiaro che la guerra si
35
sarebbe conclusa con la loro sconfitta: in seguito a contatti informali cogli Alleati
nel 1944 e nel 1945, il 27 marzo 1945 l’Esercito Nazionale della Birmania (BIA), già
filo-nipponico, proclamò addirittura l’insurrezione nazionale contro i giapponesi.
IV
In ogni caso quello birmano fu sempre un fronte secondario e anche l’India non fu
mai una priorità, tuttavia lo sforzo bellico comportò pur sempre un ulteriore notevole
sviluppo delle sue potenzialità produttive, del suo esercito e dei suoi ufficiali, mentre
il pericolo e la necessità di collaborare compattarono la società e favorirono l’ascesa
degli intoccabili.
Venne creato l’Eastern Group Council e l’India, suo membro principale, sotto la
direzione del vicerè arrivò a fornire il 75% dei materiali necessari (il che diede
grande impulso alla sua industria), vide il vertiginoso aumento delle sue forze armate
(da meno di 200mila uomini nel 1939 a 2,5 milioni), della sua marina e infine la
nascita anche di una sua aviazione: 8 milioni di persone lavorarono poi impegnate in
compiti di difesa ed altri 6 nelle industrie di guerra e nella costruzione di ferrovie
(sempre per scopi bellici).
Tuttavia, oltre al già notevole e preponderante impegno degli indiani nell’esercito e
nella produzione ai fini bellici, il mantenimento delle truppe alleate di stanza nel
paese gravava sulle campagne indiane peggiorando ulteriormente – se possibile - le
già pesantissime condizioni in cui versavano i contadini: la penuria di beni
commestibili e l’inevitabile inflazione col progredire della guerra fecero così sentire
tutti i loro effetti negativi soprattutto nel più esposto Bengala, col ritorno della tragica
e terribile carestia che già nel 1943 solo in quella regione mieté oltre 3 milioni di
vittime (!).
La sfida nipponica alla supremazia bianca in Asia trovò (come dappertutto) aderenti
anche in India dove fu Chandra Bose a scegliere di condividerla e di allearsi
all’Impero del Sol Levante: il suo Indian National Army (costituito soprattutto dalle
truppe indiane che si erano arrese in Malesia) fu così dalla parte del Giappone che
sembrava offrire l’ ‘occasione d’oro’ alle aspirazioni anticolonialiste ed
indipendentiste dell’intero continente, tanto che una settimana dopo che le Filippine
avevano proclamato la loro indipendenza (il 14 ottobre 1943) venne costituito il
Governo Provvisorio dell’India Libera capeggiato dallo stesso Chandra Bose, ma fu
un sogno di breve durata: nel marzo 1944 la progettata invasione dell’India, che
puntava innanzitutto su Imphal (nell’estremo lembo orientale dell’India oggi al
confine con la Birmania) da parte delle congiunte forze indo-giapponesi, fallì
miseramente.
Il gigantesco sforzo giapponese era ormai giunto al termine e la controffensiva alleata
procedeva sempre più incontenibile mentre fin dalla primavera 1944 in Asia un po’
dappertutto cominciavano ora a sorgere movimenti anti-giapponesi dato
l’intollerabile peso e la ferocia delle loro truppe di occupazione.
36
Nella Birmania occupata la fine definitiva arrivò il 27 agosto 1945 quando i
comandanti giapponesi ricevettero l’ordine di assistere e di obbedire agli inglesi della
forza di rioccupazione.
V
In ogni caso la guerra (e la propaganda giapponese) non poteva essere passata invano
ed ora in Asia era evidente che gli europei non erano più gli invincibili di un tempo e
che il loro prestigio aveva subito una scossa tremenda: i movimenti nazionalisti ed
indipendentisti si erano moltiplicati ed irrobustiti mentre gli stati europei erano
esausti e semi-distrutti: la strada per l’indipendenza correva veloce ed il primo ad
averlo capito era stato Gandhi.
Nemmeno di fronte alla terribile minaccia della guerra mondiale (o forse proprio per
questa) l’Inghilterra aveva accondisceso alle richieste indiane per l’indipendenza, ma,
tutto al contrario, in ossequio alla politica del ‘divide et impera’ aveva cercato di
allargare la spaccatura tra indù e mussulmani, ma Gandhi già il 13 aprile 1942 con
una famosa risoluzione aveva chiesto ai britannici di lasciare semplicemente l’India:
fu il famoso ‘Quit India’ col quale il Mahatma aveva poi invitato tutti gli indiani al
rifiuto non-violento totale ed inflessibile di ogni collaborazione con gli inglesi mentre
imponenti manifestazioni di protesta venivano inscenate in tutto il paese.
Per parte loro gli inglesi avevano reagito con imprigionamenti di massa, violenze e
repressioni senza precedenti: migliaia di indipendentisti erano stati uccisi o feriti dalla
polizia, altre centinaia di migliaia arrestati, il Congresso era stato dichiarato illegale e
a Bombay il 9 agosto 1942 Gandhi e tutti (!) i dirigenti del Congresso erano stati
arrestati.
Gandhi venne detenuto per ben due anni e in prigione digiunò per tre settimane come
penitenza per le violenze commesse durante l’insurrezione popolare indiana, poi,
gravemente ammalato di malaria e di dissenteria, venne rilasciato il 6 maggio 1944
per poter essere sottoposto ad un’operazione chirurgica (gli inglesi non potevano
permettersi che morisse in prigione).
In genere gli storici, dati i suoi costi altissimi ed il suo fallimento, hanno giudicato il
movimento ‘Quit India’ semplicemente disastroso mentre in realtà - oltre al fatto che
per l’ennesima volta gli inglesi avevano dovuto gettare la maschera e mostrare il vero
volto della loro feroce ingordigia e razzismo (mentre in Europa si vantavano di
combattere per la pace, la democrazia e la libertà!) - il seme gettato e nutrito con
tanto sangue e con tanta sofferenza avrebbe germogliato subito dopo la conclusione
della guerra.
Intanto, profittando della confusione del momento Jinnah era riuscito ad riorganizzare
ancora più efficacemente la Lega mussulmana e il Congresso ormai rappresentava i
soli indù.
37
L’indipendenza di Ceylon
Analogo a quello che di lì a poco avrebbe ottenuto l’India fu il conseguimento
dell’indipendenza di Ceylon, chiamata la ‘lacrima dell’India’ per la sua forma
geografica.
I
I primi europei a giungervi erano stati i portoghesi con Francisco de Almeida nel
1505 quando l’isola era divisa in sette regni in guerra fra loro e praticamente tutti i
suoi porti erano in mano musulmana.
Com’è noto gli arabi allora erano infatti i monopolisti del commercio nell’oceano
Indiano e i portoghesi - che vi erano arrivati proprio per combatterli - anche qui erano
riusciti ad inserirsi nei conflitti interni (alleandosi col re di Kotte) e, ottenuto di poter
costruire un forte nel porto di Colombo nel 1517, gradualmente avevano esteso il
loro controllo su tutta la zona costiera attrezzandola con le necessarie infrastrutture
coloniali che permettessero il commercio ed il trasporto delle spezie (l’altro motivo
principale della costruzione del loro impero in Asia).
Le crescenti arroganza ed invadenza portoghesi (commerciale, politica e religiosa)
anche qui avevano urtato gli interessi e la sensibilità dei singalesi (la maggioranza dei
quali era buddhista) che avevano così favorito l’altra potenza straniera che si era
affacciata sull’oceano Indiano, gli olandesi, di cui avevano chiesto l’aiuto fin dal loro
primo comparire nel 1602.
Gli olandesi non avevano avuto certo bisogno di essere invitati e, iniziata la loro
campagna contro i portoghesi, nel 1638 in seguito ad un trattato fra il re singalese e la
VOC (la Compagnia delle Indie Orientali Olandese), l’avevano portata
metodicamente a termine: Colombo era caduta nel 1656 e dal 1660 erano stati gli
olandesi ad avere il dominio dell’isola rivelandosi però – come nel resto dei loro
possedimenti, soprattutto nelle Molucche - padroni ancora peggiori dei portoghesi
stessi visto che avevano imposto tasse e sfruttamento con ancora maggiore durezza.
Ma anche gli olandesi avevano dovuto subire lo sfratto dall’isola ad opera della
nuova potenza marittima europea emergente, l’Inghilterra.
II
Il 19 gennaio 1795 in seguito all’invasione dell’esercito rivoluzionario francese i
Paesi Bassi erano divenuti la Repubblica (sorella) Batava e l’Inghilterra, proseguendo
nella sua lotta contro gli olandesi per la supremazia sugli oceani, nel 1796 aveva così
colto l’occasione per occupare senza trovare resistenza le aree costiere dell’isola che
chiamò Ceylon (dal portoghese Ceilão).
Ancora una volta, questo era stato solo l’inizio della conquista integrale che si era
conclusa nel 1815, mentre le sanguinose repressioni dei tentativi di resistenza erano
terminati solo tre anni dopo col completo asservimento del paese che fino al 1948
38
sarebbe rimasto sotto l’autorità del governatore britannico: se possibile, la condizione
degli isolani era ulteriormente peggiorata.
Gli inglesi avevano infatti scoperto che le zone centrali dell’isola erano molto adatte
alla coltivazione del caffè, della gomma e soprattutto del tè, prodotto molto ricercato
e di larghissimo consumo: con la cosiddetta Wastelands Ordinance (ordinanza sulle
terre improduttive) i contadini erano stati espropriati dei loro campi e ridotti alla
fame, ma dalla metà del XIX secolo il tè di Ceylon era talmente diffuso sui mercati
britannici che i due termini erano divenuti quasi sinonimi ed i nuovi piantatori inglesi
avevano potuto realizzare enormi guadagni.
Come se ciò non fosse bastato ancora, per lavorare nelle piantagioni dall’India
meridionale erano stati trapiantati sull’isola un gran numero di Tamil che erano ben
presto arrivati a costituire oltre il 10% della popolazione totale, complicandone la
composizione etnica con conseguenti scontri e tensioni ancor oggi non ancora sopiti
[nel 1983 con la nascita delle Tigri Tamil si giunse addirittura alla guerra civile che in
vent’anni produsse circa 65.000 morti e 1,5 milioni di sfollati. Solo nel dicembre
2001 le Tigri Tamil e il governo hanno firmato una tregua. Le Tigri Tamil sono state
dichiarate organizzazione terroristica da Stati Uniti, Inghilterra, Australia, India e
Canada, ma le profonde discriminazioni contro la popolazione Tamil sono state
riconosciute all’ONU dalla stessa presidentessa dell’isola.]
Oltretutto, gli inglesi avevano sempre cercato di mettere i gruppi etnici l’uno contro
l’altro per dominarli tutti meglio ed avevano favorito i Burghers (coloro cioè che
erano nati da matrimoni misti e quindi erano per metà europei) e le caste singalesi più
elevate.
Gli inglesi tuttavia – come dappertutto e specificamente in India – avevano introdotto
anche a Ceylon la loro cultura liberale basata sul diritto e – come in India – avevano
unificato i vari regni e popoli sotto lo stesso governo (seppur coloniale).
Col passare degli anni e con l’esempio dell’India anche a Ceylon il regime coloniale
aveva poi dovuto comunque allentare la sua presa finchè nel 1909 l’isola aveva
ottenuto un primo parlamento (solo parzialmente elettivo) e nel 1931, nonostante le
forti e scontate proteste dei privilegiati delle varie etnie, il suffragio universale.
Durante la prima guerra mondiale anche Ceylon aveva dovuto far fronte ai (soliti)
sacrifici imposti dalle esigenze belliche e durante la seconda l’isola aveva funto da
base delle operazioni britanniche contro i giapponesi che non l’invasero mai ma che il
5 aprile 1942 avevano bombardato Colombo.
Anche a Ceylon le forze politiche indigene si erano opposte al coinvolgimento in
guerra, così molti erano stati arrestati, ma molti altri erano fuggiti in India mentre
altri ancora erano rimasti invece sull’isola per continuare la lotta indipendentista:
alcuni esponenti del governo avevano infine intavolato negoziati con i giapponesi per
allearsi con loro e scacciare così gli inglesi.
Anche Ceylon aveva seguito insomma il copione già osservato in India.
39
III
Dopo la seconda guerra mondiale il processo che ben presto si sarebbe compiuto in
India non potè che verificarsi dunque anche a Ceylon che il 4 febbraio 1948
conseguì l’indipendenza (primo ministro fu D. S. Senanayake) ed ottenne lo status di
dominion britannico, ma dovette concedere che la British Royal Navy rimanesse
nella base di Trincomalee fino al 1956.
Le sue lingue ufficiali sono il singalese e il tamil, lingue nazionali, ma l’inglese è
rimasto lingua di collegamento.
Nel 1972 Ceylon si chiamò infine Sri Lanka (da ‘laṃkā’, termine già usato negli
antichi racconti epici indiani e che in sanscrito significa ‘isola risplendente’) per
cancellare anche il nome che i colonialisti inglesi avevano dato all’isola.
L’indipendenza dell’India e la nascita del Pakistan
Se fra le due guerre il Partito del Congresso e la Lega mussulmana erano riusciti a
dominare incontrastati il movimento nazionalista rimanendo su posizioni tutto
sommato moderate e interclassiste (appena scalfite dalla posizione socialisteggiante
della sinistra del Congresso stesso guidata da Nehru), in seguito alla seconda guerra
mondiale tale equilibrio si spezzò soprattutto perché l’Inghilterra era esausta e gli
indiani avevano dovuto imparare a gestire da soli situazioni molto difficili
inserendosi sempre più nella catena di comando ed avendo così dimostrato di saper
assumere su di sé responsabilità sempre più grandi ed impegnative.
Alla fine del luglio 1945 in Inghilterra Churchill perse clamorosamente le elezioni e i
laburisti vinsero con un’ampia maggioranza: i laburisti si erano pronunciati da tempo
per l’indipendenza dell’India e la massa di voti che ottennero fu il segnale
inequivocabile che gli inglesi non erano più disposti a sacrifici e ad avventure.
Il nuovo primo ministro Clement Attlee, preso atto della situazione, annunciò che era
tempo che il potere venisse trasferito agli indiani: immediatamente Gandhi proclamò
allora la fine della lotta e circa 100mila prigionieri politici vennero subito liberati.
Poco dopo il viceré Wavell diede l’incarico a Nerhu di formare il governo dell’India
finalmente indipendente, ma fu un governo di persone prive di esperienza in un paese
che doveva fronteggiare le grandi difficoltà che la guerra aveva lasciato in gran
numero.
Tuttavia anche il risultato delle elezioni indiane nella primavera 1946 fu chiaro ed
inequivocabile: esso mostrò senza ombra di dubbio che l’India era profondamente
divisa fra indù (raccolti nel Congresso) ed islamici (raccolti nella Lega mussulmana):
il realtà il Congresso si proclamava laico e panindiano (e molti dei suoi aderenti ne
erano sinceramente convinti) ma i mussulmani non potevano non vedere che in esso
si erano identificati gli indù e la tensione interreligiosa, non più tenuta a freno dalle
esigenze della guerra, crebbe in modo allarmante.
Gli inglesi cercarono di mediare fra le parti (per esempio con la ‘missione Cripps’)
ma ormai non avevano più il controllo del paese e della situazione: Jinnah, sospettoso
40
di accordi segreti fra inglesi e Congresso e stanco di trattative e manovre, ruppe gli
indugi e il 16 agosto 1946 lanciò una ‘azione diretta’ per ottenere la nascita del
Pakistan, stato mussulmano, e la sua separazione dall’India.
La protesta della ‘azione diretta’ sfociò ben presto in scontri tanto violenti da passare
alla storia come ‘Great Calcutta Killing’, quattro giorni di sangue (5mila morti!) che
richiesero l’intervento delle truppe inglesi per essere fermati: ma fu solo l’inizio
perché dappertutto nell’India settentrionale le folle si scatenarono l’una contro l’altra
non arretrando di fronte alle crudeltà e atrocità più raccapriccianti: il bilancio delle
vittime quadruplicò coi cadaveri ammucchiati ai lati delle strade.
L’India britannica non esisteva più ed anzi si andava dissolvendo nella violenza e
nell’anarchia: lasciati a se stessi gli indiani stavano dimostrando di aver covato per
chissà quanto tempo odi tremendi e di non riuscire a gestirli.
Gandhi rimase completamente isolato nel suo nobile ma patetico tentativo di far
ragionare le parti ed il suo appello alla non-violenza apparve ora una triste assurdità.
L’amara verità era che gli indiani non erano assolutamente in grado di governare i
problemi interni che li stavano travolgendo in un crescendo di violenza francamente
inspiegabile, così toccò ai precedenti padroni, agli inglesi, risolverli – e la lezione
dovette essere davvero amara per chi aveva lottato per decenni per liberarsi di loro.
Il 20 febbraio 1947 Attlee annunciò il prossimo ritiro degli inglesi e sostituì Wavell
con l’abile e capace Mountbatten il quale non perse tempo e realisticamente elaborò
un piano per la divisione del paese in base all’appartenenza religiosa degli abitanti e,
contemporaneamente, annunciò il ritiro degli inglesi stessi entro il 14 agosto
seguente.
Mountbatten seppe muoversi con abilità e decisione mettendo i contendenti di fronte
alla necessità di trovare finalmente un accordo finchè gli inglesi erano ancora sul
territorio e il suo piano venne accettato: nonostante la netta (ed isolata) opposizione
di Gandhi, accanto all’India nacque così il Pakistan grazie all’assegnazione delle
province al confine con Iran ed Afghanistan, completamente islamiche, ed alla
divisione del Punjab e del Bengala (a seconda della preponderanza degli indù o dei
mussulmani) mentre il Sind optò per il Pakistan.
La nascita del Pakistan segnò la netta vittoria di Jinnah, ma era uno strano stato le cui
due parti (occidentale ed orientale) erano lontanissime fra loro.
L’indipendenza dell’India, raggiunta senza il bisogno di ricorrere a lunghe e
sanguinose rivolte, fu ufficialmente proclamata il 15 agosto 1947 ma, salvaguardati
gli interessi finanziari ed economici britannici nel paese, in realtà si trattò di un
semplice passaggio di poteri.
La proclamazione dell’indipendenza fu accolta in India con estese ed addirittura
deliranti manifestazioni pubbliche di gioia, durante le quali tutti si abbracciavano
(mussulmani, indù, sikhs e perfino gli inglesi) fra loro entusiasti e frementi di
soddisfazione, ma tutto ciò durò veramente lo spazio d’un mattino.
41
Sangue
Proclamata l’indipendenza fu proprio Mountbatten ad essere designato primo
governatore generale dell’India (Jinnah lo fu del Pakistan) e oltre a Gandhi (che si era
sempre opposto alla secessione del Pakistan) le altre personalità emergenti nel
Congresso erano Nehru per la sinistra e Patel per la destra.
Gandhi venne assassinato per il suo pacifismo verso i mussulmani da un fanatico indù
il 30 gennaio 1948, Mountbatten terminò il suo mandato il 21 giugno 1948 (e tornò in
Inghilterra) e Patel (che ebbe rapporti difficili con Nehru ma che fu sempre rispettoso
del gioco parlamentare) morì il 15 dicembre 1950.
Nehru emerse quindi come la figura dominante del partito e dello stato e ricoprì la
carica di primo ministro fino alla morte avvenuta il 27 maggio 1964: i problemi che
la neonata democrazia indiana – un paese spremuto dalla guerra e che stava
muovendo i primi passi della libertà e dell’indipendenza - dovette subito affrontare
furono naturalmente molteplici, ma su tutti spiccò quello dei gravissimi scontri e
massacri fra indù, mussulmani e sikhs e, fra questi, quelli avvenuti nel Punjab.
Il problema era questo: la nascita del Pakistan aveva diviso il Punjab a ovest e il
Bengala a est (come aveva voluto Curzon a cavallo del secolo) fra i due stati, ma
ovviamente non era stato possibile dividere altrettanto nettamente la popolazione a
seconda della sua religione, per cui rimanevano mussulmani in India ed indù in
Pakistan: come se ciò non bastasse, anche i sikhs del Punjab vennero divisi fra i due
stati divenendo minoranza in ambedue le parti in cui la provincia era stata scissa.
La popolazione andava dunque ripartita fra i due nuovi stati in quello che fu il primo
esperimento di pulizia etnica su larga scala dopo la seconda guerra mondiale: i nuovi
confini vennero resi noti il 17 agosto 1947, due e tre giorni dopo che i due stati erano
divenuti indipendenti (!) ed è difficile immaginare che le cose sarebbero potute
andare peggio: improvvisamente milioni e milioni di persone si trovarono dalla parte
sbagliata del confine e così fin dal momento della proclamazione delle due
indipendenze invece di una pacifica e controllata serie di migrazioni gli scontri fra
indù, mussulmani e sikhs (già da anni comunque iniziati e mai cessati) si scatenarono
ad un ritmo frenetico ed incontrollabile in un crescendo impressionante di ferocia e di
devastazione.
Stermini delle popolazioni di interi villaggi, assalti di folle esaltate, stragi degli
emigranti sui treni trasformati in cimiteri, massacri di emigranti, voci incontrollate di
efferatezze compiute dalle altre parti in lotta, vendette, fanatismo e crudeltà insensata
trascinarono nel caos l’intero Punjab e soprattutto la città mussulmana di Lahore e
quella sikh di Amristar: anche l’esercito e l’amministrazione erano divisi, e quindi
paralizzati, mentre i profughi tentavano in massa la fuga verso lo stato dei loro
correligionari (in qualche modo semplificando così il problema).
Ecco come Piers Brendon racconta gli eventi andati avanti per svariati mesi
(traduzione mia): ‘Nessuno era meglio disciplinato dei sikhs, una costante minoranza
le cui bande … armate di spade … e di altre armi si comportarono con ‘pre-
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medievale ferocia’. Ma anche mussulmani e indù perpetrarono ogni odiosità riassunta
nel grottesco moderno eufemismo di ‘pulizia etnica’. Arrostirono bambini sugli
spiedi, impalarono infanti sulle lance, bollirono i figli in pentoloni d’olio.
Violentarono, mutilarono, fecero prigioniere ed uccisero le donne, a volte strappando
i peni dei loro mariti morti ed infilandoglieli in bocca. Sottomisero gli uomini ad
agghiaccianti crudeltà, bruciandoli vivi nelle loro case, trafiggendoli nelle strade,
macellandoli negli ospedali, strangolandoli nei campi per i rifugiati, torturandoli e
convertendoli a forza nei dissacrati templi, moschee e gurdwaras (i luoghi di culto
sikh). Avvelenarono i loro nemici, li immersero nell’acido, li accecarono gettandogli
negli occhi chili in polvere. Le atrocità eclissarono totalmente quelle dell’Indian
Mutiny. … molti testimoni trovarono la violenza inspiegabile. … Vicini che erano
vissuti amichevolmente per anni improvvisamente divennero furiosi e si
massacrarono a vicenda. Alcuni delle peggiori stragi si verificarono nelle ferrovie …
[dove] bande … bloccarono i treni stipati di gente che cercava di sfuggire al terrore.
Spesso lasciarono solo vagoni pieni di cadaveri che arrivarono alle loro destinazioni
col sangue che filtrava da ogni orifizio. … Masse di rifugiati che si spostavano per
strada, alcune in colonne lunghe fino a cinquanta miglia, divennero bersaglio ancora
più grande di rapine e di assassinii. Delhi stessa fu infettata dalla violenza … seppure
… scarsamente paragonabile al disastro nelle regioni di frontiera. Città come
Amristar sembravano essere state bombardate. La campagna era un enorme
crematorio. Con migliaia di villaggi ridotti in cenere.’ (pag. 411-412).
Solo alla fine dell’anno gli scontri diedero segno di esaurimento.
Fortunatamente nel Bengala le stragi e le devastazioni furono molto più contenute:
nonostante la divisione anche qui fosse dannosa e piuttosto insensata (per esempio
Calcutta, esportatrice di juta, fu separata dalle regioni in cui questa veniva coltivata)
quando i disordini esplosero Gandhi si trovava a Calcutta e, sostenuto dalla polizia,
proclamò l’ennesimo digiuno per fermare la follia omicida: forse fu proprio per
questo che nel Bengala entro pochi giorni gli animi si calmarono e il peggio fu
evitato, comunque anche qui secondo Brendon i rifugiati furono 1.250mila.
Un anno dopo, a metà 1948, secondo Spear 5,5 milioni di persone erano emigrate dal
Punjab indiano a quello pakistano ed altrettanti si erano spostati in senso inverso; 1
milione era emigrato dal Bengala pakistano a quello indiano e 400mila se ne erano
andati dal Sind (a sud del Punjab) pakistano, mentre molti furono gli immigrati in
senso inverso: per White 7,3 milioni di indù e sikhs se ne andarono dal Pakistan e 7,2
milioni di mussulmani dall’India; per Ishtiaq Ahmed 4,5 milioni di indù e sikhs
emigrarono dall’India e 6 milioni di mussulmani fecero il cammino inverso; ed infine
Rampini parla di ‘Undici milioni di persone ... scappate in un esodo biblico per
raggiungere zone sicure abitate da una maggioranza di correligionari. E [stata] la più
grande migrazione della storia umana concentrata in un arco di tempo così breve’
(pag. 99).
In genere si trattò di spostamenti spontanei e volontari (certamente dettati comunque
da terrore e da insicurezza) e questo aumenta lo stupore per il fatto che reazioni così
furiose alla partizione non erano state previste da nessuno, così nessuno aveva
pensato di prendere contromisure adeguate anche se, a ben guardare, l’unica
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soluzione capace di almeno limitare sensibilmente il disastro sarebbe stata quella di
schierare nuovamente le truppe inglesi che invece erano ammassate nei porti in attesa
dell’imbarco per tornare in patria … ma come sarebbe stato possibile giustificare la
concessione dell’indipendenza da parte degli inglesi e contemporaneamente
controllarla con l’esercito inglese stesso?
Il fatto è che non risultano ancora spiegate l’insorgenza e l’esplosione incontrollata di
odi così profondi ed implacabili, come sia stato possibile che questi crescessero fino
all’impazzimento nonostante la convivenza secolare dei seguaci delle due religioni
prima e durante tutto il dominio inglese.
Il caos fu tale che le cifre stesse dei morti negli scontri e negli assalti è del tutto
incerta e va dai 500mila calcolati da White, ai 500-750 mila di Ishtiaq Ahmed, al
milione di Spear, di Brendon e di Rampini: lo stesso discorso vale per l’attribuzione
delle responsabilità maggiori degli eccidi perché White accusa ‘indù e mussulmani,
in particolare Jinnah’ (pag. 153) mentre Spear dopo aver affermato che ‘Su Jinnah
ricade la responsabilità della proclamazione del ‘giorno dell’azione diretta’ [16
agosto 1946, prodromo dei massacri dell’anno seguente] a Calcutta e di tutto quel che
ne derivò’ (pag. 533), a proposito dei gravissimi episodi del 1947 abbastanza
stranamente conclude però che ‘E’ meglio non tentare di stabilire le responsabilità
per l’accaduto, perché le testimonianze sono troppo confuse, le sfumature di colpa
troppo sottili.’ (pag. 542)
Non resta che concludere dunque che le animosità erano reciproche e che comunque
Jinnah e i mussulmani soffiarono con più forza sul fuoco, ma coll’avvertenza che
erano una (grossa) minoranza che si sentiva minacciata.
India e Pakistan, già provati dalla guerra e dai problemi dell’indipendenza, si
trovarono profondamente divisi e nemici e pieni di ulteriori lutti proprio nel
momento in cui avevano raggiunto lo scopo agognato per decenni: in India gli animi
cominciarono finalmente a raffreddarsi solo dopo l’assassinio di Gandhi il 30 gennaio
1948 per mano di un fanatico indù che non gli perdonava lo sforzo incessante (ed
inascoltato) per fermare la violenza e per trovare un accordo pacifico coi mussulmani
per salvaguardare l’unità dell’India.
Paradossalmente l’infame assassinio del Mahatma, la grande anima, il santo, il
profeta, l’onore dell’India, gettò il disprezzo sugli estremisti indù che vennero
screditati ed allontanati perdendo così la possibilità di continuare a nuocere: fu questo
l’ultimo servizio che Gandhi rese al suo popolo ed alla sua nazione, anche da morto.
Fu in questo modo che 400 milioni di persone - 1/6 della popolazione del pianeta - si
liberarono dal giogo coloniale e conseguirono l’indipendenza.
La partizione del Punjab
Il ben documentato Ahmed calcola che la doppia migrazione forzata abbia spostato
complessivamente 14 milioni di persone, 10 milioni delle quali dal solo Punjab: è
dunque inevitabile concentrarsi in particolare su questa enorme provincia e sulle sue
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tristissime vicende che gettano luce ulteriore su quel che avvenne nel resto del paese,
soprattutto nel Bengala, l’altra provincia (e l’altro popolo) che venne divisa.
I
Prima della partizione il Punjab aveva una superficie di 357.692 kmq. con una
popolazione di quasi 34 milioni di persone in maggioranza mussulmane (53,2 %), poi
indù (30,1 %) ed infine sikhs (14,9 %, ma numerosi nell’esercito coloniale).
Oltre alle forti motivazioni religiose, altro fattore di divisione della società era stato
quello economico: gli inglesi infatti, dopo aver conquistato definitivamente la
provincia nel 1849, anche qui avevano introdotto tutta una serie di riforme e di
ammodernamenti (notevole soprattutto l’imponente opera di canalizzazione e di
irrigazione) in cui avevano saputo inserirsi e da cui avevano saputo trarre beneficio
soprattutto indù e sikhs, tanto che nel 1947 essi possedevano il 75-80% delle terre,
mentre la maggioranza dei contadini era invece mussulmana, e lo stesso vantaggio
essi lo mantenevano spesso anche nelle città.
Nell’India britannica votava circa 1/10 della popolazione con riserva di seggi per i
mussulmani e per i sikhs (che avevano ottenuto poi anche il voto separato - i
mussulmani dal 1909 e i sikhs dal 1919) per evitare che gli indù, di gran lunga
maggioritari nella società, monopolizzassero i seggi in parlamento: fino alle elezioni
del 1946 la vita politica del Punjab era stata dominata dal Punjab Unionist Party che,
fondato nel 1923, aveva espresso nel suo stesso nome il programma politico per
questa provincia che gli inglesi avevano sempre considerato particolarmente leale:
dalle sue ‘razze marziali’ essi avevano tratto infatti ben metà degli effettivi del loro
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esercito coloniale; mentre il Congresso non aveva voluto allinearsi allo sforzo bellico
inglese nella seconda guerra mondiale il Punjab aveva invece collaborato; ed infine il
Movimento ‘Quit India’, lanciato da Gandhi e dal Congresso il 9 agosto 1942, in
Punjab aveva avuto scarso impatto.
Era stato tuttavia soprattutto nel Punjab che a mano a mano che il dominio coloniale
inglese era venuto meno le tensioni fra i gruppi erano cresciute di intensità e si erano
tinte sempre più di motivazioni religiose (vere forgiatrici di identità): dopo che la
Lega Mussulmana aveva rotto gli indugi e il 23 marzo 1940 con la Risoluzione di
Lahore aveva chiesto la divisione dell’India e la formazione di due stati separati su
base religiosa, subito era stata seguita dai sikhs che per non cadere interamente sotto
il controllo mussulmano avevano domandato allora anche la divisione del Punjab
(che la Lega avrebbe voluto invece interamente nel Pakistan).
Il problema di sikhs era comunque che essi erano una minoranza sparsa su tutto il
territorio del Punjab così che nessuna divisione della provincia avrebbe potuto far
loro ottenere uno stato: essi erano comunque uniti agli indù con cui fecero sempre
causa comune contro i mussulmani.
II
I Sikhs erano i seguaci della religione fondata dal guru Nanak (vissuto a cavallo del
XV e XVI secolo) che aveva trascorso la vita viaggiando e predicando l’esistenza di
un solo Dio che abitava in ognuna delle sue creature: in base a questa premessa
Nanak aveva proposto così che tutti gli uomini convergessero in un’unica
organizzazione spirituale, sociale e politica fondata su fratellanza, bontà e virtù.
Nanak aveva rifiutato l’intoccabilità e condannato la corruzione, così aveva
comprensibilmente attirato seguaci soprattutto fra gli indù delle caste inferiori, ma la
nuova religione (diffusa nell’India nord-occidentale con Amristar maggior centro
spirituale) ben presto era entrata in urto coi poteri costituiti dell’impero Moghul, cosa
che aveva spinto i suoi seguaci a costituire compatte ed efficienti formazioni militari:
scontri sanguinosi e violenti si erano susseguiti inevitabili contro i mussulmani
mentre si erano rafforzati i legami con gli indù (anche grazie a molti matrimoni
misti).
Era avvenuto così che al tempo delle terribili invasioni persiane e afghane del XVIII
secolo erano stati proprio i sikhs ad emergere come la maggior forza militare del
fronte comune finchè – pur essendo in netta minoranza – respinti gli aggressori erano
divenuti i dominatori del Punjab, di fatto ormai regno indipendente.
Il Punjab sikh fu comunque di breve durata perchè dopo la morte dell’abile e
valoroso Ranjit Singh (1839) esso non aveva più potuto reggere alla pressione inglese
ed era stato così conquistato ed integrato nell’India britannica.
III
Tornando alla proposta di costituire due stati separati avanzata con la Risoluzione di
Lahore, essa aveva trovato appoggi sempre più diffusi (facendo così del Punjab la
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provincia-chiave dell’intera questione nazionale) anche perché dall’agosto 1942 al
giugno 1945 un gran numero di dirigenti del Congresso (contrario alla partizione) era
stato incarcerato e ciò aveva lasciato campo libero alla Lega Mussulmana che aveva
continuato ad insistere sull’opportunità della nascita del Pakistan.
Alle elezioni del luglio1945 nel Punjab tutti abbandonarono l’UPP: i mussulmani
votarono per la loro Lega, gli indù per il Congresso e i sikhs per il Panthic:
nonostante il Congresso proclamasse di essere aperto a tutti e proponesse una politica
interreligiosa di concordia nazionale, di fatto raggruppava ormai solo gli indù,
proprio mentre in Inghilterra Churchill veniva clamorosamente sconfitto ed il nuovo
governo Attlee aveva ormai accettato l’idea dell’indipendenza dell’India.
IV
Nel Punjab la Lega, pur essendo il partito più votato, non raggiunse però la
maggioranza assoluta per dieci seggi: indù e sikhs si unirono allora in un’alleanza di
governo che relegò i mussulmani all’opposizione scatenandone le ire ed il
risentimento: la Lega si sentì minacciata e proclamò una campagna di Azione Diretta
che dal 24 gennaio al 26 febbraio 1946 provocò gravi e gravissimi scontri
incendiando vieppiù gli animi e rendendo sempre meno pensabile ogni possibilità di
compromesso.
La tenacia e la resistenza dei mussulmani riuscirono nell’intento: il premier indù
dovette dimettersi (il 2 marzo) e il Governatore del Punjab Jenkins incaricò un
mussulmano di cercare una maggioranza in parlamento, ma ciò non risolse certo il
problema perché, anche se i mussulmani proclamarono il 2 marzo Giorno della
Vittoria, indù e sikhs mantennero intatte le loro apprensioni e la loro ferma
opposizione (‘in nessun modo possiamo fidarci dei mussulmani’ sostenne il leader
sikh Master Tara Singh) e rifiutarono qualsiasi accordo.
Se possibile, la paura, le tensioni e la profonda sfiducia reciproca si acuirono
ulteriormente in seguito al veemente proclama di Master Tara Singh che di fronte al
Parlamento il 3 marzo estrasse minaccioso il suo kirpan (la spada tradizionale dei
sikhs) e rifiutò minacciosamente la nascita del Pakistan che i mussulmani sempre più
spesso invocavano invece come soluzione di ogni problema.
V
Mentre gli scontri – che non si interrompevano mai - aumentavano di intensità, il 13
agosto 1946 il Governatore dell’India Wavell incaricò Nehru di formare il governo
nazionale e ciò, nonostante l’invito (rifiutato) a Jinnah di collaborare, portò gli scontri
dei mussulmani contro gli indù e sikhs ad un livello incredibile di barbarie che
culminò il Giorno dell’Azione Diretta proclamato da Jinnah per il 16 agosto a
Calcutta al grido di ‘l’Islam in pericolo!’: nel conseguente ‘Calcutta Killings’ i morti
si contarono a migliaia.
Una volta iniziati gli scontri non si fermarono più e i più gravi si ebbero nel Bihar
(confinante col Nepal e col Bengala occidentale) nell’ottobre-novembre, questa volta
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iniziati dagli scampati indù e sikhs in cerca di vendetta e di rappresaglia: ma questi
furono solo i più sanguinosi fra i continui massacri che si verificavano con una furia
inaspettata ed inspiegabile mentre a nulla servivano i tentativi di conciliazione e di
accordo che uno dopo l’altro fallivano miseramente.
VI
Nel Punjab i duri ulteriori scontri fra indù-sikhs e mussulmani del 4 marzo 1947
confermarono definitivamente l’impossibilità di mettere in piedi un qualsiasi
governo, così il giorno seguente Jenkins si risolse ad assumere i pieni poteri della
provincia ma non potè impedire che per oltre una settimana gli assalti ai villaggi
sikhs continuassero mentre l’esercito stava a guardare (o poco più).
Di fronte alla vastità ed alla radicalità dell’odio reciproco ogni possibilità di
mantenere l’India unita era svanito per sempre e per quanto Jinnah fosse disposto a
notevoli concessioni ai sikhs ed offrisse loro le più ampie garanzie se avessero
rinunciato alla divisione del Punjab, nel clima di odio e di estrema diffidenza
reciproca non ottenne alcun risultato e Jenkins mantenne le redini del governo fino
all’indipendenza.
Iniziati a Lahore, una nuova tornata di scontri dilagò per tutta la provincia con un
aumentata intensità: atrocità e atti di barbarie si moltiplicavano in un orribile
crescendo e a nulla servì l’appello congiunto di Gandhi di Jinnah - sollecitato dal
nuovo governatore dell’India (dal 24 marzo 1947) Mountbatten - per porre fine alle
violenze.
VII
Fu in questo clima ed in questa situazione spaventosa di implosione dello stato e di
carneficine continue che Mountbatten decise di anticipare la data della concessione
dell’indipendenza al 15 agosto 1947 rispetto al giugno 1948 (come era stato stabilito
in precedenza) e il 3 giugno annunciò ufficialmente che l’India sarebbe stata divisa a
seconda dell’appartenenza religiosa dei suoi cittadini.
Il parlamento del Punjab votò a favore della divisione della provincia e contro la
proposta della Lega Mussulmana perché invece rimanesse unita e nominò una
Commissione sul Confine del Punjab (due mussulmani, un indù e un sikh) guidata
da un certo sir Radcliffe che però non era mai stato in India, arrivò a Delhi l’8 luglio
e vi rimase per tutta la durata dei lavori facendosi costantemente informare per via
aerea (!!!).
La violenza per parte sua non cessò mai: oltretutto mancava, e sarebbe sempre
mancata, un’unica autorità che potesse vigilare (ed avesse la forza sufficiente) sugli
inevitabili trasferimenti di popolazione impedendo o almeno riducendo le catastrofi
che si susseguivano e che sarebbero esplose senza alcun freno dopo l’indipendenza.
La Commissione (diciamo così) Radcliffe arrivò alle stesse conclusioni del Piano di
Demarcazione di Wawell (il predecessore di Mountbatten) del 7 febbraio 1947, ma
tutti vennero tenuti all’oscuro delle sue decisioni mentre la violenza montava sempre
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più e colonne di profughi e di sfollati cercavano rifugio nelle zone per loro più sicure
dove appena arrivati raccontavano tutti gli orrori visti e patiti.
La Commissione si ispirò al principio della religione seguita dalla maggioranza degli
abitanti e non a quello di proprietà per cui, come segnala Ahmed, ‘aree nelle quali in
particolare i sikhs possedevano gran parte della terra e sikhs e indù insieme gran parte
dei beni urbani andarono al Pakistan’.
VIII
Nel 1947 il Ramadan iniziò la terza settimana di luglio e in agosto fu segnalato il
primo spostamento in massa di mussulmani dal Punjab orientale (centinaia di
migliaia di persone) cui corrispose un analogo esodo (mezzo milione di indù e sikhs)
da quello occidentale, ma la tragedia si scatenò con tutta la ferocia dell’hobbesiano
stato di natura dopo il 17 agosto 1947, quando (due giorni dopo l’indipendenza!) i
confini dei due Punjab furono resi finalmente noti ed ognuno seppe con certezza in
quale nazione si trovava.
A est i sikhs attaccarono i villaggi mussulmani (5,9 milioni di essi vivevano ora nel
Punjab indiano) con la stessa ferocia - ma su scala ben più larga ed efficiente - che
avevano dovuto subire negli analoghi assalti da essi patiti nei loro villaggi nel marzo
precedente ed il 15 ottobre si calcolò che 5,4 milioni di mussulmani del Punjab
orientale si erano trasferiti in quello occidentale.
Sul fronte opposto, il 6 novembre 3,2 milioni di indù e sikhs provenienti da quello
occidentale erano già arrivati nel Punjab orientale - e se ne attendeva ancora un buon
numero.
Ovviamente le violenze diminuivano man mano che i trasferimenti venivano
effettuati, ma gli ultimi rifugiati continuarono a giungere nelle loro rispettive
destinazioni ancora nei primi mesi del 1948.
La cifra dei morti mussulmani è molto incerta e oscilla dai 250mila ai 500mila
mentre dei 3,8 milioni di indù e sikhs che vivevano nel Punjab occidentale si calcola
(molto approssimativamente) che ne siano periti 250mila: il totale dei morti del
Punjab andrebbe dunque dai 500mila ai 750mila e fra questi vanno inclusi anche
coloro che perirono di stenti o di malattia nei campi profughi e le donne e le
bambine uccise dai loro stessi parenti o suicidatesi per non cadere vive nelle
mani dei nemici.
IX
I massacri che fecero seguito alla divisione del Punjab furono molto più gravi ed
estesi di quelli che l’avevano preceduta e di quelli che si verificarono in altre parti
dell’India (soprattutto a Calcutta e nel Bihar): nel Punjab inoltre i morti furono più
numerosi fra i mussulmani mentre indù e sikhs dell’ovest persero le loro proprietà in
quantità maggiore dei mussulmani dell’est.
Un disastro così terribile e una furia così scatenata fra persone che per secoli avevano
vissuto fianco a fianco sfidano davvero la possibilità di venir compresi: certamente il
49
ricordo ancestrale delle sofferenze inferte dai moghul mussulmani a sikhs e indù non
si era ancora sopito (!) né quello delle più recenti violenze da parte dei sikhs al tempo
del loro dominio del Punjab; è tristemente noto poi che è in nome dell’ideologia
(questa volta religiosa) che vengono commessi i crimini più spaventosi e messi in
moto meccanismi infernali; il fatto che i sikhs e gli indù fossero mediamente più
ricchi dei mussulmani e possedessero il grosso delle risorse acuì sicuramente il senso
di rivalsa e di opposizione; ognuna delle parti si sentiva (ed era) minacciata dall’altra,
quindi era spinta ad aggredire in anticipo; ambedue cercavano vendetta per gli orrori
patiti in una spirale perversa che ad ogni giro diveniva più grave; tuttavia per Ahmed
‘la spinta [fondamentale] che mosse gli attaccanti fu la brama di saccheggiare,
razziare e catturare le femmine del gruppo nemico’: non a caso ‘nel Punjab
occidentale sopravvissero solo gli indù cosiddetti Intoccabili – soprattutto perché
potessero continuare nelle loro impure mansioni [e] … nel Punjab orientale … qua e
là erano rimasti i mussulmani delle caste addette ai servizi (che non possedevano
terra). Per ambedue le parti arraffare terra ed altre proprietà fu insomma un fattore
molto forte della partecipazione ai raids sul nemico’.
Per mesi e mesi (almeno fino alla fine del 1947) il desiderio di bottino e di ricchezza
non trovò insomma impedimenti né di ordine politico (gli altri erano gli spietati
nemici), né di ordine militare (la forza pubblica era piccolissima cosa), né tantomeno
di ordine morale (i nemici erano infedeli): alle bande di delinquenti e di fanatici che
ora potevano agire in assoluta libertà ed impunità si unirono dunque sempre più
persone in un accecamento collettivo che rende ancor più eroica e meritoria l’attività
di coloro che, tutto al contrario, salvarono vite a costo di rischiare (e anche di
perdere) la propria.
X
Quella indo-pakistana fu la prima pulizia etnica (religiosa) avvenuta dopo la seconda
guerra mondiale e presentò inoltre ampi tratti di veri e propri genocidi: non è
possibile stabilire con certezza se un’operazione così gigantesca fu portata avanti
secondo generali piani prestabiliti oppure se essa fu lo sbocco spontaneo e largamente
imprevedibile di una situazione arrivata ormai al suo storico punto di rottura.
I pareri (e le accuse) sono discordi e con ogni probabilità ci fu una concomitanza dei
due fattori, ma voler dividere un territorio in base all’appartenenza religiosa dei suoi
abitanti in realtà è già di per se stesso la preparazione e l’invito allo scontro senza
quartiere ed al trionfo dell’intolleranza.
Ognuno aveva sempre diffidato dell’altro – e purtroppo a ragione.
XI
L’8 aprile 1950 Liaqat e Nehru firmarono il Patto sulla Sicurezza e sui Diritti delle
Minoranze secondo il quale, indipendentemente dalla loro religione, tutti i cittadini
(dell’India e del Pakistan) erano uguali davanti alla legge e godevano esattamente
degli stessi diritti che vennero riaffermati con forza, ma questo fu solo il sigillo
50
formale apposto sul dramma e sulla tragedia dei due sanguinosissimi esodi ormai
irrimediabilmente conclusi.
Ancor oggi sul confine Wagah-Attari (sulla strada fra Lahore ed Amristar) la
quotidiana cerimonia dell’ammainabandiera nei posti di blocco di ambedue i settori è
una lunga e sentitissima festa con folle in tripudio, inni, bandiere al vento, musiche,
bande, sfilate, saluti, gesti di simpatia e masse entusiaste e frementi di amor patrio: le
guardie delle due nazioni si incontrano e si salutano in amicizia e rispetto, ma poi il
confine viene ermeticamente sigillato e rimane chiuso per tutta la notte.
India e Pakistan
Sia come sia, l’India dopo la partenza dell’ultimo soldato inglese dal suo suolo non
era un paese pieno di rancore verso l’Inghilterra ed aveva anche le strutture politiche
ed amministrative per poter camminare colle sue gambe: Nehru potè così inserirla nel
novero delle nazioni civilizzate senza troppa difficoltà.
I
Il primo problema che venne definitivamente risolto dalla neonata democrazia
indiana fu quello dei prìncipi: dopo la rivolta dei sepoys gli oltre 500 prìncipi – i cui
domini sparsi si estendevano per circa 1/4 dell’India britannica e con una popolazione
circa 1/5 di quella totale - erano stati lasciati sui loro troni ed usati dagli inglesi per
collaborare con loro a mantenere la situazione sotto controllo.
Gli inglesi avevano comunque sperato che essi avrebbero modernizzato i loro governi
ed i loro stati, ma senza successo: i prìncipi continuarono ad esercitare il potere nella
forma tradizionale, in seguito rifiutarono di entrare nella federazione e diffidarono
sempre del Congresso e delle sue idee democratiche e costituzionali, così che dopo la
seconda guerra mondiale si trovarono isolati e fuori della storia.
Fu inevitabile che i loro regni venissero incorporati nelle nuove province – a loro
volta ridisegnate sulla base della lingua che vi veniva parlata – e che essi
venissero tacitati con privilegi e laute pensioni esenti da imposte.
II
Altro problema importante ed urgente fu quello della lingua: in India se ne parlavano
parecchie ma ora che il paese era nato e che era unito era necessario che avesse anche
una lingua ufficiale: accanto all’inglese fu adottato quindi l’hindi, affine al sanscrito
e parlato nell’India settentrionale e centrale.
L’allegato VIII della Costituzione dell’India avrebbe comunque presto riconosciuto
ufficialmente altre 21 lingue (ma venne scritta soltanto in inglese ed in hindi).
La Costituzione indiana entrò in vigore il 26 gennaio 1950 e prese lo spunto
dall’India Act del 1935 e dall’Indipendence Act del 1947: recepì dunque i contenuti
51
della tradizione liberale inglese ed europea negando, fra l’altro, la divisione della
società in caste (art. 15 e 16) ed abolendo l’intoccabilità (art. 17).
III
Piuttosto differente fu la storia del Pakistan che fino al 1971 fu costituito dal
Pakistan occidentale e dal Pakistan orientale, alle estremità orientale ed occidentale
dell’India settentrionale e separati quindi da oltre 1500 chilometri di territorio
indiano.
Innanzitutto mentre l’India (o, almeno, la sua classe dirigente) si ispirava al modello
di stato laico e secolarizzato, il Pakistan era nato per unire i mussulmani (anche al di
fuori dei suoi confini che intendeva allargare) e si fondava quindi sull’identità
religiosa (islamica) dei suoi cittadini.
Non stupisce quindi che Jinnah, il presidente della Lega mussulmana, divenisse
governatore generale e che il segretario generale della stessa primo ministro: tuttavia
fino al 1956 il Pakistan fu un dominion tanto che fin dal 1947 re Giorgio VI
abbandonò il titolo di Imperatore dell’India e divenne anche Re del Pakistan (!) ed
allo stesso modo dal 6 febbraio 1952 la regina Elisabetta II divenne anche Regina del
Pakistan finchè finalmente nel 1956 il paese divenne una repubblica parlamentare
(islamica ma schierata con il blocco occidentale).
Intanto nel 1948 Jinnah aveva adottato l’urdu (una delle 22 lingue riconosciute anche
dall’India) come lingua ufficiale, ma questa unilateralità (tipica del monolitismo
islamico) aveva provocato gravi disordini nella parte orientale del paese che era di
lingua bengalese e che si sentì comprensibilmente discriminata.
IV
Fra India e Pakistan il contenzioso ed i motivi di ostilità erano (e sono!) molteplici,
ma in questa sede basterà ricordare la guerra per il Kashmir che scoppiò ben presto
fra i due paesi perché gli abitanti del Kashmir erano in prevalenza mussulmani ed
avrebbero voluto che la regione entrasse a far parte del Pakistan, ma il loro principe
l’aveva invece lasciata in eredità all’India che dunque la rivendicava come propria: le
motivazioni ufficiali della guerra meritano di essere sottolineate perché da una parte
(Pakistan) c’era la volontà di unire tutti gli islamici e dall’altra (India) quella di
rispettare le regole del diritto internazionale e di mostrare che in uno stato laico i
cittadini di religioni diverse potevano tranquillamente convivere.
La prima guerra indo-pakistana scoppiò subito fra i due paesi e si concluse nel
gennaio 1949 grazie all’intervento dell’ONU: il Kashmir venne diviso in JammuKashmir (a est) assegnato all’India e Azad-Kashmir (a nord-ovest) al Pakistan, ma
non si trattò di una soluzione troppo duratura perché nel 1965-66 nella zona scoppiò
una seconda guerra indo-pakistana che si concluse con la mediazione dell’URSS e
con la riconferma dei confini del 1949.
52
L’indipendenza della Birmania
Dopo che – come si è visto – i giapponesi in Birmania si erano arresi e consegnati
agli inglesi, una buona parte di loro era stata impiegata in lavori di ricostruzione
finchè finalmente nel giugno 1947 anche il loro rimpatrio fu concluso.
Tuttavia - come si è visto – il loro messaggio aveva costituito un catalizzatore per il
desiderio di indipendenza e di fine del colonialismo ed ha ragione Latimer quando
scrive (traduzione mia) ‘Il risultato più notevole della guerra in Oriente fu l’avvento
del nazionalismo in tutta la regione e fra tutti i popoli: vincitori, sconfitti e spettatori.’
(pag. 427)
In Birmania poi, oltre all’esaurimento delle potenze europee, cioè dell’Inghilterra, fu
l’arrivo degli americani nel nord del paese a portare una ventata di novità e di
risveglio: anche se il paese era ovviamente ridotto a mal partito (ad esempio con
milioni di ettari di terra già coltivati a riso tornati ad essere quasi giungla e con il
bestiame ridotto a 1/3 di quello d’anteguerra), l’ansia indipendentista si sommava ora
alla volontà di far cessare gli interessi e la rapacità degli inglesi e degli indiani mentre
anche il nuovo governo (laburista) di Londra comprendeva che l’impero non era più
sostenibile.
A guerra era finita in Birmania era stato comunque restaurato il governo coloniale
inglese che si adoperò per realizzare un programma per la ricostruzione del paese ma
che rimandò ancora una volta la discussione sul tema dell’indipendenza: ciò tuttavia
non era più sopportabile e l’instabilità politica regnò nel paese finchè il nuovo
governatore Hubert Rance risolse il problema che si andava facendo sempre più
grave incontrandosi con Aung San, il politico più noto e di maggior affidabilità fra la
popolazione, e convincendolo a partecipare al governo.
Il nuovo esecutivo, forte dell’appoggio popolare, iniziò subito i negoziati per
l’indipendenza che si conclusero con successo il 27 gennaio 1947: tuttavia l’accordo
lasciò insoddisfatti sia i comunisti che i conservatori (che passarono all’opposizione)
ma Aung San ed i socialisti nell’aprile 1947 vinsero le elezioni per la nuova
assemblea costituente e, nonostante il 19 luglio 1947 Aung San (con parecchi membri
del suo partito) venisse assassinato, il socialista Thakin Nu ne prese il posto e fu lui a
celebrare l’indipendenza della Birmania il 4 gennaio 1948.
L’indipendenza era stata ottenuta senza una vera guerra ma il sentimento popolare
anti-britannico era ormai talmente radicato che la Birmania, a differenza dell’India e
del Pakistan, rifiutò di entrare nel Commonwealth delle Nazioni che gli inglesi
costruirono per mantenere collegamenti e contatti con i paesi del loro ex-impero.
Sfortunatamente nemmeno in Birmania l’indipendenza portò la pace perché subito il
paese fu scosso da tentativi dei comunisti di prendere il potere, da ammutinamenti di
truppe e, soprattutto, da ribellioni fra i Karen, i Mons ed altre minoranze etniche.
Dopo anni di confusione ed instabilità i conflitti sfociarono nella dittatura militare del
generale Ne Win ed il paese si chiuse a riccio alle influenze esterne ed al mondo
moderno: Na Win si dimise nel luglio 1988 ed il nuovo governo militare – cambiato
53
il nome del paese in Myanmar (per significare che i birmani erano solo la
maggioranza della popolazione e che anche altri popoli abitavano entro i suoi confini)
– indisse libere elezioni nel maggio 1990 per poi arrestare subito Suu Kyi (figlia di
Aung San e leader della Lega Nazionale per la Democrazia) che le aveva vinte e
tornare alla dittatura militare che solo recentissimamente si è decisa (apparentemente)
a liberare Suu Kyi e a lasciare che il paese possa tornare alla democrazia.
La nascita del Bangladesh
Oltre alla contesa ed all’ostilità con l’India, fin dalla sua nascita il Pakistan fu
percorso e scosso dal problema della diversità e della lontananza delle due parti che
lo componevano: anziché lavorare per superare le differenze fra le due regioni del
paese, Jinnah, il suo governo ed i suoi successori concentrarono invece attenzioni e
risorse sulla parte occidentale trascurando e discriminando quella orientale.
L’elenco delle disparità di trattamento era davvero lungo.
Nonostante i pakistani dell’est fossero numericamente superiori a quelli dell’ovest (e
dunque avrebbero dovuto avere la maggioranza in parlamento), questi ultimi avevano
escogitato il sistema per ovviare a questo svantaggio tramite lo ‘One Unit Scheme’,
cioè unificando ai fini elettorali le quattro regioni dell’ovest in una sola: ciò
permetteva loro di avere il primo ministro (il leader del partito di maggioranza), di
avere la maggioranza in parlamento (utilizzando gli scarti di voti) e di eleggere quindi
il presidente (con elezioni indirette).
Se tutto questo non fosse bastato, i militari avevano poi grande rilevanza politica e
nell’esercito i bengalesi erano una netta minoranza (per esempio nel 1965 gli ufficiali
bengalesi erano il 5% del totale!) [così oltretutto era l’ovest che beneficiava delle
spese militari: oltre che svantaggioso sia economicamente che dal punto di vista
occupazionale, questo squilibrio era anche altamente pericoloso come apparve chiaro
durante la guerra indo-pakistana del 1965, quando l’est risultò sguarnito di fronte agli
sconfinamenti indiani].
Non può quindi sorprendere che Khawaja Nazimuddin, Muhammad Ali Bogra, e
Huseyn Shaheed Suhrawardy, tutti primi ministri provenienti dall’est, venissero
prontamente deposti e che nel paese si susseguissero le dittature militari di Ayub
Khan (27 ottobre 1958 – 25 marzo 1969) e di Yahya Khan (25 marzo1969 – 20
dicembre 1971), ambedue pakistani dell’ovest.
Le risorse del paese fluivano a ovest e la sua volontà egemonica emerse indubbia
quando - come si è visto - fu l’urdu, e solo l’urdu, la lingua dell’ovest, a divenire la
lingua ufficiale del Pakistan (oltre all’inglese come lingua di collegamento) relegando
il bengalese al ruolo di dialetto locale.
Fu proprio il Movimento della lingua bengalese (Shaheed Minar), che nel 1952
cominciò a reclamare la pari dignità delle due lingue, a segnare il primo motivo di
conflitto tra le due regioni del Pakistan, ma l’insoddisfazione si estese ben presto a
tutti i settori della vita pubblica finchè la Lega Popolare Bengalese (la Lega Awami)
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riuscì a convogliare e ad unificare le rimostranze ed i bisogni della popolazione
bengalese.
Essa negli anni Sessanta chiese a gran voce l’autonomia ma la risposta del governo
(militare) fu che il suo presidente Sheikh Mujibur Rahman venne incarcerato nel
1966: tre anni dopo tuttavia una rivolta popolare senza precedenti – evidente segno
dei tempi ormai mutati – costrinse le autorità a rilasciarlo.
La tensione fra le due parti del paese cresceva in misura sempre più allarmante e,
come sempre, alla prima occasione sarebbe sfociata non più gestibile e non più
controllabile: l’occasione fu il ciclone Bhola.
Il Bengala pakistano dovrebbe essere ricco visto che comprende la fertile pianura che
sorge intorno agli immensi delta del Gange e del Brahmaputra ed effettivamente è tra
i paesi più densamente popolati del mondo, ma, soggetto com’è alle annuali
inondazioni provocate dai monsoni e dall’abbattersi periodico di devastanti cicloni, è
invece sempre stato caratterizzato da carestie, catastrofi naturali e conseguente
elevato tasso di povertà.
La sera del 12 novembre 1970 il ciclone Bhola arrivò sulla costa proprio quando
stava salendo anche la marea: i suoi effetti furono i più tremendi che la storia dei
cicloni tropicali ricordi e le stime dei morti causati dalla paurosa ondata variano da
300mila a 500mila (fu impossibile anche stabilire questo dato con più accuratezza).
I soccorsi e le misure prese dal governo furono inadeguate ed insufficienti: di fronte
alla loro trascuratezza ed alla loro limitatezza i leaders politici del Pakistan orientale
dieci giorni dopo accusarono il governo di ‘grossolana negligenza e completa
indifferenza’ e del resto pochissimi giorni prima lo stesso presidente Khan aveva
dovuto ammettere che nel gestire i soccorsi e l’emergenza il governo aveva
commesso ‘leggerezze’ ed ‘errori’ dovuti alla sottovalutazione del disastro.
Era chiaro che l’inettitudine del governo era l’ennesima manifestazione del
disinteresse, della discriminazione e della indifferenza con cui l’ovest al potere
trattava l’est dimenticato e sfruttato, così le proteste, le manifestazioni e gli scioperi
non poterono che montare sempre più indignati tanto che il personale straniero
cominciò ben presto ad essere evacuato per timore di incidenti dovuti alla violenza
che poteva esplodere incontrollata da un momento all’altro.
La situazione infatti precipitò quando a Sheikh Mujibur Rahman - leader della Lega
Awami vincitrice delle elezioni del 1970 con 167/169 seggi riservati all’est e con la
maggioranza in parlamento – venne impedito di divenire primo ministro.
Era infatti successo che Zulfikar Ali Bhutto il leader del Partito del Popolo Pakistano
(dell’ovest) si era opposto alla nomina di Sheikh Mujibur Rahman ed era arrivato a
proporre addirittura due primi ministri, uno per l’est e uno per l’ovest: l’est aveva
rifiutato assolutamente un simile progetto ed i seguenti incontri e manovre non
avevano comprensibilmente portato a niente, mentre anche i potenti militari
scendevano minacciosi in campo.
Di fronte all’impasse ed al precipitare degli eventi il 7 marzo 1971 Sheikh Mujibur
Rahman in un famoso discorso-appello alla sua gente aveva rotto gli indugi
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chiedendo giustizia e rispetto per l’ordine costituzionale e concludendo che ‘La
nostra lotta è per la nostra libertà. La nostra lotta è per la nostra indipendenza.’
Per tutta risposta il presidente Yahya Khan il 26 marzo 1971 fece arrestare Sheikh
Majibur Rahman e lo stesso giorno con l’operazione ‘Searchlight’ ordinò l’attacco
al Pakistan orientale: era la guerra aperta che per i bengalesi pakistani fu guerra di
liberazione e/o di indipendenza.
Lo scopo dell’operazione ‘Searchlight’ era chiaro dal suo stesso nome (‘riflettore’): si
trattava della (tristemente solita) occupazione – soprattutto delle città – per eliminare
tutti i veri o supposti nazionalisti indipendentisti, politici o militari, studenti o
intellettuali, che fossero: per non dover rispondere a nessuno del suo operato il
governo aveva intanto preventivamente allontanato dal Pakistan orientale tutti i
giornalisti stranieri.
Lo stesso presidente Yahya Khan era stato chiarissimo in merito quando in un
incontro coi vertici militari aveva dichiarato: ‘Ammazzatene 3 milioni e gli altri
mangeranno dalle nostre mani.’
E così fu: per schiacciare la resistenza bengalese i militari catturati vennero disarmati
ed uccisi, gli studenti e gli intellettuali sistematicamente liquidati ed i maschi
bengalesi abili al servizio prelevati ed abbattuti.
L’operazione potè dirsi conclusa quando a metà maggio cadde l’ultima città ancora in
mani bengalesi, ma intanto la maggior parte dei leaders della Lega Awami era
riuscita a mettersi in salvo e ad organizzare un governo in esilio a Calcutta che subito
riaffermò l’indipendenza del Bangladesh (già proclamata da Sheikh Mujibur Rahman
poche ore prima del suo arresto insieme all’esortazione al suo popolo di resistere
all’occupazione) mentre le atrocità dell’esercito invasore e le sue sistematiche
uccisioni riuscirono solo a rafforzare la volontà di resistere dei bengalesi.
Subito militari e paramilitari bengalesi disertarono e insieme a partigiani civili
diedero vita all’esercito di liberazione (Mukti Bahini) che, dapprima disorganizzato
ma poi sempre più rafforzato e rifornito dall’India, iniziò la resistenza e la guerriglia
contro gli invasori.
Naturalmente l’India sosteneva ed armava i secessionisti dato che una divisione del
Pakistan in due stati nemici fra loro veniva tutta a suo evidente vantaggio.
Ancora una volta si ripeteva la situazione di un popolo in armi che pretende di essere
libero ed indipendente contro un esercito invasore più forte di lui e, come sempre e
come tutti gli invasori, anche i pakistani non poterono che ricorrere al terrore (cui si
applicarono con particolare brutalità le milizie paramilitari appositamente costituite)
contro la popolazione civile – in fondo l’unica arma che avevano contro un nemico
sfuggente e sostenuto dalla popolazione stessa.
Un fiume di profughi terrorizzati – ingestibile a causa della sue dimensioni - si
precipitò in India, ma nonostante i loro metodi atroci (o forse proprio per questo) i
pakistani non riuscivano a vincere anche per il crescente supporto indiano alla causa
del Bengala (che la prima ministra Indira Gandhi offriva sentendosi più sicura in
seguito ad un trattato di assistenza e di mutua collaborazione con l’URSS che
bloccava ogni possibilità di intervento della Cina in favore del Pakistan) così per
interrompere il flusso dei rifornimenti ai bengalesi il 3 dicembre 1971 il Pakistan
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scatenò incursioni aeree sulle basi dell’aviazione indiana del nord: l’attacco pakistano
voleva ripetere la ‘Operazione Focus’ che gli israeliani avevano condotto con tanto
successo contro le forze aeree egiziane durante la guerra dei Sei Giorni, cioè
distruggere gli aerei indiani quando questi erano ancora a terra e bloccare così ogni
possibilità di azione indiana a favore del Bengala, ma questo fu l’ultimo degli errori
del governo pakistano perché l’India, attaccata senza preavviso, entrò direttamente in
guerra (la terza indo-pakistana) e – nonostante i pakistani l’attaccassero anche a
ovest per allentare la pressione a est - in pochi giorni le sue forze congiunte a quelle
bengalesi sconfissero irrimediabilmente gli invasori che già il 16 dovettero
arrendersi: i prigionieri di guerra furono più di 93mila, il numero più alto dalla fine
della seconda guerra mondiale.
La guerra durò nove mesi e basta accennare alle sue cifre per rendersi conto della sua
atrocità: il numero dei massacrati oscilla dai 300mila ai 3 milioni (già questa
imprecisione è impressionante) cui si aggiunsero 10 milioni di rifugiati (in India) e 30
milioni di evacuati: la sorte peggiore era poi toccata agli indù bengalesi, odiati anche
per la loro religione.
Divenuto finalmente indipendente, il Bangladesh considerò il 26 marzo 1971 the
Independence Day of Bangladesh, si costituì come democrazia parlamentare,
(Sheikh Mujibur Rahman primo ministro) ed alle elezioni del 1973 la Lega Awami
ottenne la maggioranza assoluta.
Avendo chiesto l’ammissione all’ONU, inizialmente dovette però rinunciare per il
veto della Cina, sicura alleata del Pakistan in opposizione all’URSS alleata dell’India,
e per quest’ultimo motivo anche gli USA furono fra gli ultimi paesi a riconoscerlo
(l’8 aprile 1972, ma la Cina si decise solo il 31 agosto 1975).
In ogni caso il 2 luglio 1972 con gli Accordi di Simla il Pakistan riconobbe il nuovo
stato in cambio del rilascio dei suoi prigionieri di guerra ma dovette rinunciare anche
ad alcune aree strategiche (come Kargil) a ovest che l’India aveva occupato durante
la guerra e che ora potè mantenere.
Per il Pakistan la fulminea sconfitta e la perdita di metà nazione fu uno shock e la
resa del suo esercito a est fu avvertita come un vero e proprio tradimento: il paese si
sentì oltretutto isolato ed incompreso visto che solo gli USA l’avevano sostenuto: la
dittatura di Yahya Khan non resse alla ignominiosa dèbacle che così aprì l’ascesa al
potere di Zulfikar Ali Bhutto.
Quando le acque si furono calmate in Pakistan venne istituita la commissione
d’inchiesta Hamoodur Rahman le cui conclusioni misero in luce i numerosi errori
commessi a tutti i livelli e condannarono come crimini di guerra le atrocità
(saccheggio, stupro e uccisioni) commesse dall’esercito anche se i suoi numeri furono
enormemente più bassi di quelli denunciati dal Bangladesh: per questi oltre 200mila
donne furono stuprate o ridotte alla condizione di schiave sessuali – con la
conseguente nascita di migliaia di bambini - e 3 milioni di persone furono uccise; per
quelli le donne stuprate furono qualche centinaio e le uccisioni 26mila.
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In ogni caso una larga fetta della comunità intellettuale del Bangladesh era stata
eliminata soprattutto ad opera delle milizie paramilitari su istruzione dell’esercito e
negli anni seguenti si sarebbero scoperte sempre più fosse comuni.
L’ultimo dato (forse il più assurdo) è che durante la guerra efferate violenze erano
state perpetrate anche da nazionalisti bengalesi ai danni delle minoranze etniche nonbengalesi.
I termini più adatti a descrivere l’accaduto sono sicuramente quelli usati dai Servizi di
Informazione statunitensi e declassificati il 16 dicembre 2002, termini che vengono
adoperati ancor oggi per descrivere quegli eventi: ‘genocidio selettivo’ e ‘genocidio’.
Conclusione
Non sembra difficile trarre le conclusioni di quanto si è visto fino a questo momento.
I
Innanzitutto per quel che riguarda i cinque paesi di cui si è parlato sembra evidente
che essi – come praticamente tutti gli altri in tutti i continenti extraeuropei – sono nati
in seguito all’opera dei colonialisti europei, nella fattispecie degli inglesi: senza
l’impresa europeizzatrice di questi ultimi non è nemmeno immaginabile in quale
modo i numerosi popoli di quella che fu l’India britannica al tempo della sua
massima espansione si sarebbero organizzati ed in quali forme politiche vivrebbero
oggi (marzo 2013).
Tuttavia al tempo stesso bisogna subito aggiungere che i suddetti popoli non furono
certamente passivi soggetti malleabili nelle mani dei colonizzatori: essi reagirono,
impararono, insegnarono, collaborarono e seppero far valere almeno alcune delle loro
istanze e necessità (le più profonde ed importanti) fino al raggiungimento
dell’indipendenza.
Ma i popoli che finalmente raggiunsero l’indipendenza non erano più quelli di prima,
quando cioè avevano gestito le loro vicende ed il loro destino da padroni in casa
propria ed avevano potuto seguire le loro culture e le loro civiltà: i nuovi stati furono
così il frutto dell’incontro-scontro con la civiltà europea che si era presentata loro
nella sua forma peggiore, sotto le odiose spoglie della rapina, dello sfruttamento e
dell’asservimento.
E’ stato poi già rimarcato che le esigenze stesse del dominio coloniale avevano
imposto la diffusione della cultura dei colonialisti stessi e che ciò non aveva potuto
che generare la ribellione degli assoggettati, ma in India tale diffusione (ripetiamolo:
inevitabile) ebbe una rilevanza particolare e maggiore che altrove, anche perché gli
indiani si dimostrarono più che altrove (per esempio più che in Birmania) interessati e
convinti.
E’ indubbio insomma che gli inglesi in India furono colonialisti e sfruttatori, tuttavia
furono anche civilizzatori: quella contraddizione fondamentale ed ineliminabile del
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colonialismo - per cui il colonizzatore non può evitare di fornire al colonizzato le
armi per liberarsi - in India si accompagnò infatti anche ad un sincero (seppur
parziale e contraddittorio a sua volta) progetto di emancipare e di accompagnare
all’indipendenza l’immenso subcontinente.
Non può essere taciuto che tutti i massimi (e non solo) paladini dell’indipendenza
indiana avevano studiato e si erano formati in Inghilterra.
Sinceramente il senso di un’operazione come questa sfugge alla piena comprensione,
a meno di riconoscere che gli inglesi si sentirono davvero convinti di dover
europeizzare gli indiani – affermazione questa che però qui non ci si sente di poter
sostenere e che suona invece piuttosto giustificatrice e propagandistica.
Certamente però gli inglesi si resero realisticamente conto dell’impossibilità e
dell’insensatezza di continuare a dominare popoli così numerosi su un territorio così
vasto.
In ogni caso, se già alla fine del 1947 la situazione dell’ordine pubblico in India e in
Pakistan era tornata alla quasi-normalità, ciò lo si era dovuto alle strutture politiche
forgiate dagli inglesi (ed alla saggia conferma di tutti i dipendenti pubblici ai loro
posti voluta da Nehru): in India non ci furono così né processi né vendette ai danni di
chi aveva collaborato con gli inglesi.
Inglesi e indiani si lasciarono insomma da amici - e ciò è stupefacente.
II
Di ben altro tono sono invece le considerazioni su come si comportarono i nuovi stati
e, soprattutto, i loro popoli all’indomani della loro liberazione: essi infatti si
massacrarono a vicenda e si fecero una guerra dopo l’altra.
E questo fu un epilogo davvero amaro: indiani e pakistani erano vissuti fianco a
fianco per secoli; avevano lottato insieme per raggiungere l’indipendenza e la libertà;
erano riusciti a dialogare e ad intendersi con gli inglesi quando questi li dominavano
e li avevano sfruttati ed oppressi; avevano seguito le parole del grande Gandhi di cui
avevano ammirato la profondissima umanità e di fronte al quale si erano sempre
inchinati pieni di rispetto e venerazione … ma appena furono liberi e soli saltarono
l’uno alla gola dell’altro con una ferocia ed un’esaltazione ancor oggi inspiegabili.
La nascita dei loro stati fu immediatamente seguita da imprevisti ed inaspettati bagni
di sangue innocente: la festa si trasformò subito in tragedia avvelenando l’animo
nobilissimo di Gandhi, lui stesso vittima di questo orrore, agnello sacrificale
sull’altare dell’esaltazione sanguinaria e folle di uomini improvvisamente trasformati
in bruti feroci.
Non sembra possibile riuscire a trarre lezioni o insegnamenti da una simile assurdità e
ci si può solo augurare che non accada mai più.
Sottomarina marzo 2013
(ed integrato nel luglio 2014)
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Matthew White: ‘Il libro nero dell’umanità’ – Ponte alle Grazie, Trebaseleghe (PD)
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Numerosi saggi ed articoli scaricati da Internet.
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