Salvatore d’Albergo La Costituzione tra le antitesi ideologiche Dopo il referendum del 2006 ARACNE Copyright © MMVIII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–1723–4 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: aprile 2008 5 Indice PARTE PRIMA Dal modello “liberale” al modello “democratico” 1. Forma di Stato e forma di governo nell’ideologia giuridica ................................................................. pag. 9 2. La supremazia della “rappresentatività” sulla “governabilità” ................................................................. pag. 28 3. Dal coordinamento dei poteri alle garanzie costituzionali ......................................................................... pag. 54 PARTE SECONDA Il modello “democratico–sociale” 1. L’antitesi “economicità / socialità” tra “blocco” e “diffusione” del pluralismo ................................... pag. 71 2. Dalla stabilizzazione economico–istituzionale allo “sviamento” del modello democratico–sociale ............. pag. 110 3. La strategia delle “riforme istituzionali” come omologazione ideologica tra “scardinamento” e adeguamento alla “democrazia costituzionale” ....................................... pag. 145 Riferimenti bibliografici ............................................... pag. 131 5 6 7 PARTE PRIMA Dal modello “liberale” al modello “democratico” 8 1. Forma di Stato e forma di governo nell’ideologia giuridica La cadenza del sessantesimo anniversario della Costituzione sopravissuta quasi integralmente alle complesse e contraddittorie vicende che ne hanno accompagnato i travagliati decenni, si presenta come occasione non rituale per una ricostruzione della portata delle novità con cui gli istituti della democrazia sociale hanno contraddistinto un “modello” che ha rovesciato i termini dell’enfatizzata costituzione di Weimar: a suggello della legittimazione democratica aperta dalla fine della seconda guerra mondiale dopo la sconfitta del fascismo, in alternativa al carattere effimero dei tentativi di c.d. “stato sociale” esperiti alla fine della prima guerra mondiale, sotto l’incombere della prima esperienza di c.d. “socialismo reale” connotato dall’abolizione della proprietà privata in nome del comunismo. L’intuizione di massa che ha indotto l’elettorato italiano ― a distanza di un complesso e contraddittorio sessantennio ― a rilegittimare con il referendum del 25/26 giugno 2006 lo spirito e la lettera della trama della Costituzione approvata nel 1947 da circa il 90% dei rappresentanti dei partiti che avevano organizzato nei Comitati di Liberazione Nazionale (CLN) la lotta sociale, politica e militare con la Resistenza antifascista contro gli epigoni della r.s.i e del nazismo in rotta, impone una riflessione che valga a cogliere il significato di fondo del netto imprevisto contrasto emerso tra il popolo Sovrano e il fronte delle forze politiche divise aspramente nel cosiddetto “bipolarismo”. È stato sconfitto da un diffuso profondo senso civico l’intento perseguito da destra e da sinistra di introdurre modelli di “revisione” dell’intera Seconda Parte della Costituzione, tutti ispirati 9 10 PARTE PRIMA dal proposito di rovesciare la forma di governo “parlamentare” e delle “autonomie” sociali e politiche, per delegittimare la Prima Parte e gli stessi Principi Fondamentali portatori insieme della forma di stato di “democrazia sociale”, a differenza della forma di stato “liberal–democratica” degli stati di “democrazia classica”. Si è così bloccato un quarantennio di tentativi di tipo “golpista” (a partire dalla metà degli anni ’60, sino allo stragismo e al terrorismo degli anni ’70 e ’80); e di tipo “controrivoluzionario” (nell’arco di tempo che va dal 1983 ad oggi) formalizzati nei progetti di ben tre “commissioni bicamerali” in cui hanno colluso anche correnti eredi dei partiti di massa che avevano elaborato una costituzione risultata la più originale contro la tradizione del “costituzionalismo liberal–democratico”. Va pertanto colta questa storica rilegittimazione della cultura politica posta a base della forma di stato di “democrazia sociale” che la costituzione del 1948 ha incardinato sul completo rinnovamento dei “tre poteri” dello “stato costituzionale”della tradizione liberal–democratica (il c.s. “stato di diritto”), potere esecutivo, potere legislativo, potere giudiziario cui sono stati aggiunti gli strumenti di garanzia costituzionale (corte costituzionale, procedimento di revisione costituzionale, oltre che il referendum abrogativo. Ciò consente di verificare, rapportandola alla sintesi del modello emanato alla fine del 1947, la portata dei tentativi di sviamento e di scardinamento che sin da quella data si sono operati, per rilanciare con la necessaria consapevolezza la lotta culturale e politica che incombe in una situazione così degradata, e che il referendum del 25–26 giugno 2006 consente di rimettere nella giusta carreggiata se le forze politiche si conformeranno alla linea indicata dai cittadini. Su queste premesse è possibile far tesoro degli esiti complessi del voto con cui è stato respinto l’attacco pericolosamente organizzato dai gruppi di potere facenti capo al centrodestra, sulla scia di un processo avviato e proseguito dai partiti del cosiddetto “ulivo” in nome di una mistificatrice esigenza di “adeguamento” Dal modello “liberale” al modello “democratico” 11 della forma di governo italiana ad una enfatizzata “società della globalizzazione”. Tale inequivocabile risultato racchiude implicazioni che vanno al di là della dura sconfitta subita non solo dal provocatorio tentativo “leghista” di estremizzare il federalismo incautamente introdotto dal centrosinistra nel 2001, ma anche e soprattutto dal disegno di Berlusconi, Fini, Casini e Bossi di rilanciare un modello di “capo del governo” arieggiante quello introdotto nel 1925 (con l’avallo della cultura giuridica dello autoritarismo liberale) dal primo fascismo: modello cui Prodi, D’Alema, Rutelli da un canto e Bertinotti e Diliberto d’altro canto, hanno solo giustapposto forme diverse di primato dell’esecutivo ma anch’esse tutte “antiparlamentari”, in linea con la strategia incarnata dalla fine degli anni ’70 dal Psi di Craxi, cui in modo strisciante ha finito per aderire prima la destra del Pci, e poi il Pds unitamente al Ppi, effimeramente seguiti dagli ex comunisti dichiaratisi disponibili a imitare il “cancelleriato” della Germania di Bonn, oltre che a subire il federalismo nel segno di un cosiddetto “regionalismo forte”. Occorre subito precisare perciò quale margine di equivoco la pur decisiva risposta popolare lascia per iniziative, subito annunciate, volte a recuperare tutto quel che sullo sfondo della sconfitta del modello del centrodestra appartiene alla cultura politico–istituzionale dell’Ulivo, come conseguenza dello spirito “controrivoluzionario” che presiede alla strategia “riformista” per omologare l’eredità dell’antifascismo alla “normalità” di un sistema di governo non più improntato alla “centralità” del parlamento e funzionale alla “democrazia sociale”, ma organizzato secondo una delle numerose variabili modellistiche escogitate dalla “ingegneria costituzionale” per servire gli interessi della formazione sociale del capitalismo in tutto il mondo occidentale: operando cioè una separazione, per un loro ribaltamento, tra il ruolo della Seconda e quello della Prima Parte del modello costituzionale italiano entrato in vigore nel 1948. Si rende perciò necessario e urgente rilanciare la lotta culturale per la costituzione abbandonata dalla fine degli anni ’70 con 12 PARTE PRIMA una maggiore consapevolezza, oggi latente in seno al popolo che ha votato un forte “no” allo stravolgimento della costituzione repubblicana, della esigenza di consolidare la democrazia con più profonda determinazione di quella assunta con il voto referendario in nome della pur indispensabile ma di per sé limitata “difesa” della costituzione. E tale lotta va incardinata su un preciso presupposto teorico e politico, e cioè che la costituzione del 1948 è il condensato della strategia politico–sociale imposta dai partiti di massa che, in nome dell’ideologia antifascista, hanno mirato a porre le basi della formazione di una nuova classe dirigente volta a tagliare alle radici gli istituti politico–istituzionali del liberalismo “autoritario” che, entrati in crisi dopo la prima guerra mondiale, sono stati ereditati dal fascismo e commutati secondo una concezione “totalitaria” travolta a prezzo della alleanza delle democrazie liberali e socialiste che hanno combattuto nella seconda guerra mondiale il nazi–fascismo. Sì che con la Resistenza si è puntato a legittimare il pieno titolo del movimento operaio a contrastare, nel ripristino delle premesse della libertà e della democrazia, il dominio di classe del capitalismo, per erigere sulle ceneri del fascismo un nuovo tipo di forma di stato, non più imperniata sulla sovranità degli apparati burocratici repressivi ed oppressivi, ma sull’autonomia della società assegnando alle forze sociali e politiche “organizzate” il compito di elaborare ― immettendole nel circuito delle rinnovate istituzioni di governo ― gli indirizzi politici, economici e sociali contrastanti con il ristretto interesse di classe che tradizionalmente ha visto contrapposto il meccanismo di accumulazione della ricchezza, agli interessi del “lavoro”. L’unità nella diversità cementata nel pluralismo sociale e politico di partiti e movimenti collegati nella lotta di liberazione in cui sono stati coinvolti anche i gruppi facenti capo alla monarchia (benché questi si siano arroccati nell’ultimo tentativo di fare salvo l’istituto monarchico, con il “referendum istituzionale” che ha introdotto la repubblica mentre si eleggeva l’Assemblea costituente) è valsa a dare piena coerenza alla rottura di conti- Dal modello “liberale” al modello “democratico” 13 nuità segnato dalla cancellazione dello “statuto albertino” (che ha avuto vigore dal 1848 al 1943). Consentendo così di oltrepassare i limiti storicamente attestati delle costituzioni dei paesi occidentali improntati ad una liberaldemocrazia che, proprio dove è stabile, toglie alle masse la libertà sostanziale enfatizzando la libertà formale, e dove è instabile blocca a stento le gravi contraddizioni tra libertà e democrazia derivanti dalle attese prospettate dalla inseguita democrazia “reale”, in nome del socialismo. Quel che va tenuto ben presente oggi è che sotto le spoglie della conclamata “globalizzazione” si cela il cedimento politico e culturale all’espansione “reticolare” del sistema delle imprese transnazionali sotto l’egida del capitale finanziario, con l’aggravante che si cerca dal centrosinistra oltre che dal centrodestra di imporre la scelta di una delle molteplici vie offerte dalla modellistica istituzionale borghese per sovvertire il rapporto tra interessi sociali e potere di governo, tra democrazia di massa e comando capitalistico, con una operazione teorico–politica che occulta il carattere di originalità che la costituzione del 1948 ha acquisito e mantiene, per motivi di fondo che come non sfuggirono alle forze conservatrici di allora, così sono presenti oggi a tutti quanti da diverse angolazioni tramano per coagulare ideologicamente le erosioni materiali che nella fase attuale la costituzione ― come testo “formale” ― subisce alla stregua del resto di quanto in ogni fase dei processi storici discende dalla dialettica tra la “forma” e la “realtà” del diritto e dello stato nei diversi ordinamenti sociali e politici. Il segno e il peso di tale originalità ― la cui rilevanza è ancora tale che gli esponenti della cultura liberaldemocratica puntano ad una rivincita sull’esito negativo del referendum del 25–26 giugno perché ha fatto salva l’”eterna diversità” di quella costituzione che perpetua il “caso italiano” al cospetto dei “grandi sistemi dell’occidente” ― è riconoscibile se si parte dal presupposto che l’entrata in vigore di una nuova costituzione è comunque un evento “politico” da cui discendono conseguenze anche di tipo “giuridico”, che non giustificano perciò quella inversione ti- 14 PARTE PRIMA pica della cultura borghese per cui ogni fenomeno sociale a base del diritto e soprattutto delle costituzioni andrebbe incasellata nelle categorie concettuali della scienza giuridica, che cancellano aprioristicamente i caratteri “storico–politici” del fenomeno di livello costituzionale, in nome di una modellistica che si attiene a schemi esteriori e formali ispirantisi oltretutto ad una ideologia conservatrice e continuistica. E la natura “politica” della costituzione va sottolineata tanto più nei casi in cui essa ― come conferma il contesto della elaborazione della costituzione italiana del 1948 ― si è posta come sbocco di un processo di tipo rivoluzionario quale è stata la Resistenza ispirata dai partiti antifascisti, con la conseguenza che il potere costituente “sociale” ha preceduto ed è stato il motore del potere costituente “politico–istituzionale” espresso dalla successiva Assemblea costituente, destinata a delimitare i tratti del nuovo ordinamento sociale, politico ed economico secondo un modello non inquadrabile negli schemi della cultura giuridica tradizionale, appunto perché prodotto delle culture “politiche” dei partiti che avevano condiviso l’esigenza di predisporre una strategia di trasformazione della società e dello stato. Tale cioè da rivoluzionare i rapporti sociali ed i rapporti politici, elaborando un ordinamento conformato all’interdipendenza dei principi della “democrazia sociale”, antitetici alla “liberal–democrazia” garante della supremazia della proprietà e dell’“impresa” sul “lavoro”, e quindi delle classi possidenti sul proletariato, e sugli altri ceti socialmente dipendenti. Poiché l’ingresso nello stato delle nuove forze sociali e politiche rappresentate soprattutto dai partiti di massa ― partito comunista, partito socialista e democrazia cristiana ― implicava una profonda modifica dell’asse dei rapporti tra società e istituzioni con riferimento all’ideologia di cui ciascuno di tali partiti era portatore, l’impatto più significativo maturato negli anni 1943–1946 ― anno in cui la Costituente cominciò i suoi lavori ― ha avuto come referente costante il nesso tra l’ideologia antifascista e il fondamento socio–politico del nuovo stato repubblicano, in contrasto con l’ideologia liberale e fascista che al coper- Dal modello “liberale” al modello “democratico” 15 to dello “statuto albertino” aveva conferito fondamento al “protezionismo liberale” sino all’avvento del fascismo, e poi al “corporativismo” come criterio di organizzazione “blindata” della supremazia del capitalismo. Da un lato per effetto della eliminazione delle libertà politiche da parte del regime del partito unico, e dall’altro lato mediante l’eliminazione delle libertà sociali a carico esclusivamente della classe lavoratrice (sindacato “di stato”, sanzione come “reato” del diritto di sciopero), come corrispettivo della consacrazione del dominio dell’impresa capitalistica (privata, e a partecipazione statale) nelle forme peraltro “coattive” della mistificatoria collaborazione di classe. Solo tentando di svilire l’ideologia antifascista ricorrendo artificiosamente all’ideologia “giuridica” interna all’ideologia “politica” liberaldemocratica, si poteva tentare di ostacolare l’elaborazione della costituzione democratico–sociale che, sulla spinta particolarmente dalla cultura marxista, puntava a creare le premesse di una “transizione al socialismo” incontrando sulle traiettorie della “democrazia progressiva”, strategicamente proposta nel nome del “partito nuovo” consacrato dalla “svolta di Salerno”, quei partiti che su matrici teoriche di natura marxista e cattolica erano orientati a coinvolgere gli epigoni della cultura borghese tradizionale e laica (liberali, repubblicani e “azionisti”) in una prospettiva di valorizzazione delle libertà “civili” e politiche ottocentesche, entro un quadro di apertura verso un processo di “emancipazione” atto a far lievitare diritti di tipo nuovo ― i “diritti sociali” ― dalla conversione del regime della proprietà e dell’impresa a una disciplina di riqualificazione secondo le variabili utilità “sociali” da assegnare alla produzione di beni e servizi: andando così oltre le stesse prospettive di “stato sociale” i cui ascendenti sono inscritti nel tanto enfatizzato modello della “repubblica di Weimar”, su cui si è attestata la cultura sociale e politica socialdemocratica. I leaders dei partiti alla Costituente erano quindi ben edotti della natura delle costituzioni più emblematiche della tradizione dell’occidente, sia europeo che statunitense, e la loro propensio- 16 PARTE PRIMA ne ad innovare sulla tradizione muoveva dalla precisa intenzione di trascenderle tutte, perché le costituzioni britannica e statunitense, nonché quella francese e tedesca (per stare ai modelli paradigmatici anche di altre costituzioni europee) avevano ed hanno una caratterizzazione comune, pur nella diversa datazione di origine: e cioè di essere imperniate sulla preminente destinazione a delineare le specifiche “forme di governo” con cui dominare una società diretta ― appunto ― “dall’alto” anziché “dal basso”, per garantire “stabilità” agli assetti sociali di una struttura economica prima improntata agli interessi della proprietà fondiaria, e poi anche a quelli della proprietà e dell’impresa capitalistica: donde il carattere “riflesso” anziché fondante dei “diritti”, intestati genericamente ai “cittadini” per occultare le contraddizioni di classe che la cittadinanza “politica” presenta e fa vivere nella scissione tra “sociale” e “politico”, con univoche proiezioni sui vari modelli di forma di governo. Testimonianza degli intenti della “ingegneria costituzionale” di salvaguardare la “forma di stato” liber0aldemocratica e la conservazione dell’assetto nei rapporti tra le classi al di là delle mutazioni presentate anche con il concorso del progresso tecnico tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 nonché tra la fine del ‘900 e l’inizio del 2000 ― cioè in contesti storici che l’odierna politologia tende a contrapporre apoditticamente in nome del “post–moderno” ― è rintracciabile nella ricerca puntigliosa ed ossessiva di celare l’essenzialità dei rapporti di “potere” che condizionano la fissazione delle “regole” con cui, nel passaggio dall’assolutismo al costituzionalismo dello “stato moderno”, si è pervenuti al riconoscimento dei “diritti individuali”, estendendoli a tutte le classi con il suffragio universale (prima solo maschile, e poi anche femminile): con la costante preoccupazione, però, di ottenere che l’emanazione delle regole sia appannaggio esclusivo di maggioranze fedeli interpreti ― con le “forme di governo” sorrette artatamente da meccanismi elettorali distorsivi della “reale” rappresentanza politica ― degli intoccabili interessi della borghesia produttiva, sotto gli emblemi, enfatizzati nella loro crescente ambiguità, del cosiddetto “stato di diritto”. Dal modello “liberale” al modello “democratico” 17 Consapevoli della necessità non solo di sbarrare la strada di un infausto ritorno al fascismo ma soprattutto di creare i presupposti di una democratizzazione della società e dello stato che è estranea alla cultura liberal–democratica anche nella versione liberal–socialista, i partiti “costituenti” dell’Italia repubblicana hanno elaborato una “forma di stato” volta ad andare oltre i limiti dello “stato di diritto sociale” mediante una operazione di “teoria sociale” da combinare con una conseguente operazione di “teoria istituzionale”, consistente nella elaborazione di norme costituzionali di tipo nuovo perché statuenti un “progetto di società” alternativa a quella salvaguardata negli altri ordinamenti capitalistici: progetto in cui la “legge” unisce al compito di garantire l’attuazione dei diritti individuali, anche il nuovo compito di “dirigere” l’uso dei meccanismi produttivi e riproduttivi ― cioè l’economia e i servizi collettivi ― secondo un piano globale che sia conseguentemente imperniato sul potere preminente degli organi parlamentari in quanto recettivi delle opzioni espresse dalle organizzazioni in cui si articola il pluralismo sociale e politico come cardine della democrazia di massa. In tale tipo di impegno che ha caratterizzato sin dal primo avvio i lavori della Costituente i pochi giuristi presenti hanno svolto un ruolo di supporto ― quando non di più o meno larvato contrappunto politico–culturale ― rispetto al compito preminente di prospettare quali nuovi “rapporti” ― civili, etico–sociali, economici e politici ― prevedere innestandoli nell’asse di Principi Fondamentali volti a collegare il valore del “lavoro”, l’adempimento dei doveri inderogabili di “solidarietà politica, economica e sociale” e il perseguimento della “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, come ambito complessivo in cui garantire l’eguaglianza sia sostanziale che formale, “rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale” da cui era ed è limitata di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (artt. 1, 2, 3,). Precisamente, respinta la prassi tradizionale di ritagliare in ininfluenti “preamboli", enfatici richiami a valori che si presuppongono avulsi dalla dialettica sociale e politica, i “costituenti” italiani 18 PARTE PRIMA hanno introdotto come “norme” coperte dalla garanzia della “rigidità” ― nel duplice e convergente senso di rinforzare l’impegno ad attuarle, nonché di proteggerle da tentativi di alterazione o manomissione ad opera di improvvisate maggioranze ― principi di apertura a una nuova società e a un nuovo stato innervati sul ruolo politico–istituzionale dei partiti e dei sindacati, riconosciuti come la forma organizzativa eminente nella regolazione dei rapporti politici (art. 49) e dei rapporti economici (art. 39): ciò per approntare le linee di una elaborazione della “politica nazionale” con scelte “programmatorie” generali da indirizzare e coordinare a “fini sociali” (art. 41), assumendole come sintesi dell’intreccio tra le esigenze politiche, economiche e sociali coinvolte dalla dialettica tra società e stato nella Repubblica democratica fondata sul parlamento e sulle autonomie (art. 5). In tal guisa adottando per la prima volta nella storia delle costituzioni europee un meccanismo normativo inteso a trasporre nella Costituzione, sulla base dei suoi Principi Fondamentali connessi anzitutto alla Prima Parte sui “diritti e doveri dei cittadini”, la progettualità che è insita nella trama dell’ispirazione antifascista delle formazioni politiche e sociali animatrici con la Resistenza del potere costituente quale potere “sostanziale” prima che “formale”. Va tenuto allora ben presente, per capire come si è passati negli ultimi trenta anni alla politica delle “riforme istituzionali”, che la linea teorica della cultura borghese coonestata dall’ideologia giuridica tuttora prevalente, è stata costantemente incentrata sull’identificazione dello stato con la sua forma di governo, storicamente legata alla monarchia (ma anche alla repubblica, specie con l’emblematica versione “presidenzialista” nordamericana), sì che l’operazione culturale delle forze antifasciste si è tradotta nell’invertire la sequenza tra le norme sui rapporti sociali e le norme sull’organizzazione dello stato dando preminenza alla “forma di stato” di democrazia sociale, ciò che risulta nel modo più esemplare dal confronto della costituzione italiana del 1948 con quella di Weimar del 1919, che ha mantenuto in posizione secondaria e discendente le norme Dal modello “liberale” al modello “democratico” 19 relative ai diritti e ai doveri con l’aggravante di averle modificate inserendo bensì quelle norme sul lavoro e la solidarietà sociale che le costituzioni liberali ignoravano, purché risultasse confermata anche dalla cultura socialdemocratica il primato della “sovranità dello stato” come somma di poteri autoritari, sulle esigenze di una società invano appellantesi alla “sovranità popolare”. E a riprova del contributo regressivo prevalente in quei costituenti volti con l’ideologia giuridica a recepire canonizzandoli i principi conservatori dell’assetto di potere capitalistico, in senso contrario all’accordo (tramite Dossetti, Togliatti e Basso) tra Dc, Pci e Psiup per l’elaborazione delle norme sul controllo sociale e politico del sistema produttivo, si è posto in luce a fianco dei liberali (Einaudi) quell’esponente tanto emblematico del ruolo del partito d’azione ― il giurista Piero Calamandrei, assurto a miglior notorietà per le posizioni assunte (negli anni ’50) nella lotta al centrismo e al ruolo egemone della Dc ― il quale cercò di contrastare l’accettabilità dell’orientamento prevalso per fare degli indirizzi programmatori l’asse del primato della “socialità sull’economicità”, ricorrendo ad un argomento conservatore fondato sulla tradizione: come se si potesse scientificamente sostenere che non sono addirittura “norme giuridiche” solo perché di nuovo tipo quelle contenute nella sezione sui “rapporti economici” (artt. 39–47) in quanto non provviste delle “sanzioni” che, secondo una visione del diritto riduttivamente formalistica (oltretutto non prevalente nella stessa scienza giuridica tradizionale), caratterizzano i dispositivi delle leggi ordinarie con cui si disciplina essenzialmente nei codici anche l’attività delle imprese, sì quindi da presupporre come intangibile quella continuità nella regolazione dell’economia liberale e corporativa che le forze antifasciste si erano proposte di rompere, non confondendo i “diritti” di libertà delle persone (cittadini e lavoratori) con il “potere” di autonomia delle imprese (finanziaria, industriale, agraria). In tale discussione, che valse solo a sostituire con la parola “programmi” la parola “piani” che sembrava evocare meccanici- 20 PARTE PRIMA sticamente l’espressione in uso nel sistema socialista sovietico (quando, peraltro, nel diritto borghese si chiama “pianificazione” la disciplina territoriale in cui si colloca l’urbanistica nella regolazione della proprietà privata), trovò netta evidenza l’inconfondibilità della costituzione italiana del 1948 con la costituzione socialdemocratica di Weimar che è bensì meritevole di distinzione dalle altre costituzioni successive alla fine della prima guerra mondiale, ma che emanata (1919) a poca distanza dalla prima costituzione sovietica (1918) se ne distaccava nel punto più decisivo concernente la disciplina della produzione, e cioè la forma di stato prima che la forma di governo. E infatti, nel momento stesso in cui innovava alle altre costituzioni europee di impianto liberale introducendo norme sul lavoro e sulla sicurezza sociale che sono state assunte come emblema della categoria del cosiddetto “stato sociale” oggi vagheggiato dalla sinistra riformista come variante dello “stato di diritto”, ci si è limitati però a sollevare problemi di tollerabilità della spesa pubblica da parte dello stato capitalistico senza affrontare i problemi economico–sociali pregiudiziali all’attuazione di quella categoria dei diritti “etico–sociali” che lo stato sociale tanto più oggi dovrebbe garantire: estraniando cioè dai diritti sociali quei diritti collettivi che implicano il controllo del mercato e quindi del sistema degli scambi e dei prezzi, dando soggettività generale alla classe operaia ai fini della disciplina della produzione dei beni di consumo oltre che dei servizi pubblici, non essendo sufficiente al riguardo ― appunto, senza programmazione globale e democratica ― la previsione delle nazionalizzazioni, e della creazione di società azionarie a partecipazione pubblica (le c.d. “società miste”) nonché della cooperazione, per mutare di segno la logica del mercato capitalistico. Come dimostra l’esempio del fascismo con le forme di intervento pubblico nell’economia da esso introdotte. Punto focale della strategia della “democrazia progressiva” ― volta a far tesoro anche dei limiti della pur emblematica via weimariana indicata come apertura della “terza via” (rivendicata del resto anche dal corporativismo fascista) ― è stato quello di Dal modello “liberale” al modello “democratico” 21 un pluralismo così articolato da perseguire non solo il pluralismo sociale, economico e politico nella prospettiva di emancipazione generale della società con la partecipazione “effettiva” dei lavoratori all’organizzazione della Repubblica, ma anche quello connesso alla complessità del mercato e alla segmentazione della borghesia produttiva nelle forme della piccola, media e grande impresa (nell’art. 47 si parla dell’investimento azionario nei “grandi complessi produttivi del paese”), dando evidenza al ruolo dei lavoratori e di quella cooperazione di cui si è rimarcata la mutualità “senza fini di speculazione privata” (art. 45): così come a proposito di attività economica “pubblica” (art. 41) si è mirato a riqualificare quell’istituto delle partecipazioni statali, “irizzato” dal fascismo per finalità di sostegno del meccanismo “privato” di accumulazione, e che nella cultura dei cattolici viene solo considerato come ambito della esperienza “pilota” di un uso “sociale” delle società per azioni inquadrate in “holdings” pubbliche. Quel che di essenziale il misconoscimento del fondamento giuridico dell’uso sociale della proprietà privata implicava, risiede nella svalutazione che tramite una concezione del diritto e dello stato sconnessa dal rapporto con la realtà contemporanea il giurista del partito d’azione operava di quel problema teorico affrontato secolarmente dalla filosofia politica, e riguardante la relazione tra la libertà e l’eguaglianza, ovvero tra la libertà “negativa” come diritto garantito di agire in termini non impediti da norme vincolanti (nelle forme della libertà personale, di pensiero, di associazione), e la libertà “positiva” come diritto garantito di dare “concretezza” alle possibilità “astratte” di passare dalle libertà “civili e politiche” alle “libertà sociali” indispensabili alla dignità della persona e al libero sviluppo, facendo cioè entrare in campo l’esigenza di “giustizia” per l’eguaglianza non solo formale ma anche sostanziale. Si è scelto perciò di lasciare alle spalle il costituzionalismo liberale che, mentre garantisce le libertà civili e politiche e in generale i diritti “umani” reprimendo con sanzioni, cioè con interventi “coattivi”, le violazioni di tali diritti, è del tutto contra- 22 PARTE PRIMA rio a riconoscere la limitabilità delle libertà economiche a favore degli interessi sociali che sostanziano l’esigenza della libertà positiva, non come mera “declaratoria” ma come attuabilità concreta di una “modifica” dei rapporti sociali tra i soggetti appartenenti alle componenti ― rispettivamente, “forti” e “deboli” ― della società, nei termini sinteticamente riassunti nell’antitesi capitale/lavoro, facendo quindi intervenire i pubblici poteri con l’uso di un nuovo tipo di leggi, volte cioè a supportare i compiti di “direzione sociale” tramite vincoli non identificabili con le sanzioni negative (con conseguenti pene e risarcimenti del danno tipiche forme della tutela dei diritti violati sulla base dei codici penale e civile), perché rivolte a perseguire finalità regolative e distributive in modo diretto (programmazione economica), prima e più che indiretto (sicurezza sociale). E infatti la cura messa dalla cultura marxista nel sottolineare la differenza tra una costituzione “socialista” e una costituzione (democratico–sociale) di transizione ― sul presupposto che lo “stato sociale” canonizzato nella costituzione di Weimar coinvolgeva solo diritti sociali compatibili con l’intangibililtà del meccanismo di accumulazione privata, pur introducendo per la prima volta un richiamo ai principi di “solidarietà sociale” a fianco dell’elenco dei diritti fondamentali ― ha avuto l’obiettivo di evidenziare quale processo di democratizzazione la “costituzione–programma” avesse il compito di avviare per conseguire finalità che la costituzione sovietica del 1936 dal canto su aveva sancito come raggiunti, per nuovi sviluppi da garantire nel segno dell’abolizione della proprietà privata con la proprietà collettiva: il che ha concorso a evidenziare la specificità della novità di cui, oggi, quasi tutti i costituzionalisti compresi quelli “democratici”, hanno diluito e quindi svilito i fondamenti parlano genericamente, contro la politica del centro–destra e nel segno del “bipolarismo”, di “stato costituzionale” e di “democrazia costituzionale”, termini qualificatori che nella cultura politica democratica e nella stessa cultura giuridica dominante negli anni ’45–90 erano addirittura desueti o assenti.