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SISTEMI ARCHITETTONICI
IN FRANCIACORTA
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AURELIO PEZZOLA
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Immagini fotografiche
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Gruppo Iseo Immagine
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archivio studio d’architettura
A. Pezzola
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composizione grafica
arch. Chiara Morando
In copertina: Castello Fassati, Passirano
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Una premessa, lunga un trentennio
di Aurelio Pezzola
Questo mio studio sul paesaggio architettonico della
Franciacorta trova la sua origine nel 1978, quando,
studente della Facoltà di Architettura del Politecnico di
Milano, capitai fortunosamente in un gruppo di ricerca
che faceva riferimento alla figura di Lucio Stellario
D’Angiolini, rara presenza cosciente e responsabile di una
visione urbanistica critica e scientifica. Due del gruppo,
gli architetti Marita Baggio e Giovanni Tacchini, mi
iniziarono verso una ricerca che oggi sono sempre più
cosciente non avrà mai fine.
Questo studio nel suo divenire continuamente operante si
è rivelato subito uno strumento fondamentale per il mio
lavoro di architetto. Ogni volta, quindi, lo studio era
destinato ad approfondimenti e verifiche; quando uno
scritto o un progetto sembravano definire una sintesi
conclusiva della ricerca, nasceva sempre un’occasione o
un’incontro
per
iniziare
nuovamente
ulteriori
approfondimenti. Così alla prima pubblicazione,
“ IL PORTONE DA APRIRE IN FRANCIACORTA ”
Sardini Editrice, 1982
fece seguito il progetto di itinerari ciclabili, di percorsi
incrociati tra natura, storia, arte e lavoro umano,
“ ALLA SCOPERTA DEL GRANDE MUSEO
AMBIENTALE DI FRANCIACORTA ”
Cento3. Numero speciale A.B.
Grafo & Associati, 1987
Seguirono successivamente in sequenza:
“ APPUNTI PER UN VIAGGIO TRA LE DIMORE
DELLA FRANCIACORTA ”
Magazine Franciacorta, 1988
“ PAESAGGIO URBANO DI UN BORGO RURALE”
in “ PADERNO FRANCIACORTA DAL MEDIOEVO
AL NOVECENTO ”
Gruppo Editoriale DELFO, 2004
“ IL PAESAGGIO COME PALINSESTO.
UN ESPERIENZA PROFESSIONALE: STRATIFICAZIONI
STILISTICHE, TIPOLOGICHE, INSEDIATIVE,
IL CASO DELLA FRANCIACORTA ”
in “ ARCHITETTURA DEL PAESAGGIO E
INFRASTRUTTURE ”
Direttore del corso prof. arch. Giovanni Tacchini, 2005
(in corso di pubblicazione)
L’impegno costante in questi anni, teso a riportare queste
comunicazioni in un percorso all’interno delle scuole e dei
comuni della Franciacorta è stato una prima risposta a
quell’insegnamento dangioliniano che richiedeva alla
figura dell’architetto una partecipazione attiva nelle
comunità locali, per costruire una nuova coscienza civile.
Durante questo viaggio ho anche incontrato delle figure
che di volta in volta mi hanno aiutato nelle varie fasi della
mia ricerca. A tutte queste sono intellettualmente debitore
e devo loro un ringraziamento particolare:
- ad Alessandro Cristofelis per avermi dimostrato la
possibilità di dialogare con le pietre;
- ad Enrico Mantero per avermi insegnato a cogliere
“l’essenza dell’architettura” nelle sue diverse stagioni e
per individuarne ogni volta le diverse matrici;
- ad Antonio Acuto per avermi esortato a continuare lo
studio sui sistemi architettonici della Franciacorta ed ad
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ampliarlo per poi confrontarlo anche con altri diversi
contesti;
- a Renato Job, che ha sempre creduto nell’utilità di
questa ricerca, come base indispensabile per una nuova
consapevolezza di tutela del patrimonio architettonico e
paesaggistico della Franciacorta. Non solo conservazione
del bene culturale, inteso in una visione limitativa, protesa
alla sola salvaguardia delle emergenze architettoniche, ma
nella sua globalità, guardando al paesaggio come ad un
unicum indivisibile dai piccoli episodi, dai dettagli, che
concorrono a pieno titolo ad una visione globale ed
appagante del paesaggio;
- ai dirigenti scolastici, Morena Modenini e Giorgio
Bettoni, per il loro impegno di realizzare un preciso
rapporto culturale tra scuola e territorio;
- a Mario Fosso, per avermi richiamato in facoltà, per
continuare a studiare, permettendomi di intraprendere
quella prerogativa tutta rogersiana: “di continuare ad
imparare insegnando”;
- a Giovanni Tacchini, per aver, con pazienza, da sempre
contribuito puntualmente ad affrontare e focalizzare i vari
aspetti dello studio, ogni volta stimolandomi
all’approfondimento di un determinato sistema
microurbanistico, che finiva poi con il rivelarsi strategico
per il divenire della ricerca.
Si tratta di una ricerca, quindi, come un progetto continuo,
che di volta in volta si autogenera, gli ultimi scritti della
quale sono sempre una rielaborazione ed un
aggiornamento di quelli precedenti.
L’ultimo lavoro in ordine cronologico è stato redatto in
occasione del corso “Architettura del paesaggio e
infrastrutture”. La stesura del testo ha coinciso con questo
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convegno di Iseo. E’ evidente quindi un’analogia tra i
testi, che fissano la ricerca provvisoriamente allo stato
attuale. Il giorno della mia tesi di laurea ho ricevuto in
dono da un architetto greco, Alessandro Cristofelis, delle
immagini fotografiche “per imparare a dialogare con le
pietre”. Erano le immagini conclusive del film di
Einsentein della Corazzata Potenkin.
Sulla scalinata di Odessa, vi sono tre inquadrature a
sorpresa di un leone di pietra che dorme, di uno che apre
gli occhi e di uno che scatta in agguato.
Questa è una tipica costruzione di montaggio, operazione
specifica della formalizzazione filmica, che difficilmente
potremmo immaginare riproducibile a parole.
Ci si rendete conto che semplici parole, spese dalla critica
del tempo, come: “Leone Rivoluzionario” oppure “anche
le pietre si rivoltano e gridano”, sono banalità artistiche in
confronto alla plasticità delle immagini che il montaggio
restituisce. Il tentativo dello specifico filmico nel cinema
(il montaggio) trova riscontri e analogie in architettura,
anche se l’esempio è molto metaforico: il momento della
formalizzazione di un’idea in una forma concreta,
restituita con concetti poetici.
E’ questa forse l’essenza delle architetture che ritroviamo
in Franciacorta: un confronto diretto sempre presente con
la geografia dei luoghi, un dialogo continuo e segreto con
le architetture preesistenti, in grado di far emergere
evidenti contaminazioni legate ad una dinamicità di
modelli culturali e di matrici architettoniche che lungo
antichi itinerari migrano e si trasformano. Così lungo il
sentiero dell’architettura ho attraversato tutto un
millennio. Dalla valle dell’Oglio ho cavalcato lontano,
lontano, fino al Danubio. Il dialogo iniziato con i leoni di
pietra è continuato con le pietre che hanno costruito le
diverse stagioni architettoniche della Franciacorta.
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Sistemi Architettonici
in Franciacorta
di Aurelio Pezzola
I. Matrici antiche e perenni che migrano e si stratificano
II. Il contesto come geografia dei luoghi
III. I muri dei broli, pietre e ciottoli come materia per le prime partiture murarie;
primo pathos architettonico, tra selve, paludi e demoni
IV. Lungo antichi itinerari si attestano i primi sistemi architettonici.
La Pieve
V. La fortificazione della campagna dai primi recinti all’incastellamento nel
paesaggio morenico della Franciacorta.
L’origine del borgo medioevale
VI. I primi borghi e le prime regole architettoniche
VII. Le contrade
VIII. Dal piccolo monastero cluniacense alla grande abbazia
IX. Le residenze della prima borghesia imprenditoriale tra Quattrocento e
Cinquecento
X. La rifeudalizzazione del paesaggio agrario tra Cinquecento e Seicento
XI. La grande epopea delle ville tra Seicento e Settecento
XII. L’impianto della Controriforma: San Carlo Borromeo e le nuove Parrocchiali
XIII. La Palazzina di villeggiatura tra Settecento e Ottocento
XIV. La cascina e la prima manifattura
XV. L’architettura neoclassica vantiniana
XVI. Dal neogotico alla lunga stagione dell’eclettismo
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Sistemi Architettonici
in Franciacorta
di Aurelio Pezzola
I. Matrici antiche e perenni che migrano e si
stratificano. La geografia dei luoghi, nella storia della sua
fisicità, ci fa comprendere che la Franciacorta trova la sua
genesi nei fenomeni naturali del glacialismo. Se pensiamo
che già nei graffiti camuni è presente la volontà dell’uomo
di far corrispondere a dei “segni” un significato, questo
contesto territoriale, attraverso la propria stratificazione
storica, è in grado di documentare, in una completezza
unica la lunga storia degli insediamenti umani che,
partendo da un paesaggio agricolo pastorale, giunge fino
alla civiltà industriale.
Non essendo per formazione: né storico, né sociologo, né
archeologo, né economista, ho preferito iniziare il viaggio
da dove le architetture si manifestano non come singole
testimonianze, come ruderi o attraverso tracce
archeologiche; ma come insediamenti ancora riscontrabili
in una loro interezza, come dei veri e propri “sistemi
architettonici”.
E’ evidente che esiste una storia di lungo periodo
importante, che riguarda una preistoria, una protostoria e,
per il nostro contesto, una successiva romanizzazione del
territorio, tutta costruita sull’impalcato secolare che aveva
prodotto ricchezze agricole e commerciali:
antiche piste militari est-ovest, che si trasformano in aste
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mercantili capaci di intersecare fiumi e itinerari che ci
riconducono a nord nei sistemi vallivi.
La strada pedemontana è anche una linea di demarcazione
tra due diversi paesaggi; è il luogo congeniale per lo
scambio e il commercio di prodotti diversi che
provengono dalla valle e dalla pianura. Lungo questa
direttrice si attestano e si stratificano i sistemi
architettonici della Franciacorta.
Nella successione di immagini dai monasteri cluniacensi,
alle antiche pievi, ai castelli, alle ville rinascimentali, alle
nuove parrocchiali con i loro sagrati, alle architetture
neoclassiche della meteora vantiniana, fino alle
architetture dell’eclettismo – è possibile rintracciare una
materia plastica e docile come creta, nelle mani di uno
scultore: una rapida espressione d’architettura in grado,
secolo dopo secolo, di piegarsi, di flettersi, di curvarsi, di
rivestirsi con intonaci, di modificare le cornici che si
concludono nel cielo, di compiere metamorfosi e di
rigenerarsi con nuove figure, in grado ogni volta, di
scolpire il proprio tempo.
E’ lecito chiedersi cosa contraddistingue l’architettura di
questo contesto da territori vicini, anche confinanti. Per
rispondere a questo è necessario ricercare alcuni “valori
primordiali”. Una prima lettura dei caratteri originari è
possibile osservando il paesaggio, inteso come specifica
geografia dei luoghi, come una prima matrice perenne che
costruisce “l’eterno presente”.
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II. Il contesto come geografia dei luoghi. La roccia
madre, che a nord costruisce lo scenario della catena
alpina, determina un impalcato parallelo all’alba e al
tramonto del sole, con il quale ogni progetto d’architettura
deve necessariamente confrontarsi; è un primo
allineamento che determina vincoli e rispetti progettuali.
Questa linea di demarcazione, questa sponda nei confronti
della pianura, come una costa nei confronti del mare,
diventa e costruisce per il paesaggio lombardo-veneto,
delle vere e proprie “sacre sponde”, nel ruolo storico che
esse avevano come riviera di un mare antico.
Questo impalcato strutturale, costituito dalla catena
alpina, risulta ben visibile dalla bassa pianura; risalendo
dal mantovano, o dal cremonese, l’ampio campo
prospettico dell’immensa orizzontalità della pianura si
infrange sulla muraglia verticale dei monti, generando
un’immagine che ben configura la geografia dei luoghi di
questa fascia pedemontana.
I ghiacciai, con il dono dell’acqua, alimentano i fiumi che,
lungo i sistemi vallivi, scorrono nei laghi. Come in un
grande progetto idraulico, questi bacini naturali,
raccolgono e accumulano le acque necessarie
all’irrigazione della grande pianura.
Il territorio della Franciacorta si configura delimitate dal
corso di due fiumi, il Mella a ovest della città di Brescia e
dall’Oglio che, con la sua insenatura valliva, segna il
confine con il territorio bergamasco, lungo la convalle del
Sebino, caratterizzato dall’impronta dei colli morenici e
del monte Orfano.
Ai margini della catena prealpina, l’onda dei depositi dei
ghiacciai si è pietrificata nei colli morenici, creando una
diga naturale a fondo lago, determinando una zona di
territorio leggermente sopraelevata che investe parte della
fascia asciutta pedemontana. Nel sottosuolo scorre l’acqua
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che riaffiorerà più a sud, lungo la linea dei fontanili e
delle risorgive, così da tracciare nella pianura un altro
segno parallelo alla catena alpina che determinerà una
linea di demarcazione, fondamentale nella storia del
paesaggio agrario lombardo. Divisione non solo fisica,
geografica, ma strutturale, economica, sociale. E’ ovvio
che la fascia irrigua porti più fertilità e ricchezza alle
campagne: è qui che si insedia la grande proprietà
fondiaria, strutturata dal salariato, mentre più a nord, nella
fascia morenica, il territorio è suddiviso e frazionato in
piccole proprietà, organizzato con contratti mezzadrili.
Alla diversa dimensione e struttura del fondo, corrisponde
una diversa commisurata dimensione tipologica della
cascina.
Una linea di demarcazione, quella dei fontanili e delle
risorgive, contrappone due diversi paesaggi: quello a sud
nella bassa, caratterizzato da grandi cascinali, e quello
lungo la fascia pedemontana, in Franciacorta,
caratterizzato da piccole cascine.
Le colline moreniche, come un muro di un brolo gigante,
delimitano un grande semicerchio, generando due
spazialità teatrali come “natura agri”; una concava, “un
anfiteatro”, un invaso, verso nord, verso il Sebino, verso
la breccia valliva che si conclude sullo scenario della
catena alpina e una convessa a sud, come una passeggiata
sopraelevata verso l’orizzonte lineare dell’immensa
pianura, delimitata sullo sfondo dal profilo della catena
appenninica.
Questa duplice visione del paesaggio, verso le Alpi e
verso la pianura, costituì un punto di vista prediletto dei
pittori romantici di fine ‘700 ed inizio ‘800.
L’opera del Basiletti, testimoniava le valenze forti di
questo sito, tanto dal punto di vista ambientale che da
quello architettonico.
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Peraltro, è interessante notare come ci sia una doppia
interpretazione dell’ambiente da parte dei viaggiatori del
Settecento: quanti scendevano in Italia attraversando le
Alpi, arrivavano nella fascia dei laghi, ricevevano una
prima sensazione di paesaggio “italiano” dagli elementi
endemici propri della mediterraneità e, per contro, quanti
risalivano dalla pianura, provavano la sensazione di
trovarsi ai piedi di un paesaggio alpino.
Questa situazione di centralità tra diverse “geologie”
umane e geografiche, tra zone asciutte ed irrigue, tra la
direttrice delle maggiori città pedemontane e i percorsi
verso le valli attraverso gli antichi itinerari della
transumanza, caratterizzava la Franciacorta come un’area
di contatto tra diverse realtà culturali: ai piedi della civiltà
Camuna e nel bel mezzo tra Venezia e Milano.
L’insenatura valliva nord-sud del Sebino, come un fiordo,
è anche un canale del vento, dove il ritmo metodico delle
brezze, ideali per la vela, crea le condizioni ottimali per il
trasporto delle merci, dalla valle alla pianura. E’ quindi la
natura dei luoghi all’origine delle città porto, delle città
scambiatrici, delle città mercato, come Pisogne, Lovere,
Iseo e Sarnico, a far assumere alla Franciacorta con
Rovato, un’area di centralità degli scambi nord-sud, dei
diversi prodotti agricoli e artigianali.
Il grande emiciclo morenico e il veloce percorso
pedemontano
lungo
un
margine
frastagliato,
caratterizzano la linea di demarcazione pedemontana. Qui
anche il tracciato rigoroso e razionale della centuriazione
dovrà assumere un disegno che si plasmerà contro la forza
sinuosa di questa impronta preesistente.
Questo ruolo di centralità, tra un sistema di piste parallele
alla pedemontana e di percorsi che dalla pianura salgono
verso le valli, sono la premessa di un fitto sistema di
borghi policentrici che ruotano intorno alle città
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scambiatrici, generando situazioni di popolamento in una
zona asciutta, che trovano una risposta oltre che a questi
fatti macrourbanistici, a ragioni riscontrabili nel
patrimonio tipologico insediativo della cascina e della sua
struttura, ideate come investimento destinato a durare nel
tempo per diverse generazioni: patrimonio architettonico
configurato e rilevabile nel grande spessore delle partiture
murarie, nella presenza sistematica dei volti al piano terra,
nella costruzione dei pozzi.
III. I muri dei broli, pietre e ciottoli come materia
per le prime partiture murarie; primo pathos
architettonico, tra selve, paludi e demoni. E’ questa
geografia dei luoghi così esclusiva e singolare del
paesaggio lombardo dove se da una parte i ghiacciai
portano “il dono dell’acqua”, dall’altra la terra contiene il
“dono della materia”; è questa terra morenica che sembra
offrire all’uomo “la materia”: nel rito del dissodamento
dei campi si ripulisce la terra e si traggono come in un
raccolto sassi e ciottoli.
La morfologia delle pietre levigate dai ghiacciai, i sassi
delle morene, la loro resistenza e compattezza, il loro farsi
muri bonificatori del fondo agrario, il loro farsi case e
campi stabili, sono la caratteristica del contesto.
Sono insiemi di questi ciottoli arrotondati e lisci, come
microsculture di Erry Moore, che costituiscono i grandi
pieni delle muraglie di confine dei broli e delle brede;
muri che si trasformano in case medioevali, in rocche, in
castelli e pievi.
Sassi e ciottoli recuperati nell’opera di bonifica del
territorio sono anche i materiali che costruiscono e
riorganizzano i margini di un paesaggio agrario nei secoli
XI-XIII, caratterizzato dai campi chiusi in prossimità di
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piccoli borghi e dagli impalcati sopraelevati delle ripe,
nella riorganizzazione dei percorsi e delle geometrie dei
nuovi campi, sottratti alle selve.
I muri dei broli, nella loro funzione di recinto
costruiscono un margine tra campo chiuso e campo
aperto: al campo chiuso corrisponde un fondo
specializzato in vigneti, frutteti, orti; al campo aperto
seminativi e cereali inferiori come il miglio, il panico, la
segale, l’orzo.
L’immagine suggestiva dei muri merlati, visibili a
Gussago, a Rodengo e a Erbusco, trovano la loro ragione
nel costruire un’impalcatura pergolata, necessaria alle
colture specializzate all’interno del brolo, manifestando
anche in queste semplici costruzioni quella capacità
architettonica di conciliare utilità e bellezza.
Sono quindi i sassi e le pietre l’elemento base che
costruiscono un primo pathos architettonico; così
l’impiego di alcuni ciottoli, uniti in singoli mosaici,
compongono un campionario di esperienze cromatiche
espresse in una diretta crescita organica connaturata al
proprio sito.
Si generano variazioni sensibili, segnate dalla diversa
geologia del sito, dalla vicinanza di una specifica cava,
diversificando il muro di un borgo da quello confinante,
come alcune sfumature dialettali che cambiano non
appena ci si sposti da un paese all’altro.
Così, come il linguaggio dialettale ha una sua unicità con
molteplici sfaccettature, l’impalcato di queste prime
architetture organiche è legato da una comune cultura
materiale che produce murature contraddistinte dalla
diversa fisicità dei contesti.
Nel territorio della Franciacorta questa diversità si
manifesta in due fasce: quella settentrionale lungo il
percorso pedemontano, e quella meridionale, ai piedi delle
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morene. La prima è caratterizzata da un sistema di cave
locali di pietra e medolo, lungo l’itinerario: Cellatica,
Gussago, Rodengo, Valenzano, Ome, Monticelli,
Provezze, Provaglio e Iseo; la seconda, tra le morene e la
pianura, tutta costruita sul recupero del ciottolo
alluvionale, da Castegnato, Paderno, Passirano, Bornato,
Cazzago, Rovato, Coccaglio, Cologne, Erbusco, Adro,
Capriolo e Corte Franca.
Queste diverse zonalità, che coincidono anche con le
diverse pigmentazioni delle sabbie e delle calci,
caratterizza il momento della costruzione come atto di un
generarsi inscindibile dalla particolarità delle terre e dei
luoghi. La comprensione delle prime dimore va rapportata
a quel paesaggio medioevale fatto di pievi, castelli e
contrade, circondato da “selve e paludi”.
Una festa popolare straordinaria legata al rapporto tra le
“oscure selve” e “luminoso campo”, tra “paradiso e
inferno”, era la festa che ogni cinque anni si teneva il 15
agosto a Paderno. Dove la pala della Madonna condotta in
processione usciva dal castello, baluardo difensivo del
paese e percorrendo tutte le vie, cacciava il diavolo in
fondo alla “Contrada delle Selve” (diventata poi nella
tradizione popolare contrada del diavolo) come per
rispedire il demone nell’oscurità infernale delle selve.
«Alla Palazzina, come in ogni altra casa, chiesa o
recinzione lungo le strade dei dintorni, le murature furono
costruite connaturandole al luogo in ciottoli alluvionali.
Le più antiche, incorporate nell’ala maggiore della casa, si
potrebbero far risalire al primo formarsi dei campi sottratti
alla foresta, alle origini della festa di fine inverno, di cui
la casa non doveva essere estranea, trovandosi nei pressi
del luogo sacro, dove i contadini celebrarono un mistero
cresciuto nell’anima, man mano che abbattevano gli alberi
e aumentava la paura del sacrilegio.
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Di lontano, d’un tratto fermo sulle agili zampe stava a
guardare i poderosi tronchi divelti e le intricate fronde che
ne erano state il vello vigoroso. Minaccioso gigante,
ottuso caprone dagli occhi cavi, grinzosi come cortecce
d’albero, lo spirito delle selve, simile ad un vento
impetuoso, si era poi dileguato. Ma per notti e notti lo si
era udito belare il proprio dolore e il rabbioso sentimento
della vendetta.
Se non si fosse placata, l’ira del Dio avrebbe privato
uomini e terra di ogni fertile umore.
Del sacro timore i contadini serbarono ancestrale memoria
fino a settant’anni fa e rinnovarono ad ogni primavera un
esorcismo sensuale, una festa, che sopravvisse anche alla
sostituzione d’identità del Dio oltraggiato…». (ENRICO
JOB, La Palazzina di villeggiatura, Palermo, Sellerio
Editore)
IV. Lungo antichi itinerari si attestano i primi
sistemi architettonici. La Pieve. La Pieve inizia a
diffondersi dal IX secolo con i Carolingi e i Franchi. La
Diocesi si divide in circoscrizioni a capo della quale c’è la
Pieve. La Pieve è la grande parrocchia delle campagne
intorno alla quale si riunisce il popolo fedele di più borghi
che si identifica nella specificità della Pieve.
La strada pedemontana è quindi una linea di
demarcazione tra due diversi paesaggi; è il luogo
congeniale per lo scambio e il commercio di prodotti
diversi che provengono dalla valle e dalla pianura. Lungo
questa direttrice si attestano le pievi. Gli insediamenti
delle Pievi di Palazzolo, di Erbusco, Coccaglio, Bornato,
Gussago e Iseo con la loro giacitura est-ovest, rimarcano
l’importanza di questa strada.
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Le Pievi, queste grandi moli di pietra disposte
ordinatamente lungo la strada, assumono, oltre alla loro
funzione religiosa, un ruolo di matrice architettonica nel
tracciare con la loro giacitura est-ovest, un ideale
parallelismo per la costruzione dei nuovi edifici, tutti
rigorosamente allineati sullo stesso asse.
La Pieve assume quindi per il popolo il significato di una
sorta di “casa madre”. L’essenza dell’architettura di
questa opera è espressa dalla facciata, che pietrifica
all’esterno la sezione interna dell’aula unica e il profilo si
infrange nel cielo con le falde rasate, mostrandone tutta la
potenza volumetrica, costruendo di fatto un riferimento e
una regola costruttiva.
L’orditura lignea della copertura, le pietre e i pezzi
speciali, perfettamente squadrati, impiegati negli angoli
degli edifici, o per la torre campanaria, determineranno
dei sistemi costruttivi che ritroveremo sistematicamente
nel patrimonio edilizio.
La Pieve è quindi il riferimento ordinatore di un
paesaggio architettonico.
Nella sua funzione specifica, il grande tempio ad aula
unica costruisce la cornice delle cerimonie religiose e il
percorso cristiano si focalizza nell’architettura della pieve,
dal battesimo alla sepoltura, mentre i grandi slarghi posti
attorno al campo santo segnavano la centralità e la focalità
dell’architettura nell’attestarsi anche come spazialità
mercantile nei confronti dei piccoli borghi limitrofi.
La Franciacorta è un insieme di piccoli borghi che
iniziano con l’attestarsi intorno alle pievi e che,
successivamente, finiranno con il consolidare sempre più
le città scambiatrici, le città mercantili, come Gussago e
Rovato, e le città porto, come Iseo.
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V. La fortificazione della campagna dai primi recinti
all’incastellamento nel paesaggio morenico della
Franciacorta. L’origine del borgo medioevale. I
villaggi preesistenti si sono attestati e spesso trovano un
riferimento policentrico nella Pieve.
Alcune di queste piccole realtà, come Borgonato e
Timoline, fanno riferimento a proprietari che costruiscono
dei borghi nel periodo Carolingio.
Dal X secolo in poi e nei due secoli successivi si
costruisce in una fitta rete l’incastellamento del paesaggio.
Nel XI secolo diventa un vero e proprio sistema murato e
il borgo si affianca al castello, trovando in esso
un’immediata protezione.
Tra XI e XII secolo tutti i villaggi si trovano affiancati ai
castelli, e i pochi borghi privi di castelli si trasformano in
una vera e propria struttura incastellata.
La storia di lungo periodo ci racconta di come questo
territorio, proprio per essere attraversato da piste e
itinerari che univano le principali città del nord, da
Aquileia a Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Brescia,
Bergamo, Milano, fu oggetto di secolari invasioni e
incursioni.
Questo doveva avere generato e consolidato una linea di
demarcazione difensiva del territorio, rilevabile dal fitto
sistema di rocche e castelli costruito principalmente
lungo i due itinerari.
Il primo era insediato lungo l’itinerario est-ovest, BresciaBergamo, che dalla città attraversava Paderno, Passirano,
Bornato, Cazzago, Rovato, Coccaglio, Spina, Erbusco,
Capriolo, Palazzolo; mentre il secondo sistema difensivo
era posto lungo la valle dell’Oglio, dal ruolo strategico di
Palazzolo a Mussiga, Capriolo, Vanzago, Paratico, per poi
continuare lungo il Sebino a Clusane e Iseo. A questo
sistema si opponevano, sulla sponda bergamasca,
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Tagliuno, Caleppio, Rampino, Mentecchio, Trebecco,
Merlo e Sarnico.
Chiaramente l’incastellamento in forme differenziate è
presente in tutti i borghi, anche in alcune case sparse nella
campagna, dove, come annota nel “Le Dimore Bresciane”
Fausto Lechi «costruire un castello sarebbe stato troppo
impegno e poi non era necessario; al piccolo signore
bastava una torre nella quale asserragliarsi». L’idea di un
ricovero sicuro perdurerà per tutto il quattrocento, fino
all’inizio del cinquecento.
Il Crescenzio nel suo “De Agricoltura”, tradotto per
Francesco Sansovino in Venezia nel 1564, consiglia
infatti, ancora, al padrone isolato in un fondo, di munirsi
almeno di una torre nella quale «si possa ritirare con i
lavoratori» riproponendo quindi nella campagna
l’esempio collaudato del coevo palazzo-fortezza cittadino.
Il villaggio si affianca alla rocca o al castello trovando in
esso un sicuro rifugio temporaneo; queste abitazioni sono
insediate sul tracciato principale, generando la crescita del
borgo lungo la strada e trovando nel castello e nel suo
spazio di pertinenza, l’elemento e lo spazio fisico che si
diversificano dall’agglomerato urbano. Coccaglio esprime
questo tipo di insediamento.
Il castello di Paderno è l’espressione di un insediamento
più complesso, dove le abitazioni si dispongono, da una
parte lungo le direttrici principali, e dall’altra su una
maglia secondaria che permette di raggiungere
velocemente la rocca difensiva, che è, con la piazza,
centro fisico e di attività dell’agglomerato.
Il castello e la rocca sono un po’ come la città medioevale,
insediati nelle posizioni più adatte per il controllo del
territorio, alcune volte sfruttando anche leggeri dislivelli,
come nel caso di Passirano, altre volte, invece, diventano
insediamenti che caratterizzano lo spazio circostante per
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la capacità di instaurare con il territorio una relazione
spaziale, come nel caso della fortezza della SpinaCologne.
Vi è, comunque, al di là di queste osservazioni sulla
tecnica degli insediamenti, una certa gerarchia tra rocca e
castello, tra castello e castello.
Nel castello di Rovato, nelle sue case ponte, nelle sue
strade porticate, nelle sue botteghe e all’esterno nel suo
borgo agricolo, si legge l’aspirazione di questo
accampamento difensivo a farsi città del territorio
circostante.
Il castello, con la sua configurazione, con il grande recinto
quadrangolare, con le torri d’angolo, con il rivellino, il
ponte d’ingresso, il fossato, la piazza d’armi, le grandi
murature piene, i contrafforti, le bastionature, determinerà
una struttura tipologica che sarà in grado di influenzare
sia il panorama delle ville del cinquecento che alcune
costruzioni
dell’eclettismo,
come
vedremo
successivamente.
VI. I primi borghi e le prime regole architettoniche.
La resistenza materica, biologica delle costruzioni,
determina un necessario rinnovo edilizio delle murature
che ci permette di leggere in sequenza stratigrafica le
diverse stagioni architettoniche.
Questo rinnovo edilizio ciclico, che coincide con i diversi
periodi storici e culturali, è rilevabile negli edifici religiosi
sistematicamente ogni due secoli.
Alle Pievi edificate dalla cultura e rinascita Carolingia nel
secolo IX, fa seguito il romanico del XI secolo, mentre nel
XIII secolo si costruiscono le prime Parrocchiali
all’interno del borgo murato. Solo nel XV secolo si darà
luogo al rinnovo edilizio e al rifacimento delle antiche
30.
31.
21
Pievi, per concludersi puntualmente due secoli dopo con
la Controriforma di San Carlo Borromeo (come avremo
modo di approfondire nei capitoli successivi).
E’ evidente che il tema del rinnovo edilizio coinvolgeva
di volta in volta anche gli edifici del borgo, e la ricca
stratificazione degli edifici pubblici religiosi contaminava
e accresceva, di conseguenza, una cultura materiale
dell’edificare, che secolo dopo secolo si era sempre più
raffinata.
Così il sapiente impiego di alcune pietre d’angolo,
modellate per sottolineare i punti più importanti di un
edificio, sono la trasposizione di un linguaggio colto
dell’architettura in una sua rappresentazione dialettale.
Alla sapienza costruttiva dell’edificare muri in pietra
corrispondono strategiche logiche insediative: nella scelta
altimetrica del sito per la costruzione dei castelli, nella
distribuzione policentrica di borghi trovando lungo i segni
della centuriazione dell’appoderamento i fili per il
tracciamento delle nuove case, sia lungo le direttrici
storiche est-ovest, sia specialmente lungo la strada
pedemontana prolungando gli assi nord-sud, sottolineando
una connessione diretta con le valli.
Le contrade che risalgono verso nord, di Gussago,
Padergnone, Mertignago, Saiano, Badia, Sergnana,
Provezze, sottolineano l’attestarsi di queste frazioni lungo
gli itinerari della transumanza, lungo i sentieri che dalle
pendici della riviera conducevano agli alpeggi. Questi
edifici lineari insediandosi ortogonalmente alla strada
nord-sud mantengono un parallelismo con tutti gli edifici
posti sulla strada est-ovest, sfruttandone rigorosamente
l’asse eliotermico.
Nel periodo medioevale, i sistemi architettonici già
presenti delle pievi, dei monasteri, dei castelli e delle
contrade, ci mostrano come i sassi e le pietre siano
32.
33.
22
l’elemento base delle prime architetture che ben
identificano il paesaggio della Franciacorta.
Osservando quello che doveva essere “l’unicum” di
questo paesaggio, così come doveva apparire nel periodo
medioevale, sembra quasi che la “Natura naturans” abbia
suggerito precise regole architettoniche, riscontrabili in
analogie sostanziali, tra la dimensione domestica della
dimora o i volumi eccezionali di un castello, o di una
chiesa ad aula unica; come per esempio i profili di questi
edifici che finivano sempre rasati, senza gronde
aggettanti, soprattutto nei fianchi est-ovest, evidenziando
la razionalità della costruzione nei confronti del paesaggio
naturale, sottolineando il peso del volume nella delicata
conclusione con il cielo. Dettagli e valori primordiali che
hanno in gran parte coinvolto le sensibilità artistiche, dai
pittori dal Settecento ai post-macchiaioli.
VII. Le contrade. Abbiamo visto come le contrade che
risalgono verso nord rimarchino i segni della
centuriazione romana e sottolineino l’attestarsi di queste
frazioni lungo gli itinerari della transumanza. Queste sono
le contrade più antiche, che costruivano nelle loro logica
insediativa un sistema architettonico in totale armonia con
le architetture delle Pievi.
L’incastellamento del paesaggio aveva invece finito con il
consolidare delle contrade lineari lungo l’asse est-ovest,
con la strada a nord e un lotto gotico a sud, perimetrato da
muraglie. Questo sistema insediativo costruisce un
impalcato urbano che caratterizza lo scenario dei borghi
della Franciacorta, dove spesso queste contrade lineari si
deformano sinuosamente per ricalcare l’impronta delle
balze moreniche (come Bornato e Villa Erbusco).
Le contrade nelle loro vicissitudini storiche sono state
34.
35.
23
oggetto di considerevoli trasformazioni dovute alle
crescite e alle espansioni che si autogenerano all’interno
dei lotti gotici, spesso legate all’esigenza funzionale ed
alle necessarie integrazioni di nuove spazialità. Questo
avverrà principalmente dall’Ottocento in poi con il
consolidamento all’interno della cascina della trattura del
baco da seta. .
Fino a tutto il periodo settecentesco le costruzioni si erano
sempre riedificate sul sedime di impianti preesistenti, con
costruzioni di portici nuovi, in aggiunta all’abitazione, ed
in rari casi con sopralzi di solai e di logge per
cambiamenti di destinazione d’uso, come nel tema della
palazzina di fine Settecento, inizio Ottocento che si
stratifica sul sedime di impianti medioevali preesistenti,
esprimendo con la costruzione del nuovo manufatto la
volontà di incastonare una palazzina per la residenza
borghese in continuità con gli insediamenti rurali che
caratterizzavano la contrada. Questo uso commisurato del
suolo, nel senso più profondo di risparmio del territorio,
permetteva agli impianti e quindi al paesaggio urbano di
relazionarsi in modo ideale nei confronti del paesaggio
agrario.
Le mappe napoleoniche sottolineano come sia ancora
visibile all’inizio dell’Ottocento l’impianto delle contrade
storiche. Nella lunga muraglia piena sul lato nord si
aprono gli ingressi delle case e le piccole finestre alte del
piano terra mostrano la chiusura verso la strada carraia,
consentendo la ventilazione degli edifici da nord a sud. Il
fronte meridionale completamente aperto con portici e
logge evidenzia l’assunto di un impianto inequivocabile
nei confronti della geografia dei luoghi, sia nella giacitura
degli edifici paralleli e chiusi verso la catena alpina a
nord, sia nelle strutture aperte miranti alla massima
esposizione solare lungo l’asse eliotermico a sud.
36.
37.
24
Chi abitava queste case, con le finestre dei piani superiori
a nord, si relazionava con il margine pedemontano e
trovava nel monte Guglielmo, spesso innevato, un punto
focale. Mentre a sud i portici e le logge si affacciavano su
un cortile, aperto verso un piccolo brolo, un’ortaglia,
posta ad una quota inferiore dove questi piccoli broli
digradavano in continuità con i grandi broli delle ville che
nei secoli successivi avevano saputo incastonarsi
sapientemente tra il paesaggio urbano preesistente e il
paesaggio agrario circostante, creando un’aggiunta
pregevole al corpo storico. Questo sguardo a sud, questa
vista oltre i broli delle ville, si concludeva nella sua
massima profondità prospettica nel paesaggio agrario
dell’immensa pianura.
Alla razionalità insediativa di questi impianti
corrispondeva una sapienza costruttiva che tramandata di
generazione in generazione aveva accumulato una cultura
materiale millenaria in grado di produrre manufatti di
grande qualità in cui si conciliano ammirevolmente utilità
e bellezza.
Rilevante l’uso del vòlto, sistematicamente presente nelle
contrade lineari di Paderno, come efficace sistema di
controventatura, per garantire nel tempo la capacità di
durata del manufatto ma anche del capitale-lavoro in esso
investito. Il rigoroso impianto strutturale delle contrade,
sembra generato da esperienze di popoli che hanno
attraversato eventi sismici. In questa storia di lungo
periodo viene spontaneo chiedersi come fossero le dimore
primitive.
Le vòlte più antiche, quelle semplici a botte a tutto sesto,
sono spazi scultorei, dove è talmente avvertibile il peso
della materia che ricordano più una cavità naturale che
uno spazio architettonico.
L’antica dimora ricomponeva con le sue vòlte una sorta di
38.
39.
25
“caverna”, un ventre primordiale come memoria dei
primitivi insediamenti; allo stesso modo del bimbo
smarrito che cercando rifugio in una tana, torna
inconsapevolmente al grembo materno.
E’ probabilmente partendo da vòlte di questo tipo, che
avevano resistito e superato eventi sismici, che si è andato
moltiplicando successivamente l’uso di esse nella legatura
degli edifici rilevabili sistematicamente nei piani terra
delle contrade.
VIII. Dal piccolo monastero cluniacense alla grande
abbazia. Il sistema architettonico delle Pievi aveva
consolidato la Franciacorta come un’area di contatto tra
diverse culture, in questa zonalità strategica nel costruire
centri nodali capaci di scambiare lungo direttrici est-ovest
ma anche nord-sud, che troviamo l’attestarsi intorno al
1100, del sistema monastico cluniacense; da San Paolo
D’Argon nella fascia bergamasca a Provaglio e Rodengo
in Franciacorta.
I monaci cluniacensi introducono nuove tecniche nella
bonifica, nel recupero, nella semina; sono maestri nel
controllo delle acque, sono praticamente in grado di
operare una significativa trasformazione del paesaggio
agrario, che comporterà mutazioni fondiarie e alimentari,
ma anche un nuovo sistema di scambi.
I due principali insediamenti in Franciacorta, quello di
Provaglio e di Rodengo, testimoniano bene due differenti
momenti che queste architetture rappresentano, il
passaggio dal piccolo monastero cluniacense alla grande
abbazia. Il Monastero di San Pietro in Lamosa riassume la
fase iniziale dell’insediamento cluniacense, nel percorrere
il piccolo chiostro all’interno si avverte la matrice
40.
41.
26
domestica del Peristylium di una domus romana.
L’impianto della Badia di Rodengo, nella sua ricca
stratificazione secolare, mostra la capacità che il
monastero ha avuto nel relazionarsi con un ampio
territorio della Franciacorta; nel costruire un fitto sistema
di cascine e di conventi creando piccoli centri
organizzativi all’interno dei centri abitati e nuovi cascinali
in campagna, per una nuova gestione razionale del lavoro
sul territorio. Si innescano relazioni tra cascinali,
conventi, monasteri di campagna, monasteri di città.
All’immagine simbolica della Pieve si sostituisce
l’immagine monumentale del monastero nella campagna
di Rodengo, caratterizzato da più corti, chiuse a chiostro.
Tutto il complesso sembra voler rimarcare, con la
sovrapposizione dei percorsi, con le crocere, la duplice
relazione di un impianto che si attesta lungo il rivo del
Gandovere sull’insenatura dell’antica via dei mulini e dei
magli, all’incrocio con la via dei sistemi conventuali che
conduceva nella città di Brescia a Santa Giulia.
Come per le Pievi e i castelli, anche il monastero con la
magnificenza dei suoi spazi, la grande sequenza delle
infilate prospettiche, i portici e le logge dei chiostri come
gallerie distributive, strade coperte e grandi spazialità in
duplice altezza, granai, cantine, ghiacciaie per lo
stoccaggio e la conservazione dei prodotti agricoli; tutto
concorre a generare il monastero come modello
architettonico che si rifletterà di conseguenza nel
patrimonio edilizio.
42.
43.
27
IX. Le
residenze
della
prima
borghesia
imprenditoriale tra Quattrocento e Cinquecento. Nel
Quattrocento il palinsesto della Franciacorta è costituito
da una forte presenza monastica che aveva sempre più
accumulato ricchezze dal recupero dei terreni paludosi e
dalle selve; è dall’afflusso, lungo gli antichi itinerari della
transumanza, di una prima classe borghese che si
insedierà in questo territorio rincorrendo le fortune
raggiunte dai monasteri.
Questa nuova classe imprenditoriale quattrocentesca, da
un lato vuole sostituirsi agli antichi insediamenti
monastici, dall’altro, usa l’essenza dell’architettura dei
monasteri per disegnare le nuove facciate delle proprie
abitazioni. L’ordine compositivo all’interno del chiostro,
con un percorso porticato al piano terra ed una loggia
aperta, sovrapposta, al piano superiore, viene proiettato
all’esterno caratterizzando i prospetti di queste nuove
dimore.
Sono praticamente le sezioni interne dei chiostri dei
monasteri che si ribaltano all’esterno a costruire i
prospetti di questa nuova classe imprenditoriale.
L’architettura monastica è quindi una matrice di queste
nuove architetture, cui suggerisce con le loggette aperte al
piano superiore un impalcato compositivo che
caratterizzerà anche una serie di edifici semi-pubblici,
dove avvenivano scambi e integrazioni funzionali legate
al mondo della produzione.
Proprio per la posizione strategica di questo territorio
anche questo sistema architettonico è diffuso in tutti i
borghi del contesto e partecipa ampiamente all’impalcato
che costruisce la ricca stratificazione architettonica della
Franciacorta.
44.
45.
28
X. La rifeudalizzazione del paesaggio agrario tra
Cinquecento e Seicento. Il veneziano Alvise Cornaro
riporta in un suo scritto che « in verità l’agricoltura del
retrare (cioè del recupero dei terreni paludosi) è la vera
alchimia per ciò che si vedde che tutte le grandissime
ricchezze dei monasteri e di qualche privato cittadino si
sono fatte per questa via, e non solamente si vede le
private persone, ma le città esser fatte grandi e potenti per
questo mezzo. Non era il Mantovano palude? » Si
interroga il Cornaro, « non era il Ferrarese il medesimo?
Il paese di Ravenna e di Cervia? ».
Questa consapevolezza ormai secolare che dai cluniacensi
alla borghesia quattrocentesca aveva testimoniato la
capacità di trarre ricchezze dalla campagna, unita alla
grande trasformazione urbanistica operata dalla
Repubblica Veneta nel territorio, intervenendo con grandi
opere idrauliche, con una prima razionale sistemazione
della rete stradale e l’introduzione di nuove specie
vegetali come il gelso e il riso, offrirono una grande
opportunità al capitale veneziano di stanziarsi in
terraferma.
In questo periodo storico, il cinquecento, l’esempio di
Venezia che sposta nell’entroterra i propri investimenti,
costituisce la premessa agli insediamenti delle ville nella
campagna.
Così come la nobiltà veneziana aveva idealmente
trasportato il palazzo del Canal Grande nell’entroterra
veneto, con il sistema delle ville del Palladio, la nobiltà
bresciana si decentra tra i borghi del paesaggio agrario
della Franciacorta.
Le matrici dei palazzi che costruiscono la “Magnifica
Città”, migrano e si trasferiscono in campagna. La villa è
il centro direzionale della grande manifattura agricola, ma
è anche il luogo dove si contempla direttamente il
46.
47.
29
risultato di un intenso lavoro: spesso l’impianto delle ville
è posto in luoghi sopraelevati, (come nei casi di Calino,
Bornato, Cazzago, Erbusco), dove questi grandi volumi
basamentati formano in un vasto raggio paesistico, una
sorta di aereo sistema insediativo.
Le nuove architetture delle ville si sovrappongono nel
paesaggio all’immagine dei castelli, la loro architettura
aperta sostituisce il volume pieno e chiuso delle rocche
difensive; alla matericità delle grandi muraglie grigiastre
in ciottoli e pietre si contrappone la nuova luminosità
dell’intonaco; in luogo del piccolo podere vicino al
villaggio o al monastero, in luogo delle selve e delle
paludi che costruivano la scenografia naturale circostante
il castello, si stratifica un nuovo paesaggio agrario
organizzato dalla villa.
La costruzione delle ville nella campagna della
Franciacorta aprirà una stagione architettonica che
dall’inizio del Cinquecento giungerà alla fine del
Settecento. Questo lungo periodo si configurerà in un fitto
sistema di insediamenti, caratterizzato da molteplici fasi
architettoniche proprio perché sono diverse le matrici che
di volta in volta concorrono alle nuove forme progettuali.
Così mentre le nuove dimore del Quattrocento con portici,
logge e colombaie sembrano germinare dalle matrici dei
monasteri, il panorama edilizio del Cinquecento apparirà
fortemente legato all’immagine del castello, nella sua
essenza volumetrica, nei grandi pieni delle facciate, nelle
torri laterali, nei contrafforti e nei ponti d’ingresso, nei
basamenti, nei fossati. Esempio significativo l’insieme
architettonico di palazzo Porcellaga a Rovato.
Le numerose architetture presenti nel paesaggio della
Franciacorta in questo primo periodo mostrano il loro
ancoraggio alla matrice del castello e costituiscono di
fatto anche la testimonianza di un contesto architettonico
48.
49.
30
in grado di dialogare con le proprie preesistenze.
Successivamente, nel Cinquecento avanzato e nel
Seicento, l’influenza della villa palladiana, nella sua
composizione più classica, contaminerà anche il
repertorio architettonico della Franciacorta. L’espressione
colta del palazzo sente il bisogno di uno spazio immediato
che rifletta nell’ambiente naturale le raffinate
composizioni delle facciate. Il giardino costituisce quindi
una ribalta necessaria alla espressività della nuova dimora,
diventando al contempo architettura. Qui le matrici si
diversificano: in alcune ville è evidente la contaminazione
palladiana del corpo centrale con le barchesse, come in
villa Lechi a Erbusco e in villa Calini a Cologne; in altre è
più visibile l’impalcato gradonato e ascensionale del
rinascimento toscano e romano, come in villa Togni e
palazzo Richiedei a Gussago, e in palazzo Bettoni a
Cazzago.
La tipologia della villa spesso si apre sulla grande
proprietà, disegnando prospettive che costruiscono un
nuovo paesaggio, come i viali che si diramano da villa
Lechi a Erbusco, la scalinata di villa Rossa a Bornato o le
belle linee prospettiche che salendo la collina collegano
Palazzo Fassati alla Tesea nell’area di Passirano.
I nuovi caratteri insediativi sperimentati nelle ville venete;
con il loro insediarsi lungo le vie d’acqua, integrandosi
con un progetto idraulico dal quale trarre utilità e decoro
(come nelle ville palladiane l’acqua scorreva nelle cucine,
nelle lavanderie, nelle scuderie, nei laghetti-peschiera,
nelle fontane, nei giardini e nei broli): tutto questo
rappresentò per la villa di fine Cinquecento inizio
Seicento un nuovo modello insediativo.
E’ interessante notare come una descrizione di Agostino
Gallo del 1569, parlando della propria residenza di
Poncarale nel bresciano, illustra tutte le scenografiche
50.
51.
31
spazialità che compongono la nuova residenza all’interno
di un trattato che, sembra preso a prestito dai progettisti
del tempo.
«Avendo il giorno seguente pranzato messer Giovanni
Battista Avogadro con messer Cornelio Ducco sotto la
loggia accanto alla porta del giardino, e volendo ragionare
ancor dei piaceri della villa, partiti i servi, gli parve
d’incominciare.
Ora che così soli abbiamo finito di mangiare, mi sarà caro
che voi messer Cornelio mi diciate ciò che vi è parso di
quanto avete veduto dopo i ragionamenti di ieri; perché
poi intendo di parlarvi di cose, che di tempo in tempo
faccio in questa villa.
CORNELIO: non posso se non lodare la musica, la
modestia, e i ragionamenti che ieri ho sentito dai vostri
compagni; e non meno le belle stanze, i giardini e
peschiere che mi faceste vedere nella terra. Lodo poi la
strada del mulino, che stamane abbiamo goduto con la
bellezza che ella porge per essere dritta, lunga, e da ogni
lato vaga d’ombra, accampata da quel soave mormorio
che fa l’acqua della Mora continuamente nel fare correre
velocemente sei ruote, che servono al mulino, alla rasica e
alla macinatoria. Lodo alla stessa maniera tutto questo
territorio, per esser dotato di tante buone cose. Onde è
degno meritevolmente, che egli sia chiamato; il bel borgo
di Poncarale.
GIO. BATTISTA: avendovi da dire più cose, è bene che
da qui ci alziamo, e che andiamo sotto a quell’alta
quercia, dove godremo la grotticella di bei lanzi, e
colonnata da gelsomini.
CORNELIO: io vi seguirò fino in cima al monte Baldo (se
così bisognasse) per udire le vostre parole, che molto mi
allettano.
GIO. BATTISTA: che dite voi, così andando, in questo
52.
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32
pergolato, vi pare che egli sia posto, e fabbricato con
ragione?
CORNELIO: vi giuro, e senza alcuna adulazione, che io
non so d’ove ve ne sia uno di lunghezza simile, di
larghezza, di altezza e di bellezza.
GIO. BATTISTA: nello stesso modo che cosa vi pare di
questo orticello, che l’accompagna tutto a mezzogiorno
con questa bella prospettiva?
CORNELIO: chi non dovrebbe ammirare benissimo
l’artificio che avrete usato nell’aggiustare le tante belle
casse di cedri, di limoni, e di aranci; e non meno i bei vasi
pieni di mortella, di maggiorana, di basilico, di garofani,
di viole e di altre erbe gentilissime e odorifere, che non
una cosa alcuna ne impedisce l’altra, ma neanche i viali
ben slegati?
GIO. BATTISTA: possa che ragionando così siano
pervenuti a capo; senza che entriamo nella sala di questa
colombaia, fermiamoci un poco in mezzo a questa
porticella, poiché l’occhio nostro trapassa questo
pergolato, la loggia, il cortile, e vede quanti passano di
rimpetto alla porta per il via.
CORNELIO: certamente che questa è una prospettiva
ammirevole.
GIO. BATTISTA:
poi che l’abbiamo gustato, e
considerato quanto è bella, e lunga questa vista,
voltiamoci in su andando dietro a questa peschiera così
ragionando passo per passo, e considerando di mano in
mano la bellezza di questi alberi fruttiferi piantati a
misura, e la meravigliosa vaghezza di questi posto pieno
di tante diversità di fiori bellissimi; ammirando grazie a
Dio la moltitudine di pesci che si riposano in così
bell’ordine sotto l’ombra di quella vigorosa siepe.
CORNELIO: pare che questi pesci si siano così disposti
per guardarci, come se aspettassero qualche cosa da noi.
54.
55.
33
GIO. BATTISTA: voi appunto non vi ingannate di questo
che dite. Che se fosse qui il nostro delfino vedreste
stupendi atti che egli farebbe, e non per altro, che per
avere del pane.
CORNELIO: dunque voi avete in questa peschiera un
delfino? Quasi non lo posso credere.
GIO. BATTISTA: la verità è che qui abbiamo una carpa
grossa e forte di 50 libbre: il quale la chiamiamo delfino, e
egli intende così, e viene; perciocché, siccome per natura
ogni delfino si compiace di stare appresso agli uomini,
così questo pesce matto gode di stare ove ode, o vede
gente; e generalmente fa questo, quando verso sera corre
qua e là, prendendo il fresco per modo di gioco: perché
mentre dura l’eccessivo caldo non compare, ma dimora
laggiù (come credo) in certe caverne, quasi in capo alla
peschiera… ». (AGOSTINO, GALLO, Le venti giornate
d’agricoltura et dé piaceri della villa, Brescia, 1569)
XI. La grande epopea delle ville tra Seicento e
Settecento. “Le Dimore Bresciane” di Fausto Lechi,
dedicate al seicento e settecento, testimoniano bene, come
questi due secoli diano continuità a quella grande epopea
di ville rinascimentali che avevano investito e
caratterizzato tutto il cinquecento.
E’ uno straordinario e ricchissimo sistema architettonico
che invade, travolge e trasforma tutti i borghi della
Franciacorta.
Si costruisce nel territorio un fittissimo palinsesto
architettonico e stilistico, difficilmente rilevabile per
quantità e qualità in altri contesti territoriali.
E’ evidente che una così ricca stratificazione
architettonica e stilistica che dura per più di tre secoli, dia
luogo, secondo diverse realtà microurbanistiche, a una
56.
57.
34
serie di particolari sfumature e riflessioni, tutte
convergenti, nel mostrare come questo sistema
architettonico sia in grado di creare un grande valore
aggiunto al corpo storico e architettonico preesistente.
Abbiamo visto come “la villa” nel cinquecento in
Franciacorta sia fortemente condizionata dalla matrice del
“castello” e solo nel seicento il tema della villa viene
affrontato e risolto secondo intenzioni più auliche,
generando configurazioni progettuali che sono in
continuità con il sistema delle ville Palladiane; ne
costruiscono testimonianze significative: Palazzo Lechi
già Martinengo a Erbusco, Villa Duranti a Coccaglio,
Palazzo Soncini già Fenaroli a Provezze, Villa Togni già
Averoldi a Gussago.
Per l’insediamento della villa, come riporta con chiarezza
Ruggero Boschi nel suo capitolo “L’architettura della
villa nel Veneto del Cinquecento” (Agostino Gallo, in
Cultura del Cinquecento):
«Si sceglieranno posti rilevati e non a fondo valle, non
vicino ad acque stagnanti o zone umide, sia per motivi di
salute sia per la conservazione dei grani; bisognerà evitare
le zone d’ombra e le zone troppo soleggiate e soprattutto
tenere a mente le considerazioni già svolte per le città
perché, afferma Palladio con una similitudine
sorprendente e significativa «la città non sia altro che una
certa casa grande, e per lo contrario la casa una città
piccola» sottolineando così la caratteristica complessa
della sua concezione della villa come codificazione di un
atteggiamento già spontaneamente sperimentato e
realizzato. Un atteggiamento che, secondo il Palladio,
altro non è che il ritorno agli schemi antichi e la
riproposizione della casa agreste vitruviana che lo stesso
riporta come descrizione e come grafico alla fine del suo
secondo libro.
58.
59.
35
La villa del Cinquecento diviene quindi il centro
dominante di tutto l’ambiente che da naturale si va
trasformando in costruito sottoposto ad una profonda
azione «civilizzatrice»; gli elementi della natura,
topografia, vegetazione, acqua, terreno, tutto viene
modificato secondo principi architettonici in senso lato
con lo scopo, nel suo complesso, di proporre una
impressionante e clamorosa autorappresentazione
dell’uomo esaltante con grandi virtuosismi la sua
padronanza sulla natura. Così come nella minuziosa opera
di dominio relativa al giardino (architettonico), al brolo,
alla casa, ma alla stessa campagna si manifesta la
concezione
antropocentrica
rispetto
all’universo:
l’attrezzatura dell’ambiente diventa la rivendicazione di
un totale rinnovo celebrativo destinato alla pubblica e
privata rappresentazione del privilegio».
Questo schema della villa Palladiana, nella sua struttura
tipologica di villa – barchessa – cascina, viene ripreso in
Fanciacorta nel seicento in maniera differenziata.
Tutte queste ville, stanziate in zone collinari, hanno al
loro intorno, o nelle immediate vicinanze, delle cascine,
spesso già esistenti nel borgo. Questo sistema più
articolato e decentrato richiede meno imponenza alla villa.
Nelle zone pianeggianti la definizione dei patti agrari
richiede invece un accentramento di funzioni nella villa
che assume così le dimensioni imponenti, quasi un borgo;
è il caso della Baitella tra Ospitaletto e Castegnato.
Un’altra significativa trasformazione microurbanistica che
il sistema delle ville è in grado di operare in un borgo al
piano è lungo la strada che dalla piazza castello scende
verso la nuova parrocchiale a Paderno, generando una
duplice capacità di disegnare nuove assialità prospettiche,
in grado di rinnovare un paesaggio e di ribadire una
continuità con tutto il copro storico, architettonico e
60.
61.
36
urbanistico preesistente.
Tutte queste architetture riprendono un parallelismo con
l’impianto storico delle contrade e del castello a nord, ma
anche con la nuova parrocchiale a sud; ribadiscono la
giacitura est-ovest dell’edificio, ripropongono i nuovi
ordini architettonici dei portici con sovrastanti gallerie
chiuse al piano superiore, rigorosamente orientate verso la
massima esposizione solare.
La sequenza di questi palazzi genera una “via
nuovissima”, la contrada Gabbiano, che sottolinea la
grande epopea delle ville nel territorio.
I portali monumentali d’ingresso incorniciano le nuove
spazialità dei cortili, dei giardini, dei grandi broli,
incastonandosi sapientemente tra il paesaggio urbano e
quello agrario preesistente.
L’impianto rigoroso delle contrade con i propri lotti
gotici, contraddistinti dai muri che delimitano i campi
chiusi dei piccoli broli, crea una cucitura ideale con i
grandi broli delle nuove ville; anche se in scala diversa
trovano un’analogia con le mura delle città storiche
nell’essere recinto di un paesaggio costruito, pietrificato,
nel segnare un margine con il paesaggio agrario.
Abbiamo già sottolineato come il periodo delle Ville dal
cinquecento in poi segni il passaggio dall’uso della pietra
a vista all’intonaco, di come la schema tipologico preso a
prestito dai monasteri del portico al piano terra e di
loggette aperte al piano superiore si trasformi
riproponendo al primo livello una galleria chiusa, una
“camminata” coperta e protetta che conduce alle camere.
Un ulteriore rilievo, riscontrabile nel seicento e nel
settecento, è la diffusione dell’uso della pietra di Rezzato,
di Botticino, ben più resistente alle intemperie rispetto al
calcare di Sarnico. Segno evidente di un’ulteriore
contaminazione veneta, dove con la chiarezza della pietra
62.
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bianca si dava maggior risalto alla profondità delle ombre
dei portici e delle logge.
Esiste comunque una linea di demarcazione preferenziale
dove i borghi che gravitano nelle vicinanze del Sebino
lungo i corsi d’acqua dell’Oglio o delle seriole, come
Palazzolo e Rovato, continueranno a usare la pietra di
Sarnico.
XII. L’impianto della Controriforma: San Carlo
Borromeo e le nuove Parrocchiali. La genialità di San
Carlo Borromeo è proprio quella di rispondere alla nuova
scenografia urbana delle ville e dei giardini,
contrapponendosi con nuovi edifici religiosi all’interno di
ogni borgo. Le nuove spazialità dei sagrati che
restituiscono sacralità al nuovo Tempio.
In analogia con i nuovi muri intonacati delle ville, che
avevano sostituito le muraglie dei castelli, le stesse
muraglie pietrose e sabbiose delle Pievi vengono
rinnovate dal luminosissimo intonaco in marmorino dei
nuovi templi.
Le grandi moli bianche dei nuovi templi, innervate dalle
grandi paraste verticali, si sostituiscono all’immagine
antica delle Pievi, delle cappelle di campagna, delle chiese
all’interno dei castelli.
Le nuove parrocchiali costruiscono nel territorio una
nuova scenografica bastionatura architettonica, visibile
dal teatro “natura agri” delle morene, dove le torri
campanarie di Cazzago, Calino, Santo Stefano, Bornato,
Erbusco, Rovato, Passirano, Camignone e Paderno si
esibiscono in un concerto globale, diretto dalla focalità
della Madonna del Corno dall’alto di Provaglio.
Questo sistema architettonico, di un Sacro Monte tutto
orizzontale in Franciacorta, così caro all’ideazione di San
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Carlo Borromeo, ricollega queste architetture al sistema
delle parrocchiali lombarde.
Si determina un dialogo immediato tra i nuovi prospetti
dei palazzi e le nuove facciate barocche delle parrocchiali;
tra i giardini delle ville e le nuove spazialità dei sagrati.
Questa visione, che conferisce alle pietre il dono della
parola e alle architetture la capacità del dialogo a distanza,
genera singolari testimonianze.
A Erbusco la nuova parrocchiale si incastona tra il
castello e le nuove ville, riprendendo un parallelismo con
l’antica Pieve, generando una nuova piazza-sagrato ad una
quota rialzata nei confronti della viabilità, dove il recinto
verde, come un campo traslato dal paesaggio agrario,
assume nel suo isolamento un valore metafisico.
A Cazzago, come ad Erbusco, la nuova parrocchiale è
incastonata nel castello, tra le nuove ville; ma qui l’antica
chiesa della “Madonna del Castelletto” all’interno del
recinto difensivo, circondata da un fossato e accessibile
solo tramite un ponte elevatoio, viene, alla fine del
cinquecento, completamente riprogettata, ribaltando il
proprio impianto, invertendo il luogo dell’abside con la
nuova facciata, il fossato con la nuova spazialità della
piazza-sagrato, per mostrarsi al borgo con una rinnovata
immagine architettonica, di nuovo tempio e autonoma
parrocchiale.
A Paderno l’architettura di Antonio Marchetti, con la
parrocchiale nel 1748 e la successiva sistemazione
microurbanistica del sagrato, rialzato nei confronti della
contrada, conferisce al borgo padernese l’aggiunta di
un’ulteriore pregevole fatto urbano, generando un nuovo
“unicum architettonico” rappresentato dal percorso che
unisce la sequenza delle nuove ville alla piazza-sagrato in
virtù della quale la grande mole bianca della facciata si
apre alla luce.
70.
71.
40
XIII. La Palazzina di villeggiatura tra Settecento e
Ottocento. Il quadro del Basiletti, con la sua attenzione
paesaggistica da Villa Ducco verso la campagna di
Rodengo esprime bene come la villeggiatura corrisponda
all’antica vita agreste, della bellezza del sito, dei suoi
caratteri climatici: in realtà, almeno per tutto il
cinquecento, gli aspetti produttivi rivestono un ruolo
primario dove l’unità significativa tra posto di abitazione
e posto di produzione e l’unicità tra proprietario, datore di
lavoro, ospite, determinano un altrettanto significativo
rapporto tra agricoltura, architettura, arte e natura.
Sarà verso la fine del settecento che alcune utopie di quel
secolo si cristallizzano nell’edificio come la Cà Palazzina,
isolata a sud nella campagna di Paderno, progettata
dall’abate Giovanni Confortini da Virle. Un unico edificio
dove si vivevano una serie di integrazioni funzionali con
la compresenza di una residenza borghese, temporanea,
stagionale, affiancata alla struttura della cascina.
Il modello aulico della villa dei secoli precedenti diventa
un’influenza sfumata, una contaminazione garbata; sono
ancora compresi in questi progetti il colto linguaggio
dialettale delle case fatte con i ciottoli e gli stilemi classici
delle nuove dimore, ormai ampiamente diffuse sul
territorio.
Il tema dei portici e delle gallerie costituisce un grande
artifizio per dotare i vecchi edifici di una nuova veste,
capace di mostrare a tutti la grande armonia raggiunta: in
queste case non c’è uno stile predominante del seicento o
del settecento, c’è la grande capacità di dialogare con i
periodi storici precedenti e con le culture di contatto con
questa area: quella camuna, quella lombarda, quella
veneta. Ne germina un’architettura autonoma, un qualche
cosa di simile al viso di una persona che reinterpreta nelle
proprie caratteristiche somatiche tutte le etnie precedenti.
72.
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74.
42
Questa specificità architettonica, che si era palificata sulla
propria storia intorno alla fine del XVIII secolo,
costituisce un primo uso sapiente delle ricche culture
precedenti, stratificate nel territorio e traccia una
continuità ideale tra storia e architettura.
«Negli ultimi anni del Settecento, l’abate Giovanni
Confortini da Virle, architetto o “marangon de muro”,
come usava dire da queste parti, acquistò dei campi
attorno ad un antico cascinale ormai fatiscente, che
opportunamente ingrandito e rinnovato avrebbe costituito
il nucleo di un’invidiabile proprietà…Non pensava ad una
casa dove trascorrere tutto l’anno, come poi toccò a
Giovanna, alle figlie e alle nipoti di lei, ma ad un
complesso agricolo del quale riserbarsi una parte per i
mesi della buona stagione, e godervi i piaceri degli studi,
della lettura, della caccia, della conversazione con gli
amici delle case vicine, sovrintendere al lavoro dei
contadini e, al momento del ritorno in città, riscuotere la
propria rendita. Era quel che si intendeva allora per
villeggiatura….Considerò necessario che la sua abitazione
mostrasse verso il cortile, verso il luogo del lavoro
contadino, la propria cultura umanistica, sia pure senza
prevaricazioni architettoniche.
Nella parte di casa che si era riserbata, le tre campate
successive ai loggiati contadini cedono ad un aspetto
diverso, chiudendosi ai piani superiori e trasformandosi
nel portico sottostante in tre arcate a sesto ribassato,
sostenute da due lesene e due colonne dorico-toscane.
Ma è come se, proseguendo la scansione degli alti pilastri
della struttura agricola primaria, a questa fosse stata
sovrapposta una facciata dal fragile valore scenografico,
una veste in più, appunto delle eterne necessità umane.
In una ideale continuità delle cadenze rustiche, tra il vuoto
dei loggiati e l’aperta campagna, l’esile sovrastruttura si
75.
76.
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isola con il risalto discreto, conveniente al ruolo che
Confortini attribuiva a se stesso, di illuminata mediazione
tra vita agricola e natura….». (ENRICO JOB, La
Palazzina di villeggiatura, Palermo, Sellerio Editore)
Come una miniatura di una villa veneta, ideata due secoli
dopo, alla fine del settecento, questa “palazzina di
villeggiatura” diventerà un vero e proprio sistema
architettonico in Franciacorta nel segnare un rinnovo
urbano delle contrade e del corpo storico del borgo.
XIV. La cascina e la prima manifattura. Il paesaggio
agrario che noi vediamo è paesaggio umanizzato,
trasformato dal lavoro umano, utilizzato come risorsa per
la produzione alimentare.
La cascina assume in sé la complessità del vivere
dell’uomo in relazione con il paesaggio agrario, essendo
la cascina la sua casa, ma anche il luogo del lavoro.
Al variare delle attività che si svolgono sul campo
nell’arco dell’anno, cambia l’utilizzo degli spazi
all’interno della cascina, coinvolgendo anche i luoghi
destinati all’abitazione. L’uso frammisto degli spazi è una
necessità essenziale per il compimento del lavoro. Si
potrebbe pensare alla cascina come una “fabbrica” dove
tutti i componenti familiari prendono parte al ciclo
produttivo con ruoli e funzioni diversificate: una piccola
parte del prodotto viene consumata all’interno e la parte
rimanente è destinata al mercato.
La struttura della famiglia “patriarcale”, legando le varie
generazioni fra di loro, garantiva una continuità sia al
ricambio della manodopera, sia al mantenimento
dell’unità della proprietà; era la condizione che meglio
trasmetteva l’esperienza culturale e materiale.
La cascina era un luogo importante per l’acculturazione
77.
78.
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della popolazione. La trasmissione degli aspetti culturali,
di quei fatti essenzialmente legati a delle pratiche di vita e
di lavoro, costituisce il portato di “cultura materiale” che
permette la continuità e il consolidamento della società
contadina.
Negli aspetti del vivere e del lavoro quotidiano si
ritrovano concretizzati quei momenti culturali per cui,
cercando di capire le relazioni che si instaurano tra i
diversi manufatti, oggetti, strumenti di lavoro, possiamo
ritrovare lo spessore culturale che caratterizzava la
continuità civile di questa società.
La cascina, oltre che luogo della produzione e delle
relazioni familiari, con le implicazioni che già queste
funzioni hanno fra di loro, è anche luogo delle relazioni
sociali più in generale. Basti pensare alla frammistione
funzionale dell’uso del portico, da luogo di lavoro, a
deposito, a luogo della vita associata, delle feste, delle
sagre, del banchetto nuziale.
Nella costruzione di un borgo agricolo, la corte
rappresentava la corrispondenza della piazza nella
costruzione della città, come spazio per lo svolgimento di
attività collettive. Durante le processioni mariane
l’immagine sacra sostava per un certo tempo sotto il
portico, situato lungo un itinerario e, alla sera, essa
radunava a sé la comunità di tutti i fedeli. La pratica
religiosa diventava un momento di rafforzamento dei
legami sociali, instaurando una unità tra i diversi
componenti della comunità; il portico si trasformava, per
pochi momenti, nell’aula unica di una chiesa all’aperto.
E’ significativo come nel Catastico Bresciano il “fuoco”
venga assunto quale simbolo dell’unità familiare; in esso
il numero delle famiglie del borgo viene censito in base al
numero dei fuochi.
La sua presenza all’interno della cascina caratterizzava
79.
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45
l’ambiente della cucina divenendo il mezzo per la cottura
dei cibi, tanto che il fatto culturale che contraddistingue le
varie civiltà è la modalità di cottura del prodotto
alimentare. Il fuoco si trovava però anche nelle camere
che, nel periodo dell’allevamento del baco da seta, prima
fonte di guadagno, diventavano gli ambienti in cui trovare
la giusta temperatura per la sua crescita.
Altri manufatti, quali il “pozzo“ e il “forno” costituirono
quegli elementi che permisero una relativa autonomia alla
sussistenza della famiglia, entrando a far parte, assieme
alla coltivazione dell’orto, di quell’economia domestica
che utilizza le risorse nel modo di minor dispendio.
L’“orto” , e più ancora il brolo, rappresenta il luogo dove
si sperimentano nuove colture arboree e foraggere, che
successivamente potranno essere messe a coltivazione nel
campo aperto; divenendo il prototipo dell’orto botanico
del XVII secolo. L’orto era quindi il luogo privilegiato
della coltivazione delle essenze arboree da frutta di
maggior ricchezza, compresa la vigna. Maritando la vite
con il gelso si faceva assumere alla zona lombarda un suo
aspetto caratteristico, di uso promiscuo del suolo. Anche il
paesaggio agrario, quindi, si caratterizzava per la presenza
dei filari di gelso, posti ai margini del campo.
I sassi provenienti dal dissodamento dei campi
costituivano, dopo essere stati selezionati nella loro
misura, l’elemento principale per la costruzione sia dei
muri di chiusura dei broli, sia dei muri a secco dei
terrazzamenti in collina che della casa e delle
pavimentazioni in ciottoli. Il mattone, la Pietra di Sarnico
e il medolo locale squadrato venivano invece impiegati
nelle parti dell’edificio dove era richiesta una certa
precisione, quindi nei pilastri, negli angoli degli edifici,
nella finitura delle finestre e nei davanzali. Sono gli
elementi
particolari
a
definire
l’espressione
81.
82.
46
dell’edificio.
I “vòlti”, che si ritrovano in maniera sistematica al piano
terra nelle cascine della fascia pedemontana, per l’utilizzo
del mattone e per la sua durata nel tempo, rappresentano
un investimento per le generazioni future, una volontà di
trasmettere il patrimonio materiale e culturale.
Le cascine, che si organizzano in successione lungo le
contrade, utilizzano il vòlto come sistema di
controventatura dando così garanzia di resistenza contro
eventuali scosse sismiche. Il suo uso caratterizza la
cascina e la stalla, , luoghi della produzione per
eccellenza.
E’ con i capitali provenienti dal lavoro agricolo che si
costruiscono in Lombardia, a partire dalla seconda metà
dell’800, le basi per una prima industrializzazione. Le
attività che si svolgono all’interno della cascina
costituiscono il primo laboratorio dove si sperimentano i
modi
di
produzione
industriale,
permettendo
l’accumulazione dei capitali.
Si pensi all’importanza che ha rivestito l’allevamento del
baco da seta, nella fascia pedecollinare lombarda, per
l’avvio e la diffusione dell’industria tessile.
L’allevamento del baco comportava una organizzazione
funzionale degli spazi, sia interna alla cascina, sia rispetto
alle colture praticate. Nei mesi primaverili le camere, per
la loro temperatura costante, diventavano il luogo adatto
ad ospitare il baco, trasformando i solai in camere da letto.
In estate, quando il baco veniva tolto dalle camere, che
riacquistavano la loro funzione, l’allevamento proseguiva
sulla loggia, che veniva chiusa con un frangisole, subendo
a sua volta una trasformazione.
Mentre la prima fase di lavorazione del bozzolo, la
“trattura”, veniva svolta nella cascina, le fasi successive,
costituite da lavorazioni di trasformazione del bozzolo
83.
84.
47
quali “torcitura” e “filatura”, avvenivano all’interno delle
“filande”, prime vere fabbriche. Come per l’allevamento,
il lavoro nelle filande era svolto dalle stesse donne che,
dopo la raccolta dei bozzoli, si spostavano nelle fabbriche.
Tale integrazione sottolinea come i fatti di prima
industrializzazione fossero strettamente legati al
tradizionale lavoro svolto nelle campagne. Da questa
società operosa provengono la manodopera e la materia
prima che hanno consentito la prima struttura industriale.
Come l’acqua ha determinato i primi insediamenti di
mulini e magli, l’attestarsi dei monasteri, la rivoluzione
del paesaggio agrario operata dalla villa, così è la rete
idrica a localizzare questi primi insediamenti industriali.
Questi stessi insediamenti, forse proprio perché così vicini
a noi nel tempo, vengono oggi ingiustamente trascurati,
ma essi costituiscono un vero e proprio sistema
architettonico, basti pensare al ruolo monumentale del
filatoio di Rovato, sulla diramazione della Fusia; oppure
allo straordinario sistema industriale generatosi nella città
di Palazzolo. Così, come nel periodo medioevale, il
torrente Gandovere, aveva generato nella valle di Ome un
sistema di torri, mulini e magli; nell’ottocento lungo
l’Oglio e le seriole si attestano una serie di edifici che
costruiscono l’impalcato dell’archeologia industriale.
L’attestarsi di questi edifici protoindustriali ed industriali
trasforma i borghi in città, che diventano i nodi principali
del sistema produttivo, accrescendo quelle integrazioni
culturali già caratterizzate in precedenza dai mercati.
Il crocicchio delle integrazioni funzionali che rappresenta
la città è tradotto in architettura da edifici che si attestano
in punti strategici, sormontando, come dei ponti, le vie
principali, con broletti e strade porticate, come rileviamo
sistematicamente a Pisogne, a Iseo, a Rovato, a Palazzolo.
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XV. L’architettura neoclassica vantiniana. Il Basiletti
pone il suo cavalletto nel bel mezzo dell’anfiteatro
morenico orientandolo verso il fondale scenografico del
Sebino; lungo la strada pedemontana che da villa Ducco
guarda la campagna di Rodengo verso la città; nella valle
dell’Oglio guardando verso Sarnico e Paratico, verso la
parte conclusiva del Sebino.
In questi quadri non traspare la sola attenzione
paesaggistica, piuttosto la capacità di osservare un
territorio come rilettura dei caratteri originari. Vi troviamo
riassunti i fatti significativi della geografia dei luoghi,
l’anfiteatro morenico, la conca del Sebino, il fiume Oglio,
la strada pedemontana verso Brescia, verso Bergamo,
verso i monti innevati della valle. Il paesaggio come
giacimento di una ricca stratificazione architettonica, dai
castelli alle ville alle nuove parrocchiali ai piccoli borghi
che si alternano come punti equilibrati in un nuovo
paesaggio agrario. C’è quindi nel Basiletti la capacità di
rilevare il paesaggio come palinsesto, dalla lettura di un
territorio che si è continuamente rivoluzionato e
autogenerato, la consapevolezza che questo sarà in grado
di ospitare future architetture. E’ la premessa per le
architetture della meteora vantiniana.
Con l’edificio della piazza del mercato a Rovato, Rodolfo
Vantini (1792-1856) mostra la capacità di aggiungere al
corpo storico della città, nuove architetture in grado di
scolpire il proprio tempo. La piazza ai margini del
castello, nel luogo dell’antico rivellino propone una
spazialità che diventa il nuovo centro cittadino.
Le ville che si sono costruite nel paesaggio con i portici al
piano terra, le gallerie al piano superiore, il coronamento
dell’edificio con cornicioni, la stessa villa palladiana con i
suoi timpani centrali e le sue barchesse, determinano una
delle matrici di questo progetto.
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89.
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Il Vantini curva questo edificio in un grande emiciclo,
curva portico, facciate e cornicione dando vita ad una
scenografia teatrale, sottolineata dal piano inclinato della
piazza come un basamento naturale dell’edificio, analoga
allo scavo dei mercati di Traiano a Roma, seconda matrice
che partecipa al progetto.
La centralità dell’edificio è caratterizzata da una grande
porta che ha il ruolo di ricostruire, enfatizzando, il
momento d’ingresso alla città storica. Questa nuova porta
neoclassica incornicia lo scorcio prospettico della strada
che sale verso il centro storico, è un’analogia che si
ricollega immediatamente alla scena centrale del Teatro
Olimpico del Palladio, ulteriore matrice che concorre nel
progetto vantiniano. Tutta questa architettura si configura
come una grande opera scultorea che conferisce a Rovato
la centralità di una città mercantile che, con il suo nodo
ferroviario, consoliderà il ruolo di città della Franciacorta.
Mentre la piazza di Rovato, per la sua plasticità, per l’uso
del marmo di Botticino nelle pile del portico, per la
luminosità del suo intonaco è ancora riconducibile a una
matrice veneta, nella piazza di Iseo, nell’edificio della
Pretura e del Municipio, l’uso predominante della pietra
di Sarnico che intelaia con il suo bugnato tutto l’edificio,
conferisce una schietta appartenenza al contesto del
Sebino e della Valle. In questo edificio la Pretura e il
Municipio posti strategicamente al piano superiore,
lasciano libero il piano terra: un basamento vuoto in
doppio ordine rispetto ai portici preesistenti della piazza,
in modo che il piano inclinato della piazza, come l’alveo
di un fiume, finisca naturalmente nella centralità di questo
edificio, e possa continuare sfociando a lago. La matrice
di questo progetto sono i broletti delle città storiche.
Queste architetture vantiniane ci mostrano la capacità di
un architetto di estraniarsi anche dalla questione dello
90.
91.
51
“stile”, in questo caso neoclassico, e di mostrare la
capacità di dialogare con le preesistenze architettoniche.
Opera dell’architetto Salimbeni, l’Accademia Tadini di
Lovere, traccia una continuità ideale con gli edifici
vantiniani di Rovato e Iseo, costruendo la traccia
principale di un itinerario che attraversa il sistema
architettonico Neoclassico nel territorio.
Il portico lineare, la “stoà”, nell’Accademia Tadini,
diventa broletto a Iseo, si curva e si flette a Rovato.
Dopo il decreto Napoleonico emanato il 12 giugno 1804,
una operazione di polizia urbana, vede le città di Verona e
di Brescia tra le prime ad approntarsi alla costruzione di
cimiteri extra moenia. Il “cimitero” come luogo di esilio
dei morti, un nuovo luogo di meditazione e rimembranze,
non solamente di lutti individuali, ma corale
testimonianza di una comunità verso i propri figli illustri.
Dal patrimonio monumentale dell’antichità classica,
all’ombra dei cipressi, con la pietra di Botticino come
polvere di sabbia lunare, la meteora vantiniana costruisce
la nuova “città del silenzio”.
Un viale piantumato a cipressi conduce ad una piazza
verde, semicircolare, che abbraccia tutto il prospetto delle
mura della città di pietra bianca; il luogo dei “nuovi
sepolcri”.
Una muraglia longitudinale costruita da un grande portico
posto su un basamento, una reinterpretazioni della Stoà
Ateniese ritmata dal Vantini con edifici a pianta centrale,
che si susseguono in sequenza prospettica; la chiesa
centrale, le porte laterali, le cappelle terminali.
Il Faro, collocato al centro del recinto interno, diviene
l’elemento culminante della grande composizione
neoclassica.
E’ un momento commemorativo dedicato a tutti i defunti,
composto da una colonna dorica di sessanta metri di
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52
altezza, coronata da una lanterna, “riproposta fantastica
del faro Alessandrino”, circondata alla base da un portico
circolare.
C’è un rapporto immediato con il portico che costruisce
l’abside della chiesa cimiteriale, un dialogo a distanza tra
questa “colonna metafisica” e la città, teso a diventare
punto di riferimento visivo.
Il Vantiniano, è quindi la rivisitazione neoclassica
dell’antico Camposanto Pisano, inteso come luogo dove
convivono le sepolture, i monumenti dei cittadini illustri e
le memorie cittadine.
Questa città del silenzio diventa quindi con le sue gallerie
scultoree, con le sue architetture, un monumento, un
museo.
La costruzione di questa “città del silenzio” impegnerà il
Vantini tutta la vita; l’architettura cimiteriale vantiniana
trovò comunque significativi campi di applicazione anche
in provincia. A Salò, come sottolinea Lionello Costanza
Fattori, il Vantini contrappone al golfo della vita il golfo
del silenzio; la salma viene trasportata in barca, dalla città
dei vivi alla città dei morti, segnando nel tragitto sulle
acque del lago il passaggio ideale tra la vita e la morte.
Come il basamento di una limonaia, ne scaturisce una
necropoli a gradoni, paralleli alla riva del lago, per una
lunghezza di cento metri; i muri esterni sottolineano la
sezione dell’architettura; i morti riguardano la loro città, il
loro lago; i folti cipressi diaframmano e velano la candida
scena riflettendosi nelle acque del lago sottostante.
L’architettura monumentale del cimitero bresciano si è
dissolta per far spazio ad una predominante geografia dei
luoghi, per il trionfo del miglior Romanticismo.
Il Cimitero di Rezzato, come quello di Salò, è adagiato su
un piano inclinato, il fondale scenografico è chiuso da una
figura semicircolare che tiene al centro la cappella
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cimiteriale. La figura semicircolare spesso sperimentata
dal Vantini, trova una esaltante applicazione nel cimitero
di Pisogne, dove una serie di gradoni incastonati nella
collina costruiscono una scena teatrale nei confronti del
Sebino, le scale laterali e la sequenza prospettica di
cappelle a pianta centrale, costruiscono, con tutto
l’insieme, una grande unitaria scenografia architettonica.
Lo schema del cimitero di Brescia sarà invece adottato dal
Vantini, in scala ridotta, nei paesi di Rovato, nelle
contrade di Lodetto e Duomo, nei comuni di Pralboino e
di Travagliato.
In quest’ultimo, come ricorda Lionello Costanza Fattori
parlando del Cimitero di Travagliato, sottolinea come gli
ordini rimanendo per sempre neoclassici, in qualche
particolare ed in qualche rapporto, assumono un sapore
vagamente orientale, anticipando di alcuni buoni decenni,
i motivi dei cimiteri di fine secolo, di gusto ormai liberty.
E’ il preludio alla lunga stagione dell’eclettismo.
XVI. Dal neogotico alla lunga stagione dell’eclettismo.
Nella seconda metà dell’Ottocento avrà inizio il lungo
periodo dell’eclettismo, ove il tema a seconda del luogo, o
della committenza, diventa il pretesto per confrontarsi
invece con i diversi periodi architettonici, più per
sfoderare le proprie capacità compositive che un reale
confronto con le preesistenze, si alternano quindi in una
successione
storica
le
stagioni:
neogotiche,
neoromantiche,
neomedioevali,
neorinascimentali,
neobarocche, liberty; un percorso che coinvolge diverse
generazioni di architetti: dai Tagliaferri, al Tombola, al
Dabbeni, all’opera del Sommaruga a Sarnico. In tutte
queste figure che si alternano, compare con la
rivisitazione stilistica dei periodi storici una serie di nuove
96.
97.
54
matrici, che a seconda dei casi e in modo differenziato
trovano la loro origine in Francia, Inghilterra e Austria.
Il personaggio di maggior prestigio è Antonio Tagliaferri
(1835-1909) che studia alla scuola di Rodolfo Vantini. E’
nel panorama bresciano di questo periodo, come ricorda
Valerio Terraroli nel descrivere il Tagliaferri, “il vero e
proprio nume tutelare e genius loci sia nell’elaborazione
architettonica di gusto eclettico, sia nelle problematiche
relative al restauro”.
Frequenta a Milano l’accademia di Brera (1856-1859)
dove, essendo in seguito attivo contemporaneamente a
Brescia e Milano, intesse fitti rapporti con l’ambiente di
Boito e Beltrami e della Scapigliatura.
Una straordinaria preparazione tecnica, una ricca cultura
figurativa acquisita all’Accademia e dallo studio degli stili
storici, evidenziando una figura poliedrica capace di
giocare su tutti i tavoli dello stile e di impersonare
l’immagine dell’architetto eclettico in grado di costruire
ex-novo come un antico e di ridare al passato la
brillantezza, la freschezza e lo splendore del presunto
stato originario.
Vanno ricordate la villa per il Ministro Giuseppe
Zanardelli a Maderno sul Garda e la villa per i nobili
Fenaroli a Fantecolo in Franciacorta. Si tratta in ogni caso
di travestimenti ritenuti necessari al luogo geografico e
paesaggistico e alla venustà che l’edificio in sé deve
suggerire allo spettatore, o come nel caso del castellino
Tonelli a Coccaglio, anche dell’emozione romantica che
l’insieme scenografico è in grado di determinare.
In villa Fenaroli a Fantecolo (1890) la zona padronale
affaccia verso la campagna e viene realizzata in stile
quattrocentesco toscano. Si leggono chiaramente gli
intenti insieme filologici e decorativi del Tagliareffi, intesi
a coniugare il rispetto del modello storico di riferimento
98.
99.
55
con una ricchezza di dettagli negli intonaci, nelle
modanature e nelle rifiniture, vicine a un gusto più
variamente eclettico e moderno.
L’anonimo architetto (probabilmente lo stesso Tagliaferri)
che opera nella campagna di Rodengo Saiano e Paderno,
genera un sistema architettonico tutto intelaiato da una
veste Neogotica, con la sistemazione microurbanistica di
Villa Maria, della Rocca sulla collina, della Monticella, di
Casa Piotti a Rodengo, con la ricostruzione della parte
orientale
del castello a Paderno, in quel periodo
impegnato anche nella ristrutturazione di un’antica casa in
contrada San Gottardo, ideando un nuovo telaio strutturale
in doppio volume, operando un coraggioso salto di scala,
enfatizzando
l’assunto
insediativo
dell’impianto
preesistente, riproponendo una nuova spazialità porticata
a sud, come essenza dell’architettura del borgo.
Molto più giovane, ma meritevole di stare in una
continuità ideale nel panorama architettonico bresciano,
dopo il Vantini e il Tagliaferri, è la figura di Egidio
Dabbeni (1873-1964). Nei suoi edifici, le pietre del
Cidneo sembrano franate al piano, per essere ricomposte
con grande maestria in nuove architetture. I suoi progetti
sono costruiti con muri e pietre della nostra città,
delineando la continuazione di un processo storico. Come
sottolinea Paolo Ventura nella guida “Itinerari di Brescia
moderna”, «architetto dell’emergente imprenditoria
bresciana del novecento, dei Pisa, dei Togni, dei Beretta.
Per essi progettò case padronali, case d’affitto, fabbricati
industriali, nei quali seppe governare l’unitarietà del
progetto architettonico nei suoi aspetti compositivi,
strutturali e tecnologici».
Dalla Bottega d’Artista dello studio Tagliaferri, che,
diplomato a Brera, soleva dipingere ad acquarello con
grande maestria in prima persona le prospettive dei suoi
100.
101.
56
edifici, allo studio nuovo efficiente e moderno di Egidio
Dabbeni, laureato in ingegneria a Roma e del suo socio
geometra (perito agrimensore) Francesco Moretti,
collaboratore in uno studio professionale che nel
momento del massimo sviluppo contava varie decine di
disegnatori.
L’eclettismo del Tagliaferri si ispira prevalentemente al
Neogotico, al quattrocento toscano; ai castelli lombardi, il
Dabbeni preferisce sperimentare forme neorinascimentali,
per costruire libere reinterpretazioni del Classicismo
Barocco, fondendo motivi compositivi Liberty e
innovazioni strutturali come il calcestruzzo armato e la
prefabbricazione.
Se il primo eclettismo è ancora legato ad un riferimento
storico nazionale come si riscontra nel repertorio
architettonico del Tagliareffi nei suoi rimandi al gotico, al
medioevo e al Rinascimento toscano, nell’opera del
Dabbeni oltre all’intrinseco dialogo con il barocco esiste
anche un riferimento culturale più ampio; un’espressione
culturale più contemporanea, più europea; un riferimento
per le soluzioni plastico volumetriche agli edifici viennesi,
per soluzioni di superfici che avevano assemblato il
linguaggio liberty.
In questo linguaggio c’è un processo catartico con altri
architetti lombardi importanti; Egidio Dabbeni (18731964) quindi a Brescia, come Luigi Angelini (1884-1969)
a Bergamo, Aldo Andreani (1887-1971) a Mantova,
Mario Cereghini (1903-1966) a Lecco e Gianni Mantero
(1897-1985) a Como.
Giuseppe Sommaruga a Sarnico, trova nella famiglia
Faccanoni una committenza illuminata, che gli permetterà
di costruire un sistema di ville a lago, un asilo e un
mausoleo. Dal 1907 al 1912 Sarnico diventa un
laboratorio per le sue architetture e la testimonianza di
102.
103.
57
come la sua grande capacità compositiva sia in grado di
operare nei confronti delle matrici antiche, delle
metamorfosi e di rigenerarsi con nuove figure;
trasformando lo spazio del portico in una sala vetrata,
traslando il portico in una barchessa a lato, che unisce
l’ingresso pedonale dalla strada alla casa, generando una
nuova stoà, con un sovrastante percorso pergolato, che
conquista la vista del lago. Oppure, in un altro progetto,
traslare il portico dal sedime dell’edificio e appoggiarlo
alla sua facciata principale, creando al piano superiore una
terrazza a lago, riprendere i volumi verticali della torre per
conquistare con l’altana una visione sopraelevata sul
Sebino. Strade pergolate sopraelevate, terrazze, altane e
bouwindows, sono tutti artifizi messi in campo per
costruire e generare un nuovo rapporto con il paesaggio.
Queste case guardano sull’altra sponda il grande volume
pieno del Castello di Clusane, e sembrano concludere un
viaggio che ha attraversato in una rapida espressione
dell’architettura dieci secoli di storia.
Tutta questa ricca stratificazione ci documenta come
l’avvicendarsi di queste architetture sia sempre stato in
grado di scolpire il proprio tempo; operando, di volta in
volta, delle trasgressioni, dei salti di scala, delle
innovazioni tipologiche; ha saputo coltivare un rapporto
costante e tracciare una continuità con le proprie
preesistenze storiche, rimarcando una continuità tra storia
e architettura.
104.
105.
58
Nota conclusiva
Non c’è nulla di più fragile dell’equilibrio dei bei luoghi.
L’allarme, il pericolo pasoliniano, lanciato in “Scritti Corsari”
Acculturazione e Acculturazione si è, purtroppo, radicalmente
verificato.
L’industrializzazione, con i suoi modelli consumistici, ha
diffuso un’opera di omologazione in tutto il territorio,
distruggendo ogni autenticità e concretezza.
Il sistema, che non concepisce altre ideologie che quelle del
consumo, non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma
pretende cha da uno spostamento dalla città al paese, seguendo
le nuove piste viabilistiche, ci si fermi prima all’IKEA e poi
all’OUTLET. La logica distorta ha voluto la costruzione di
capannoni, supermercati, case, ovunque, senza applicare il
minimo risparmio di territorio, che equivale a paesaggio; siamo
riusciti, in un contesto caratterizzato da autentici borghi storici,
a costruirne uno “falso”, in stile antico. Pare vi siano
raggruppati i principali stilisti dell’abbigliamento. La campagna
all’intorno della grande abbazia non meritava né questo onore
né questo disdoro.
«Sono copie, rifatte in un materiale volgare, gonfio, molle;
collocate a caso su piedistalli, danno al malinconico Canapo
l’aspetto d’un angolo di Cinecittà, dove si è ricostruita per un
film l’esistenza dei Cesari. Non c’è nulla di più fragile
dell’equilibrio dei bei luoghi»…«Il minimo restauro
imprudente inflitto alle pietre, una strada asfaltata che
contamina un campo dove da secoli l’erba spuntava in pace,
creano l’irreparabile. La bellezza si allontana; l’autenticità
pure». (MARGUERITE YOURCENAR, “Memorie di
Adriano”)
Ovunque andiamo, non esiste più una visione globale e
appagante del paesaggio. E’ necessario sfoderare nuove
progettualità e nuove idee urbanistiche, che abbiano la volontà e
la forza di andare in controtendenza, che siano in grado di
manifestarsi come necessarie alternative culturali, che siano, in
sintesi, capaci di generare nuova cultura.
106.
Per la costruzione di una “nuova cultura”, occorre risalire alle
radici dei comportamenti presenti e ricercare dei fatti rilevanti
dell’occupazione del suolo, che hanno determinato delle
trasformazioni. Tutti questi sistemi architettonici; i monasteri, i
castelli, i borghi, le ville, le cascine, le filande, le fornaci,
assieme ai fatti di storia partecipata, oggi, spesso trascurati,
dovrebbero riemergere, avere spazio, essere messi in evidenza
nella loro interezza di significato, rifunzionalizzati nella nuova
cultura. Bisogna, quindi, che di tutto si prenda possesso,
attraverso memoria e cultura, passato e storia.
59
Immagini
1.
2.
3.
4.
Fotogramma – leone di pietra che dorme
Fotogramma – leone di pietra che si sveglia
Fotogramma – leone di pietra in agguato
Le pietre si fanno case. Prospetto sud casa medioevale nel
castello di Paderno (disegno pastello - acquerello di A.
Pezzola)
5. Le pietre si fanno case. Prospetto est casa medioevale nel
castello di Paderno (disegno pastello - acquerello di A.
Pezzola)
6. Johannes Pesato, Carta della Lombardia in cui è data ampia
evidenza alla Franciacorta, 1440
7. Affreschi della chiesa di Santo Stefano a Rovato; in
evidenza nel particolare il profilo dei colli morenici
8. Carta dell’utilizzazione del suolo della Franciacorta,
1981/1982, redatto in scala 1:25.000 (A. Pezzola, A.
Pasqualini, V. Turra)
9. Rilievo dei sistemi architettonici in Franciacorta e progetto
degli itinerari ciclabili, 1982 (A. Pezzola, A. Pasqualini, V.
Turra, R. Tomirotti)
10. Vista dell’anfiteatro morenico, verso il Sebino
11. Vista dell’anfiteatro morenico, verso il Sebino
12. Faustino Joli, (1814-1876), vista dalle morene al Monte
Guglielmo
13. Luigi Basiletti, (1780-1859), vista dalle morene al Monte
Guglielmo
14. Camignone: paesaggio endemico di mediterraneità
15. Paderno: “come un’imbarcazione pietrificata per magia nel
momento in cui, superata l’ultima onda, la placida marea
l’avrebbe portato a riva”
16. L’insediamento di Erbusco, contenuto dal profilo dei muri
dei broli
17. L’insediamento di Cazzago, contenuto dal profilo dei muri
dei broli
18. Muro di recinzione di un brolo nella parte meridionale della
Franciacorta, Cazzago
19. Particolare muratura in acciottolato della fascia meridionale
della Franciacorta, Cazzago
20. Sinuosità dei muri dei broli lungo la fascia pedemontana,
Rodengo Saiano
21. Particolare muratura in pietrame della fascia pedemontana,
Rodengo Saiano
22. Provaglio, pietre e cave locali nella costruzione del
Monastero
23. Abside della pieve di Erbusco
24. Parte absidale del Monastero di San Pietro in Lamosa
25. Pieve di S. Andrea, Iseo
26. Luigi Basiletti, il castello di Brescia nella visione
ottocentesca
27. Il castello di Iseo in una visione di fine ‘800
28. Casa a torre isolata nella campagna di Provezze
29. Casa a torre alla Sergnana, Provaglio
30. Il castello di Iseo
31. Il castello di Paderno, fianco est
32. Il castello di Passirano
33. Il castello di Clusane
34. I fianchi rasati dei case nei profili est-ovest
35. Insediamento a Corneto, Rodengo Saiano
36. Cascina in contrada delle Selve, Paderno
37. Contrada a Padergnone, Rodengo Saiano
38. Case nella campagna tra Camignone e Fantecolo
39. Case in contrada Sergnana, Provaglio
40. Capanna unica e abside nell’allineamento est-ovest della
chiesa di S. Michele a Rovato
41. Capanna unica e abside con aggiunta di navata laterale nel
Monastero di San Pietro in Lamosa a Provaglio
42. Vista dell’Abbazia Olivetana da sud, Rodengo Saiano
43. Fronte principale dell’Abbazia Olivetana sull’itinerario
proveniente dalla città, Rodengo Saiano
44. Chiostro interno dell’Abbazia Olivetana, Rodengo Saiano
45. Palazzo Secco d’Aragona, Bornato
61
46. Luigi Basiletti, 1833, vista da Villa Ducco a Camignone
47. La balza morenica, basamento naturale di Palazzo Maggi a
Calino
48. Palazzo Giordani, Camignone di Passirano
49. Palazzo Maggi, Calino
50. Palazzo Porcellana, Rovato
51. Castello di Clusane, vista del ponte di ingresso
52. L’antico castello diventa basamento del nuovo, Palazzo
Orlando a Bornato
53. Facciata e terrazza sopraelevata di Palazzo Orlando a
Bornato
54. Palazzo Secco d’Aragona, Bornato
55. Palazzo Covi, Cellatica
56. Galleria del piano superiore di Palazzo Covi, Cellatica
57. Portico di Palazzo Covi, Cellatica
58. I giardini terrazzati e i giochi d’acqua nella scenografia di
Palazzo Richiedei a Gussago
59. Scalinata di Villa Rossa a Bornato
60. Villa Lechi, Erbusco
61. Villa Calini, Cologne
62. Villa Lechi, Erbusco
63. Palazzo Secco d’Aragona, Bornato
64. Palazzo Sandrinelli a Paderno; il cortile e il giardino
65. Palazzo Baitelli – Oldofredi, Paderno
66. Sistemazione
microurbanistica
del
sagrato
della
Parrocchiale di Paderno
67. Palazzo Oldofredi, Paderno
68. La Parrocchiale di Capriolo
69. La Parrocchiale di Erbusco, con la piazza sagrato
70. La Parrocchiale di Cazzago
71. La Parrocchiale di Paderno, con la piazza sagrato
72. La Palazzina – Casa Job, nella campagna di Paderno
73. Modello della palazzina di villeggiatura incastonata in una
contrada storica
74. Configurazione della matrice del palazzo nella miniatura
della palazzina di villeggiatura
75. Villa Rovetta, Sale di Gussago
76. Portico di Villa Rovetta
77. Villa Oldofredi – Ferlinghetti, Provaglio
78. Vista del cortile di Villa Oldofredi – Ferlinghetti, Provaglio
79. Cascina nella campagna di Camignone di Passirano
80. Cascina in contrada delle Selve a Paderno
81. Planimetria del filatoio ad acqua di Rovato con in evidenza
le quattro grandi ruote
82. Particolare del filatoio ad acqua per la torcitura della seta
83. Organizzazione portuale del comune di Palazzolo
84. Fabbrica nell’acqua, Palazzolo
85. Strade porticate a Pisogne
86. La farmacia nel crocicchio di Pisogne
87. arch. Rodolfo Vantini, disegno della Piazza di Rovato
88. Il portale della piazza vatiniana
89. Planimetria area castello a Rovato, configurazione per il
restauro della piazza vantiniana (A. Pezzola, S. Belotti)
90. Piazza Cavour a Rovato, foto storica
91. Piazza Iseo, foto storica
92. Luigi Dellera, disegno ad acquerello dell’Accademia Tadini,
Lovere
93. arch. Salibmeni, Accademia Tadini, Lovere
94. Il Vantiniano, cimitero di Brescia
95. arch. Rodolfo Vantini, cimitero di Pisogne
96. Dettaglio di ingresso casa vantiniana a Brescia
97. Dettaglio di ingresso casa Sommaruga a Sarnico
98. arch. Antonio Tagliareffi, Villino Tonelli, Coccaglio
99. arch. Antonio Tagliareffi, Villa Fenaroli, Fantecolo
100. Fronte neogotico Villa Maria, Rodengo
101. Fronte neogotico casa in contrada San Gottardo a Paderno
102. arch. Antonio Tagliareffi, Villa Fenaroli a Corneto,
Rodengo Saiano
103. arch. Giuseppe Sommaruga, Villa Pietro Faccanoni poi
Passeri, Sarnico
104. arch. Giuseppe Sommaruga, Villa Luigi Faccanoni,
Sarnico - Predore
105. arch. Giuseppe Sommaruga, Villa Giuseppe Faccanoni,
Sarnico
106. Vista dell’Abbazia Olivetana, Rodengo Saiano