Rapporto Svimez 2010 Sull’economia del Mezzogiorno Il Mulino, Bologna 2010 Pagine XIII più 874; Euro 63 Un decennio catastrofico Cronache meridionali del ventunesimo secolo Massimo Lo Cicero Napoli, 24 luglio 2010 0. Premessa e contenuti Come ogni anno l’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno, la Svimez, pubblica un rapporto annuale sulla situazione dell’economia meridionale. L’occasione assume una dimensione particolare. Siamo al bilancio del primo decennio del terzo millennio e siamo, parallelamente, alla fine della crisi finanziaria, convenzionalmente datata al biennio 2007/2008. Siamo, inoltre, di fronte alle sfide della ripresa economica futura, per l’Europa e per il resto del mondo, ma anche di fronte alla contraddizione, nel caso dell’economia italiana, del persistente dualismo tra Nord e Sud, della lenta crescita, scontata anche prima del deflagrare della crisi finanziaria globale, ed infine, ma non è la cosa meno rilevante, di fronte agli effetti di ulteriore deterioramento sulla struttura economica e sociale del Mezzogiorno. In ragione di un doppio ordine di cause: la lenta crescita del decennio precedente; la progressiva attenuazione del carattere sistematico, e della capacità di governo nazionale, nelle politiche per il superamento del dualismo stesso. In questo articolo descriviamo l’impianto ed i risultati principali del rapporto Svimez; approfondiamo la questione della bassa produttività e della progressiva deindustrializzazione dell’economia meridionale; proponiamo, in termini comparativi con le esperienze del passato, alcune ipotesi per ridare contenuti affidabili e strumenti di coordinamento nazionale alle politiche per lo sviluppo dell’economia meridionale e per la sua integrazione nel paese e nel complesso dell’economia europea. Un duplice traguardo che dovrebbe essere almeno enunciato, ed al quale dovrebbe potersi far corrispondere un impianto adeguato di politica economica, in considerazione del fatto che, nel prossimo anno, venga a scadenza il centocinquantesimo della unificazione politica dell’Italia mentre la sua unificazione economica risulta ancora ampiamente indeterminata, come emerge chiaramente dalle pagine del Rapporto Svimez di cui stiamo parlando. 1. L’impianto del Rapporto Svimez 2010 Il Rapporto si presenta articolato in tre parti e ventitre capitoli. La prima parte presenta gli andamenti del 2009 ed un profilo sui primi mesi dell’anno in corso, il 2010. La seconda parte è, insieme, una ricognizione ed una 1 analisi delle politiche per il Sud negli ultimi dieci anni. La terza parte si presenta, a sua volta, articolata in tre campi di indagine: la collocazione del Mezzogiorno nelle dinamiche economiche, e nella dimensione settoriale in cui quelle dinamiche si sviluppano e vengono governate, all’interno del sistema economico nazionale del nostro paese; la struttura delle reti che collegano il Mezzogiorno al resto del mondo e la rete delle aree urbane presenti sul territorio meridionale; gli interrogativi aperti dalla prospettiva di una integrazione internazionale dell’economia meridionale ed una ricognizione, di approfondimento monografico, su alcune dei temi al centro del processo di internazionalizzazione, l’energia, il turismo, la ricerca, l’innovazione ed il trasferimento delle tecnologie. La terza parte è la più estesa, ovviamente, ed include 14 dei 23 capitoli del volume. La seconda parte si identifica, come abbiamo appena ricordato, con la valutazione della efficacia delle politiche ma si muove su due piani di analisi: verificando l’impatto delle politiche congiunturali adottate per superre la crisi ed un profilo recessivo dell’economia reale; analizzando le prospettive della finanza pubblica di fronte alla sfida del federalismo fiscale; valutando lo stato delle politiche di settore, per l’industria e le infrastrutture, la conclusione, orami imminente, delle politiche di coesione europee e le prospettive – abbastanza indeterminate, dopo il trauma della crisi che si è manifestata proprio al debutto del quarto ciclo delle medesime politiche di coesione – sul possibile impianto di una politica per la crescita, alla scala europea. Essa assorbe cinque ulteriori capitoli dei complessivi ventitre che costituiscono il volume. La prima parte del volume, di conseguenza, si compone di soli quattro capitoli e, come già detto, riguarda la rappresentazione del 2009 e le prime tendenze avvertite nel 2010: i quattro capitoli presentano la dimensione macroeconomica complessiva, la sua articolazione settoriale, la dinamica demografica ed i movimenti migratori dell’economia meridionale. Ma anche un originale approfondimento che riguarda due fenomeni non convenzionali: il trasferimento delle residenze ed il pendolarismo che sono “le due facce” dei nuovi caratteri che viene assumendo il fenomeno delle migrazioni tra il Sud ed il resto del mondo1. Il Rapporto, insomma, è molto denso ed articolato e richiede una certa attenzione, ed un certo tempo, per essere metabolizzato adeguatamente dal lettore. I temi, e questo è un vantaggio per il lettore, sono presentati con grande precisione e dettaglio di indicazioni nell’indice del volume e, dunque, è possibile una consultazione accurata delle singole questioni anche partendo da un sommario che sia rappresentato dagli interessi e dalle preferenze del lettore, qualora non si volesse seguire lo schema, molto razionale e sistematico, con cui gli autori hanno esposto il proprio lavoro. La sensazione che si ricava al termine della lettura è molto netta: il primo decennio del terzo millennio non è stato un periodo positivo per l’economia meridionale. 1 Il Rapporto Svimez 2010 esamina con grande attenzione le trasformazioni determinate dalla nuova struttura dei flussi migratori da e per il nostro paese. Sul medesimo tema una lettura interessante e complementare è Luca Bianchi, Giuseppe Provenzano, Ma il cielo è sempre più su?L’emigrazione meridionale ai tempi di Termini Imerese. Proposte di riscatto per una generazione sotto sequestro, Castelvecchi Tazebao, Roma2010 2 Nel corso dei dieci anni, alle nostre spalle, l’economia, e la società, nel Mezzogiorno hanno accusato fenomeni di degrado qualitativo e danni quantitativi, nelle dimensioni e nelle caratteristiche, delle principali grandezze economiche. Quei danni pesano molto e, certamente, rappresenteranno gravi fenomeni di attrito e rallentamento nei processi di crescita che il futuro prossimo impone al Sud in due direzioni strategiche: recuperare il dualismo tra le due Italie; promuovere, ad un ragionevole, e rapido, ritmo il processo di integrazione con il resto delle regioni europee ed, in parallelo, un sistema multilaterale di iniziative per ottenere, nel medio termine, un affidabile, e proficuo, sistema di relazioni con lo spazio economico e politico che si viene determinando nell’area mediterranea. 2. La dimensione macroeconomica della questione meridionale nei dieci anni alle nostre spalle. Nel 2000 il prodotto interno lordo del Mezzogiorno era di 286,6 miliardi di euro; nel 2009 è stato di 285,7 miliardi di euro. Sono misure a prezzi concatenati, cioè confrontabili tra loro, nel tempo, in termini omogenei. Dunque il Sud, oggi, è più indietro, in termini reali, cioè non viziati dalle dinamiche dei prezzi monetari, nella sua capacità di produrre ricchezza. Non ha solo rallentato la crescita: è anche arretrato rispetto a quello che era stato in grado di produrre dieci anni prima. Nel centro nord la situazione è assai diversa: 903 miliardi di euro nel 2000 e 921 nel 2009; nel 2008 erano stati 971. La crisi si avverte anche nel resto dell’Italia, in altre parole, ma non determina un ridimensionamento della ricchezza prodotta al di sotto dei livelli di dieci anni prima. Detta così sembrerebbe che la linea di confine che divide in due il nostro paese sia molto netta ed evidente. Ma se guardiamo dentro la grande aggregazione, che chiamiamo centro nord, scopriamo una diversa verità. Il centro, parliamo sempre del periodo che separa il 2000 dal 2009, passa da 250 a 265 miliardi di euro. Il nord est da 270 a 272; il nord ovest da 382 a 383. Emerge, insomma, una prima differenza radicale: è il centro Italia la parte dell’economia che cresce di più, nonostante lo stop recessivo della crisi dopo il 2008, nel decennio. Come abbiamo appena detto nel decennio c’è un punto di rottura evidente: la crisi mondiale che culmina nel 2008 con il fallimento di Lehman Brothers, la grande banca americana. Guardiamo allora anche al punto di rottura, al culmine della crescita che, successivamente, si traduce in una discesa: si tratta del 2007. In quell’anno la graduatoria del pil, in miliardi di euro a prezzi concatenati, si presenta, nelle macroregioni italiane, in questi termini: il Mezzogiorno a quota 303 miliardi di euro, il centro a 278, il nord est a 293 ed il nord ovest a 412. Dunque, se consideriamo il percorso in salita dal 2000 al 2007 e poi la discesa ardita del biennio successivo, fino al 2009, possiamo dire che il Sud era cresciuto poco ed è arretrato rispetto all’inizio del nuovo secolo. Ma dobbiamo anche dire che la discesa, nel nord ovest e nel nord est è stata molto più intensa, dopo lo 3 scoppio della crisi, mentre la posizione del centro Italia è di una crescita sostenuta e di una discesa moderata. In valori assoluti, questo è un dato molto interessante, nessuna macroregione italiana sorpassa o retrocede rispetto alle altre. Il Mezzogiorno è costantemente più grande, in termini di prodotto interno lordo, rispetto al centro ed al nord est, considerati singolarmente. Il nord ovest risulta dominare il Mezzogiorno con una media di 395 miliardi di euro contro 295. Ma il Mezzogiorno ed il nord ovest, insieme, rappresentano, il 56% del pil italiano: 691 miliardi di euro, nella media calcolata sui dieci anni considerati. Queste due macroregioni generano la maggior parte del prodotto interno lordo e subiscono, nel medesimo tempo ma con fenomenologie e cause assai diverse, maggiori criticità2. Il Mezzogiorno retrocede rispetto al valore del pil osservato nel 2000. Il nord ovest ritorna al valore del pil osservato nel 2000. Nelle tavole allegate a questo testo si possono leggere i termini relativi di queste dinamiche trasformando i valori assoluti del pil in numeri indici, con base 1 nel 2000. In questo caso si leggono sia le intensità della crescita che la profondità della recessione dopo il 2008. Il nord est è il più lento fino al 2005 ma, subito dopo, accelera e raggiunge una quota massima pari ad 1,084 nel 2007, superato solo dal centro con una punta massima pari ad 1,112. Il Mezzogiorno cresce rapidamente tra il 2000 ed il 2001; rimane stagnante ma domina il percorso del nord est fino al 2005; viene superato, per intensità della crescita dal nord est in quell’anno, tocca il suo picco nel 2007, a quota 1,060; retrocede sotto il valore unitario nel 2009. Il nord ovest presenta una dinamica parallela a quella del Mezzogiorno ma domina, nel picco, la quota toccata dal Mezzogiorno, perché si adegua ad 1,077. La lenta crescita del decennio, insomma, genera anche una inversione nella posizione relativa delle macroregioni italiane che non si legge nella mera contrapposizione tra mezzogiorno e centro nord; passano in testa il centro ed il nord est mentre il nord ovest, anche in ragione della crisi dell’impianto fordista della proprio struttura industriale, affanna mentre il Mezzogiorno affanna per motivi abbastanza diversi: la inefficacia delle politiche di coesione e l’attenuarsi della sensibilità delle politiche nazionali verso l’obiettivo del recupero del dualismo italiano. In parallelo, infatti, emerge una opzione di tipo “federalista” che, in ultima analisi, si limita ad ipotizzare un decentramento amministrativo, affidato alle Regioni come centri intermedi di raccolta ed impiego delle entrate tributari e fiscali e delle spese per infrastrutture e politiche sociali. Mentre lo squilibrio sottostante, in termini di popolazione e reddito tra le singole economie 2 Su questo punto, la esigenza di guardare il dualismo italiano lungo una diagonale che vada la ponente a levante, in una prospettiva longitudinale e non verticale, piuttosto che da Sud a Nord sia consentito rimandare a Massimo Lo Cicero, Sud a perdere? Rimorsi, rimpianti e premonizioni, Rubbettino Editore, Soveria mannelli 2010. Sul rapporto tra Nord e Sud negli ultimi venti anni si veda anche Massimo Lo Cicero, L’economia e la politica economica nel Mezzogiorno. Dalla questione meridionale alla questione settentrionale (1995 – 2009), in Economia Italiana numero 1/2010. 4 regionali, segnala la necessità di una struttura di compensazione tra volume complessivo delle entrate e volume delle spese, rispetto ad una mera corrispondenza tra le quote osservabili nelle singole regioni. Il Mezzogiorno, con un terzo della popolazione ed un quarto del pil non troverebbe mai un equilibrio possibile tra volume e valore, dei servizi pubblici e delle infrastrutture, e la capacità di provvedere adeguate entrate fiscali e tributarie per finanziarie le due classi di spesa appena richiamate. E, di conseguenza, tutte le regioni meridionali, seppure con diversa intensità, risentirebbero di questo vincolo oggettivo nella gestione dei futuri sviluppi di natura federalista. La crisi del triangolo industriale deriva dall’esaurimento della stagione fordista dell’industrializzazione e se ne può, e si deve, uscire mediante una riorganizzazione della struttura della base economica locale. La crisi dell’economia meridionale deriva dalle dimensioni inadeguate della sua base economica rispetto alla dimensione demografica della popolazione residente e dalla conseguente dilatazione dell’economia illegale e dell’economia criminale, che accentuano lo squilibrio tra gettito fiscale e spesa per le politiche pubbliche, anche a prescindere dallo squilibrio, reale, tra la dimensione insufficiente della base economica rispetto a quella della popolazione esistente. L’economia illegale e criminale riduce il gettito fiscale; la prevalenza dell’economia pubblica, o sussidiata dalla spesa pubblica, rispetto a quella privata, genera un eccesso di potere per il sistema politico rispetto alla comunità, le imprese e le famiglie, che esso deve amministrare. Ne segue una caduta dell’attenzione dei pubblici poteri alla qualità dei servizi offerti, e si determina una paradossale coincidenza. Convivono, nel Mezzogiorno: squilibri e deficit persistenti nella spesa pubblica corrente; una produttività più bassa di quella media nazionale ed una ipodimensione del mercato legale del lavoro; un eccesso di potere e di iniziativa, del ceto politico, che si traduce in una peggiore qualità della vita e degli standard di prestazione nelle politiche sociali. Tutti questi fenomeni presentano un carattere slegato dal ciclo delle alternanze degli schieramenti politici che si sono manifestati negli ultimi venti anni. Il federalismo, inteso nell’accezione italiana di decentramento amministrativo, rischia di congelare questa dimensione patologica locale nei rapporti tra governanti e governati. Nel medesimo tempo, tuttavia, la sfida di un governo locale più efficiente potrebbe generare un ricambio ed una maggiore competizione, premiando il merito relativo, della classe dirigente locale nelle pubbliche amministrazioni. Insomma, in una società ordinata, e capace di sviluppare una crescita sostenibile, come quella del centro e del nord est, la sfida del federalismo all’italiana consente di spostare sul piano locale il governo delle politiche sociali ed infrastrutturali, migliorando con un addendum di equità i benefici generati dalla crescita espressa dalla base economica esistente. In una società viziata dalle patologie di una base economica insufficiente e da uno squilibrio della finanza pubblica, collegato ad una ipertrofia dell’economia illegale 5 e criminale, è naturale che si manifesti, sul terreno macroeconomico, quello che Paolo Savona ha definito da molti anni l’effetto della “pentola bucata” 3. La presenza sistematica di un deficit corrente della bilancia dei pagamenti regionale verso l’estero e verso il resto d’Italia, cioè la sistematica presenza di importazioni nette crescenti al crescere della domanda effettiva locale. Ai quali si aggiungono il trasferimento di fondi pubblici dall’esterno della regione per alimentare lo squilibrio tra reddito prodotto e spesa procapite della popolazione; e la dipendenza dai trasferimenti pubblici del sistema economico oltre l’inefficienza del ceto politico che gestisce la mediazione dei trasferimenti tra centro e periferia. Nessuna di queste patologie riesce ad essere superata dall’avvio del federalismo all’italiana. Grazie al federalismo all’italiana, tuttavia, si apre una scommessa sulla modifica della classe dirigente locale che potrebbe preparare, ma non è detto che essa avvenga di conseguenza, una modificazione della base economica meridionale ed una riorganizzazione del flusso di reddito tra il meridione ed il resto del mondo, in un futuro abbastanza remoto. Ne segue che il federalismo all’italiana diventa una premessa necessaria ma che il lungo periodo della transizione, verso un nuovo assetto economico del Mezzogiorno e la sua piena integrazione fisiologica nel tessuto reale e finanziario dell’economia italiana, richiede strumenti di governo, e di monitoraggio, del cambiamento che ne garantiscano l’esito. Un aggiustamento lasciato alle dinamiche del mercato non è realisticamente immaginabile4. Le conseguenze economiche di questa misura macroscopica del dualismo tra Nord e Sud sono molto preoccupanti. I giovani fuggono dal Mezzogiorno mentre anche l’immigrazione, che il nostro paese attrae dal resto del mondo, si concentra nelle regioni del centro nord e presenta valori meno intensi nel Mezzogiorno. Abyssus Abyssum invocat: una economia squilibrata nelle sue articolazioni interne diventa sempre più squilibrata. Queste conseguenze, ci dicono i ricercatori della Svimez, sono l’effetto dell’assenza di una politica economica per la crescita dell’Italia. Insomma, fino a quando, la nostra economia sarà così disarticolata, essa non riuscirà a crescere. 3. La questione della produttività ed il divario nel reddito pro capite tra Sud e Nord 3 Sulle origini della definizione, e sulla verifica quantitativa degli effetti sul Mezzogiorno delle dinamiche sottostanti l’effetto della “pentola bucata”, si legga Riccardo De Bonis, Zeno Rotondi e Paolo Savona (a cura di), prefazione di Roberto Nicastro, Sviluppo, rischio e conti con l’estero delle regioni italiane, Editori Laterza, Roma – Bari 2010. 4 L’esperienza di Stiglitz alla guida della Banca Mondiale nella fase di transizione dei paesi ex socialisti all’economia di mercato è un interessante caso comparabile con quello della transizione al mercato dell’economia meridionale. Il mercato è inadeguato alla soluzione del problema perché, come direbbe Raffaele Mattioli, le condizioni del Mezzogiorno oggi sono tali che Abyssus Abyssum Invocat: ed infatti la ripresa dell’emigrazione delle risorse umane qualificate, e la recessione che diventa arretramento rispetto ai dati del decennio precedente, che la Svimez rivela con le sue ricerche, sono proprio la testimonianza degli effetti di una soluzione dei problemi lasciata alle sole forze del mercato. Non essendo i beni pubblici e le reti infrastrutturali producibili in regime di mercato è evidente che sia questo l’esito della loro assenza. 6 I ricercatori della Svimez offrono ulteriori materiali analitici , in aggiunta agli elementi di carattere macroeconomico, che descrivono la fenomenologia della bassa crescita e della recessione, successiva al 2008. Un dato molto interessante riguarda l’analisi Shift and Share, che consente di leggere l’impatto della capacità di competere, ed espandersi, in un settore e quello della composizione relativa dei settori in una medesima regione: questo secondo risultato essendo la misura della adeguatezza della struttura economica della regione, in termini di portafoglio di settori esistenti, di reggere e sostenere lo sforzo della crescita possibile. In questa prospettiva la conclusione della Svimez è molto chiara ma anche molto preoccupante: “Il Mezzogiorno viene relativamente penalizzato in primo luogo da una struttura produttiva sbilanciata verso i settori a basso valore aggiunto (l’effetto struttura negativo) ma a questo si associa anche un andamento della produttività in molti settori considerati (tutti, tranne quelli dei servizi alle famiglie ed alle imprese e dell’intermediazione finanziaria) più modesto di quello medio del paese. Questo segnala quindi una possibile difficoltà del sistema economico meridionale nel tenere il passo con i processi di ristrutturazione e di innovazione diffusi del paese”5. La dimensione della crescita viene osservata anche da un ulteriore prospettiva: la relazione tra produttività, occupazione e dimensione del mercato del lavoro. Partendo dalla relazione che sussiste tra tre variabili – il prodotto per abitante; il prodotto per occupato ed il numero di occupati (unità di lavoro) rispetto alla popolazione – si possono ricavare importanti informazioni sulle cause della dinamica in essere della produttività e su quella della capacità di produrre, da parte degli occupati, nel contesto organizzativo, istituzionale e tecnologico in cui essi agiscono. Il prodotto tra la seconda e la terza variabile rappresenta il risultato della prima delle tre variabili6. Il grafico riportato in appendice mostra una dinamica molto interessante delle tre variabili. La dimensione del prodotto lordo per abitante ristagna fino al 2004. La ragione del ristagno risiede nella circostanza che in quegli anni diminuisce la produttività per occupato ed aumenta il numero degli occupati rispetto alla dimensione della popolazione fino al 2002. Successivamente al 2002 le variabili si muovono in direzione opposta. La produttività per occupato aumenta mentre diminuisce il numero degli occupati sulla popolazione. Dopo il 2004 crescono entrambe le variabili ma abbiamo un altro punto di rottura nel 2007, l’ultimo anno prima della crisi, non a caso. Con la crisi si mette in moto un processo di aggiustamento, cruento sul piano sociale, nel quale cade il valore degli occupati rispetto alla dimensione della 5 Si veda Il Rapporto Svimez 2010, il Mulino Bologna 2010, alle pagina 30 e seguenti. Infatti (pil/occupazione) * (occupazione/popolazione) diventa (pil/popolazione). Nelle tavole allegate abbiamo tracciato le dimensioni delle tre variabili rilevate dalla Svimez nel decennio compreso tra il 2000 ed il 2009. Le considerazioni riferite nel testo sono sviluppate a partire dalle variabili osservate, che vengono misurate una volta fatto pari a 100 il valore rilevato nel centro nord per ognuna di esse. Se, ad esempio, nel 2000 il pil per abitante viene quotato al 56,1 questo significa che il suo valore è pari al 56,1% del valore corrispondente nel centro nord. Questi dati, misurati in percentuali dei corrispondenti valori osservati nel centro nord, vengono trasformati in numeri indici, facendo pari ad 1 i loro valori nel 2000. Il grafico, allegato a questo testo, rappresenta la dinamica di questi numeri indici nei dieci anni considerati. 6 7 popolazione e, di conseguenza, aumentano la produttività individuale insieme con il prodotto interno lordo per abitante. Queste ultime conseguenze sono determinate anche dalla dinamica demografica. La ripresa della emigrazione eccita la riduzione del rapporto tra occupati e popolazione. Il risultato viene giudicato cruento sul piano sociale perché il fatto che il prodotto interno lordo procapite risulti nel 2009 di poco superiore a quello del 2000 (68,9 rispetto al 68,2 in % del valore nazionale fatto pari a 100) è solo la dimostrazione di un riequilibrio, tra Nord e Sud, che appare governato dalla pressione che espelle popolazione, soprattutto giovane e qualificata, dalle regioni meridionali. Il riequilibrio stesso, inoltre, si colloca su un valore, 68,9, che rimane inferiore alla media, nel decennio, del prodotto pro capite meridionale rispetto a quello del centro nord. La media meridionale del decennio, infatti, si colloca al 69,3% della media osservata nel centro nord. Con una deviazione standard – la radice quadrata del quadrato della media degli scarti dalla media – pari allo 0,5% del valore della media stessa. Cioè con una marcata stabilità nel divario tra i valori del reddito procapite del Mezzogiorno rispetto a quello del centro nord. 4. La progressiva scomparsa di una politica nazionale per il Mezzogiorno Un risultato così significativo in termini macroeconomici – il ripiegamento della produzione di reddito sotto i livelli del 2000 ed una marcata stabilità del prodotto procapite, cioè la fissità del dualismo tra le due Italia – deve essere spiegato guardando alle modalità con cui sono state governate le politiche che avrebbero dovuto ottenere un effetto alternativo a quello che si presenta nel 2009. Gli analisti della Svimez offrono ampie riflessioni su questo tema. Si possono ritrovare tre linee di analisi nella imponente mole di materiali disponibili. La prima riguarda un processo di lungo periodo: l’esaurimento, anche negli anni precedenti il 2000, dell’impianto nazionale che aveva avviato le politiche di intervento straordinario per chiudere il divario tra Nord e Sud. La seconda analizza il mediocre risultato del terzo ciclo di politiche di coesione, normalmente conosciuto come Agenda 2000, governato da una sorta di partnership tra Governo centrale e regioni meridionali nel periodo che va dal 2000 al 2006. La terza prende in considerazione l’impatto della crisi sul quarto ed ultimo ciclo delle politiche di coesione ma, fermo restando il depotenziamento che la crisi stessa genera in termini deflattivi ed il mancato utilizzo, anche per fini congiunturali espansivi, delle risorse disponibili per finanziare infrastrutture e politiche sociali da parte del Governo e delle regioni meridionali, l’attenzione della Svimez si rivolge anche alla progressiva disarticolazione degli organismi e degli strumenti che, nel periodo di Agenda 2000, erano stati predisposti per dare comunque unitarietà ed efficacia all’insieme delle manovre e dei progetti promossi nella prospettiva di chiudere il dualismo tra Sud e Nord. Partiamo da queste ultime circostanze, dal terzo ordine di motivi del fallimento accusato nella gestione delle politiche di sviluppo. Esso discende da due ordini di ragioni. Da una parte l’utilizzo deformato del ricorso al Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate, che rappresentava il 8 complemento domestico, espresso in risorse del bilancio pubblico italiano, delle risorse rese disponibili con le politiche di coesione finanziate dall’Unione Europea7. Il Quadro Strategico Nazionale 2007/2013, costruito a ridosso della legge finanziaria del 2007, rappresentava la scommessa di una gestione unitaria dell’insieme delle risorse disponibili nella prospettiva di una restituzione adeguata, in termini di creazione di infrastrutture e di politiche sociali per la formazione di capitale umano, ai bisogni del Mezzogiorno. Nella prospettiva di una chiusura del dualismo tra Nord e Sud come effetto di una crescita avviata, e capace di autosostenersi, nella base economica del Sud. Non è andata in questi termini. Il Fas è stato dedicato, in larga parte, a politiche di sostegno del reddito nelle aree industriali del paese, le industrie e le imprese delle quali erano messe in difficoltà dal manifestarsi della crisi globale. Di conseguenza nel Nord si finanziava la cassa integrazione guadagni mentre nel Sud aumentava la disoccupazione e la dimensione della popolazione non attiva, quella che si sposta nell’economia illegale, in una prossimità che si dilata progressivamente intorno alla economia criminale in senso stretto. Anche quando le risorse del Fas sono state utilizzate nelle regioni meridionali, esse sono state destinate ad emergenze puntuali, la crisi innescata dalla emergenza rifiuti o la copertura di ammortizzatori sociali. A questa disarticolazione degli strumenti finanziari in direzioni diverse da quelle destinate agli investimenti, in infrastrutture o nel capitale umano, si affianca un secondo ordine di ragioni che determina il venir meno di una politica organica di sviluppo, orientata al superamento definitvo del dualismo italiano. Si tratta delle conseguenze del superamento, avviato già dal Governo Prodi-Padoa Schioppa e confermato dal successivo Governo Berlusconi, della unitarietà del processo decisionale in capo al ministero dell’economia. A quella unitarietà, determinata dalla riforma dei Ministeri e dalla centralità, che con essa assumeva il neonato Ministero dell’Economia, si sostituiva una frammentazione, tra ministeri ed altri organismi diversi, dell’insieme delle decisioni relative alla politica di superamento del dualismo tra Nord e Sud. Questa processo di frammentazione impediva, tra l’altro, il recepimento delle indicazioni, e la loro traduzione in una innovazione delle procedure relative, del rapporto indipendente, promosso dal Commissario europeo per le politiche regionali e redatto da Fabrizio Barca, Agenda for a reformed cohesion policy, che denunciava i limiti della precedente esperienza di Agenda 2000 ed offriva soluzioni per il loro superamento. Secondo gli analisti Svimez, insomma, la politica per il Sud nell’ultimo decennio rimane prigioniera di un luogo comune: il fatto che nella spesa per la sua realizzazione si spenda troppo e male. Si noti, per inciso, che quelle risorse offerte dall’Unione Europea sono comunque di origine domestica, in quanto versate dal nostro paese al bilancio europeo ed essendo il nostro paese creditore netto, nel rapporto tra mezzi trasferiti al bilancio europeo e mezzi ricevuti dal bilancio europeo. 7 9 La spesa pubblica complessiva, destinata all’aumento del capitale fisico od intangibile del Mezzogiorno, invece, non raggiunge sistematicamente la dimensione che pure viene indicata nelle ipotesi di programmazione enunciate formalmente. Nel Sud si spende male, quando si sostituisce la spesa emergenziale e di natura corrente a quella in conto capitale, ma si spende anche poco rispetto a quello che si annuncia di voler spendere nei documenti ufficiali. Ed è paradossale che il divario crescente che si registra su questo scarto invece di tradursi in un maggiore impegno nel perseguimento degli obiettivi, abbia portato progressivamente ad una vera e propria rimozione degli stessi impegni che pure vengono periodicamente annotati nei documenti di programmazione (i DPEF) rilasciati ogni anno dal Governo e dal Parlamento. 5. Incentivi vs. assetti dei mercati e degli intermediari finanziari: il dilemma della crescita. Se si abbandona il terreno della politica di sviluppo come un tutto – cioè la capacità di attivare una crescita sostenibile e di affiancarle un sistema di politiche sociali che ne garantiscano l’equità degli effetti redistributivi – emerge chiaramente la difficoltà di dare un contenuto adeguato al funzionamento dei mercati finanziari, al sistema dei contratti e delle organizzazioni che dovrebbero trasferire il risparmio disponibile verso la copertura degli investimenti necessari ad alimentare la crescita. Alle origini, della politica di intervento straordinario nel Mezzogiorno, questa dimensione del finanziamento degli investimenti nelle imprese private venne affrontata con metodi indiretti. La Svimez, come think thank e la Cassa del Mezzogiorno, come agenzia deputata all’obiettivo dell’industrializzazione, negli anni cinquanta utilizzarono due pilastri basici per creare le condizioni di una reindustrializzazione affidabile 8. La Cassa, un ente meramente finanziario, destinatario di una dote di risorse monetarie che utilizzava per coprire i fabbisogni necessari alla realizzazione di infrastrutture (strade, ponti, bonifiche e quant’altro) e ne dava un rendiconto puntuale dei risultati, agiva come centrale di coordinamento di questo programma per la creazione di capitale fisso sociale9. 8 Nel 1951 la Svimez edita un volume molto interessante: Effetti economici di un programma di investimenti nel Mezzogiorno, Roma 1951. Si tratta di un approccio al problema della crescita, ed al differente impatto sulle due grandi macroregioni del paese, percepite nella loro diversità strutturale, che propone un impianto keynesiano – il ciclo del reddito e della domanda – e non solo un approccio “tradizionale” al problema della crescita. Siamo in presenza di una novità, sotto il profilo complessivo della cultura economica, che diventa la leva di una operazione politica, promossa e voluta dal Governo, che si traduce in una nuova entità organizzativa che amministrerà il programma di investimenti descritto dal volume della Svimez. Il risultato si legge in questo circuito virtuoso, che infatti generò conseguenze apprezzabili fino a tutti gli anni sessanta, mentre oggi, al contrario, un effetto analogo è assolutamente assente. Non esiste, infatti, un centro di produzione intellettuale che possa organicamente suggerire l’impianto di una politica che il Governo possa successivamente e tempestivamente adottare, formando in parallelo gli strumenti amministrativi per la sua realizzazione. Una cronaca molto interessante della controversa storia dello sviluppo meridionale, tra gli anni cinquanta e gli anni settanta, si legge in Francesco Compagna, Mezzogiorno in salita, dal chinino al computer, Editoriale Nuova, Milano 1980 ed in Ernesto mazzetti, Scenari del Sud di ieri e di oggi, Alfredo Guida Editore, Napoli 2008 9 Si vedano Gabriele Pescatore, La “Cassa per il Mezzogiorno”, un’esperienza italiana per lo sviluppo, il Mulino, Bologna 2008 e Piero Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1978 10 La stessa Cassa, in partnership con le principali banche del Mezzogiorno, dava vita a tre istituti di credito speciale per implementare la valutazione ed il finanziamento degli investimenti privati da parte delle imprese. Lo Stato aggiungeva un supporto in termini di fiscalità mediante due canali: riducendo il costo della provvista finanziaria per gli istituti di credito speciale, di cui si è già detto, e garantendo dieci anni di mancato prelievo, sia sul reddito che sul patrimonio, alle società che si localizzavano nel Sud del paese. Passati gli anni cinquanta esplose la politica degli incentivi alle imprese: cessò il finanziamento agevolato della raccolta, garantita dalle obbligazioni emesse dagli istituti di credito speciale, e si passò al trasferimento di fondi pubblici, in conto interessi ed in conto capitale, direttamente alle imprese ma con la mediazione professionale, un brokeraggio retribuito, delle banche. Essendo anche, nel tempo, stata superata la distinzione tra banche ed istituti di credito speciale. Pasquale Saraceno, un padre autorevole delle politiche per lo sviluppo del Sud, aveva insegnato che l’incentivo finanziario equivale ad un dazio. Promuove la industrializzazione originaria ma, come ogni dazio, doveva essere interrotto, altrimenti avrebbe sviluppato fenomeni di dipendenza dalla finanza pubblica nelle logiche imprenditoriali ed avrebbe indebolito, invece di rafforzare, la capacità di competere di un paese. Per troppo tempo questa interruzione venne rimandata negli anni alle nostre spalle, dai settanta ai novanta, mentre, successivamente, ci ricorda oggi la Svimez, la politica discrezionale degli incentivi viene sostituita da quella dei crediti di imposta, ritenuta più neutrale rispetto alle scelte pubbliche. Lo Stato concede sgravi di imposta proporzionali al reddito maturato a quelle imprese che generano profitti: a prescindere dai settori e dai mercati in cui quelle stesse imprese agiscono. Questo approccio diverso all’incentivazione presenta una certa ambiguità. Se le imprese non hanno un’adeguata base patrimoniale iniziale, se sono troppo indebitate o sottocapitalizzate, esse non possono realizzare investimenti e sono razionate rispetto alle imprese che possano, invece, anticipare gli investimenti, maturare i profitti, recuperare i crediti di imposta. Ma il sistema dei crediti di imposta garantisce risorse, ex post, solo a coloro che generano profitti e, dunque non premia sulla base di scelte burocratiche coloro che intercettano fondi pubblici ma poi non sanno come trasformare quei fondi in investimenti efficienti. Come si vede la sostituzione delle agevolazioni alle imprese, soldi erogati dallo Stato mediante le banche, con crediti di imposta, mancato versamento di imposte per coloro che fanno profitti, consente la disintermediazione ma lascia la base economica, limitata e troppo familiare, delle imprese meridionali in una situazione di possibile razionamento finanziario. La Svimez avanza una ipotesi migliore come alternativa al sistema degli incentivi che, comunque, è ormai asfittico e ridimensionato in maniera sostanziale. La Svimez propone una fiscalità differenziata per le imprese delle regioni meridionali: per ridare, temporaneamente, un vantaggio relativo a chi investa in quelle aree. 11 E’ chiara l’eco della lezione di Saraceno sull’incentivo come equivalente simmetrico del dazio. Ma, nella opinione di chi scrive, questa opzione della fiscalità differenziata, praticabile, dovrebbe essere solo l’anticipazione di una riduzione complessiva della pressione fiscale sulle attività di impresa nell’Italia intera: riducendo la sfera del prelievo, e delle funzioni ridondanti della macchina pubblica, ed aprendo una strada al crowding in, ad un allargamento della spesa privata rispetto alla spesa pubblica nell’insieme della domanda aggregata, che vada di pari passo con il ridimensionamento dei poteri e delle capacità di microintervento della pubblica amministrazione sulle dinamiche economiche e sociali. In ogni caso non esisterebbe una credibile politica della crescita senza la creazione di sistemi di partnership tra banche, università e centri di ricerca, imprese private. Come avvenne negli anni cinquanta serve una rete di collegamento tra pubblico e privato, tra banche, organizzazioni di ricerca ed apparati del sistema pubblico, ed imprese. Questi sistemi e reti di collegamento, tra risparmio ed investimento, dovrebbero fare perno su una industria dei fondi di investimento, finalmente più autonoma dai grandi gruppi bancari e capace di articolare strumenti ed organizzazioni dove si possano contaminare le competenze di chi agisce nelle imprese, sulla frontiera della ricerca tecnologica e nella finanza, per dare risposte adeguate ai problemi di valutazione e finanziamento degli investimenti, che accompagnano ogni percorso immaginabile della crescita. Sarebbe, ovviamente, necessario anche migliorare e supportare l’esistenza di mercati secondari per il capitale delle imprese familiari che, troppo spesso, ricevono dai fondi di investimento solo un supporto di tipo creditizio, attraverso contratti di put and call, mediante il finanziamento degli azionisti ed un successivo patto di riacquisto dei soci sulle quote conferite ai progetti imprenditoriali. Serve un mercato dei capitali se si vuole realizzare una estensione robusta e duratura della base industriale ed imprenditoriale nel Mezzogiorno10. 5. La ipotesi di una nuova governance per alimentare una politica di impianto diverso e di maggiore impatto sugli obiettivi Ad un decennio inconcludente, quello commentato nel Rapporto Svimez 2010, preceduto da un decennio almeno contraddittorio, l’ultimo degli anni novanta, deve necessariamente seguire un programma affidabile di lungo periodo. Mario Draghi è tornato più volte, nei suoi discorsi pubblici, sull’esigenza di riordinare l’industria dei fondi e potenziare ed allargare i mercati regolamentati dei titoli azionari. In effetti l’industria bancaria italiana, trasformandosi negli ultimi anni grazie al processo di concentrazioni e fusioni avviato dalla legge Carli – Amato, ha finito per rafforzare un sistema bank oriented rispetto ad un sistema market oriented nel nostro paese. Un sistema market oriented, come insegna la storia della cultura anglosassone rispetto a quella della Europa continentale, finisce per dare maggiore efficacia alla relazione virtuosa tra finanza e crescita. A maggior ragione quando si accelerano i processi di globalizzazione ed internazionalizzazione sul mercato mondiale. Una lettura interessante rispetto a queste tematiche è Peter L. Bernstein, Against the Gods, the remarkable story of risk, John Wiley & Sons, New York 1996, traduzione italiana Peter Bernstein, Più forti degli Dei, la straordinaria storia del rischio, Il Sole 24 Ore, Milano 2002 10 12 Troppa confusione alle nostre spalle sarebbe un peso insostenibile se non riuscissimo a dare una direzione di marcia strategica al governo della crescita ed al recupero del dualismo tra le due Italie. In primo luogo perché senza la crescita del Mezzogiorno, che rappresenta un terzo della popolazione italiana, sarebbe difficile immaginare una robusta crescita dell’Italia intera. Ed anche perché, liberata del Mezzogiorno, se mai fosse possibile farlo, l’Italia resterebbe limitata ad una regione, il centro nord est, che rappresenta solo un satellite dell’economia tedesca, ed un nord ovest alle prese con il superamento, non facile, della obsolescenza del modello fordista, che esso aveva sviluppato dagli anni sessanta alla crisi dei primi anni novanta. Troppo poco per fare dell’Italia una economia in prima fila nel quadro internazionale. Serve, insomma, un processo di unificazione economica che consolidi l’identità politica nazionale del paese e ponga le premesse, in un contesto europeo, di ulteriori sviluppi e cambiamenti in direzione di una maggiore crescita e di un benessere ragionevolmente condiviso tra gruppi sociali ed interessi economici diversi. Il rapporto Svimez propone un regime di governance basato su tre pilastri: un ruolo maggiore, di monitoraggio e controllo, della Commissione Europea; una conferenza permanente delle Regioni meridionali, che garantisca la convergenza su pochi grandi progetti infrastrutturali e riduca la frammentazione localistica che ha avvilito la storia dei progetti disseminati sul territorio meridionale negli ultimi dieci anni; la nascita di un organismo tecnico che rappresenti un’agenzia, al servizio delle politiche varate dalla conferenza delle regioni, la quale diventerebbe la controparte naturale del Governo in carica mentre, nell’ambito del Governo andrebbe creata una responsabilità puntuale che enfatizzi il valore strategico nazionale della crescita meridionale e della chiusura del dualismo. Questa architettura è largamente condivisibile ma potrebbe essere ulteriormente qualificata. Il primo pilastro, l’enfasi su un ruolo più deciso e presente della Commissione Europea, comporta la soluzione di un rebus abbastanza delicato. Il superamento dell’ambiguità che vede contrapposta l’ipotesi di una Commissione che rappresenti politicamente l’intera Europa e la leadership che esercitano, sulle dinamiche economiche e politiche dei paesi europei, i governi dei paesi più forti. Segnatamente la Germania. Il rigore fiscale che il Governo Merkel, incurante degli effetti deflattivi e della mancata crescita che quel rigore potrebbe generare, propone al vecchio continente rappresenta un caso clamoroso di questa contraddizione11. Nel medesimo tempo è evidente che solo un più forte ruolo politico della Commissione rappresenterebbe la garanzia di un efficace esercizio delle funzioni di governo e monitoraggio che la Svimez indica come necessarie. Si ricordi che la Germania è l’unica economia in avanzo corrente della propria bilancia dei pagamenti. Essendo un economia export led essa dovrebbe allargare la propria domanda interna, in una logica di espansione coordinata dell’economia europea, e non proporre una deflazione del mercato interno europeo per confermare se stessa come paese export led. 11 13 Un coordinamento tra le regioni meridionali è assolutamente necessario. Esse sono troppe e troppo diverse le une dalle altre per poter dare una risposta efficace ai problemi di una grande area territoriale, il Mezzogiorno continentale, che presenta tutti i caratteri di un player dalle dimensioni adeguate per assumere una identità economica e politica: in Europa e nel rapporto tra l’Europa e le varie culture politiche e le identità nazionali, che si affacciano sulle coste del mediterraneo. Questo coordinamento, dunque, non solo dovrebbe essere realizzato rapidamente ma dovrebbe puntare, nel giro di dieci anni, ad una struttura di governo coordinato che dia luogo ad una regione unica del Mezzogiorno continentale, così come, nel giro di dieci anni, il coordinamento consortile delle banche centrali, nei paesi aderenti all’area delle uro, è stato in grado di realizzare una piena rappresentatività unitaria della banca centrale europea. Più articolato deve essere il commento relativo alla nascita di un’agenzia, capace di essere, a valle del livello politico di coordinamento delle regioni, lo strumento di attuazione delle operazioni puntuali di investimento ed amministrazione. Senza contare che un federalismo all’italiana, cioè un decentramento della gestione della finanza pubblica, alla scala delle regioni esistenti, rappresenterebbe un consolidamento e, dunque, un ostacolo alla formazione di un organismo di coordinamento che, progressivamente, si sostituisca alle regioni stesse nel governo della politica di sviluppo. Le regioni, in questa prospettiva di convergenza e concentrazione dei poteri che dovrebbero governare il mezzogiorno da qui al 2020, dovrebbero invece diventare solo la dimensione amministrativa delle politiche sociali, come la formazione o la sanità. Distretti amministrativi che ottimizzano al dimensione delle reti e delle sedi necessarie per garantire un adeguato regime di welfare alla scala locale. Per quanto riguarda investimenti infrastrutturali, o politiche della crescita e dello sviluppo, sarebbe necessaria non un’agenzia ma una vera e propria banca di sviluppo, sul modello delle banche regionali del gruppo World Bank. Al capitale della quale partecipino anche le regioni, insieme con altre entità finanziarie. Questa banca potrebbe essere il perno di una rete multilaterale di scambi tra l’Italia e le varie identità economiche e politiche presenti nel mediterraneo. La banca di sviluppo, esaurita la stagione delle politiche di coesione nel 2015, potrebbe garantire la continuità degli interventi sul capitale umano, e sul capitale fisso sociale, da realizzare nel mezzogiorno continentale. Al suo capitale dovrebbero quindi partecipare non solo le regioni meridionali ed intermediari finanziari nazionali, come le banche commerciali o la cassa depositi e prestiti, ma anche la BEI ed altre istituzioni finanziarie internazionali. La creazione di un sistema di istituzioni, coordinate ma singolarmente dotate di poteri e missioni definite ed esclusive, rappresenta la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché il futuro possa essere governato lungo un sentiero di crescita intensa e di crescente equità sociale. Chiudendo nei prossimi dieci anni il dualismo tra le due Italie come, in un tempo molto simile, il Governo tedesco colmò la distanza economica e sociale che separava le due Germanie. 14 Il prossimo anno, centocinquanta anni dopo l’unificazione politica del paese, potrebbe e dovrebbe essere la cornice nella quale vengono varati un piano di sviluppo ed una architettura istituzionale capaci di chiudere il dualismo economico tra Nord e Sud12. 12 La memoria redatta da Pasquale Saraceno nel 1988 rappresenta una sorta di anticipazione e di sfida per la realizzazione di un simile programma. Si veda Pasquale Saraceno, L’unificazione economica italiana è ancora lontana, il Mulino, Bologna 1988. E, come spiega il rapporto Svimez 2010, la distanza che impedisce quella unificazione è ancora aumentata da allora, il 1988, ad oggi. Si veda anche Piero Barucci, La condizione del Mezzogiorno – ieri, oggi e domani – tra vincoli ed opportunità, a cento anni dalla nascita di Pasquale Saraceno, Quaderno numero 21 di Informazioni Svimez, Roma 2003. 15 Allegati Tavole e grafici 16 prodotto per abitante e sue componenti 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 media dev stnd ds/media prd/pop 56,1 56,8 57,0 57,1 57,0 57,5 58,1 57,8 58,2 58,8 prd/occ 82,3 81,9 81,5 82,1 82,4 82,6 83,2 83,4 84,3 85,3 occ/pop 68,2 69,4 69,9 69,5 69,2 69,6 69,8 69,3 69,0 68,9 57,4 0,8 0,014 82,9 1,2 0,014 69,3 0,5 0,007 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 prd/pop 13934,40 14721,80 15260,20 15621,50 16091,70 16500,10 17167,50 17656,60 17829,00 17317,30 16210,0 1316,4 0,081 valori originari a prezzi correnti in euro numeri indici 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 prd/pop 1,000 1,012 1,016 1,018 1,016 1,025 1,036 1,030 1,037 1,048 prd/occ 1,000 0,995 0,990 0,998 1,001 1,004 1,011 1,013 1,024 1,036 occ/pop 1,000 1,017 1,026 1,020 1,015 1,021 1,024 1,017 1,013 1,011 Tavola 1 Le dimensioni del prodotto lordo interno rispetto alla popolazione ed all’occupazione Nostre Elaborazioni su Rapporto Svimez 2010 17 Grafico 1 Il quoziente prodotto/popolazione nel Mezzogiorno Nostre Elaborazioni su Rapporto Svimez 2010 Grafico 2 Numeri indici in base 2000 = 1 I quozienti relativi tra prodotto interno lordo, occupazione e popolazione Nostre Elaborazioni su Rapporto Svimez 2010 18 Grafico 3 La dinamica del pil nelle macroregioni italiane Dati in miliardi di lire a prezzi concatenati Nostre Elaborazioni su Rapporto Svimez 2010 19 Grafico 4 La dinamica del pil nelle macroregioni italiane Dati in miliardi di lire a prezzi concatenati Numeri indici in base 2000 = 1 Nostre Elaborazioni su Rapporto Svimez 2010 20 21