LE ANTINOMIE IN KANT Molti sicuramente pensano che la filosofia debba dare un risposta alla questione imponente riguardante le leggi ultime che governano l’universo. Altri pensano che la filosofia sia il modo di dare una risposta e non un’altra; altri ancora che la filosofia sia nient’altro che la storia di tutti i tentativi e di tutte le risposte. Eppure, l’unico punto sicuro a cui si è giunti è che a taluni problemi non corrisponde alcuna soluzione. In fin dei conti, chi ha provato a dare la risposta non è mai riuscito ad argomentarla in modo così convincente da schiacciare l’opposto nella falsità comunemente accettata. Kant ha cercato di riassumere la questione in quattro sotto-problemi, quelli che l’essere umano può porsi, e oltre i quali, per così dire, non può arrivare a comprensione; si badi bene, senza mai trascendere la modalità logica di pensare, di concepire il ragionamento. In altri termini, senza mai sconfinare nell’irrazionale. La prima antinomia della ragion pura riguarda la possibilità che l’universo sia finito nel tempo e nello spazio, ossia chiuso rispetto a certi limiti, ovvero infinito rispetto a tempo e spazio e dunque privo di limiti. La seconda antinomia concerne la possibilità di infinita divisibilità delle cose (anche degli atomi), per cui disponendo di strumenti adatti, si potrebbe verificare che ogni particella consta di parti anch’esse divisibili; la tesi avversa è che invece tutto ciò che è composto consta di parti semplici, non ulteriormente divisibili (letteralmente, a-tomi cioè non-divisibili). La terza antinomia riguarda la spinosa questione del libero arbitrio: ha l’uomo una qualche possibilità di scelta rispetto al proprio destino o al proprio essere, oppure così come è stato determinato, allo stesso modo non potrà scegliere perché le cause naturali sono l’unica spiegazione dei fenomeni? La quarta antinomia riguarda il problema per cui se nel mondo tutto è contingente, cioè destinato a deperire, allora deve esistere qualcosa, di interno o esterno ad esso, di immanente o trascendente, che sia rispetto ad esso necessario; la antitesi è ovviamente che in nessun luogo si è mai potuto esperire un essere necessario che funga da causa rispetto al nostro mondo. Il punto chiave è che lo stesso Kant non prende una posizione rispetto a tutti questi problemi. L’unica eccezione si ha nella ragion pratica, quando il filosofo postula l’esistenza di Dio, la quale giustifica pienamente l’imperativo categorico del dovere-per-il-dovere. Ma riconosce egli stesso che l’esistenza di un essere giudicante è un presupposto per la morale. Quindi in realtà la scelta non è tanto per un’esigenza di tipo teoretico, che Kant non può risolvere perché non esistono mezzi logici per argomentare in modo definitivo una tesi di quelle quattro, bensì di tipo pratico, comportamentale. Questo è anche il primato della ragion pratica sulla ragion pura: anche se non ho i mezzi logici per decidere sulla realtà, devo comunque fare i conti con essa, viverla da dentro e non astrarmi per poi viverla. “Come quel tale Scolastico, che voleva imparare a nuotare prima di arrischiarsi in acqua”.