LA NOZIONE DI STATO NEL DE REPUBLICA DI CICERONE L

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HENRYK KuPISZEWSKI
LA NOZIONE DI STATO NEL DE REPUBLICA DI CICERONE
L'argomento del nostro colloquio tulliano, «Cicerone e Io Stato», è
una conferma ulteriore del particolare interesse che gli addetti agli studi
sull'antichità nutrono ultimamente per le dottrine politiche e giuridiche dei
greci e romani. Mi sembra che alla radice di questo fenomeno vi siano due
diversi motivi, di carattere generale l'uno e del tutto specifico l'altro.
La filosofia antica e medievale influiscono sull'intellettuale odierno in
modo ben più forte e immediato delle correnti filosofiche che- come l'idealismo moderno, il materialismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo o
la nuova metafisica - si sono formate negli ultimi secoli (1).
L'uomo antico aveva fiducia nel mondo circostante che concepiva come un ordine armonico, chiamato cosmo. Scorgeva e viveva la natura, fysis, come una realtà data. Era convinto che all'inizio c'era stato il mondo,
precedendo l'apparizione dell'uomo. Il mondo esterno gli era naturale e veniva considerato anteriore al mondo interiore, quello dei pensieri, in cui
l'uomo, tenace, si sarebbe addentrato con non poca fatica. La riflessione
dell'uomo antico si concentrava dapprima sui problemi dell'essere, poi su
quelli epistemologici, per arrivare infine al problema più importante: gnothi seauton. L'ammirazione per la natura lo spingeva a conoscerla, la fede
nell'esistenza di un ordine naturale gli permetteva di credere nel senso della
vita. L'uomo antico voleva conoscere la natura per conformarsi e sottoporsi alle sue leggi. Divergeva pertanto dall'uomo moderno che sin dal Rinascimento si sforza di dominarla e quindi di modificarla.
Ogni convinzione metafisica incide sugli atteggiamenti sociali. Poiché
l'uomo antico contemplava dapprima il mondo e la gente che aveva attorno e soltanto in seguito riuscì a raggiungere il proprio «io» soggettivo, José
Ortega y Gasset (2) lo definì tipo agorale, che vive, in senso letterale e figurato, sulla piazza centrale della polis, circondato dai suoi concittadini. La
solitudine gli sembra inconciliabile con la natura umana e la pena dell'esilio, che costringe il cittadino ad allontanarsi dal suo ambiente politico e so(l) Vedi R. Marcic, Vom Gesetzesstaat zum Richterstaat, 1957, 48 ss.
(2) Vedi Das Buch des Betrachters, 1934, 145 ss.
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ciale, gli pare oltremodo severa. Questo polites elabora trattati sugli ordinamenti giuridici e sulle diverse forme che assume la vita politica, e nel contempo inscrive i problemi che vi discute in quel catalogo che risulterà «l'essere» di generazioni che vivranno subito e anche molto dopo di lui - comprese quelle che vivono adesso. Siamo debitori dei Greci per la capacità di
riflettere sulla politica e sul diritto, e dei Romani per quel loro diritto che,
per quanto riguarda il lato formale e quello pratico dell'applicazione, raggiunse un livello a cui nessun altro diritto si sarebbe poi saputo elevare.
Non c'è quindi da stupirsi se l'intellettuale odierno rilegge con la massima
attenzione l'utopia di Platone, gli scritti di Cicerone o il Corpus luris di
Giustiniano.
Il motivo specifico che vivifica l 'interesse per le dottrine politicogiuridiche dell'antichità è connesso ai problemi che il nostro continente si
propone di risolvere in questo frangente storico. Come liberarsi dal totalitarismo? Come fondare la democrazia laddove manca? Come radicarla
laddove è fragile, come renderla governabile laddove esiste?
Fra le dottrine dell'antichità la ricchissima opera filosofico-politica di
Cicerone - e in particolare il suo trattato sulla repubblica - occupa un
posto particolare. E il motivo è presto detto: Cicerone non vagheggia un
utopico ideale di Stato bensì discorre di uno Stato che, calato nella storia,
esiste ed agisce sotto gli occhi di tutti (4).
Il trattato in parola è piuttosto teoretico o pratico? Gli studiosi si affannano a stabilirlo. E le loro conclusioni variano a seconda della temperie
storica in cui vengono tratte. Non c'è dubbio che i contemporanei vi videro
l'esposizione di un atteggiamento contingente di ferma difesa della repubblica hic et nunc. E che l'aristocrazia volle trame una giustificazione teorica del proprio comportamento politico. Il testo fu letto da tutti. Ma poi
per tre secoli si trovò sepolto nell'oblìo. Lo riscoprirono gli scrittori cristiani: Lattanzio, Agostino, Isidoro di Siviglia che vi scorsero un'opera teorica. E tale sembra anche oggi. Il trattato è composto di elementi greci e romani, di motivi originali, ciceroniani, e di motivi che Cicerone ha desunto
da altri autori: saper distinguere gli uni dagli altri è fondamentale per una
corretta interpretazione del De republica, ma non meno importante è saper
dare una risposta soddisfacente a questa domanda precisa: in quale misura
la filosofia fosse allora serva della politica?
Nel De republica Cicerone contempla vari assetti di governo, quello
monarchico, aristocratico e democratico, nonché i loro opposti, cioè la ti(3) Per la immensa bibliografia vedi P.L. Schmidt, Cicero, «De re publica».
Forschung der letzten fuenf Dezennien, in ANRW l , 4, 262 ss.
(4) Vedi F. Solmsen, Die Theorie der Staatsformen, in Das Staatsdenken der
Roemer, 315 ss.; K. Kumaniecki, Literatura rzymska ( = Letteratura romana),
1977, 328.
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rannia·, l'oligarchia e l'oclocrazia (5). Dà un ottimo voto al regno, nonnasconde una viva simpatia per l'ordinamento aristocratico, ma a tutte preferisce la quarta forma di governo, quella mista. «È ben soddisfacente infatti
- confida - che nello Stato vi sia un chè di preminente e regale, e che altro sia partecipato e attribuito alla autorità degli eminenti cittadini, e che
taluni affari siano serbati al discernimento e al volere della massa. Questa
costituzione ha in sé, in primo luogo, eguaglianza grande quanto possibile,
di cui difficilmente possono troppo a lungo fare a meno gli uomini liberi;
ha poi stabilità, e perché quei primi ordinamenti facilmente si tramutano
nei difetti opposti: dal re vien fuori il padrone; dagli ottimati, la fazione;
dal popolo, disordine e confusione; e perché le stesse specie si tramutano
spesso in specie nuove; questo in quella congiunta e armonicamente e pienamente fusa costituzione di Stato non avviene normalmente se non per
gravi colpe dei cittadini eminenti (6). Infine Cicerone descrive il politico
ideale, chiamato princeps, gubernator, rector o modera/or che ha da svolgere, nella vita dello Stato, un ruolo a dir poco provvidenziale. Un personaggio difficilissimo da interpretare. Le opinioni sul suo conto non sono
concordi. Per alcuni il
descritto da Cicerone nel De republica è un
riflesso dell'ideale del monarca buono (rex), altri vi individuano un antesignano delle forme di governo proprie di un'epoca che non avrebbe tardato
a venire; e c'è inoltre chi vi scorge il topos dell'aner archikos che la dottrina
greca ha tanto discusso in testi di Platone, Aristotele, Teofrasto, Dicearco
e fors'anche Panezio, per altri infine si tratta di una proposta originale di
al quale, nell'avanzarla, potevano fungere da modello le forti
personalità di Scipione il Giovane, di Scipione Nasica, di Pompeo, forse
la propria. K. Kumaniecki suppone che Cicerone si riferisse all'élite aristocratica romana (7).
Parallelamente all'elenco dei problemi a cui Cicerone ha dato nel suo
scritto un'impostazione teorica, se ne potrebbe compilare un altro, quello
degli argomenti omessi. Per il pubblico di duemila anni fa e di oggi sarebbe
(5) Vedi F . Solmsen, op.cit., 316 ss.; K. Buechner, Cicero, 1962, 25 ss.; N.
Wood, Cicero's Social and Politica/ Thought, 1988, 120 ss., 159 ss.
(6) Rep. l, 45, 69: placet enim esse quiddam in re publica praestans et regale,
esse aliud auctoritati principum inpartitum ac tributum, esse quasdam res servatas
iudicio voluntatique multitudinis, haec constitutio primum habet aequabilitatem
quandam magnam, qua carere diutius vix possunt liberi, deinde jirmitudinem,
quod et il/a prima facile in contraria vitia convertuntur, ut exsistat ex rege dominus,
ex optimatibus jactio, ex populo turba et conjusio, quodque ipsa genera generibus
saepe conmutantur novis; hoc in hac iuncta moderateque permixta constitutione rei
publicae n or ferme sine magnis principum vitiis evenit. La traduzione italiana viene
dall'edizione a cura di Filippo Cancelli.
(7) Vedi op. cit., 327 s.; idem, Cicerone e la crisi della repubblica romana,
1972, 369 s.; E. Lepore, // princeps ciceroniano e gli ideali politici della tarda
repubblica, 1954, 56 ss.; P.L. Schmidt, op. cit. , 323 s.
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una lettura senz'altro interessante. Cicerone si sofferm;;1 appena sulle leggi
e tralascia la magistratura. Va ricordato, però, che sia delle une che dell'altra si sia occupato in modo - se è lecita l'espressione - sistematico nel
De legibus. Non menziona affatto né le finanze né l'organizzazione dell'esercito che, è vero, la dottrina greca non annoverava fra i classici topoi delle discussioni sul concetto dello Stato. Sorprende nondimeno che Cicerone
abbia eluso il problema dell'organizzazione dell'esercito che a Roma influiva seriamente sulla forma di governo. Nel periodo monarchico l'esercito
doveva una gran parte della propria forza d'urto ai nobili che combattevano sui carri o a cavallo. L'assetto repubblicano si dimostrò stabile finché
ebbe al suo servizio un esercito popolare. L'avvento dell'esercito professionale contribuì seriamente a spianare la strada alla monocrazia.
Siamo abituati ad apprezzare l'opera in parola per l'eccellente descrizione della dialettica della transizione da una forma di governo all'altra
nonché per l'esposizione dei motivi che inducono a considerare una forma
di governo superiore ad altre. Ma sono profondamente convinto che non
meno importanti sono le riflessioni sullo Stato che per Cicerone non è tanto
un meccanismo quanto un organismo vivo e fondato su alcune regole ben
individuabili. Cicerone ci descrive la fase costitutiva dello Stato e alcune
fasi del suo sviluppo. È dell'avviso che uno Stato «non per intelligenza d'uno, ma di molti, né di molti, né per la durata d'una vita d'uomo, ma era
stato formato per non pochi secoli ed età» (8). Postula Cicerone che i cittadini siano in grado di servire egregiamente lo Stato in virtù di una preparazione accurata e seria, e ai cittadini chiede di non esimersi da tale servizio.
«E non, davvero, la patria ci ha generati o educati con questa condizione,
da non attendersi da noi, per dir così alimenti, e soltanto per, a servizio
lei dei nostri comodi, fornirci un sicuro rifugio per la nostra tranquillità
e un luogo imperturbato al nostro ozio, ma perché essa si riservasse le più
numerose ed elevate facoltà del nostro animo, talento e senno per il suo utile, restituendoci a nostro privato giovamento tanto 1 quanto potesse riuscirle superfluo» (9). Questo postulato emana dal profondo della sua eclettica
filosofia. Cicerone elabora a Roma un programma educativo fondato sulla
humanitas che esalta una formazione filosofico-teorico-giuridica, a differenza dell'ellenistica enkyklios paideia, costituita innanzitutto da elementi
letterari e soltanto in secondo ordine da quelli etici ed estetici. La humani(8) Vedi rep. Il, l, 2; .. .nostra autem res publica non unius esset ingenio sed
multorum, nec una hominis vita sed aliquot constituta saeculis et aetatibus.
(9) Vedi rep. I, 4, 8: neque enim hac nos patria lege genuit aut educavi!, ut
nulla quasi alimenta exspectaret a nobis ac tantummodo nostris ipsa commodis serviens tutum perfugium otio nostro suppeditaret et tranquillum ad quietem locum,
sed ut plurimas et maximas nostri animi ingenii consilii patris ipsa sibi ad utilitatem
suam pigneraretur tantumque nobis in nostrum privatum usum quantum ipsi superesse posset remitteret.
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tas doveva preparare i cittadini ad una vita politica e sociale. La conoscenza del diritto, inteso come grammatica della convivenza umana, assieme alla capacità di interpretarlo nel modo più sottile e di applicarlo nel modo
più accorto occupano in questo programma di educazione civica un posto
essenziale (10).
Alle fondamenta dello Stato di Cicerone si trovano il diritto ed alcuni
principi etici fondamentali. È lapalissiana, oggi, la constatazione, che come teorico dello Stato l'Arpinate subiva l'influenza della filosofia greca.
Vale la pena sottolineare, però, che fu il primo romano a conoscerla così
bene ed a trapiantare, da grande intenditore, importanti motivi sul suolo
dell'Urbe, e che seppe altresì definire un'ingente quantità di nozioni scientifiche e concettualizzare numerosi fenomeni e processi. In quest'ultimo caso le nozioni che coniava ricevevano un'impronta e un colorito romano.
Prima di occuparci delle osservazioni di Cicerone sul diritto e sull'etica, ci sembra giusto indugiare un attimo sulla sua definizione dello Stato.
Ricordiamola: Est igitur res publica res popu/i, popu/us autem non
omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis
iuris consensu et utilitatis communione sociatus (11).
Ai molti commenti (12) che la corredano vorrei aggiungere due osservazioni. Nella frase in cui il nostro autore dà una definizione negativa, mettendo in risalto quello che il popolo non è, si esprime nel modo seguente:
omnis hominum coetus. Ci si potrebbe quindi aspettare che nella frase successiva, dove viene data una definizione positiva, l'espressione omnis hominum coetus debba essere ripetuta. Ma non c'è. Invece dell'atteso omnis
hominum coetus vi leggiamo coetus multitudinis. Ci imbattiamo quindi su
una sineddoche, in cui la species viene adoperata al posto del genere. Ed
è una sineddoche giustificata da profonde ragioni giuridiche. Il genere homines è comprensivo sia dei liberi che dei servi. L'espressione omnis hominum coetus avrebbe potuto indurre a pensare che anche i servi fossero soggetti dello Stato. Il che non corrispondeva alla verità. Invece l'espressione
coetus multitudinis, sebbene non precisasse chi fra gli homines fosse soggetto dello Stato, permetteva di escludere i servi e di confermare la definizione al requisito della correttezza formale.
Coetus multitudinis iuris consensu... sociatus è una definizione. Soggetto dello Stato sono i cittadini - nel loro complesso e nella loro continui(10) Vedi H. Kupiszewski, Prawo rzymskie a wsp6/t czesnosé ( = Il diritto romano e la contemporaneità), 1988, 184.
(11) Vedi rep. l, 25, 39: È dunque lo stato ente del popolo; il popolo d'altra
parte non è ogni aggregazione d 'uomini aggruppata in una maniera qualunque, ma
l'aggregato di un complesso di uomini unito dall'armonia del diritto e dalla comunanza di utilità.
(12) Vedi R. Stark, Ciceros Staatsdefinition, in Das Staatsdenken der Roemer,
332 ss.
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tà storica, mentre ne è oggetto un vincolo ideale e permanente formato per
il riconoscimento di un diritto comune. Nella definizione in parola Cicero-
ne sostiene fermamente che lo Stato è costituito dal popu/us, e non, come
saliamo affermare oggi, dalla concorrenza. di più elementi, quali il territorio, gli abitanti, il potere.
Allefundamenta dello Stato c'è il diritto naturale, chiamato /ex naturae, /ex naturalis ovvero /ex summa, /ex vera, /ex divina et humana. D'accordo con gli stoici, Cicerone ritiene che tale diritto sia eterno, immutabile
e vincolato per tutti: huic /egi nec obrogari jas est, neque derogari aliquid
ex hac /icet, neque tota abrogari potest, nec vero aut per senatum aut per
populum so/vi hac lege possunius... nec erit alia /ex Romae, alia Athenis,
alia nunc, alia posthac, sed et omnes gentes et omni tempore una /ex et
sempiterna et immutabilis continebit... (13).
Benché sia diffuso in tutti gli uomini, il diritto naturale non vige di per
sé, ma deve essere attuato dagli uomini che, come si è detto, ne sono tutti
portatori. Nel De officiis Cicerone precisa che l'uomo dovrebbe astenersi
da qualsiasi comportamento che potesse distruggere il bene comune e nuocere alle regole della convivenza umana, adoperandosi nel contempo a rafforzare e ad arricchire quei legami che trasformano una semplice moltitudine di persone in società (14). Vivendo secondo n_atura ci rendiamo simili,
o perlomeno ci avviciniamo a Dio. E ci dimostriamo ottimi cittadini, perché tale vita, come già insegnava Platone, è sinonimo di una delle virtù civiche più importanti. Accanto al diritto naturale esistono lo ius civile, lo ius
gentium e i diritti di vari popoli. Fondati su norme di diritto positivo, questi ordinamenti dovrebbero conformarsi ai precetti del diritto naturale.
Nello Stato di Cicerone il bene supremo da raggiungere è il bonum comune, come è ovvio che sia in uno Stato che si è formato in virtù dell'utililas publica. La filosofia del diritto dell'Arpinate si fonda sulla stoica oikeiosis e sull'idea della concordanza fra l'utilità generale e la vera utilità
individuale. Tale impostazione è presente in tutta la sua opera politica e filosofica. La volontà di raggiungere il bonum comune, intesa come uno dei
motivi principali dell'attività umana, oltre a ricollegarsi alla gerarchia stoica dei valori, costituisce anche il fondamento della teoria ciceroniana delle
fonti del diritto. Nella concezione dell'Arpinate risaltano elementi etici,
politici, sociologici e anche quelli di carattere giuridico. Il diritto positivo
non può trovarsi in condizioni di partità bensì di subordine rispetto al bonum comune, dovendone facilitare il raggiungimento e precisarne il contenuto.
I cittadini intenti a raggiungere il bonum comune dovrebbero eccellere
in alcune virtù, quali la iustitia, la benejicentia, la liberalitas, l'aequitas
(13) Rep. III, 22, 33.
(14) De ojficiis III, 5, 21-26.
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ecc. Si tratta di nozioni un po' vaghe, difficili da definire, che spesso s'intrecciano e tendono a trasformarsi l'una nell'altra. La più importante di
questo gruppo di virtù è la iustitia. Platone e Aristotele le dedicarono
un'attenzione tutta particolare. Il più tardo dei due filosofi distingueva la
iustitia commutativa e quella distributiva. La prima è aritmetica e consiste
nel corrispondere con l'uguale all'uguale, la seconda è geometrica e quindi
in un certo senso proporzionale. Cicerone delimita la sapientia dalla iustitia
e riferendosi a quest'ultima, rileva: iustitia autem praecipit parcere omnibus, consulere generi hominum, suum cuique reddere (15). Simile, ma più
precisa, è la definizione che avanza nel de inventione:iustitia est habitus
animi, communi utilitate conservata, suam cuique tribuens dignatatem
(16). Si ricorderà che Ulpiano, ritornando due secoli dopo sull'argomento,
avrebbe scritto: lustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique
tribuendi (17). Per Cicerone quindi la giustizia è una virtù dell'anima, una
virtù con un compito preciso, quello di contemplare sia l'interesse generale
sia l'interesse individuale che esige di dare a ciascuno quello che gli spetta.
«La giustizia si concepisce non tanto come conformità al diritto positivo,
ma in modo più largo, come giustizia da attuare: si parla infatti di tribuere
ius; quindi si tratta non solo di riconoscere e adattare, ma di attribuire a
ciascuno il suo diritto, secondo un ideale di giustizia che non è fisso, ma
variabile secondo i tempi e le circostanze» (18). La giustizia è strettamente
legata all'aequitas concepita come ideale di un comportamento equo. Anche in questo caso Cicerone si preoccupa di darne una definizione ad uso
dei romani. Nella sua delucidazione l'equità si sostanzia nel postulato di
applicare a livello oggettivo e soggettivo, un diritto sempre uguale. Occorre
quindi che ognuno, alto o basso che sia il posto che occupa nella gerarchia
sociale, sia giudicato secondo un diritto valido per tutti: aequitate constituenda, summos cum infimis pari iure retinebat. Per quanto riguarda il lato oggettivo, si chiede che in casi identici sia sempre applicato lo stesso diritto: valeat aequitas, quae paribus in causis paria iura desiderai.
Richard Heinze definì una volta il De republica quale «politische Tendenzschrift» (19). Si riferiva ovviamente a tutti i condizionamenti storici e
personali che avevano indotto Cicerone ascriverla. Da parte nostra vorremmo sottolineare che quest'opera è così ricca di riferimenti a problemi di imperitura attualità, di riflessioni su idee stimolanti, che è ben certo che resterà
ancora a lungo fra le opere che proficuamente continueremo a consultare.
(15) Vedi rep. III, 15, 24.
(16) Vedi II, 35, 160.
(17) Vedi D. l, l , 10 pr.
(18) Vedi B. Biondi, Aspetti del pensiero giuridico romano, in Symbolae R.
Taudenschlag dedicatae, 2, 1957, 205.
(19) Vedi Ciceros «Staat» als Tendenzschrift, in Das Staatsdenken der Roemer, 291 ss.
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