Consecuencias sociales, políticas y jurídicas de la ideología de género Diritto e differenza sessuale Fabiana Cristofari Dottore di Ricerca in Scienza, Tecnologia &Diritto Università Studi di Catania – Italia [email protected] Nel quadro dell’evoluzione dei sistemi giuridici, con l’avvento delle Costituzioni moderne, gli ordinamenti sono stati caratterizzati da una maggiore attenzione ai valori etici dell’individuo – positivizzati sul piano delle dichiarazioni internazionali – e dall’esigenza di garantirne una migliore qualità della vita insieme al pieno e libero sviluppo delle sue capacità espressive. Tale realtà è andata di pari passo con l’accelerazione della ricerca nel campo della scienza medica e biologica che, all’inizio degli anni settanta del secolo scorso, ha giustificato una serie d’interventi e sperimentazioni finalizzati al raggiungimento di livelli di benessere sempre più alti sulla linea della definizione del concetto di salute data nel 1946 dall’O.M.S. quale “stato di perfetto benessere fisico, mentale e sociale, e non solo l’assenza di affezioni o malattie”. Tale definizione ha implicato il superamento del concetto di “normalità”, implicito nell’idea di salute come assenza di malattia, ed ha spostato il problema dalla realtà oggettiva alle esigenze soggettive, di cui il concetto di “benessere” è appunto l’espressione. Molti dei problemi acuti che si presentano attualmente come fonte di dibattito in bioetica derivano dal ruolo guida assunto nella domanda di salute dal desiderio rispetto al bisogno. Così, nella prospettiva più attuale, anche i fenomeni giuridici hanno posto al centro di particolare attenzione e regolamentazione i profili attinenti alla qualità della vita della persona con gli interconnessi interrogativi relativi ad un sistema legislativo che sarebbe chiamato a riconoscere come diritti i desideri degli individui, con particolare riferimento al proprio corpo in quanto strumento d’identità e alla propria capacità procreativa: si formalizzano così i diritti riproduttivi i quali ricomprendono sia il diritto alla libera e responsabile regolamentazione della fertilità sia quello ad avere un figlio e, attraverso l’elaborazione giurisprudenziale sul “danno da procreazione”, il diritto ad averlo sano. In questa linea molte attiviste femministe, portatrici dell’ideologia gender, hanno sostenuto che i “diritti riproduttivi” sono inclusi tra i diritti umani sperando che la Conferenza del Cairo (1994) avrebbe affermato l’esistenza dei “diritti sessuali e riproduttivi”, definiti da tali attiviste come il rispetto per l’integrità del corpo della donna e le sue decisioni. Questi diritti sarebbero potuti essere rivendicati dalla donna in maniera autonoma 1 riconoscendole oltre al diritto all’aborto1, tra gli altri diritti, anche quello ad avere un figlio, attraverso il ricorso alle nuove tecnologie riproduttive, indipendentemente dal suo orientamento sessuale o dalla presenza della figura paterna. Di fatto la procreazione attraverso le nuove tecnologie riproduttive offre all'uomo e alla donna la possibilità di realizzarsi come madre e come padre senza la necessità di esser coinvolti nel rapporto sessuale di coppia e indipendentemente dalla sussistenza di condizioni patologiche impeditive. Dunque, destinatari della possibilità di una procreazione umana scissa dalla sessualità del rapporto, possono essere non solo la coppia eterosessuale, ma anche la donna singola o omosessuale con la conseguente emersione, per scelta privilegiata, di "nuovi modelli familiari" da intendersi, secondo alcuni, in alternativa a quello tradizionale e di "nuove identità genitoriali” caratterizzate dalla rinuncia antropologica all'ancoraggio fisico della paternità in un corpo maschile e della maternità in un corpo femminile e rimandanti, piuttosto, all'esercizio di alcune “funzioni” (genitore sociale, biologico, legale, cogenitore, madre per conto di terzi …). Un confronto di alcuni casi giurisprudenziali e riferimenti legislativi nazionali ed internazionali, in tema di tecnologie riproduttive/famiglia, mette in luce un implicito relativismo etico-giuridico che condiziona la soluzione delle singole fattispecie: il “desiderio” di avere un figlio sembra fungere da “trascendentale”, fondamento di ogni realtà lecita e da “intessitore” di una “nuova rete” del diritto di famiglia le cui “maglie” vengono ora “dilatate”, ora “ristrette” (modelli monoparentali), conformemente ad una disciplina che non offre un’unica risposta, ma tende a modularla in relazione alle parti coinvolte. Potrebbe emergere, dunque, il dubbio di poter prescindere dall’idea di unico modello familiare con cui confrontare la prassi, per promuovere, invece, un diritto aperto a varie forme di strutture familiari che siano rispettose degli interessi del nascituro, posto che sarebbe da dimostrare che il modello di famiglia “tradizionale” (stabile, bigenitoriale ed eterosessuale) sia da preferire a quello monogenitoriale o omosessuale. In tal senso, addentrandomi nel terreno della psicoanalisi freudiana e degli sviluppi ad essa successivi ripercorro i sentieri che l’analisi psicoanalitica considera fondamentali per la costruzione dell’identità individuando nel “principio famiglia” il criterio d’intelligibilità teso a riconoscere quelle tecniche che, di principio, non sottraggono all’individuo la possibilità della sua identità personale e relazionale. Infatti, i risultati psicoanalitici della ricerca evidenziano come la famiglia bigenitoriale ed eterosessuale costituisca il luogo generativo e rigenerativo fondamentale della differenza sessuale e, dunque, anche il luogo costitutivo di quel codice duale su cui si fonda il pensiero umano e la relazione di piena reciprocità intersoggettiva. Per cui se da una parte è vero che non esiste una correlazione diretta tra doppia presenza genitoriale, eterosessuale di riferimento e 1 . Garantendo una versione internazionale della decisione Roe versus Wade 410 U.S. 113 (1973) 2 l’attitudine educativa; dall’altra bisogna ammettere che ciò che è in gioco è molto più di alcune attitudini soggettive: si tratta di riconoscere il carattere imprinscindibile di strutture relazionali costitutive della differenza sessuale determinate dall’eterosessuazione (il “sessuato” rimanda al maschile e al femminile) e dall’eterosessualità (il “sessuale” rimanda ad un comportamento, la sessualità) dei genitori. Dunque, ad un esame attento del problema emerge come l’erosione della famiglia tradizionale appare un aspetto di un più ampio fenomeno, proposto dai gender studies, corrispondente allo “sganciamento” della natura dalla cultura, del corpo dalla mente, della differenza sessuale dal “genere” e, dunque, all’erosione del concetto stesso d’identità. Tale prospettiva promuove l’idea che l’identità sessuale (“genere”) sia una “costruzione” radicalmente indipendente dalla corporeità sessuata (“sesso”) e, relativizzando la nozione di “sesso”, sostiene che non esistano due sessi quanto, piuttosto, molti “orientamenti sessuali” (da cui alcune posizioni divergenti rispetto alla psicoanalisi freudiana secondo cui anche il narcisismo avrebbe degli aspetti relazionali e, comunque non è da considerasi sempre come pre-oggettuale o patologico fino alla soppressione della voce omosessualità dai Manuali Psichiatrici). Ma, a questo proposito, integrando i risultati della psicoanalisi – di per se aporetici se considerati in maniera autoreferenziale – all’interno di un più ampio orizzonte quale quello filosofico, (contrariamente alla prospettiva antropologica dualista che è a fondamento delle teorie gender) la dialettica tra il “corpo che siamo” e il “corpo che abbiamo” esprime l’inseparabile dislivello entro il quale si profila il dovere di un’integrità da custodire e il valore di un’identità da realizzare all’interno della famiglia la quale, tramite la presenza della figura bigenitoriale eterosessuale di riferimento, costituisce la norma antropologica che consente al figlio di autocostruire la propria identità sessuata in conformità al dato della sua corporeità biologica. Dunque, la paternità e la maternità come modi costitutivi della familiarità nel processo di produzione dell’io, lungi dall’ essere meri ruoli sostitutivi ed intercambiabili, sono modi di essere dell’esistente attraverso cui si attiva l’acquisizione dell’identità dell’essere umano. In questo senso, nulla vale che la scienza oggi, con il ricorso alle tecniche di fecondazione assistita, renda possibile “avere un figlio”, al di fuori di ogni relazionalità personale, dal momento che la scissione della sessualità dalla sua dimensione intrinsecamente ontologico-relazionale rende irrilevanti le identità dei genitori e dei figli, rischiando di annientarle. In un contesto di azioni soggettive che rafforzano la chiusura solipsistica dell’individuo rispetto alle alterità coinvolte nella dinamica sessuale, emerge l’impossibilità di configurare un diritto ad avere un figlio, rivendicato dalla donna in assenza del padre dal momento che, altrimenti, anche la norma si farebbe autoreferenziale, indifferente alla coesistenza e alle identità in relazione. La de-soggettivizzazione delle persone, in questo senso, 3 condurrebbe a de-relazionare il diritto con la conseguente alienazione sociale della norma giuridica, il cui contenuto va individuato nella struttura relazionale che la stessa consente di tutelare. Secondo la prospettiva di una riflessione filosofica del diritto quel che rileva è che, nella pratica della procreazione assistita ad una donna sola o ad una coppia di donne omosessuali, non si assista alla mera possibilità di erosione di un modello familiare (quello tradizionale) – storicamente determinato secondo alcuni, o naturalisticamente fondato secondo altri – ma della “stessa familiarità nella sua struttura giuridica fondamentale” attivando un’antropologia che è quella del “carattere irrelato della soggettività” a scapito della verità del diritto chiamato alla tutela del carattere relazionale e simmetrico dei rapporti. In questo senso si coglie l’antigiuridicità della rivendicazione da parte della donna del diritto ad avere un figlio, quale diritto “assoluto” e privato in quanto riconducibile al diritto di disposizione autonoma del proprio corpo, dal momento che il riconoscimento dei “diritti riproduttivi sessuati” in ordine al diritto di procreare, determinando paradossalmente l’assunzione di un “modello asessuato” (nella linea del non-riconoscimento delle differenze sessuali e dei ruoli di padre e di madre in esse fondati e nella linea del superamento della bipolarità sessuale in favore di una soggettività sessualmente indifferenziata) contravviene alla dimensione della coesistenza propria della “verità del diritto”. L’ “ossessiva pretesa di rifiutare qualsiasi limite, qualsiasi cosa sia altro da sé” – il rifiuto dell’alterità del corpo, del genere e del generare – “nasconde una forma sottile di nichilismo. E’ un nichilismo psicoanalitico, la dissoluzione narcisistica di tutto ciò che non sia riconducibile all’io, che tende a divenire nichilismo giuridico, quando i diritti dell’uomo sembrano costruiti in funzione di questo potenziamento illimitato della volontà” (S. Amato, “Biogiurisprudenza”, pp. 153-4). Dunque, l’erosione della famiglia come un aspetto di un più ampio fenomeno di erosione nichilistica della stessa identità soggettiva sembra, “progressivamente passare dal rifiuto dei vincoli del corpo, e con essi dei vincoli di genere, al rifiuto del vincolo in quanto tale” (S. Amato, “Biogiurisprudenza”, pp. 153-4). 4