la società italiana - Federazione Trentina della Cooperazione

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LA SOCIETÀ ITALIANA:
TRA SOPRAVVIVENZA E INNOVAZIONE
Francesco Occhetta Si.
Nel 2013 «il crollo atteso da molti non c'è stato». È questo il
tenue raggio di sole che, in mezzo a tante nuvole oscure, spunta
dall'analisi del 47° Rapporto del Censis sulla società italiana1. Le famiglie italiane e le imprese, soprattutto quelle piccole, stanno attraversando gli anni della crisi economica e sociale grazie alla «capacità di sopravvivenza». Una virtù antica e fuori moda che permette di
guardare indietro per attingere, come in un pozzo di acqua limpida,
quei valori su cui si è fondato lo sviluppo del dopoguerra — le radici
contadine e l'appartenenza alla terra, l'imprenditorialità artigiana e
lo spirito mercantile, la vocazione al lavoro individuale «fai da te» e
le ragioni del volontariato sociale —, ma anche di guardare avanti
adeguando e autoriformando i propri comportamenti in termini di
sobrietà e senso della misura.
Non è però tutto oro quello che luccica. L'altra faccia della medaglia che impedisce alla sopravvivenza di trasformarsi in crescita e
sviluppo è costituita da quei vizi sociali che rendono la società italiana
«sciapa e infelice». Una società «sciapa», secondo il Censis, perché è
senza fermento, vincono i furbi sugli onesti e il lavoro è svolto senza
passione; ma anche una società in cui l'evasione fiscale e il disinteresse per il Governo del Paese sono crescenti. Una «società infelice»,
invece, a causa dell'ampliamento delle diseguaglianze sociali e della
definitiva rottura del «grande lago della cetomedizzazione», le cui
protezioni sociali hanno garantito agiatezza e coesione sociale. Molte
persone sono costrette a cambiare il loro tenore di vita, scendendo dal
livello sociale che avevano conquistato. È questa la principale causa
1.
CENSIS, 47° Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2013, Roma,
Francoangeli, 2013. Le citazioni dirette sono tratte dal Rapporto.
che alimenta il rancore, «che non viene da motivi identitari, ma dalla
crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti».
L'affanno sociale sta togliendo quella gioia di vivere «con vigore
e fervore» quei processi di sviluppo che hanno caratterizzato la seconda metà del Novecento. In quale modo allora è possibile riscoprire «il fervore del sale», si chiede il Censis, senza il quale «non si
può produrre alcuna mutazione degli elementi sociali»?
La sopravvivenza delle famiglie
Secondo il Rapporto, lo smottamento subito da «casa Italia» dovrebbe arrestarsi nel 2014. Tuttavia, se da una parte è stato evitato il
cedimento del sistema, dall'altra la recessione di questi ultimi cinque
anni «ha profondamente fiaccato» il Paese. Il calo dei consumi in
Italia — che non è però l'unico indice per misurare la salute di una
società — è sintomo di «un Paese sotto sforzo» e «smarrito». Il 69%
delle famiglie italiane ha dovuto ridurre la spesa. La crisi sta imponendo «una nuova sobrietà» nei comportamenti e nelle scelte individuali, che evitano sprechi ed eccessi. Sono aumentati sia i sacrifici
per risparmiare sia l'incertezza dei «continui cambiamenti» fiscali,
— Iva sì e Iva no, Imu sì e Imu no, poi di nuovo sì e infine ni —, che
«non consentono di effettuare previsioni di spesa». Anche coloro
che potrebbero non spendono, e la paura della crisi sta riportando
gli italiani a essere come le formiche, che accantonano provvigioni,
risorse e risparmi.
Dai primi anni 2000 a oggi si sono drasticamente ridotte le
spese degli alimentari (-6,7%), dell'abbigliamento e delle calzature (-15%), dell'arredamento e della manutenzione della casa (-8%)
e dei trasporti (-19%). Sono invece cresciute le «spese obbligate»,
come ad esempio quelle per le utenze domestiche (+6,3%) e quelle
medico-sanitarie (+19%). Solamente il 2% delle famiglie ha potuto aumentare la propria capacità di spesa, una percentuale minima rispetto al 69% delle famiglie che invece ha dovuto abbassare il
proprio tenore di vita. Ma c'è di più. Tre famiglie su quattro sono
attente alle promozioni dei prodotti alimentari nei discount, mentre, se fino a qualche anno fa le spese si facevano nei grandi centri
commerciali fuori città, in questi ultimi mesi si registra un graduale
ritorno ai negozi alimentari sotto casa o al mercato del quartiere,
per ridurre gli spostamenti in auto e scooter.
Il rigore imposto dalla sobrietà forzata degli italiani tocca anche
lo svago: il 68% delle famiglie intervistate dal Censis ha rinunciato
ad andare al cinema, mentre quasi una famiglia su due ha ridotto o
rinunciato ai pasti al ristorante. Rimangono poi le paure che bloccano scelte e progetti; una famiglia su quattro è preoccupata di non
riuscire a pagare le tasse o le bollette. Anche il «bene rifugio» della
casa — percepito come ipertassato — ha ridotto il suo fascino: dal
2007 al 2012 le compravendite di abitazioni sono diminuite di circa
il 50%, l'equivalente di 400.000 abitazioni vendute. Delle 907.000
famiglie che sognavano di comprarsi una casa solamente il 53,5% è
riuscito ad acquistarla.
I motivi per i quali una famiglia ha visto diminuire drasticamente
il suo tenore di vita sono molti, come ad esempio l'elevato numero di
componenti; la presenza di bambini piccoli; la presenza di anziani ammalati; il basso livello di istruzione; la ridotta partecipazione al mercato
del lavoro. Negli ultimi cinque anni la media del risparmio netto annuo per nucleo familiare è passata da 4.000 euro a 1.300 euro. Tutto
questo condiziona le famiglie a scegliere di non avere figli, per non
impoverirsi. Il risultato è noto: l'Italia è agli ultimi posti nel mondo
per quanto concerne la fecondità familiare anche per questo motivo.
La solidarietà della rete della «famiglia allargata» — formata da
circa 9 componenti e che si differenzia dal nucleo familiare ristretto, sceso a 2,4 componenti — rimane la riserva di un serbatoio sociale quasi vuoto. È grazie a questa rete di relazioni che le famiglie
arginano la crisi, garantendo ai giovani disoccupati o agli anziani
ammalati del loro nucleo un sostentamento mensile di circa 300
euro.
Il lavoro: tra incertezze e nuove opportunità
Il 2013 «si chiude con la sensazione di una dilagante incertezza
sul futuro del lavoro»: 1,6 milioni di persone «hanno rinunciato a
cercare attivamente un impiego perché convinte di non trovarlo»;
sono invece 2,7 milioni le persone che il lavoro lo cercano senza
però trovarlo, una percentuale che è cresciuta dal 2007 dell'82%.
Anche per chi lavora l'incertezza è molta: tra gli occupati, sono 6
milioni coloro che vivono di «lavoretti» precari senza prospettive,
mentre 3,5 milioni sono stati assunti con contratti a termine, occasionali o con partite Iva. La fascia di età più a rischio è quella dei
cinquantenni, che vengono considerati giovani dagli anziani e già
vecchi dai più giovani.
Per le piccole e medie imprese il bisogno ha aguzzato l'ingegno.
La crisi, invece di aumentare la concorrenza, ha fatto nascere reti di
imprese che insieme esportano e si innovano. Se dal 2009 hanno cessato l'attività più di 1,6 milioni di aziende, resistono quelle che si erano trasformate prima della crisi. Il piccolo commercio sta crescendo:
solamente il settore alimentare registra 124.000 attività in più, grazie
soprattutto allo sviluppo delle panetterie, pizzerie, piccole rivendite di
frutta e verdura e negozi di prodotti etnici. Negli ultimi 3 anni sono
aumentati dell'8% i titolari che si sono dedicati all'attività ambulante,
mentre sono cresciuti del 20% dal 2009 anche i canali di vendita con
gli operatori online2. La salute delle aziende è stata garantita da tre
scelte: ampliare i propri mercati all'estero — l'export è cresciuto del
2,2% nel primo trimestre 2013 —; investire in nuovi prodotti o innovare i processi di produzione; potenziare i vertici aziendali.
I puntelli dello smottamento: donne, immigrati e giovani
Quale «sale alchemico» è oggi in grado di dare sapore a una massa
sciapa e infelice? Secondo il Censis, sono tre i «soggetti di sviluppo»
che consentiranno di andare oltre la sopravvivenza sociale.
Superando un certo scetticismo degli anni passati, sono le donne
a costituire il «nuovo ceto borghese produttivo» e una delle «energie affioranti» del Paese. Già da qualche anno i sociologi lo avevano intuito: «Le risorse rosa erano rimaste troppo a lungo compresse
nella società italiana per una serie infinita di vincoli; una volta preso
però l'abbrivio avrebbero riguadagnato posizioni in maniera mol-
2.
Cfr A. MARINI, «Censis: Italia fiaccata dalla crisi», in // Sole 24 Ore, 7 dicembre
2013,10. Tra il 2009 e il 2012, le imprese manifatturiere di 55 distretti produttivi hanno
registrato una flessione del 3,8%, con realtà come il laniero di Biella o il calzaturiero di
Trani-Barletta, dove la riduzione delle aziende è stata intorno al 20%.
to veloce»3.1 numeri lo attestano: alla fine del secondo trimestre del
2013, le imprese con una donna titolare erano 1.429.880, il 23,6%
del totale. Nell'ultimo anno il saldo è positivo, pari a 5.000 aziende
in più. Le «imprese rosa» sono concentrate nel commercio (28,7%),
nell'agricoltura (16,2%), nei servizi dì alloggio e ristorazione (9,2%).
L'incremento più significativo nell'ultimo anno si registra però per le
9.027 società di capitali che sono cresciute del 4,2%. Anche le donne
libere professioniste sono cresciute del 3,7% nel periodo tra il 2007 e
il 2012. Al di là dei numeri, il Censis riconosce alle donne «capacità
di resistenza, ma anche di innovazione, di adattamento difensivo, e
persino di rilancio e cambiamento».
Il secondo gruppo di soggetti che «volano sulle ali dell'intrapresa»
sono gli immigrati, con le loro 54.000 imprese. Il Rapporto li considera «una realtà vasta e significativa nel nostro Paese», sebbene non
nasconda i fenomeni di irregolarità e di violazioni delle norme di
sicurezza di alcune aziende che potrebbero provocare drammi come
quello di Prato, una tragedia del lavoro nero del tessile cinese che
costituisce la più grande contraddizione tra immigrazione e sfruttamento nel lavoro. Sono 379.584 gli imprenditori stranieri che lavorano in Italia; nell'ultimo anno sono cresciuti del 4,4% e rappresentano l'I 1,7% del totale degli imprenditori. Quasi la metà delle imprese
sono di costruzioni e di commercio al dettaglio. Mentre i negozi italiani sono diminuiti del 3,3% dal 2009, quelli stranieri sono cresciuti
del 21,3% nel comparto al dettaglio, in cui gli esercizi commerciali
sono 120.626, e del 9,1% nel settore dell'ingrosso (21.440)4.
Il Censis esprime fiducia anche nei giovani italiani, definiti i «navigatori del nuovo mondo globale». All'estero vivono oltre 4,3 milioni di connazionali; nell'ultimo decennio il numero dei cittadini
italiani residenti all'estero è più che raddoppiato, passando dai circa
50.000 del 2002 ai 106.000 del 2012 (+115%); in particolare nell'ultimo anno l'incremento si è accentuato (+28,8%). Di questi, il 54,1%
sono giovani con meno di 35 anni. Nei giovani sta crescendo la per-
3.
D. Vico, «Il rapporto Censis vede rosa. La speranza di ripresa è donna», in
Corriere della Sera, 7 dicembre 2013, 60.
4.
Oltre 40.000 negozi sono gestiti da marocchini e più di 12.000 negozi da
cinesi, mentre sono 85.000 gli stranieri che lavorano in proprio e hanno dipendenti
italiani e/o stranieri. Nell'artigianato gli stranieri sono più giovani degli italiani.
cezione di sentirsi più europei che italiani: circa 1.130.000 famiglie
italiane hanno avuto, nel corso del 2013, uno o più dei loro componenti residenti all'estero5.
Quale profilo deve avere oggi un giovane per entrare nel mercato
del lavoro italiano, e soprattutto europeo? Anzitutto deve conoscere
almeno l'inglese e lo spagnolo, essere laureato in economia, ingegneria o informatica, oppure avere una competenza specifica di un
mestiere, essere adatto per lavori tecnico-scientifici e di programmazione informatica, e soprattutto deve essere resiliente al sacrificio.
Colpisce un dato: solamente il 12% degli imprenditori italiani ha fiducia nella formazione dei giovani italiani; il 65% di loro preferisce
giovani di altri Paesi a causa del rapporto tra la formazione culturale
e le esigenze del mercato e delle aziende. Su questo dato sarebbe utile
aprire una riflessione sul senso della formazione classica e scientifica
delle scuole italiane, che non deve limitarsi soltanto a essere tecnica e
funzionale al mercato.
Il Censis definisce i giovani italiani all'estero non «cervelli in
fuga», ma «cittadini globali» con vocazione a vivere e a costruire
l'Europa dei popoli. Anzi, l'appello dei curatori del Rapporto è che la
politica possa ricreare le condizioni sia per far rientrare un «prezioso
capitale sociale» che ha acquistato competenze e conosciuto culture
e lingue, sia per considerarlo un prezioso valore aggiunto capace di
trainare il Paese in Europa.
Potenzialità nascoste
Il patrimonio culturale italiano rimane ancora un tesoro chiuso in uno scrigno. Basta ricordare un dato per tutti: nel 2012, l'Italia, primo Paese al mondo nella graduatoria dei siti Unesco, contava
309.000 lavoratori nelle aziende culturali, pari all'I,3% del totale; il
Regno Unito ha assunto 755.000 impiegati nel settore della cultura,
la Germania 670.000, la Francia 556.000 e la Spagna 409.000. Se
5.
I giovani emigrano per cercare migliori opportunità di carriera e di crescita
professionale (il 67,9%), per trovare lavoro (51,4%), per migliorare la propria qualità
di vita (54,3%), per fare un'esperienza di tipo internazionale (43,2%). Si lascia l'Italia
anche per i noti motivi di mancanza di meritocrazia (54,9%), per il clientelismo e la
bassa qualità delle classi dirigenti (44,1%), la scarsa qualità dei servizi (28,7%), la poca
attenzione ai giovani (28,2%), lo sperpero di denaro pubblico (27,4%).
l'Italia gestisse l'ambito della cultura allo stesso modo della Francia, il
Pil italiano aumenterebbe dell'1%6. La questione non si riduce però
alla gestione, ma si estende alla formazione culturale e all'amore per
l'arte: solamente l'8% degli italiani è interessato e visita il patrimonio
culturale del Paese.
Un'ulteriore via di sviluppo per l'Italia, indicata dal direttore del
Censis, Giuseppe Roma, è quella degli investimenti nei grandi eventi
come l'Expo di Milano nel 2015, che dovrebbe portare in sei mesi
in Italia oltre 20 milioni di visitatori, il Giubileo del 2025, oppure la
possibilità di ottenere le Olimpiadi 2024. Rilanciare l'immagine del
Paese nel mondo, oltre a creare nuovi posti di lavoro, è una scelta che
stanno compiendo molti Comuni italiani, che si preparano a competere per essere la città Capitale europea della cultura 2019.
La trasformazione urbana e territoriale, nelle sue varie sezioni
(grandi opere, rigenerazione urbana, edilizia residenziale, immobiliare, recupero del patrimonio storico-artistico), rimane un'altra
opportunità di innovazione. Per cambiare il malcostume della cementificazione selvaggia, secondo il Censis è urgente pensare a piani
di trasformazione dei centri storici e di edifici inutilizzati, come ad
esempio caserme e ospedali dismessi, per riconvertirli in aree urbane
ad uso comune7.
Tra la società e la politica
Quella in corso è «una sommatoria di crisi»; in passato, quando
collassava il mercato, era lo Stato che correva in soccorso e vice6.
112 miliardi di euro stanziati per la voce «cultura» non sono equiparabili ai 35
miliardi della Germania e ai 26 miliardi della Francia.
7.
Il Rapporto dedica al welfare e all'economia digitale uno studio approfondito.
Secondo il Censis, la revisione del welfare e l'economia digitale sono le nuove energie
che stanno emergendo nella società italiana: «L'apertura di nuovi spazi imprenditoriali
e di nuove occasioni occupazionali ha come punto di partenza fa radicale revisione
del welfare: crescono il welfare privato (il ricorso alla spesa "di tasca propria" e/o alla
copertura assicurativa), il welfare comunitario (attraverso la spesa degli enti locali, il
volontariato, la socializzazione delle singole realtà del territorio), il welfare aziendale,
il welfare associativo (con il ritorno a logiche mutualistiche e la responsabilizzazione
delle associazioni di categoria)». Il secondo ambito è quello dell'economia digitale.
Sono in crescita le reti infrastnitturali di nuova generazione, il commercio elettronico,
l'elaborazione intelligente di grandi masse di dati, gli applicativi basati sulla localizzazione
geografica, lo sviluppo degli strumenti digitali, i servizi innovativi di comunicazione e
i giovani «artigiani digitali».
versa. Oggi alla crisi dei primi due agenti si aggiunge anche quella
della classe dirigente, che non riesce a trasformare le proteste e le
tensioni sociali in proposte politiche e istituzionali, al punto che
persino il voto di protesta ha perso il suo significato.
Se davvero, come afferma il Rapporto, la società italiana è riuscita a fermare lo smottamento, rimane un'ultima domanda: come
è possibile restaurare la casa comune, il che richiede-un progetto
condiviso, entusiasmo, senso di appartenenza, responsabilità per le
generazioni future?
Il 2013 è stato un anno complesso e ricco di eventi simbolici:
dall'esito delle elezioni politiche all'elezione-rielezione del Presidente della Repubblica, dalla compresenza di due Pontefici alle primavere arabe, dalla decadenza di Silvio Berlusconi da senatore all'elezione di Renzi a segretario del Pd, dalla crisi dei partiti politici, che
ha contagiato le stesse istituzioni democratiche, alle mancate riforme costituzionali. Per comprendere questo anno, il presidente del
Censis Giuseppe De Rita ha utilizzato le tre categorie interpretative
con cui la società italiana si autoanalizza: «La prima è che l'Italia è
sull'orlo del baratro o dell'abisso; la seconda è che i pericoli maggiori
derivano dal grave stato di instabilità (nazionale o internazionale,
economica o politica che sia); la terza è che non abbiamo classe
dirigente adeguata a evitare il pericolo del baratro e a gestire l'instabilità, e molti addirittura ritengono che essa non esista affatto».
Queste convinzioni, a cui gli italiani ricorrono per analizzare la
situazione sociale, sono davvero reali? Secondo De Rita, la risposta è sì, fino a quando la società non si sveglierà da quella sorta di
ipnosi collettiva che glielo fa credere: «La classe dirigente, infatti,
tende a ricercare la sua legittimazione nell'impegno a dare stabilità
al sistema, magari partendo da annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre che hanno la sola motivazione e il solo
effetto di far restare essa stessa la sola titolare della gestione della crisi». Nessuna classe dirigente può fondarsi su annunci quotidiani di
catastrofi, proposte di rigore, falsi richiami morali. Il cambiamento
può nascere solo da nuovi comportamenti: costruire alleanze per il
bene comune, infondere fiducia nel sistema, premiare le competenze, saper aggregare per perseguire obiettivi sociali, incoraggiare i
giovani, arginare le clientele, contrastare le illegalità di ogni genere.
Afferma De Rita: «La classe dirigente non può e non vuole uscire
dalla implicita ma ambigua scelta di "drammatizzare la crisi per gestire la crisi": una tentazione che peraltro vale per tutti, politici come
amministratori pubblici, banchieri come opinionisti»8. La causa del
«baratro», infatti, cambia secondo l'informazione politica del giorno: può essere lo spread, la mancata vendita dei titoli di Stato all'asta,
il tasso di disoccupazione. Un modo di fare che allontana la gente
dalla politica e fa rimuovere il baratro stesso dalla coscienza sociale.
Anche il presidente della Corte dei Conti Raffaele Squitieri, nel
suo discorso di insediamento dello scorso 11 dicembre, ha ribadito
questo concetto: «Nulla sarà davvero efficace, se non sapremo combattere il senso di sfiducia che si avverte in tutti i corpi della società
italiana. Siamo in presenza di una crisi morale che spinge alla rassegnazione, di fronte a soprusi e malversazioni. Il problema alberga,
dunque, nel cuore degli uomini, soprattutto nel comportamento di
chi opera nelle Pubbliche Amministrazioni. E, però, giunto il momento di invertire la rotta e di investire sullo Stato, aprendo le porte
delle Amministrazioni, centrali e locali, ai migliori giovani del Paese,
il cui entusiasmo e spirito innovatore può intimamente scuotere le
coscienze»9.
La fiducia, la stabilità, la continuità e l'investire nelle giovani generazioni sono le condizioni necessarie per la ripresa. L'illusione, secondo De Rita, porta a navigare in un mare calmo senza accorgersi
che i fondali sono il luogo dove conciliare i tanti conflitti rimasti
insoluti. La società civile si limita a esprimersi attraverso contestazioni moralistiche, come quella dei popoli blu o viola, oppure contro la
chiusura di ospedali, uffici postali o presìdi di sicurezza.
Questa tesi piuttosto pessimista, su cui siamo solo parzialmente
d'accordo, non deve indurre a sottovalutare le tensioni di queste ultime settimane: i conflitti sociali vanno attraversati e risolti. La rivolta
dei «forconi» dà voce all'insieme degli sfiduciati che appartenevano al
ceto medio e che ora sono diventati esodati, disoccupati, commer8.
Mai come quest'anno il Rapporto ha dedicato così poco spazio al quadro
politico: sette pagine su 540. Il titolo del capitolo «avvitamento della politica» indica
criticamente il decisionismo testimoniato dai 664 provvedimenti emanati dai Governi
Monti e Letta, di cui però ne sono stati realmente adottati solo 225, pari al 33,9%.
9.
www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/chi_siamo/
presidente_fF_squitieri/discorso_insediamento_squitieri.pdf
cianti falliti. Non è escluso che frange estremiste cerchino di controllare la protesta per renderla eversiva: quando c'è molta benzina
a cielo aperto, è facile trovare qualcuno che accenda una fiamma;
quello che sta avvenendo è anzitutto l'espressione di una infelicità
personale e sociale che ha fatto trovare fianco a fianco i lavoratori
che gridano con le bollette in mano: «Non ce la facciamo ad andare
avanti»; il poliziotto che si leva il casco, mentre la gente lo applaude;
e gli imprenditori che affermano: «Le nostre imprese sono troppo
tassate». Fenomeni sociali di questa portata, destinati a dilagare nel
Paese, con conseguenze che non possiamo ancora prevedere, prima
di essere repressi, vanno compresi nelle loro ragioni per trasformare
la protesta in proposta.
Al di là dei numeri emerge che il volto dell'italiano che sta sopravvivendo va oltre quello dell'immaginario collettivo: egli può vestire
in giacca e cravatta ed essere il vicino di casa conosciuto da sempre; può utilizzare un bel cellulare ed essere sempre connesso; può
percepire uno stipendio medio-basso o la pensione e far pensare che
appartenga al ceto medio, con il rischio però che nessuno, data la sua
apparenza imposta dalla società dei consumi, si accorga che non ce la
fa ad arrivare alla fine del mese.
La connettività: il nuovo motore di sviluppo
Il nuovo motore di sviluppo in grado di far ripartire il «sistema
Italia» è riassumibile, per De Rita, in un concetto: «la connettività»,
che è la rete fra i soggetti coinvolti nei processi culturali e di produzione e va oltre la semplice connessione. Scrive De Rita: «È vero che
restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto
per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell'interesse collettivo e nelle istituzioni. Eppure la crisi antropologica prodotta da queste propensioni sembra aver raggiunto il suo apice ed è
destinata a un progressivo superamento». Trattandosi di un «processo
interno ai processi», la connettività è un fenomeno «operante dal basso, nella quotidianità delle cose; non è quindi capace di imprimere
la propria importanza nelle sfere superiori della vita collettiva. E coesistenza orizzontale di soggetti e comportamenti sociali». In altre
parole, la connettività è un'opzione culturale che recupera la pazienza
del contadino, la furbizia del mercante, il coraggio delle professioni
liberali, il sacrificio dei mestieri... fino alla creatività dell'artigiano
digitale. È la connettività degli imprenditori e dei lavoratori innovatori a opporsi all'inerzia delle istituzioni routinarie e ai cercatori di
rendite parassitarie, che rende possibile una ripresa.
Spesso la connettività, che include un patrimonio relazionale che
si basa sulla fiducia e genera speranza, cresce e produce i suoi frutti
mentre si cerca altro. E quanto è successo in alcune importanti scoperte scientifiche, come ad esempio quella della penicillina o del virus
Hiv, o in altri settori della ricerca. Alla base della connettività c'è la
gratuità, che non è «il gratis o il prezzo zero, ma il valore infinito»,
l'interesse generoso per tutti e di tutti. «Quando si agisce con questa
gratuità, non si segue la logica del calcolo strumentale mezzi-fini,
ma si ama quella data attività o persona per sé e prima dei risultati
che porta, per un'eccedenza etica, antropologica, spirituale». La connettività è stata il germe dell'umanesimo e del periodo dei Comuni,
quando la società dei vassalli, valvassori e valvassini entrò in crisi.
L'innovazione gratuita ha permesso a san Benedetto di riscattare il
lavoro dalla schiavitù; ai francescani di far nascere le banche per i
poveri; a sant'Ignazio di investire sulla formazione di una classe dirigente a partire dallo sviluppo integrale della persona; a san Camillo
di Lellis di organizzare l'assistenza ai più deboli; e alle tante fondatrici
di scuole per fanciulle povere di emancipare la donna verso l'uguaglianza di diritti e di opportunità10.
Questa opzione culturale, negli ultimi anni, ha permesso l'innovazione di settori come l'agriturismo, l'enogastronomia, il settore
digitale, le aziende familiari, le strutture sussidiarie e solidali, l'engineering petrolifero, quello di progettazione e quello delle imprese che,
oltre al profitto, hanno investito sul senso della comunità nello stile
di Olivetti. All'appello mancano solo le banche — come il Monte dei
Pegni, nato per finanziare e custodire l'iniziativa privata —, che hanno almeno in buona parte tradito la loro vocazione sociale iniziale.
10. Cfr L. BRUNI, «La gratuità crea il nuovo (ma dove sono i profeti?)», in Avvenire,
16 dicembre 2013.
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