BIBLIOTECA DI RIVISTA DI STUDI ITALIANI CONTRIBUTI UMBERTO BOCCIONI: DIPINGENDO IL FUTURO “AGENTE-REAGENTE” PAOLO MENEGHETTI Bassano del Grappa N ella visione di Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), l’arte porta con sé un contro-movimento. Essa identifica un’emozione energetica, infinita, che però si ferma subito (ambiguamente) nella stabilizzazione repentina di alcune creazioni, razionalmente spiegabili come tali. L’ebbrezza percepita da Nietzsche nel fenomeno estetico rimanderà all’eccedenza dei “vecchi” pregiudizi intellettuali (seguiti in precedenza). Tali precomprensioni concettuali sono improvvisamente accresciute di un’intensa “forza…ermeneutica”, sino al proprio sconvolgimento culturale. Ciò significa che esse diventano sul serio infinitamente interpretative. Là le precomprensioni concettuali perdono la loro vena “gerarchica”, infallibile, canonica, “incontestabile” (valida una volta per tutte). Qui, ci piace basare il giudizio di Nietzsche su alcune tesi più moderne. In specie, lo facciamo dopo la lettura del filosofo tedesco Gadamer, vissuto nel Novecento. Anche il torinese Gianni Vattimo basa la sua interpretazione di Nietzsche sulle nuove tesi ermeneutiche (tipicamente contemporanee). Del resto lui ha studiato proprio la filosofia di Gadamer. Nietzsche spiega che l’abbellimento estetico produce un surplus dell’energia esistenziale, perché questa estremizza appunto la dimensione dei presupposti individuali. Così, l’artista arriva a…volere potenzialmente. Ciò significa che lui riesce a decidere in modo finalmente responsabilizzato. Con l’espressione volontà di potenza, Nietzsche si propone d’inquadrare tale problema, che resta fondamentalmente etico. Tuttavia, la “spinta di gravità vitalistica” si rende infallibilmente perpendicolare. Essa si semplifica nella logica di nuove precomprensioni gerarchiche (pregiudiziali). Ciò accade dopo che s’è dato il culmine dello “sforzo ermeneutico (contestualizzante o interpretativo)”. La bruttezza, invero, sembra la decadenza culturale verso un unico canone artistico, dogmatico e violentemente predominante. Nietzsche parla di percettività estetica. Attraverso di questa, scordati i vecchi pregiudizi sociali, i lettori dell’arte capiscono finalmente che l’opera inventiva si accontenta di farsi, anziché di dirsi, per i molti riceventi (o contemplatori). Evitando di “raccontarsi”, bisogna capire che il fenomeno 212 PAOLO MENEGHETTI estetico cerca per l’appunto di sconvolgere la dimensione intellettuale. La mania creativa permette di intuire i più lievi “suggerimenti”. Si giungerà ad ascoltare quasi in silenzio un linguaggio allusivo, svelante e contemporaneamente celante il Mistero Divino che lo circonda. La fortezza ermeneutica deriva dalla chiara responsabilizzazione che la volontà di potenza (singolare) porta con sé. Quella eccede le tradizionali presupposizioni dell’autore, che paiono danzare leggermente. L’energia inventiva è così paradossalmente lieve e moderata, flessibile in quanto modificabile nelle più svariate situazioni ambientali (esistenziali). Però, la fortezza eccedente desidera inevitabilmente di “giustificare” la propria audacia. Così, anche le suggestioni estetiche conducono a nuove sistemazioni concettuali. Scrive Nietzsche che nella tragedia classica (dei greci) la drammaticità degli eventi vuole compatire dolcemente la caducità degli uomini, costretti ad interpretare perdutamente le diverse situazioni esistenziali. Gli artisti paiono “sovraeccitati” ed esuberanti. Però la loro fecondità eccezionale (controcorrente) cessa con la stessa forza generativa (vitalistica), trasformandosi in altre precomprensioni culturali. Gli artisti devono capire il mondo, ma nel suo carattere “più” volente e forte. Bisognerà che lo vediamo costruito su utili pregiudizi concettuali. L’arte ci mette in mostra una predominanza antropocentrica. Tramite questa, l’uomo è tale solo in quanto si trova ad agire con le sue diverse precomprensioni intellettuali. La dominanza di tipo antropocentrico si sviluppa a partire dalla medesima energia cosmica (già follemente estetica). Con l’arte, si responsabilizzano le scelte individuali (mentre le “appesantiamo”, con le “complicazioni eventuali e contestuali”). Il produttore estetico amerà per se stessi i suoi mezzi espressivi. Questi gli consentono di eccedere le vecchie gerarchie speculative. Nell’estetica usiamo i mezzi espressivi per migliorare la nostra vita! L’artista crea elementi fini e magnificenti, nettamente delineati, nonché “contestualmente sfumati”. In sostanza l’apice della sua ebbrezza invasata addolcisce gli istinti violentemente rivoluzionari. Si riconosce subito l’inevitabilità del “piano concettuale”, anche in seno alle “incertezze” mitiche e simboliche. Con lo spirito dionisiaco, l’artista coglie le varie “distinzioni” tra gli enti. Diversamente, queste vengono perdute con le formalizzazioni, di tipo concettuale (apollinee, nella visione di Nietzsche). Esse rinviano ogni differenziazione alle più comode essenze razionalistiche (idealistiche). La forma estetica di tipo apollineo sorge da un’originaria forza dionisiaca, generativa, che fa danzare le precomprensioni culturali. E così la nettezza delle linee rappresentative (ad esempio, all’interno di un quadro) dipende dalle “sfumature” pregiudizievoli. Una di queste è la soluzione prospettica, pensando naturalmente alle tele più classicistiche. La “funzione tonificante” dell’estetica nietzschana, secondo il commentatore Vattimo, non si esercita 213 UMBERTO BOCCIONI: DIPINGENDO IL FUTURO “AGENTE-REAGENTE” mai nel dominio emozionalistico od attualistico (già tipico del romanticismo wagneriano!) dei mezzi “pittorici”. Invero, essa accade nel potenziamento delle passioni invasate, sino al loro apice eccedente, creatore di nuovi concetti culturali. L’opera d’arte suggestiona i sensi percettivi (individuali), originariamente energetici ed impulsivi, e senza dubbio spontanei, ossia senza filtri concettuali (mentali). Quella ha un effetto tonificante, mentre sviluppa sino all’eccesso la forza vitalistica (creativa). Ciò vale tanto per l’autore quanto per i tanti lettori futuri, nelle loro interpretazioni (contestualmente illimitate). La percezione ermeneutica della materialità artistica suscita uno specialissimo ricordo, del tutto sottile, ossia senza alcuna ambizione “canonica” (d’infallibilità). In pratica, l’ebbrezza estetica rammenta il carattere eternamente situazionale (perituro in altri contesti ambientali) delle decisioni umane. Esse sono tali unicamente partendo dalla più originaria “condanna ad avere la precomprensione linguistica (ermeneutica)”. Nel prodotto estetico, i mezzi artistici ci comunicano il loro “verbo pregiudiziale” in modo esagerato. Ciò accade poiché essi alludono alla più universale “costrizione alla precomprensione ermeneutica”. E ci donano un’estrema ricettività simbolica, per la quale ogni presupposizione teoretica esalta, sino allo spasimo, il proprio carattere pregiudiziale. Così i mezzi artistici liberano altre interpretazioni eventuali, sulla loro materialità estetica. Per Nietzsche essi si pongono in via del tutto ermeneutica. Lui lascia ad intendere che il fenomeno artistico identifichi la fonte suprema di tutte le possibili lingue sociali. Ciò vale sia per quelle basate meramente sui suoni vocali, sia pensando alle restanti, prettamente “gestuali”. Ciascun linguaggio avrà in origine un unico “focolaio esplosivo”: ivi, la più universale “costrizione alla comunicazione precomprensiva”. Ma i singoli individui la sottraggono continuamente, attraverso i tanti “giudizi intellettualistici”. Per Nietzsche bisogna tornare a leggere “con i muscoli”. Si tratta di contemplare l’arte in via infinitamente interpretativa. Soprattutto, ci dobbiamo attenere alla sua materialità estetica (fondatrice di svariati mondi culturali), ovvero sulla dimensione più “percettiva” (eccedente, energetica) di qualsiasi precomprensione intellettuale. La lettura “con i muscoli” qui ci spiega al meglio (simbolicamente…) la dialettica che sussiste fra lo spirito apollineo e lo spirito dionisiaco. Ogni ebbro accrescimento della volontà di potenza (creativa) comporta, parallelamente, un’intensificazione della forza comunicativa, di tipo concettuale. La relazione artistica fra le precomprensioni dell’autore e quelle avanzate dai lettori in futuro induce ad eccitare le proprie facoltà intellettuali. La riflessione concettuale ci suggestiona, nel ricordo di un mondo culturale già incerto e mitico. Tale “empatia dialogica (ermeneutica)” non diventa opportunamente attualistica (o mediocremente storicistica, quando ammettiamo che esista la 214 PAOLO MENEGHETTI più “pretestuosa” neutralità obiettiva del giudizio). Invero si “dicono” dei movimenti, dei segni soltanto mimici e metaforici, dei pensieri prettamente contestuali od interpretativi. La morbosità dell’eccesso estetico, paradossalmente, guarisce. Ciò accade perché esso ci libera dai vecchi pregiudizi ambientali (socioculturali), pur dovendo assegnare una serie di nuove riflessioni intellettuali. L’ebbrezza di colui che vive tramite lo stile estetico si rende subito flessibile e moderata. Essa è follemente sana. Nietzsche insiste nel ribadire la qualità dialettica che si trova entro l’energia vitale (singolare). Però la consegna d’una rinnovata “convenzione culturale” ora non è più semplicemente canonica (valida una volta per tutte). La precedente esplorazione autocritica (interpretativa), tramite l’esagerazione invasata, ce la rende conscia del suo carattere ermeneutico. L’estetica di Nietzsche chiede questo. Perciò, proprio l’impoverimento concettuale più grande permette un’esagerazione artistica talmente enorme (intorno alle pretese intellettualistiche o formalistiche!) da portare una sana autocritica dei mali sociali. I produttori estetici sono estremamente acuti, ossia percettivi e pure follemente comunicativi, perché dicono la “costrizione alla verbalità precomprensiva”. La loro “ebbrezza di composizione” li induce a studiare i minimi dettagli espositivi, di cui intendono perfettamente le più specifiche presupposizioni culturali. L’artista sfoga la sua personale vitalità creativa, con qualsiasi sorta di lavoro muscolare. Ciò significa che lui è invasato al punto tale da accontentarsi di fare il prodotto estetico, senza mai pretendere di dirne i meri significati concettuali. Dunque l’artista ci “parla” facendo le veci della più universale costrizione alla precomprensione linguistica (apollinica). Nel quadro che si chiama Officine a Porta Romana (olio su tela, 1908) il futurista Boccioni dipinge con la tecnica del divisionismo. La sua pennellata è veloce, dandosi per veri e propri “tocchi” di cromatismo. Si vede che la strada principale si snoda in obliquo, quasi ad incunearsi dentro le palazzine urbane. Nel contempo le ombre delle persone s’allungano di molto. In questo modo esse segnalano che la gente si sposta nelle prime ore del giorno. Nel quadro denominato Il mattino (olio su tela, 1909) l’atmosfera solo lievemente tersa (malgrado i raggi del sole) è resa fumosa dalle ciminiere. Dipingendo in questo modo Boccioni fa “danzare” le sue presupposizioni estetiche. L’uso tecnico del divisionismo va “moderando” la percezione dei toni cromatici. L’atmosfera già pallidamente tersa del mattino sfuma la magnificenza dell’architettura urbana, specie se questa identifica i capannoni delle fabbriche (laddove l’uomo esibisce meglio il suo predominio sul mondo). Nei quadri divisionisti di Boccioni l’estetica della “volontà di potenza” (agli albori del successivo futurismo) lima l’energia entro gli accostamenti tonali. Però Nietzsche scrive che gli artisti sono sovraeccitati ed esuberanti. Nel quadro di Boccioni, se la prospettiva s’incunea con forza, le ombre e l’atmosfera tendono idealmente a farla “danzare”. La sua “esuberanza 215 UMBERTO BOCCIONI: DIPINGENDO IL FUTURO “AGENTE-REAGENTE” estetica” qui risulta più trattenuta. Boccioni nel 1910 realizza il dipinto che si chiama La città che sale (olio su tela). Eliso il modello della più classica figurazione, il pittore mette in mostra un moto vorticoso di linee pluridirezionali. L’esuberanza nel futurismo di Boccioni gli consente di “disordinare” in via vitalistica tutta l’astrattezza che troviamo nelle precomprensioni concettuali. Qui la “danza” entro gli elementi figurativi si rende sul serio “muscolare”. L’uomo si reca nella città in primis per lavorare, specialmente con la “forza”. Ivi basta che pensiamo agli operai, con la loro abilità di manodopera. I futuristi dipingono quando lo “sforzo” chiesto a chi lavora in fabbrica si potenzia ulteriormente, con l’energia della macchina industriale (che “intensifica” ogni fase di produzione seriale). Boccioni evita di mostrare in chiave figurativa (realisticamente) gli “eccessi” dello sviluppo tecnologico. Nel suo quadro l’attivismo della città (contro la “piatta” regolarità dei tempi rurali, sotto l’egida del ciclo stagionale) si trova certo invasato, e tuttavia solo a livello soggettivistico. Boccioni seguiva un’impostazione di tipo espressionistico, a rappresentare più che altro l’emozione di dipingere il grande sviluppo tecnico-urbanistico del primo Novecento. A guardarne la pittura fortemente vitalistica, parrebbe che per lui valga una pennellata di resa quasi “morbosa”, che visualizzi il suo stato d’animo in via subito “eccessiva”. Certo nel quadro si dà il “contromovimento del vortice”, dove gli elementi pseudo-figurativi avvertono una forza tanto centripeta quanto centrifuga. L’esuberanza estetica è realmente messa in mostra, ma nel contempo Boccioni non rinuncia a “contraddirla”, rendendo la percezione della tela molto più problematica di come sembri a prima vista. In tal senso diventa interessante la posa assunta dalle persone, che vengono travolte dal vortice delle linee pluridirezionali. De Micheli ci ricorda che i futuristi italiani hanno subito l’influenza del vitalismo. In specie, trattasi di quello avanzato dal filosofo Bergson. Nel 1908 Papini fonda la rivista di cultura che si chiama La voce. Lui conosce il vitalismo di Bergson, di cui traduce un testo. Papini lega tale filosofia a quella che deriva dal pragmatismo, sorto negli Stati Uniti. Bergson afferma che l’uomo può cogliere lo “slancio vitale” nella realtà unicamente tramite l’intuizione. Qui la coscienza si trova a conoscere in via tutt’altro che mediata, senza il filtro delle regole concettuali, che vale solo astrattamente. L’intuizione permette di fondare la filosofia della metafisica, contro il razionalismo della scienza. Certo Papini allaccia le tesi di Bergson a quelle del pragmatismo. Per il filosofo James, tutte le idee che non possiamo dimostrare in via empirica (il senso della vita, l’esistenza di Dio, la libertà di scelta) dipendono soltanto dalla “volontà di crederle”. Papini ritiene che questa teoria esalti un vero e proprio “spirito dell’avventura”. Per lui, la “volontà di credere” spiega il modus vivendi dell’ottimista. Secondo De Micheli tra i futuristi è Boccioni a risaltare per la capacità di cogliere esattamente il senso delle tesi care a James. Nei suoi quadri 216 PAOLO MENEGHETTI l’ottimismo pragmatistico si complica in via più tragica. Boccioni pensa che l’aspirazione ad esistere intensamente si dia solo nella “perfezione” della morte. Nel suo fatalismo la perdita della vita è una dimensione del tutto universale. La “perfezione” della morte sta nel fatto che questa ha un carattere assolutamente inevitabile. De Micheli pensa che la drammaticità nella pittura di Boccioni ricordi bene la “lotta dello slancio vitale contro gli ostacoli della materia” (recuperando la filosofia di Bergson). Sia l’uno che l’altro si propongono di cogliere la totalità del reale solo nella coeva molteplicità di se stessa. Il soggetto conoscente (o dipingente) usa l’intuizione per vivere entro l’oggetto che andrà ad interagire con lui. Per Boccioni il dipinto manifesta un’estetica dapprincipio di stampo fenomenologico, che alla fine si chiarisce in via vitalistica. Il quadro ci metterà in mostra l’identificazione dell’uomo nella realtà delle cose, trasformata dalla sua vitalità. Per ottenere questo, però, Boccioni ricorre al concetto di intuizione. Pensare che il pittore entri nell’oggetto con cui interagisce è un’affermazione di resa fenomenologica. Sostenere che questo accada con l’esercizio intuitivo ha senso solo nella filosofia di tipo vitalistico. Negli studi di fenomenologia, ad entrare dentro l’oggetto è la coscienza intenzionale, che si dà sempre come “di” qualcosa. Ma l’intuizione ha un’origine apertamente soggettiva. Per Boccioni, entrare dentro alle cose del mondo con la pittura è prima di tutto viverle. Lo sguardo si posiziona tramite una linea di tipo perpendicolare. Però Boccioni cerca di dipingere la convergenza di tutto ciò che sta fuori del punto prospettico (sopra, sotto, ai lati di questo). Gli interessano le linee che proseguono, non tanto l’unica delle stesse che s’indirizza. Boccioni dipinge il “vortice visivo” che ogni punto di fuga porta sempre con sé. A lui non interessa la linea prospettica, bensì l’accentramento che essa opera nei confronti di tutto ciò che le sta al di fuori. Mentre gli impressionisti colgono nel quadro un solo (preciso) momento particolare, Boccioni tenta di universalizzarne la vena irripetibile. Nel suo dipinto, si mostra la sintesi di tutte le suggestioni visive. Più in generale l’estetica del futurismo ha tale caratteristica. Per certi versi, gli impressionisti hanno colto il “punto di fuga (la prospettiva) della mera suggestione visiva”. Invece Boccioni ne dipinge l’accentramento, operato rispetto a tutto ciò che le sta al di fuori. Lui vuole che l’impressione si renda eterna, nel dinamismo per cui ogni linea del quadro converge in quella. Per universalizzare la suggestione visiva bisogna che dipingiamo senza il punto di fuga. Boccioni sostiene che il nostro sguardo “conosce” il quadro nella direzione centripeta dell’impressione (con l’artificio della prospettiva). Ma il dipinto “appare” in quella di contro centrifuga (con l’accentrarsi d’ogni linea nel punto perpendicolare della visione). Ne consegue che per Boccioni i corpi si espandono plasticamente nello spazio circostante. L’oggetto che si dipinge è “un nucleo di linee in via centripeta, un vortice di linee in via centrifuga”. 217 UMBERTO BOCCIONI: DIPINGENDO IL FUTURO “AGENTE-REAGENTE” Nel quadro intitolato da Boccioni Visioni simultanee (olio su tela, 1911) si esibisce la convergenza d’un agglomerato urbano con la gente che lo vive. In primo piano si nota una donna affacciata dal balcone di casa, per guardare come s’attivano le persone. La sua testa è visivamente racchiusa entro i margini che in prospettiva definiscono la piazza del paese. A Boccioni interessa dipingere il “coinvolgimento appena intuitivo” della donna, nel momento in cui noi la vediamo completamente “immersa” nella realtà da capire. Una riflessione concettuale chiede sempre il “distacco” da ciò che si vuole comprendere (massimamente con la sua universalizzazione, in chiave astratta). Nel quadro di Boccioni, invece, la donna pensa intorno alla realtà circostante apparendo “simultaneamente immersa” a questa. Lei guarda l’azione in città della gente tramite un’impressione che accentra in se stessa tutto ciò che accade, ben al di là del mero punto di fuga prospettico. Certo da un’ottica fenomenologica l’intuizione in senso lato è “simultaneamente immersa” nella realtà dove la pensiamo, quantunque a valle d’un presupposto vitalistico. Qui l’estetica di Boccioni collima bene con la teoretica di Bergson. Secondo il filosofo Deleuze, Nietzsche pensava che un campo di forze non esistesse in se stesso. Noi lo pensiamo nella sua vena essenzialmente dinamica, per cui è vano cercare di stabilirlo (di stabilizzarlo). Il reale si pone in chiave sempre unica. Ma questo per darsi come tale necessità di avere dei limiti, che lo configurino. Alla filosofia di tipo vitalistico interessa dire che i margini capaci di realizzare qualcosa si trovano a farlo solo perché tendono gli uni con gli altri. I limiti di configurazione sono tali dal momento che “si rapportano” insieme. La speculazione del vitalismo deduce la realtà delle cose a partire da questa tensione, interna alla loro strutturazione. Deleuze segue il medesimo punto di partenza. Ne consegue che per lui il vitalismo filosofico implica che la realtà si origini grazie ai campi di forza. Ovviamente, la tensione fra i limiti di configurazione fa in modo che questi si pluralizzino sempre, persa la loro stabilità spazio-temporale. Il vitalismo rifiuta l’idea che la realtà si dia in via appena unica. Tutte le forze si rapportano l’una con l’altra per “dominio” o per “obbedienza”. Col primo termine s’intende l’azione, col secondo di contro la reazione. Secondo Deleuze accade che il corpo si determini in base al tipo di rapporto che sussiste fra le forze “dominanti” e quelle per converso “obbedienti”. Ciò vale oltre il mero ambito fisico. Esistono pure i corpi politici o sociali, ad esempio. L’importante è che le forze interagenti si distinguano fra di loro, pena l’impossibilità di configurare qualcosa. Certo Deleuze usa il concetto di corpo in luogo di quello più classico che chiama la forma. Lui d’altro canto parte da una visione di tipo essenzialmente vitalistico! Ogni corpo nasce dal caso, perché la tensione entro le forze divergenti (in chiave attiva o reattiva) non è mai “inquadrabile” (configurabile). Di conseguenza per Deleuze 218 PAOLO MENEGHETTI chiedersi come nascono le forme (nella loro “vitalità” fenomenologica) si rende del tutto irrilevante. L’unità del corpo (che ne determina la realtà) deriva dal modo in cui le forze di resa “dominante” si rapportano a quelle “obbedienti”. Nella filosofia di Nietzsche, la quantità estensiva d’una “forma vitale” dipende dalla sua qualità intensiva. La configurazione del corpo deriva da come si diversifica la “gerarchia” fra le forze attive e reattive. Per Deleuze accade che le forme si distinguono l’una dall’altra per via d’un dinamismo a livello ontologico. L’essere ha dentro di sé una forza che crea il mondo in base a come parte di questa si troverà di volta in volta a stabilizzarsi. Peraltro l’energia che s’arresta non scompare del tutto. In linea più generale la forza “obbediente” si dà come tale solo in rapporto a quella di tipo “dominante”. Un corpo è configurato, e così “padroneggia” se stesso. Nel contempo però esso deve “adattarsi” al suo ambiente esterno, che lo potrà condizionare. Dunque le forze “dominanti” (capaci di delimitare qualcosa) perdurano a “subire” quelle di contro reagenti (che frenano ogni caso di configurazione). Più in generale, un corpo resta pur sempre in balia del conatus di tipo universale (a livello ontologico). La forma vivente ha una forza reagente nella misura in cui per esistere deve necessariamente conservarsi. L’inevitabilità da parte del corpo di “regolarsi” (ove si adatti al proprio ambiente) è l’espressione d’un dinamismo sempre “obbediente”. Per Deleuze tanto la filosofia del finalismo quanto quella meccanicistica ci spiegano solo la “vena reagente” delle forze. Sia nel primo sia nel secondo ambito trattasi di dinamismi viziati dal pregiudizio della causalità. Se pensiamo di ammetterlo, esisterà un principio in grado di sfuggire alla necessità del “rapporto” fra le forze. Per Deleuze il conatus entro gli adattamenti o le regolazioni è pur sempre di resa interattiva. Un’idea che tanto il finalismo quanto il meccanicismo non possono seguire. Pare difficile studiare la fenomenologia delle “forze dominanti”, se perdura la tentazione di spiegarle in via banalmente causale. Subito Deleuze ricorda che la coscienza ha un conatus essenzialmente di tipo reattivo (“obbediente”). Citarla pare inevitabile, poiché senza di quella non potremmo pensare, anche nel solo approccio fenomenologico! La coscienza è sempre “di” qualcosa, per cui vederne la vena appena reagente diventa quasi automatico. Ma a Deleuze interessava in primis la percezione delle contrapposte “forze dominanti”. Nietzsche dice in modo più o meno velato che esse sono d’intenzione inconscia. E Deleuze conclude che le forze attive (“dominanti”) andranno viste entro l’idea vitalistica che propugna la sua volontà di potenza. Si consideri il quadro che Boccioni ha chiamato Stati d’animo: quelli che restano (olio su tela, 1911). Ora le persone si configurano per tratti somatici che vanno a pluralizzarsi. La dimensione figurativa pare in via di “verticalizzazione”, trovando l’astrazione di quella linea che rappresenta meglio la metafora della stabilità. Ma essa è pennellata di continuo, in modo quasi “seriale”. Da un lato le persone restano solo in via astratta (in quanto 219 UMBERTO BOCCIONI: DIPINGENDO IL FUTURO “AGENTE-REAGENTE” visivamente trasferite nella banda verticale). Dall’altro esse acquistano un conatus nella propria interazione col mondo circostante, che però “si regola” solo casualmente. La successione delle bande verticali di colore esprime l’adattarsi (essenzialmente emotivo, per Boccioni) della figura umana all’ambiente esterno. Ciò però non si dà con la causalità. Le “forze reagenti (obbedienti)” della vita (che per Boccioni spiegano soprattutto le emozioni) hanno una regolarità di tipo unicamente seriale. Trattasi d’un dinamismo che il presupposto della “causa ultima” non può fondare. La serialità impedisce di trovare un principio (modello) originario, perché questo va di continuo riproponendosi. Ne deriva che uno fra i concetti per la maggiore di taglio futuristico (nella sua applicazione sociale sopra l’ideale del progresso tecnologico) ivi si percepisce in via quantomeno “critica”. Nel quadro che si chiama Stati d’animo: gli addii (olio su tela, 1911) Boccioni abbandona ogni forma di astrazione regolante, anche nella qualità più casuale che causale. L’impostazione cubistica lo influenza a dipingere figure più plastiche. Indubbiamente nel nuovo quadro risaltano le “forze attive (dominanti)”. Lungi dal dipingere la reazione “passiva” dell’uomo al mondo esterno, ora l’emozione dell’addio viene esposta con più esaltazione del soggetto. Le “forze attive (dominanti)” puntano a configurarsi, ma solo fuoriuscendo dal nucleo centrale del quadro (tramite un dinamismo centrifugo). Ciò significa che ora la volontà di potenza nascosta dietro di loro si determina in via apertamente “critica”. Lo ripetiamo: le “forze attive” ambiscono a configurare qualcosa accentrando nel contempo lo spazio circostante, se visivamente tendono a questo. Da un’ottica più fedelmente nietzschana, diremo che nel quadro di Boccioni la volontà di potenza si rende nel gioco vitalistico d’una azione intensiva verso il mondo esterno, la cui reazione estensiva però ci deve “responsabilizzare”. __________ OPERE CONSULTATE Piero Adorno, L’arte italiana. Il Novecento: dalle avanguardie storiche ai giorni nostri, Firenze: Casa Editrice D’Anna, 1994. Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Torino: Einaudi, 2002. Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano: Feltrinelli, 2007. Gianni Vattimo, Le avventure della differenza, Milano: Garzanti, 2001. 220