ISSN 2283-5873 Scienze e Ricerche SR MENSILE - SUPPLEMENTO 1 AL N. 7 - MAGGIO 2015 STORIA. 1 Storia. 1 5 10 36 CONTRIBUTI E INTERVENTI ROBERTO SCIARRONE Reportage e giornalismo italiano nel corso della Grande Guerra ROBERTO SCIARRONE Lo scoppio della Grande Guerra attreverso “La Voce” di Prezzolini STEFANO OSSICINI Marie Curie, Hertha Ayrton e le altre. Donne e scienziate pag. 5 pag. 10 pag. 19 AGNESE VISCONTI Da Londra 1851 a Milano 2015. Riflessioni sulle grandi esposizioni universali CHIARA D’AURIA La donna cinese nel Nuovo Millennio GAETANO OLIVA Il ruolo dei militari nella crisi di un regime. Cile 1970-1973 pag. 31 pag. 36 pag. 44 LUCIANA PETRACCA 95 44 Il “monachus miles”. La legittimità della guerra nell’ideologia degli ordini religioso-militari: il caso dei Templari ROSSANO PAZZAGLI Gli alberi lungo le strade. Una questione storica e ambientale pag. 78 pag. 84 COMUNICAZIONI Al via l’edizione 2015 del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica bandito dall’Associazione Italiana del Libro pag. 92 RICERCHE CHIARA D’AURIA La spedizione di Sapri nelle carte dell’Archivio Segreto Vaticano pag. 95 ANIDA SOKOL Lingua e identità nazionale in Bosnia-Erzegovina. Dal multiculturalismo all’esclusivismo linguistico pag. 104 supplemento 1 al n. 7, maggio 2015 3 SUPPL. 1 - N. 7 - MAGGIO 2015 ISSN 2283-5873 Scienze e Ricerche suppl. 2 - n. 7, maggio 2015 Coordinamento • Scienze matematiche, fisiche e naturali: Vincenzo Brandolini, Claudio Cassardo, Alberto Facchini, Savino Longo, Paola Magnaghi-Delfino, Giuseppe Morello, Annamaria Muoio, Andrea Natali, Marcello Pelillo, Marco Rigoli, Carmela Saturnino, Roberto Scandone, Franco Taggi, Benedetto Tirozzi, Pietro Ursino • Scienze biologiche e della salute: Riccardo N. Barbagallo, Cesario Bellantuono, Antonio Brunetti, Davide Festi, Maurizio Giuliani, Caterina La Porta, Alessandra Mazzeo, Antonio Miceli, Letizia Polito, Marco Zaffanello, Nicola Zambrano • Scienze dell’ingegneria e dell’architettura: Orazio Carpenzano, Federico Cheli, Massimo Guarnieri, Giuliana Guazzaroni, Giovanna La Fianza, Angela Giovanna Leuzzi, Luciano Mescia, Maria Ines Pascariello, Vincenzo Sapienza, Maria Grazia Turco, Silvano Vergura • Scienze dell’uomo, filosofiche, storiche e letterarie: Enrico Acquaro, Angelo Ariemma, Carlo Beltrame, Marta Bertolaso, Sergio Bonetti, Emanuele Ferrari, Antonio Lucio Giannone, Domenico Ienna, Rosa Lombardi, Gianna Marrone, Stefania Giulia Mazzone, Antonella Nuzzaci, Claudio Palumbo, Francesco Randazzo, Luca Refrigeri, Franco Riva, Mariagrazia Russo, Domenico Russo, Domenico Tafuri, Alessandro Teatini, Patrizia Torricelli, Agnese Visconti • Scienze giuridiche, economiche e sociali: Giovanni Borriello, Marco Cilento, Luigi Colaianni, Riccardo Gallo, Agostina Latino, Elisa Pintus, Erica Varese, Alberto Virgilio, Maria Rosaria Viviano Abbonamenti in formato elettronico (pdf HD a colori): • annuale (12 numeri + supplementi, numeri monografici e annali): 42,00 euro (per sconti e tariffe particolari si rinvia alle informazioni contenute nel sito) Supplemento per ricevere anche la rivista in versione cartacea (HD copertina a colori, interno in b/n): • 12 numeri: 96,00 euro • 6 numeri: 49,00 euro Una copia in formato elettronico: 11,00 euro Una copia in formato cartaceo: 13,00 euro Il versamento può essere effettuato: •con carta di credito, utilizzando il servizio PayPal accessibile dal sito: www.scienze-ricerche.it • versamento sul conto corrente postale n. 1024651307 intestato a Scienze e Ricerche, Via Giuseppe Rosso 1/a, 00136 Roma • bonifico sul conto corrente postale n. 1024651307 intestato a Scienze e Ricerche, Via Giuseppe Rosso 1/a, 00136 Roma IBAN: IT 97 W 07601 03200 001024651307 4 Gli articoli pubblicati su Scienze e Ricerche sono disponibili anche online sul sito www.scienze-ricerche.it, in modalità open access, cioè a libera lettura, a meno che l’autore non ritenga di inibire tale possibilità. La rivista ospita essenzialmente due tipologie di contributi: • interventi, analisi, recensioni, comunicazioni e articoli di divulgazione scientifica (solitamente in italiano). • ricerche e articoli scientifici (in italiano, in inglese o in altre lingue). Gli articoli scientifici seguono le regole della peer review. La direzione editoriale non è obbligata a motivare l’eventuale rifiuto opposto alla pubblicazione di articoli, ricerche, contributi o interventi. Non è previsto l’invio di copie omaggio agli autori. Scienze e Ricerche è anche una pubblicazione peer reviewed. Le ricerche e gli articoli scientifici inviati per la pubblicazione sono sottoposti a una procedura di revisione paritaria che prevede il giudizio in forma anonima di almeno due “blind referees”. I referees non conoscono l’identità dell’autore e l’autore non conosce l’identità dei colleghi chiamati a giudicare il suo contributo. 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Proprio dei due corrispondenti si occupa questo studio che cerca di tracciare il percorso professionale, lo stile e l’accuratezza descrittiva dei più importanti reporter italiani in quella terribile occasione. Barzini, già testimone di alcuni conflitti dal 1899 per il giornale di via Solferino - e che proseguirà a raccontare le guerre sino al 1921 - è dotato di una grande capacità lavorativa che gli consente di scrivere di notte, dopo un’intera giornata trascorsa al fronte, i suoi articoli. I reportage, ricchi di particolari e ammantati da un aurea descrittiva senza paragoni, ne fanno un giornalista d’eccezione, il cui valore viene confermato dalle principali potenze europee dell’epoca attraverso riconoscimenti e titoli onorifici. Nel corso della guerra Barzini pubblica diversi saggi e memoriali fra i quali Scene della grande guerra (1915), Al Fronte (1915) e La guerra d’Italia. Dal Trentino al Carso (1917). L’intenzione di questo contributo è quella di fornire, attraverso i racconti di Barzini e Fraccaroli, l’intensità dell’impegno dei giornalisti italiani presenti, riconosciuto tra i più puntuali e brillanti. Luigi Barzini è considerato il più grande inviato di guerra italiano, uno dei pochi la cui fama superò i confini nazionali, “Nuovo articolo di Barzini!” era l’urlo con cui gli strilloni del Corriere della Sera richiamavano l’attenzione nella Milano dei primi anni del Novecento. La sua copertura della guerra russo-giapponese (1904-1905) suscitò ammirazione in tutto il mondo, fu il primo ad arrivare nelle terre dove si svolse il conflitto e l’unico a seguirlo fino alla fine.1 Ad una prima lettura i suoi articoli potrebbero apparire simili a quelli di William Russel, ma un esame più approfondito dimostra differenze profonde. Il giornalismo era entrato in una nuova era, mentre il Times di Russel apparteneva ancora all’orizzonte culturale del giornalismo ottocentesco, il Corriere della Sera di Barzini era ormai proiettato nel nuovo secolo, nel pieno dispiegarsi della rivoluzione industriale e il diffondersi di innovazioni tecnologiche cruciali nel settore editoriale. La più importante era la rotativa, nuova macchina a stampa che aveva centuplicato le tirature giornaliere dei quotidiani, l’uso di una carta più economica e la composizione a caldo tramite la Linotype favorì la stampa di massa e giornali a basso prezzo rivolti a un vasto pubblico appartenente non più all’élite, ma alle classi 1 A. Biagini, La guerra russo-giapponese, Nuova Cultura, Roma, 2011, pp. 7-27. 5 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 medie, medio-basse e anche popolari. Tale fenomeno si inseriva nella più ampia e graduale trasformazione delle strutture sociali, economiche, culturali e politiche dei paesi occidentali, distinti dalla diffusione dell’istruzione elementare, dalla crescita di istituzioni più democratiche e da nuove dinamiche politiche. Con l’inizio delle pubblicazioni del Daily Mail (1896) in Gran Bretagna era comparsa una stampa apertamente “popular” che si differenziava dalla stampa “di qualità” rappresentata dal Times e dal Guardian. L’ascesa della “popular press”, detta anche tabloid, caratterizzò soprattutto la Gran Bretagna, ma in tutta Europa e negli Stati Uniti il periodo tra il 1870 e il 1914 vide la nascita della stampa di massa. A inizio Novecento il Daily Mail raggiungeva il milione di copie, a Parigi i quattro quotidiani più venduti superavano i quattro milioni di stampe giornaliere. Negli Stati Uniti si ebbe l’ascesa della “yellow press”, guidata dai quotidiani sensazionalistici di Joseph Pulitzer e William Randolph Hearst, in Italia nel 1913 il Corriere della Sera giunse a oltre 350mila copie. In questo periodo i giornali raggiunsero i massimi livelli di diffusione e monopolizzarono la formazione dell’opinione pubblica, un ruolo importante, in questo senso, fu interpretato dalle tecnologie della comunicazione e dalle ripercussioni che le loro trasformazioni ebbero sulle modalità di raccolta e distribuzione delle informazioni. La diffusione delle ferrovie e della navigazione a vapore facilitò l’accesso ad aree prima difficili da raggiungere e ridusse i tempi di viaggio. L’innovazione più importante fu quella del telegrafo che introdusse la possibilità di trasmettere una notizia in tempi brevi, ciò provocò l’esigenza di velocizzare il lavoro del reporter. È in questo periodo che nacque la frenesia dello scoop, che assicurava un’immediata impennata alle vendite del giornale, la nota regola delle “cinque W” – le cinque domande a cui si deve rispondere già nel primo paragrafo di ogni servizio: What, Where, When, Who, Why – e l’affermazione delle agenzie di stampa. Nel 1848 cinque quotidiani newyorchesi fondarono la Associated Press proprio per condividere le spese telegrafiche, successivamente nacquero l’inglese Reuters, la tedesca Wolff e la francese Havas. I nuovi giornali di massa erano imprese solide con enormi giri d’affari e in tutte le metropoli occidentali, da Fleet Street a Londra a Via Solferino a Milano, nuovi palazzi vennero costruiti per ospitarle. Si legittimò il principio dell’obiettività, dell’imparzialità, della separazione tra fatti e opinioni, in realtà la forte competizione per l’interesse del pubblico stimolò anche il “sensazionalismo”, forzando sovente le notizie per attirare l’attenzione del lettore. Nell’età dell’oro dei quotidiani il giornalismo di guerra ebbe una posizione di primo piano, la figura principe era quella dell’inviato speciale che rischiava la vita per testimoniare combattimenti e operazioni militari. Furono numerosi gli inviati di guerra che affrontarono gravi pericoli e disagi per produrre brillanti corrispondenze su conflitti sparsi nel mondo. Del resto in occasione dei conflitti le tirature aumentavano, in particolar modo se il giornale poteva offrire ai lettori resoconti “esclusivi” dei propri corrispondenti. Il giornalismo di guerra conobbe l’apice della sua importanza proprio nel trentennio 6 a cavallo del Novecento, momento in cui la carriera di Luigi Barzini vedeva la consacrazione internazionale. La guerra era ormai cambiata rispetto all’epoca napoleonica, e anche rispetto ai tempi della guerra di Crimea, la rivoluzione industriale aveva assorbito il mondo militare. Ferrovie, navi a vapore e telegrafo rendevano possibile trasportare truppe molto più numerose, su distanze molto più lunghe e in tempi molto più brevi. Le armi divennero distruttive e micidiali, attorno alla metà del secolo, a partire dai modelli messi a punto dal francese Minié, si diffuse il fucile a canna rigata a retrocarica e con proiettile ogivale. Un’arma di cui tutti gli eserciti occidentali si dotarono in pochi anni, che poteva sparare con precisione e uccidere a diverse centinaia di metri di distanza. Luigi Barzini nacque a Orvieto nel 1874, poco più che ventenne iniziò a collaborare con il giornale satirico Fanfulla di Roma e qui lo conobbe Luigi Albertini il direttore che stava trasformando il Corriere delle Sera in un quotidiano di levatura europea. Albertini rimase esterrefatto dalle doti di quel giovane e, nonostante l’inesperienza, lo assunse inviandolo prima a Londra e poco dopo in Cina per seguire la repressione dei “Boxer”. Barzini si dimostrò subito un grandissimo cronista, dotato di senso della notizia, energia, tenacia, uno stile di scrittura asciutto e incisivo, lontano dalla retorica che dominava il giornalismo italiano. Le corrispondenze da Pechino sull’intervento dei contingenti internazionali che schiacciarono i Boxer ebbero grande successo. Il giovane inviato rivelò una eccezionale capacità di racconto, unita a serietà e rigore nella raccolta e verifica delle informazioni. Diventato una delle firme più conosciute del Corriere della Sera, Barzini contribuì al sorpasso del quotidiano concorrente Il Secolo. Ma l’impresa giornalistica che lo rese famoso a livello internazionale arrivò nel 1904 allorché, in maniera del tutto fortuita, si trovò a seguire alcune manovre militari in Italia, a cui partecipava come osservatore un alto ufficiale dell’esercito giapponese. Anche se questi non gli fornì alcuna informazione diretta, alcuni discorsi bellicosi nei confronti della Russia persuasero Barzini che la crescente tensione tra Tokyo e Mosca stava per toccare l’apice. Il giornalista italiano partì quindi per la remota regione all’estremo est del territo- SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Una pagina del Calendario Storico dei Carabinieri, 2013 rio russo (Manchuria, Yellow Sea, Korean Peninsula), dove i due imperi si sarebbero potuti scontrare. Con un viaggio lungo e avventuroso vi giunse prima di qualsiasi altro reporter, seguendo le operazioni militari dalla parte giapponese. Le capacità del grande inviato possono quindi essere riassunte dall’esperienza di Barzini in quegli anni: resistenza fisica per sopportare condizioni di vita e fatiche a volte durissime, determinazione e lungimiranza per venire a conoscenza dei luoghi in cui si svolgono gli eventi salienti e riuscire a raggiungerli, coraggio per esserne testimone fino in fondo. Il più noto reporter italiano dell’epoca le possedeva tutte. Con ostinata determinazione rimase per mesi nella zona dei combattimenti, muovendosi su tutto il fronte a piedi, a cavallo e con mezzi di fortuna, resistendo a condizioni ambientali terribili (gelo, tormente, disagi, mancanza di cibo), intervistando soldati e ufficiali, esaminando ogni cosa in prima persona, esponendosi durante gli scontri a fuoco, sfuggendo a ripetuti tentativi di limitare la sua testimonianza giornalistica. Finì con l’essere il reporter che di quel grande conflitto traman- dò il resoconto più completo, organico e brillante. Le sue corrispondenze, lette e ammirate in tutto il mondo, vennero raccolte in un volume così ricco di informazioni, commenti, cartine e fotografie, da lui disegnate e scattate, da diventare testo di studio nelle accademie militari. Barzini possedeva una caratteristica innata di comprendere il significato storico degli eventi di cui era testimone e il loro spessore epocale, forte di questa esperienza affrontò il conflitto più imponente e sanguinoso della storia: la Prima guerra mondiale. “Questa non è guerra”, esclamò terrorizzato un generale inglese di fronte ai massacri della gigantesca battaglia di Verdun (France, 21 february – 20 december 1916). La prima guerra mondiale superò e stravolse qualsiasi idea di guerra esistita fino a quel momento, Eric Hobsbawm lo ha preso come punto di inizio del “The Short Twentieth Century” del Novecento2 e dell’età contemporanea, per quat2 E. Hobsbawm , The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914–1991, Michael Joseph, London, 1994, pp. 32-47. 7 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 tro anni (1914-1918) la guerra coinvolse tutti i paesi europei, dalla Francia all’Impero asburgico, dall’Italia alla Gran Bretagna, dal Reich tedesco alla Russia e dal 1917 anche gli Stati Uniti, su fronti di migliaia di chilometri e sulle trincee. Complessivamente vi parteciparono circa 65 milioni di soldati, i morti furono 15 milioni e i feriti 21 milioni. La guerra costrinse le nazioni partecipanti a mobilitare intere generazioni di cittadini per riempire i ranghi degli eserciti di massa attraverso la coscrizione obbligatoria. Di fronte a questo terribile evento il giornalismo diede prova assolutamente deludente, gli storici infatti sono concordi nel condividere il duro giudizio espresso nel 1928 da Arthur Ponsonby: “When war is declared, Truth is the first casualty.”.3 Le cause di questa débâcle furono diverse, ma una spicca su ogni altra: tutti i paesi, per la prima volta, crearono strutture capillari ed efficienti per controllare e manipolare i mezzi di informazione, cercando di “addomesticare” i resoconti giornalistici e produrre una poderosa ondata di propaganda patriottico-bellicistica che alimentasse la volontà di combattere delle popolazioni. L’evoluzione degli stati nazionali e il loro sviluppo in senso democratico (suffragio) si era tradotta in quello che Georg Mosse ha definito la “nazionalizzazione delle masse”.4 Le sorti dei governi dipendevano molto di più che in passato dal voto dei cittadini e dal favore dell’opinione pubblica; la coscrizione obbligatoria trascinava direttamente nell’esperienza bellica milioni di cittadini. In tutti i paesi vi era una stampa a grande diffusione capace d’influenzare l’opinione pubblica e un problema tipico delle società democratiche era quello di giustificare la guerra, di spiegare ai cittadini il motivo per cui essi avrebbero dovuto sopportare sacrifici così gravi. Emblematico è l’esempio dell’Italia, dove tra il 1914 e il 1915 si sviluppò un intenso dibattito sull’intervento del conflitto già in corso, gli storici affermano che la popolazione del paese fosse in maggioranza favorevole alla neutralità, il governo, comunque, finì con l’allearsi con la Francia e Gran Bretagna ed entrare nel più sanguinoso conflitto della sua storia che costò circa 600mila morti. Questo orientamento fu dovuto, in parte, all’atteggiamento della stampa, il Corriere della Sera ad esempio amplificò le manifestazioni degli interventisti, contribuendo a creare la sensazione che esse rappresentassero i sentimenti della maggior parte della popolazione. Questa linea, a prescindere dalla straordinaria testimonianza di reporter alla Barzini, rispecchiava gli interessi della borghesia industriale di cui la testata era l’espressione. Un caso ancora più evidente fu quello del Popolo d’Italia, il nuovo giornale fondato da Benito Mussolini che aveva diretto in precedenza il giornale del Partito Socialista l’Avanti!. Il Popolo d’Italia nacque con l’intenzione di perorare l’intervento italiano nella guerra, a finanziarlo infatti furono alcuni gruppi di industriali italiani che fiutarono affari 3 A. Ponsonby, Falsehood in Wartime: Containing an Assortment of Lies Circulated Throughout the Nations During the Great War, George Allen & Unwin, London, 1928, p. 7. 4 G.L. Mosse, The Nationalization of the Masses: Political Symbolism and Mass Movements in Germany from the Napoleonic Wars through the Third Reich, Howard Fertig, New York, 2001, p. 25. 8 economici ed esponenti del governo francese che da tempo si adoperavano perché l’Italia scendesse in campo contro Austria e Germania. Dopo lo scoppio delle ostilità i giornali italiani stabilirono una linea “patriottica” e di sostegno allo sforzo bellico, ma fu determinante la censura e la propaganda prodotta dalle autorità civili e militari, già il 23 maggio 1915, poche ore prima dell’entrata in guerra, un decreto vietò ai giornali di diffondere notizie che andassero al di là dei comunicati ufficiali su materie quali l’andamento delle operazioni militari, le nomine di comando, il numero di morti e feriti. Il giorno dopo venne attivato un Ufficio Stampa del Comando militare supremo, con sezioni distaccate in diverse città. Con poche eccezioni l’accesso ai cronisti al fronte venne vietato e in tutti i paesi si costituirono apparati di censura e propaganda. Uno dei più organizzati fu allestito dalla Gran Bretagna che istituì presso il governo un Press Bureau, poi un War Propaganda Bureau e quindi il Ministry of Information, cui vennero chiamati a collaborare alcuni dei maggiori scrittori dell’epoca come Rudyard Kipling, Herbert G. Wells e Arthur Conan Doyle. I giornali si riempirono di racconti delle atrocities compiute dalle truppe del Reich che avevano invaso il Belgio. Quasi tutte queste notizie erano in realtà forzate, distorte e alle volte inventate, tra i casi più clamorosi ci fu la storia – falsa - dei soldati tedeschi che mozzavano le mani ai bambini belgi. In Francia i cronisti che si avventuravano tra le linee venivano arrestati – accadde anche a Barzini – e quando il quotidiano Homme Libre di Georges Clemenceau osò denunciare l’inefficienza del servizio sanitario militare le autorità di Parigi ne bloccarono subito le pubblicazioni. In un primo momento anche i generali inglesi impedirono l’accesso ai giornalisti alle zone di combattimento, questa politica fu poi modificata – in parte – perché i tedeschi offrivano ai reporter stranieri un’ospitalità generosa. Un’eccezione parziale fu offerta solo dalla stampa statunitense anche se non mancarono alcuni esempi di giornalismo brillante e a tratti straordinario come le opere di Barzini lo testimoniano, pubblicazioni come Scene della grande guerra (1915), Al Fronte (1915) e La guerra d’Italia, Dal Trentino al Carso (1917) rimangono tra i racconti più fulgidi della Grande Guerra. “Morale altissimo” – dicono i bollettini ufficiali. Lo Stato Maggiore, laconico e pacato, non dedica che una parola all’anima dell’esercito. Il Paese deve averne avuto un’impressione di baldanza. Ma nulla può conferire il senso della realtà quale si è rivelata a noi, subitamente, già nel primo giorno della guerra nel quale sentimmo passare sulle nostre schiere un magico soffio di esultanza, la folata di vento d’un colpo di ala immane, invisibile, favolosa. […] E’ per la strada maestra che questa volta mi avvicino alla guerra. Nelle regioni della frontiera la ferrovia, tutta intenta a trasportare soldati e munizioni, lascia i viaggiatori sui binari morti. La vera, la grande arteria della guerra è la ferrovia.5 Barzini, nei suoi resoconti, descrive il continuo passaggio dei treni e le truppe, ferme in stazione, che aspettavano l’ora della partenza, durante lunghe soste al sole. Si combatteva 5 Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea (BSMC, Roma), L. Barzini, Al Fronte (maggio-ottobre 1915), Fratelli Treves Editori, Milano, 1915, pp. 24-54. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA per la conquista di picchi sassosi, sui quali non si potevano scavare trincee. La parola Carso, per lui, significava roccia. La montagna con le sue stratificazioni calcaree, con le sue vallette verdi, con i suoi crepacci ricordava un po’ la montagna di Derna. La natura offriva alla difesa delle formidabili posizioni naturali, complete e fortificate. Il nemico si nascondeva dietro queste formazioni naturali. Se l’opinione pubblica austriaca si mostrò sorpresa dall’entrata in guerra dell’Italia, sul campo di battaglia tutto fa pensare che in realtà essa avesse già organizzato una strategia da tempo preparata. Dalle parole di Lugi Barzini, tratte dai suoi resoconti pubblicati nel 1915, emergono lo stile unico e la cura dei dettagli che il reporter italiano amava regalare ai propri lettori. Egli non si soffermava solamente alla cronaca dei fatti ma, con grande acutezza, interpretava le azioni dei contendenti alla luce degli eventi di politica estera, come nel caso dell’Austria. Inoltre, la grande capacità descrittiva della natura e del territorio, in cui si trovarono i soldati italiani, catapultavano il lettore sul teatro di guerra, eccitando l’immaginazione di milioni di lettori. Ma al di là di questi articoli di grande pregio, nel complesso i resoconti giornalistici sulle operazioni militari della Prima guerra mondiale risultarono reticenti e fuorvianti, lo stile spesso era fortemente retorico, gli articoli generici e poco documentati. I contenuti finivano così col ridursi alle scarne notizie fornite dai comunicati ufficiali, alternate a descrizioni generiche o a racconti di episodi astratti. La battaglia vastissima procede con titanica potenza. Non è una battaglia d’impeto, con pronti risultati brillanti e limitati: è una battaglia colossale, di costanza, di saldezza, di ostinazione, di tenacia. […] Le speranze più radiose illuminano gli occhi del gigante che la scrolla.6 Pur considerando importante l’opera di un altro protagonista del giornalismo di guerra italiano, Arnaldo Fraccaroli, non si può non ravvisare l’influsso dell’estetica nazionalistafuturista nei suoi resoconti. La guerra, infatti, giungeva ad essere rappresentata come una successione di eventi quasi fantasmagorici, onirici, descritti con uno stile quasi espressionistico. E come spesso accade nel giornalismo spesso si omettevano fatti importanti, come ad esempio la vita nelle trincee, le carneficine, la sofferenza fisica dovuta al freddo, alla fame, ai parassiti, alla pioggia e al fango. Non solo. Fu passato sotto silenzio l’uso generalizzato dei gas, nuovo strumento di morte, poco fu detto degli errori degli ufficiali, della logistica e della sanità militare, nulla sui favoritismi e le ingiustizie che si consumarono all’interno delle forze armate in materia di rifornimenti, distribuzione dei compiti e licenze. La tragica disfatta di Caporetto (Kobarid – Slovenia) del novembre 1917, sul fronte italiano, fu riportata dai giornali della penisola in modo generico, frammentato e dilatato. I giornali nascosero anche le manifestazioni di dissenso che si moltiplicarono sia tra le truppe sia tra la popolazione civile, i numerosi casi di diserzione e insubordinazione, con le conseguenti repressioni sanguinose; i non rari episodi di fraternizzazione con il nemico – ad esempio tra i soldati in trincea – e gli scioperi e le proteste che scoppiarono in molte città contro le dure condizioni di vita imposte dalla guerra. Specialmente tra le truppe al fronte si sviluppò la diffusione di “false notizie” e, parallelamente, la comparsa dei “giornali di trincea”, fogli pubblicati per iniziativa delle autorità militari che dovevano servire a tenere alto il morale delle truppe come La Tradotta, La Ghirba, La Trincea e Il Piave. Questi giornali furono un interessante esempio di “para-giornalismo popolare”, scritto con linguaggio elementare, ricco di illustrazioni, cui collaborarono i migliori artisti italiani dell’epoca. La propaganda fu il fenomeno nuovo più evidente della Prima guerra mondiale, i mezzi di comunicazione erano ormai rivolti a grandi masse di cittadini, chiamati in prima persona a partecipare al conflitto, e divennero quindi una nuova arma a disposizione degli Stati Maggiori. Non a caso il giornalista Walter Lipmann scrisse dopo la fine del conflitto il suo celebre saggio Public Opinion (1922), prendendo spunto dalle manipolazioni delle verità cui egli stesso aveva assistito lavorando presso il Committee on public Information. Il suo testo offrì un analisi estesa del rapporto tra potere politico, mass media e opinione pubblica. La conclusione di Lippmann era pessimista poiché credeva che indeformabili limiti di tempo, di energie psicologiche e di cultura portavano le persone comuni a ragionare per stereotipi semplificati, e la massa non era quindi consapevole della verità. BIBLIOGRAFIA L. Barzini, Al Fronte (maggio-ottobre 1915), Milano, 1915; L. Barzini, Scene della grande guerra, Milano, 1915; L. Barzini, La guerra d’Italia. Sui monti, nel cielo e nel mare, Milano, 1916; L. Barzini, La guerra d’Italia. Dal Trentino al Carso, Milano, 1917; A. Ponsonby, Falsehood in Wartime: Containing an Assortment of Lies Circulated Throughout the Nations During the Great War, London, 1928; E. Hobsbawm, The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914–1991, Michael Joseph, London, 1994; D. Corucci, Luigi Barzini. Un inviato speciale, Perugia, 1994; G.L. Mosse, The Nationalization of the Masses: Political Symbolism and Mass Movements in Germany from the Napoleonic Wars through the Third Reich, New York, 2001; E. Magrì, Luigi Barzini. Una vita da inviato, Firenze, 2008; O. Bergamini, Specchi di Guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone ad oggi, Bari-Roma, 2009; A. Biagini, La guerra russo-giapponese, Roma, 2011. 6 Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (BNCR), Arnaldo Fraccaroli, Corriere della Sera, 23 agosto 1917. 9 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 Lo scoppio della Grande Guerra attraverso “La Voce” di Prezzolini ROBERTO SCIARRONE Dipartimento di Storia, Culture, Religioni, Università degli Studi di Roma La Sapienza L a guerra del 1914-18 fu la prima guerra ghilterra furono vicine allo scontro a Fascioda, in Sudan “mondiale” e di “massa” nella storia dell’u- (1898), mentre la stessa Repubblica francese e l’Italia svilupmanità, per la prima volta coinvolse una po- parono aspre tensioni in conseguenza dell’occupazione frantenza non europea, gli Stati Uniti d’America, che nel 1917 col suo intervento decisero il conflitto a vantaggio dell’Intesa, riducendone successivamente l’autonomia dei Paesi europei, mutandone gli equilibri continentali sedimentati nel corso del “Lungo XIX secolo”.1 Dilagarono su ogni fronte e in ogni esercito gli ammutinamenti, le diserzioni e ogni forma di fuga, collettiva o individuale, dall’obbligo di uccidere o essere uccisi, sino alla soluzione di porre fine alla guerra dandosi prigionieri al nemico o, nella peggiore delle ipotesi, procurandosi provvidenziali ferite e automutilazioni. La guerra arrivò al termine di un processo apertosi nella seconda parte dell’Ottocento e risoltosi in pochi decenni con la spartizione del pianeta da parte delle potenze europee.2 La Russia e l’Inghilterra erano contrapposte nel “grande gioco” asiatico, tra India, Prezzolini in un disegno di Luciano Guarnieri Persia e Afghanistan, oltre a cercare di dirimere la strisciante crisi dell’Impero ottomano.3 Francia e Incese della Tunisia. Sempre a causa della corsa “imperialista” Francia, Inghilterra e Germania sfiorarono la guerra in Ma1 Il termine fu coniato dallo storico britannico di origine ebraica e di forrocco (1905 e 1911), la corsa tedesca al riarmo navale rapmazione marxista Eric Hobsbawm. Lo studioso indicò l’Ottocento come presentò, sul finire del secolo XIX, il più forte motivo di friun secolo che si estese, almeno dal punto di vista storiografico, tra il 1789 e il 1914. Sviluppò la sua teoria in tre saggi distinti: Le rivoluzioni borghesi zione con l’Impero britannico.4 Parallelamente Stati Uniti e (1789-1848), Il trionfo della borghesia (1848-1875) e L’età degli imperi Giappone seguirono la logica imperialistica europea: così la (1875-1914). Nel corso del primo conflitto mondiale molti degli accordi politici internazionali furono sospesi fino a disegnare uno scenario nuovo nel secolo XX che, secondo lo storico britannico, si sarebbe rivelato tanto “breve” quanto denso di mutamenti, sia sul piano politico e sociale sia su quello economico e delle scoperte scientifiche. Cfr. E. Hobsbawm, Il Secolo breve, Rizzoli, Milano, 2006. 2 Per una sintesi storiografica accurata sull’imperialismo europeo ottocentesco vedi R.F. Betts, L’alba illusoria, L’imperialismo europeo nell’Ottocento, Il Mulino, Bologna, 2008. 3 “Grande gioco” è la definizione attribuita tradizionalmente dagli storici alla competizione scatenatasi, nel XIX secolo, tra Impero britannico e Impero russo per il controllo della regione centro-asiatica e del subcontinente indiano. Successivamente, nell’ambito del contesto regionale post- 10 bipolare, un numero crescente di analisti ha ripreso la denominazione di “Grande gioco” per indicare la competizione tra Russia e Stati Uniti per l’influenza sullo spazio meridionale della ex Unione Sovietica - dal Caucaso sino all’Asia centrale. 4 L’ammiraglio, e Segretario di Stato per il ministero della Marina imperiale tedesca, Alfred von Tirpitz aumentò nel 1900 la forza navale tedesca tramite un progetto di legge che mise in allarme l’ammiragliato inglese. Nelle motivazioni della legge suddetta si specificò che la flotta tedesca avrebbe dovuto essere tanto forte “da rivaleggiare alla pari con le più grandi potenze”. Cit. in R. Sciarrone, Strategie militari franco-tedesche a confronto (1905-1913), Nuova Cultura, Roma, 2013, p. 25. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA competizione in Manciuria portò alla guerra russo-giapponese (1905), che vide l’inaspettata vittoria degli asiatici, e la White House mosse guerra alla Spagna a Cuba (1898). L’odierna storiografia è d’accordo però nell’asserire che la causa principale del conflitto non vada ricercata nella competizione coloniale in sé. Lo studio dello storico tedesco Fritz Fischer sugli obiettivi di guerra dell’Impero tedesco mostra come questo, frustrato nelle sue aspirazioni coloniali, abbia trasferito la sua pressione imperialistica sull’Europa orientale.5 Fischer dopo avere analizzato nelle linee essenziali lo sviluppo economico-sociale della Germania dagli anni ‘90 al 1914, mostrò senza pregiudizi le precise responsabilità dei maggiori capi politici e militari tedeschi per spingere l’Austria-Ungheria a un conflitto dal quale si ripromettevano il coronamento dei loro sogni imperialistici. Il progressivo sistema di dominazione politica ed economica del Reich era regolato in forma diretta e indiretta: dalle limitate annessioni ai confini occidentali e orientali (province polacche e lituane, francesi, belghe e olandesi), attraverso la creazione di Stati-cuscinetto vassalli (Belgio e Romania, Polonia, Finlandia, Ucraina), si doveva giungere a una Mitteleuropa sotto direzione tedesca, che avrebbe dovuto allargare la sua sfera d’influenza a gran parte d’Europa, Asia e Africa. Fischer dimostrò la coerenza e la praticità di questo programma, rincorso dagli uomini di governo con l’appoggio di industriali, finanzieri e personalità legate alla cultura tedesca: le varie fasi del conflitto, le principali operazioni belliche, le stesse trattative segrete e i sondaggi per la pace fanno da sfondo a quest’importante ricostruzione del più ambizioso piano di conquista elaborato prima della tragica avventura hitleriana. Un altro studio, dello statunitense Richard Webster, individuò nei Balcani del primo quindicennio del XX secolo un’area di crescente conflittualità tra le potenze per il controllo, ancora una volta, di spazi e risorse, di influenze e affari, nella crisi sempre più forte dell’Impero ottomano da cui sorsero nuovi Stati nazione come la Bulgaria, la Romania, la Serbia e la stessa Turchia rinnovata dalla rivoluzione dei “giovani turchi” (1908).6 Quali ragioni possono aver spinto un Paese dalle tradizioni non imperialiste e non capitalistiche come l’Italia, a esporsi in due guerre mondiali e in tre campagne coloniali? Webster, nel suo studio, cercò di ipotizzare le cause di tale fenomeno nel “decollo economico” del periodo giolittiano, analizzando la realtà politico-economica italiana dagli inizi del secolo alla crisi del 1915. Ad ogni modo le “guerre balcaniche”, che opposero gli Stati dell’area tra loro, coinvolgendo anche la Grecia, tra il 1912 e il 1913, evidenziarono la difficoltà di raggiungere un equilibrio, seppur approssimativo, nell’area. Uno degli ultimi lavori dello storico italiano Antonello Biagini né tratteggia le fasi più salienti attraverso i documenti prodotti dagli ufficiali italiani impegnati, a vario titolo, nell’area balcanica.7 L’Italia rappresentò per le élites politi5 Cfr. F. Fischer, Assalto al potere mondiale, La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi Editore, Milano, 1965. 6 Cfr. R. Webster, L’imperialismo industriale italiano 1908-1915, Einaudi Editore, Milano, 1974. 7 Cfr. A. Biagini, L’Italia e le guerre balcaniche, Edizioni Nuova Cul- che balcaniche un modello per la realizzazione dell’unità nazionale, un esempio da imitare e da seguire per gli emergenti Stati nazionali. Nel periodo compreso tra il Congresso di Berlino (1878) alla Prima guerra mondiale, gli ufficiali italiani – addetti militari, membri delle commissioni per la delimitazione dei confini, esperti e delegati ai convegni internazionali, personale in servizio presso gli eserciti stranieri – furono infatti attivi nella regione, offrendo la loro esperienza tecnica e organizzativa nel processo di ridefinizione politica dell’area, resa problematica dagli accesi contrasti fra nazionalità. La Grande guerra non deflagrò così sui lontani confini tra gli imperi coloniali, ma a Sarajevo, in una delle tante periferie del continente europeo, dove le spinte espansioniste ed egemoniche di tutte le potenze continentali si sovrapposero alle micce innescate dai micro-nazionalismi, nuovi popoli desiderosi di emanciparsi non solo dall’Impero ottomano ma anche da quello austro-ungarico. Tornado a occidente non può essere sottovalutata la querelle franco-tedesca, risalente al 1870 (conflitto franco-prussiano), che esasperò i rapporti tra le due potenze vicine e produsse il sistema di blocchi d’alleanze contrapposti, Triplice Alleanza e Intesa, che si confrontarono poi nel corso della Prima guerra mondiale. L’Italia entrò in guerra nel maggio del 1915, allorché il conflitto era già iniziato da dieci mesi, schierandosi a fianco dell’Intesa contro l’Impero austro-ungarico fin allora suo alleato. La scelta di interrompere l’alleanza con gli imperi centrali fu certamente sofferta da parte dell’Italia, classe politica e opinione pubblica si spaccarono in due fronti contrapposti. Il 2 agosto 1914, a guerra appena scoppiata, il governo di Antonio Salandra dichiarò la ferma neutralità italiana, la decisone, giustificata dal carattere difensivo della Triplice (l’AustriaUngheria non era stata attaccata, né aveva consultato l’Italia prima d’intraprendere l’azione offensiva contro la Serbia), trovò unanimi tutte le principali forze politiche. Ma, una volta scartata l’ipotesi di un intervento a fianco degli imperi centrali iniziò a paventarsi l’eventualità opposta: quella di una guerra contro l’Austria che, qualora fosse stata vinta, avrebbe potuto completare il processo risorgimentale (Trento e Trieste) apertosi e mai chiusosi mezzo secolo prima. Portavoce di questa linea “interventista” furono in primis gruppi e partiti della sinistra democratica: i repubblicani, guardiani della tradizione garibaldina; i radicali e i socialriformisti di Leonida Bissolati, molto legati alla politica transalpina; e naturalmente le associazioni irredentiste, ricche di fuoriusciti dall’Impero austro-ungarico come Cesare Battisti leader dei socialisti trentini. Ad essi si unirono esponenti delle frange estremiste ed “eretiche” del movimento operaio, come ad esempio i capi del sindacalismo rivoluzionario Alceste De Ambris e Filippo Corridoni, convertitisi alla causa della guerra “preventiva”. Sull’opposto versante dello schieramento politico, promotori attivi dell’intervento erano i nazionalisti mentre più prudente e graduale fu l’adesione alla causa dell’intervento dei gruppi liberal-conservatori, rappresentati maggiormente dal «Corriere della Sera» di Luigi Albertitura, Roma, 2012. 11 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 ni e i loro riferimenti politici in Antonio Salandra e Sidney Sonnino, allora ministro degli Esteri. L’ala più forte dello schieramento liberale, con a capo Giovanni Giolitti, si schierò su una linea più neutralista, poiché si pensò che l’Italia non sarebbe stata preparata ad affrontare una guerra lunga e logorante. Giolitti era certo che Roma avrebbe potuto ottenere dagli imperi centrali, come compenso per la sua neutralità, buona parte dei territori rivendicati.8 Avverso e ostile in maniera alquanto decisa all’intervento era il mondo cattolico italiano, il nuovo papa Benedetto XV, salito al soglio pontificio nel settembre 1914, si fece portavoce dell’atteggiamento pacifista tormentato dall’ipotesi di una guerra dell’Italia accanto la Francia anticlericale contro la cattolica Austria-Ungheria. Netta infine fu la condanna alla guerra da parte del Partito Socialista Italiano (Psi) e dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgl), in aperto contrasto con la scelta patriottica dei maggiori partiti socialisti europei. L’unica, fragorosa, defezione importante fu quella del direttore dell’«Avanti!» Benito Mussolini il quale, dopo aver orchestrato dalle prime pagine del suo giornale una forte campagna per la “neutralità assoluta”, si schierò improvvisamente a favore dell’intervento.9 Destituito ed espulso dal partito Mussolini fondò un nuovo quotidiano «Il Popolo d’Italia» (novembre 1914), principale tribuna dell’interventismo italiano. In termini di forza parlamentare e di peso nella società i neutralisti erano dunque in netta prevalenza, ma non costituivano uno schieramento omogeneo, capace di trasformarsi in alleanza politica, il “partito della guerra” poteva contare sui settori più dinamici della società, quelli che sostanzialmente contribuivano a formare l’opinione pubblica. Erano infatti interventisti gli studenti, gli insegnanti, i professionisti, la piccola e media borghesia colta, probabilmente più sensibile ai valori patriottici. Gli intellettuali di maggior prestigio, a parte Benedetto Croce, scelsero la linea interventista: Giovanni Gentile, Giuseppe Prezzolini, Lugi Einaudi e Gaetano Salvemini. Il caso più tipico fu quello dello scrittore Gabriele D’Annunzio che s’improvvisò per l’occasione capopopolo ricoprendo un ruolo di rilievo nelle manifestazioni di piazza a favore dell’intervento. Ma ciò che in definitiva decise l’esito dello scontro fra neutralisti e interventisti fu l’atteggiamento del capo del governo, del ministro degli Esteri e del re. Salandra e Sonnino strinsero rapporti segreti con le potenze dell’Intesa infine decisero, di comune accordo con il re Vittorio Emanuele III, senza informare il 8 Vedi l’esaustiva opera di M. Isneghi, G. Rochat, La grande guerra 1914-1918, La Nuova Italia, Firenze, 1999. 9 Si veda R. De Felice, Mussolini: il rivoluzionario, 1883-1920, Einaudi Editore, Milano, 2005. 12 parlamento di accettare le proposte anglo-russo-francesi firmando il Patto di Londra il 26 aprile 1915. Le clausole principali definivano che l’Italia avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, il Sud Tirolo fino al confine naturale del Brennero, la Venezia Giulia e l’intera penisola istriana, a parte la città di Fiume, una parte della Dalmazia e numerose isole adriatiche. Isolati e disorientati i socialisti non riuscirono ad organizzare una efficace opposizione e ribadirono la loro ostilità alla guerra e la loro fedeltà all’internazionalismo proletario. La crisi dell’intervento lasciò un segno tangibile nella vita politica e sociale italiana, mostrando tra l’altro che larga parte delle masse popolari rimaneva estranea ai valori patriottici. In questo contesto s’innestano gli articoli e le opinioni pubblicate da «La Voce» di Giuseppe Prezzolini nel 1914, che di seguito analizzo alla luce degli eventi dei primi sei mesi di guerra. La rivista culturale, fondata a Firenze nel 1908, fu pubblicata dapprima con periodicità settimanale, poi dal 1914 la cadenza fu quindicinale e la direzione passò esclusivamente a Prezzolini, a parte un breve periodo tra l’aprile e l’ottobre 1912 in cui la direzione passò a Giovanni Papini. Alla rivista si affiancò la Libreria della Voce che pubblicò volumi e “quaderni” di natura critico-storica. Nata durante il fervore culturale all’inizio del Novecento prese posizione contro il tardo positivismo, bersaglio del cristianesimo e dell’idealismo in genere. I nomi che contribuirono a rendere importante la rivista testimoniano la varietà e le correnti di diversa origine presenti: Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, per citarne alcuni. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Prezzolini schieratosi apertamente per l’intervento dell’Italia lasciò «La Voce» che, sotto la direzione di Giuseppe De Robertis (dicembre 1914-dicembre 1916) si trasformò in rivista esclusivamente letteraria, infine per otto mesi, dal maggio al dicembre 1915, apparve in 14 numeri una seconda Voce, edizione politica edita a Roma e detta “gialla” per il colore della copertina, diretta dallo stesso Prezzolini. I primi sei mesi di guerra coincidono però con la presenza di numerosi articoli ed editoriali sul conflitto, da cui traspare la netta tendenza della rivista a commentare circa le scelte di politica estera dell’Italia. Ripercorriamo il lungo dibattito, tra interventisti e neutralisti, che si svolse sulle pagine de «La Voce» nei mesi precedenti e, soprattutto, all’indomani dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, ucciso a Sarajevo il 28 giugno 1914 dal nazionalista serbo Gavrilo Princip. L’editoriale del 13 gennaio aprì la rivista soffermandosi sul concetto di “libertà”: SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Io credo che noi italiani abbiam bisogno, più che i tedeschi e gli inglesi, di libertà interiore, morale, religiosa, scientifica, filosofica, per poter essere liberi politicamente, all’aria aperta. Ne abbiam bisogno, perché andiamo in casa, come casa o persona nostra, il nostro più grande nemico, il nemico dello spirito libero, l’autorità spirituale, infallibile (Papa Pio, Papa Mazzini)! Quando si pensa a quest’originale di spirito umano, che per esaltare se stesso (per celebrare la sua natura, diceva il nostro Don Giambattista) arriva fino a farsi il tiranno di se stesso, ci è da diventar matti davvero! E quando si pensa che nell’occidente l’Italia fu destinata a fare da portatrice per sé e per altri, ed educare eunuchi per tutti i serragli del vecchio e del nuovo mondo, ci è da diventar due volte matti!10 Ben più “calzante” con gli eventi di natura militare, che di lì a poco avrebbero occupato le prime pagine della stampa europea, l’articolo di Prezzolini su «La Voce» del 28 gennaio 1914. Il direttore si scaglia contro i “nuovi barbari”, percorrendo il dibattito, tutto italiano, in auge negli ambienti eruditi: Una civiltà che minaccia di stancarsi ha bisogno d’una guerra o d’una rivolta per riprender vigore, vi muore o si rialza, perché ciò che distingue un fuoco da una candela è che il primo, sotto il vento, cresce, la seconda si spenge. L’Italia in questi ultimi anni godeva di troppa pace e civiltà intellettuali. Positivismo, misticismo, modernismo, metodo storico, dannunzianismo erano stati seppelliti […]. L’idealismo militante era finito per far posto all’idealismo trionfante: c’era ora l’idealismo riposante. La Critica diventava più storica, recensiva e riempiva di fonti e imitazioni quel che dava un tempo a scomposizioni di idee e a polemiche. Ci voleva qualche minaccia, una guerra o una rivolta, per restituirci l’energia combattiva; una provincia ancora barbara da incivilire, il nemico alle porte, che so io? Ci vengono sotto il naso i nuovi barbari a ricordarci che si deve ancora combattere. Fan prudere le mani. Li abbiamo lasciati scorrazzare sul nostro territorio per un anno quand’era più facile ricacciarli. Ma ora basta. Bisogna difendere l’intelligenza dalla nuova barbarie.11 Gli eventi che portano alla primo conflitto mondiale ci aiutano, inoltre, a definire quali furono i problemi e le prospettive che l’apparato militare italiano dovette affrontare nel corso del suo faticoso processo di riforme. Le alleanze militari, le trame diplomatiche, le convenzioni e i trattati s’inserirono pienamente nell’intricato dedalo di provvedimenti che lo Stato Maggiore italiano produsse dal 1871 al 1914. Le influenze, degli uni e degli altri, mutarono il volto dell’esercito italiano che da anello debole dell’alleanza con gli Imperi centrali divenne quanto mai l’ago della bilancia nello scontro che si andava a profilare tra i due blocchi di potenze contrapposti. Alla vigilia dello scoppio del primo conflitto mondiale l’Italia aveva migliorato il proprio apparato militare e dato una fisionomia più dinamica e “vicina” agli eserciti delle maggiori potenze continentali dell’epoca. Il modello di esercito prussiano fu preso quale punto di riferimento iniziale e successivamente adattato alle possibilità di bilancio dei vari governi a cavallo del XIX e XX secolo. Diversi eventi, come la sconfitta patita in Etiopia (1895) e la guerra in Libia (1911-12), modificarono le priorità dei vari ministri della Guerra e dei capi di Stato Maggiore in termini di spesa e chiaramente di rapporti con le altre poten10 Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea (BSMC), R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 13 gennaio 1914, p. 1. 11 Ivi, 28 gennaio 1914, pp. 1-9. ze. La necessità di prendere parte al tavolo delle decisioni continentali spinse i vertici politico-militari ad aggiungere nel corso degli anni sempre più peso alla diplomazia italiana che, seppur mai considerata alla pari, mostrò tutta la sua incidenza allorché l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando palesò l’importanza di averla come alleata. Dal punto di vista economico, fu fatto il massimo per migliorare le condizioni dell’apparato militare post-unitario, la storiografia italiana ed europea ha poi a lungo dibattuto sulla necessità o meno dell’alleanza con gli Imperi centrali poi rovesciata nel 1914. Va riconosciuto il grande merito ai dirigenti politici e militari dell’epoca di aver affrancato il Paese, seppur tra mille difficoltà, dalle ingerenze delle potenze europee e di aver mantenuto unito uno Stato che subito dopo il 1861 sembrava avesse tutti i sintomi di una repentina disgregazione. Ma nell’aprile 1914 i possibili scenari di guerra destarono parecchia contraddizione sulla stampa italiana. Ancora una volta il direttore de «La Voce» Giuseppe Prezzolini entrò nel dibattito con il suo stile pacato ma deciso: La forza è l’ultimo rifugio dei deboli e degli oppressi. Combattere la guerra è voler impedire a chi è schiacciato dalla lettera della legge e della consuetudine, dall’inganno o dalla prepotenza, di potersi almeno sfogare, di cadere e di subir l’oppressione con la rivolta, di correre l’alea della lotta brutale. Coloro che fanno la propaganda del pacifismo dimenticano che vi sono ancora ingiustizie legali, e finché queste ingiustizie legali esisteranno, il togliere ai privati e ai popoli l’uso della forza, la speranza di rendersi forti, è chiudere l’uomo in un mondo più nero e più orrido di quello che qualsiasi atroce guerra può fare. Io capisco coloro che negano la guerra, assolutamente; e che negano allora qualunque resistenza al male. Capisco Tolstoj. E’ stupido, infantile, degno di contadini. Ma è logico chiaro, diritto. Non capisco coloro che fanno distinzioni fra guerra e guerra, fra guerra e rivoluzione, fra guerra e rivolta. E’ obliquo, insincero, falso […]. Chi combatte contro la guerra deve combattere ogni violenza, anche lo sciopero, il boicottaggio, la concorrenza commerciale. Chi è rivoluzionario non dovrebbe gridare contro la guerra. Chi dice viva la Comune non dovrebbe dire abbasso Adua. Si dice che la guerra non è civile. Eppure la guerra è per certe persone l’unica forma possibile di partecipazione alla civiltà umana. Finché sarà necessario cementare le costituzioni, le leggi, i confini, le proprietà, i diritti, d’una forza, e di una forza determinata a difendere quelle costituzioni e quelle leggi, quei confini e quelle proprietà, quei diritti, con l’estremo, del sangue e della morte, fino ad allora migliaia di persone che si dicono uomini soltanto in quanto s’incamminano verso l’umanità, non potranno mostrare questo loro avviamento che sacrificandosi e morendo. Oh certo che la persona colta e intelligente, l’europeo di cui parla Nietzsche potrebbe benissimo esser superiore al campo di battaglia; come potrebbe essere superiore al letto matrimoniale, se crea altre cose che figli, cioè opere immortali. Ma alla grande maggioranza non è data immortalità che quella concessa da un seme fecondo ed altro eroismo che quello concesso da una trincea […]. Aboliremo la guerra quando non ci saranno più vincitori e vinti nella vita. Fino ad allora la guerra sarà una garanzia di considerazione anche per i vinti tale che nessuno vorrà togliersi questa prova di valore di fronte al nemico. Chi si è difeso bene si conquista la stima del vincitore. Chi cade vigliaccamente ha la sconfitta e il disprezzo. Un vinto che si è difeso fa sempre paura, perciò lo si tratta bene. Il vinto che si è battuto, insomma, riesce a entrare nella nuova condizione di cose che il vincitore crea […]. Io capisco benissimo l’internazionalismo. Sento con perfetta sicurezza che si avvia a una civiltà mondiale, che l’Europa è destinata a europeizzare l’universo. Ma un vero internazionalista dovrebbe capire che a quel capolavoro di civiltà mondiale non si può giungere che a traverso la concorrenza e la lotta fra le civiltà e le nazioni. Niente civiltà mondiale senza lotte e senza guerre. E il dovere di tutte le nazioni, di tutti i popoli, di tutte le civiltà è di tener duro, ciascuno nel suo campo, di cercare di vincere, od essendo vinti di costringere il vincitore ad uno sforzo più grande. 13 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 Non si collabora al mondo coll’abbracciamento ma con la polemica. Il libero scambio in economia politica, vuol dire guerra in politica internazionale e polemica nella coltura. Gli storici di oggi vedono la causa delle guerre nei maneggi delle case Krupp, Terni, Schneider ecc. mi ricordano quegli storici dell’antichità che le vedevano nei capricci delle cortigiane e mantenute regali. Ma il “naso” di Cleopatra resterà sempre un’immagine della miopia degli storici e non della vanità della storia. Le teste son piccole non il mondo.12 L’articolo ci mostra chiaramente l’idea che sulla guerra aveva Prezzolini. L’edizione del 28 aprile 1914 si chiude con un annuncio commerciale: “A chiunque comprerà per LIRE DIECI di nostre edizioni manderemo gratis LA VOCE fino al 31 dicembre 1914”13. Di li a poco sarebbe scoppiata la guerra e annunci come questo avrebbero, per molti, perso ogni importanza. L’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo provocò l’inizio della catena di eventi che diedero inizio allo scoppio della Prima guerra mondiale (28 giugno 1914). Per il partito interventista austriaco si presentava quindi l’occasione di vendicare la morte dell’arciduca attaccando la Serbia, come da tempo Conrad professava, i vertici militari della duplice monarchia non avevano intenzione però di scatenare un conflitto di dimensioni europee. A Vienna si era certi che nel caso di un fermo atteggiamento della Germania la Russia non si sarebbe mossa come avvenuto nel corso delle due crisi albanesi dell’anno precedente. Per quanto concerneva l’Italia, dagli eventi del luglio 1913, gli austriaci credevano che essa non si sarebbe intromessa nella questione serba. Per ottenere l’appoggio italiano sarebbe stato di primaria importanza promettere compensi territoriali, cosa che i politici austriaci non avevano alcuna intenzione di fare, vi era poi il pericolo che l’Italia si opponesse all’azione mettendo in allarme l’Intesa. L’appoggio italiano fu valutato però come non indispensabile dall’establishment austro-ungarico, mentre i tedeschi probabilmente non riuscirono a valutare con la necessaria lucidità la situazione che si venne a creare nell’estate del 1914. Da parte italiana la morte del generale Pollio privò l’esercito in un momento alquanto cruciale di una figura estremamente importante. Luigi Cadorna, nuovo Capo di Stato Maggiore, si trovò a fronteggiare una situazione d’emergenza, del resto soltanto pronte garanzie austriache circa la questione dei compensi avrebbero potuto indurre l’Italia a partecipare a un conflitto causato da un’azione offensiva della duplice monarchia, diretta a tutelare interessi esclusivamente propri e non rientrante in alcun modo tra quelle previste per il casus foederis del trattato della Triplice. Se quindi l’Austria avesse consentito all’Italia la cessione del Trentino e l’autonomia di Trieste e se: «Noi nel contempo avessimo loro dato affidamenti per Tunisi e Nizza, avremmo avuto l’Italia dalla nostra», così affermò il principe von Bülow nelle sue Memorie.14 Mentre i dirigenti politici degli Imperi centrali non capirono l’importanza che siffatte concessioni avrebbero potuto rappresentare di lì a poco, il Capo di S.M. germanico von Moltke avviò diversi colloqui con l’Austria-Ungheria 12 Ivi, 28 aprile 1914, pp. 1-6. 13 Ibidem. 14 B. von Bülow, Memorie, Mondadori, Milano, 1931, p. 192. 14 affinché accettasse le condizioni italiane. Fu infatti su pressione di von Moltke che il 26 luglio il cancelliere tedesco spedì a Vienna un telegramma d’appoggio alle richieste italiane.15 Forse l’atteggiamento del Capo di S.M. imperiale era dovuto al fatto che a differenza della classe politica di allora egli non era sicuro che il conflitto austro-serbo potesse restare localizzato. Oltre a ciò la scomparsa del generale Pollio rendeva la situazione ancora più incerta. Nonostante ciò dopo aver assunto la sua nuova carica Cadorna indirizzò due dispacci ai pari grado degli eserciti alleati, ribadendo l’appoggio e i sentimenti di amicizia che legavano l’Italia alle altre due potenze della Triplice. E’ proprio il 28 giugno «La Voce» pubblica il numero 12 aprendo un dibattito sul delicato tema dell’uso della forza, da parte del governo, influenzata dai fatti di Ancona: Perché in Italia la polizia è antipatica alla popolazione? Perché In Italia ciò che rappresenta l’autorità non è simpatico alla popolazione? Perché, in qualunque conflitto la gran maggioranza, soprattutto la maggioranza dei poveri, è portata a simpatizzare con chi si rivolta e non appoggia chi difende la legge? Cinquant’anni di storia italiana son lì per rispondere. Governo oppressivo; gruppi d’interessi particolari prevalenti a danno dell’interesse generale; tasse sproporzionate alle forze del Paese; deficienza nelle opere di educazione e di istruzione; tradizioni di ostilità al governo; reclutamento pessimo delle guardie di sicurezza; relazioni della pubblica sicurezza con la camorra per scopi elettorali; relazioni della pubblica sicurezza con la mala vita sotto pretesto dei buoni costumi; coscienza pubblica elevantesi a poco alla volta a cognizione di questo stato di cose. […] Ogni avvenimento è uno spiraglio che apre la visione di tutta la vita nazionale. Perché la grande maggioranza fosse convinta che alcuni carabinieri ed una guardia sparassero senza bisogno il giorno 7 giugno (salvo errore) uccidendo un cittadino e ferendone altri, erano necessari e sufficienti tutti i cinquant’anni della nostra unità.16 Lucida fotografia della società italiana, da parte di Prezzolini, che non lesina critiche nei confronti dei partiti liberali. Il malessere economico, che l’Italia stava faticosamente affrontando, provocarono secondo il direttore de «La Voce» uno stato di irritazione più grave di quello scaturito dalle ultime elezioni politiche: Oggi i partiti liberali scontano il peccato di non essersi opposti in tempo alla infatuazione nazionalista per la conquista libica; scontano il peccato di non aver esposto al pubblico italiano per mezzo dei loro organi le difficoltà dell’impresa e soprattutto il peso economico che avrebbe provocato; scontano il peccato di non avere fatto quello che, presso che solo nei partiti liberali, l’on. Mosca fece. Il socialismo, il repubblicanesimo non sono cresciuti in Italia. Coloro che hanno ravvicinato gli avvenimenti recenti a quelli del 1908 hanno perfettamente ragione. Non manca al paragone neppure la guerra d’Africa che ne fu la causa: con questa differenza che allora, siccome fummo battuti e costretti a fare una politica casalinga, restaurar le finanze fu relativamente facile, ora invece che siamo vincitori non possiamo tornare indietro e il peso finanziario durerà molto più tempo. I responsabili dei fatti del giugno 1914 sono dunque i responsabili dell’impresa libica: gli stessi. […] Noi abbiamo un popolo magnifico, e una borghesia bassa. Le nostre classi dirigenti sono sempre pronte quando si tratta di godere i piacere del potere, sono sempre lontane quando si tratta di pagare gli oneri.17 15 Ibidem. 16 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 28 giugno 1914, p. 3. 17 Ivi, 28 giugno 1914, pp. 7-8. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA L’editoriale di Prezzolini, ben strutturato, faceva riferimento ai fatti accaduti l’8 giugno ad Ancona, definiti successivamente dalla storiografia “settimana rossa”. All’alba di lunedì 8 giugno 1914, l’Italia fu attraversata dalla rivolta: per le strade delle principali città della penisola infuriarono violenti scontri tra forza pubblica e scioperanti. Il profondo disagio economico e sociale esasperò i disordini, alla vigilia della Prima guerra mondiale, dando vita a una vera e propria insurrezione antimonarchica e antimilitarista, che mise in luce le debolezze del governo e della corona sabauda. L’episodio costituì uno dei primi esempi di protesta pacifista che si susseguiranno nel Novecento, ma anche una preoccupante esacerbazione dei conflitti sociali che annunciarono le crisi del primo dopoguerra. La scintilla deflagrò ad Ancona, città portuale già particolarmente “calda” durante altri episodi di sollevazione, dove in occasione del 7 giugno, festa dello Statuto Albertino, ebbe luogo una manifestazione di protesta opposta alla parata ufficiale. Dopo la morte di tre dimostranti, la reazione esplose in un’aperta rivolta generale: dalla città occupata l’insurrezione si estese, attraverso le Marche, in tutta la Romagna e si accesero focolai in tutti i più importanti centri italiani. Dopo giorni di combattimenti e barricate, con l’intervento dell’esercito il 10 giugno 1914, la Confederazione Generale del Lavoro revocò lo sciopero e il 13 giugno, di fatto, la rivolta cessò. Nel frattempo il generale von Moltke ricevette la comunicazione di neutralità, da parte italiana, allorché la situazione stava precipitando, infatti il 25 luglio la Serbia aveva mobilitato, l’Austria aveva indetto una mobilitazione parziale e la Russia (26 luglio) aveva iniziato a preparare il proprio esercito. Il 29 fu inoltre indetta la mobilitazione generale in Montenegro e l’Inghilterra diramò il “telegramma d’avviso” per l’esercito e per la flotta e la Russia ordinò la mobilitazione parziale contro l’Austria-Ungheria. Ai primi di agosto l’imperatore tedesco Guglielmo II si rivolgeva direttamene al re d’Italia Vittorio Emanuele III e von Moltke affermava al cancelliere Theobald von Bethmann Hollweg: «Non m’importa se l’Italia non invierà in Germania un notevole contingente di truppe. Mi basta che invii a causa della situazione politica, poche forze, fosse anche una sola divisione di cavalleria. L’importante è che l’Italia entri in guerra a fianco degli alleati. A ciò è sufficiente il minimo contributo militare».18 L’arrivo della 3ª armata era atteso 18 W. Foerster, Aus der Gedankenwerkstatt des Deutschen Generalstabes, Berlin, 1931, p. 101. comunque a Strasburgo a partire dal 6 agosto, lo scarico si sarebbe dovuto concludere secondo i piani dell’ufficio trasporti dello Stato Maggiore germanico entro giorno 15. Il generale Cadorna, conscio degli oneri della carica che andò a ricoprire, si era reso perfettamente conto della gravità della situazione provocata dagli eventi internazionali di quei giorni. Il Capo di S.M. proponeva quindi la cancellazione di Genova dall’elenco delle fortezze e lo smantellamento delle sue batterie i cui pezzi, abbastanza antiquati, avrebbero dovuto essere trasferiti in Appennino per realizzarvi un ridotto, ma non solo. Disponeva di provvedere subito all’occupazione avanzata e al presidio delle fortezze sulla frontiera nord-ovest, far rientrare le truppe sospendendo i campi, mettere in preallarme le grandi unità destinate a operare sulle Alpi o a essere inviate in Germania, far rientrare dalla Cirenaica quattro battaglioni alpini e rinforzare gli organici, completando il richiamo della classe 1891. La macchina organizzativa dell’apparato militare italiano si era quindi messa in moto. Inoltre veniva disposto lo sgombero delle risorse concentrate presso il porto di Genova, il trasporto dell’artiglieria atta a completare l’armamento delle fortezze dalla frontiera nordorientale a quella nordoccidentale e bisognava preparare l’opinione pubblica all’eventualità di una guerra. Ai provvedimenti più importanti il ministro della Guerra dava esecuzione immediata, il 31 luglio quindi si provvedeva alla difesa avanzata della frontiera con la Francia, disposto il trasferimento da fortezza da est a ovest, e ordinato il rimpatrio dalla Libia di parecchie unità ufficiali e sottufficiali. Lo stesso Cadorna sollecitò il ministro della Guerra alla messa in stato di difesa delle piazze di Messina e della Maddalena, inviando al re una memoria sintetica sulla radunata nord-ovest e sul trasporto in Germania della maggior forza possibile. Il nuovo Capo di S.M. illustrava poi a Vittorio Emanuele III la storia degli accordi italo-tedeschi e chiariva la sua posizione in merito: L’intima persuasione mia in proposito è che la vitale questione non sia suscettibile di diversa soluzione. […] Ma è altresì mio convincimento che la soluzione prospettata non corrisponderà compiutamente agli interessi della Patria se non quando avrà raggiunta la maggiore estensione cui essa è capace. […] Ritengo in altri termini che si debba non soltanto tornare ad assegnare 5 corpi d’Armata (oltre alle divisioni di cavalleria) all’Armata da inviare in Germania, ma che si debba tendere ad inviare su quello che, nel conflitto, rappresenterà il teatro principale della guerra. […] L’interesse nostro non può non collimare con l’interesse generale del gruppo di alleanza al quale partecipiamo. […] Il non compiere da parte nostra il massimo sforzo per concorrere a ridargli stabilità tornerebbe esiziale all’interesse generale ed a quello nostro in particolare. […] L’interesse strategico consiglia e comanda 15 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 di considerare le forze armate della triplice come se appartenessero ad un unico esercito e ripartirle con un concetto direttivo unico. E poiché il teatro principale delle operazioni è quello settentrionale dovranno convergere le masse preponderanti delle forze dei collegati.19 Nel leggere la memoria si comprende che Cadorna doveva essere stato informato della posizione del re, contraria all’impiego delle truppe italiane in un settore in cui il Comando Supremo italiano non ne avrebbe avuto il pieno controllo. Intanto anche la Marina italiana aveva iniziato le operazioni di mobilitazione con grande rapidità, i vertici militari francesi stavano iniziando a prendere misure cautelative, infatti l’addetto militare italiano a Parigi, colonnello di Breganze, confermò che le truppe erano state richiamate nelle guarnigioni e le piazzeforti erano stato messe in stato di difesa. Breganze ebbe modo di ravvisare che l’opinione pubblica francese era ben disposta verso l’Italia e che predominava la convinzione della neutralità italiana. La stampa si mostrava incline a un atteggiamento conciliante nei confronti dell’Italia e le misure prese al confine con la penisola erano state, fino a quel momento, pochissime.20 Il 2 agosto una lettera di Conrad indirizzata a Cadorna esortava il Capo di Stato Maggiore italiano ad appoggiare l’esercito austroungarico tramite l’invio di alcune truppe, questa lettera sorprese i vertici militari italiani poiché anche durante la direzione di Pollio non vi era stata alcuna trattativa al riguardo. Questo atteggiamento rappresentava la situazione che si era venuta a creare a Vienna, la classe politica austriaca infatti aveva visto svanire negli anni precedenti ogni speranza di espansione nella penisola balcanica, avevano inoltre sopportato le azioni provocatorie serbe e montenegrine e cercato di evitare il precipitare della situazione. Dopo l’assassinio dell’arciduca tutto mutò, l’Austria-Ungheria mise in preventivo un’azione offensiva contro la Serbia poiché era comune convinzione che l’appoggio tedesco avrebbe frenato l’attivismo russo e il conflitto sarebbe rimasto circoscritto. Allorché questi piani si rivelarono errati, e le pressioni francesi provocarono l’intervento russo, il governo viennese fu sorpreso e sopraffatto dall’incedere degli eventi. La duplice 19 M. Mazzetti, L’esercito italiano nella triplice alleanza, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1974, p. 433. 20 Ivi, p. 434. 16 monarchia non si rese conto né dell’importanza dell’intervento italiano né del fatto che sarebbero state necessarie importanti concessioni all’Italia per averla dalla propria parte. Si credette probabilmente che l’Italia non avrebbe osato abbandonare la Germania, i calcoli austriaci si rivelarono del tutto errati. Il 3 agosto Cadorna consegnava all’addetto militare austriaco la sua personale risposta a Conrad, senza entrare nel merito della richiesta, il Capo di S.M. italiano fece valere la dichiarazione di neutralità del Regno d’Italia chiudendo la scambio di note. Secondo parte della storiografia il mancato intervento italiano sarebbe da attribuirsi a ragioni militari, secondo l’addetto militare austriaco a Roma la vera ragione della neutralità italiana era da ricercarsi nell’impreparazione dell’esercito regio oltre a forti carenze di ordine finanziario, queste debolezze sarebbero state mascherate motivando la neutralità col pretesto di una guerra offensiva. Nel 1914 l’Italia, seppur tra varie difficoltà, aveva sotto le armi le due classi 1892 e 1893, quasi 235mila uomini, oltre 41mila tra raffermati e carabinieri, inoltre furono richiamati per esigenza di pubblica sicurezza 76mila uomini della classe 1891 da poco congedati, in totale 352mila uomini di truppa perfettamente istruiti, 50mila dei quali in Libia. Numeri importanti. Vi erano poi sotto le armi 33mila reclute della 2ª categoria del 1893. Le carenze non mancavano, come ad esempio le 200mila serie di vestiario, ma queste erano più contenute rispetto le previsioni di parte della stampa neutralista dell’epoca. Escluse in parte le ragioni militari, non rimasero che quelle politiche e in primis la questione dei compensi. Anche dopo la proclamazione della neutralità, per la quale si adottò una formula che lasciava aperta ogni possibilità, fu più volte avanzata l’ipotesi di un intervento italiano a fianco degli Imperi centrali. Del resto dopo la proclamazione della neutralità (1 agosto) fu ordinato il richiamo degli ufficiali dall’estero, fu disposto l’armamento con materiale a deformazione per tutte le batterie dell’artiglieria da campagna ordinandole su 4 pezzi, fu ordinata la formazione di un altro battaglione per ogni reggimento formato da uno e istruito che i richiamati esuberanti ai centri di cavalleria fossero spostati all’artiglieria. Tutte queste misure furono adottate dai vertici militari in completa sintonia con il governo. Salandra optò per la neutralità già sul finire di luglio, data la mobilitazione della Marina e quella occulta dell’esercito si era pronti a ogni soluzione, ma quella prevista era che l’Italia prendesse parte al conflitto assieme ai suoi alleati. L’annuncio dell’intervento inglese, poi, fece svanire del tutto la possibilità di un’azione italiana a breve termine (5 agosto), ma influì parallelamente l’atteggiamento di Vienna teso a non aprire alcuna trattativa riguardante il Trentino. In siffatta situazione in cui, è bene ricordarlo, mancava il casus foederis previsto dalla Triplice, la neutralità italiana prendeva consistenza sempre più. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Questa decisione non mancò di scatenare la sorpresa degli Imperi centrali che con il passare del tempo si trasformò in aperta indignazione. La Triplice era arrivata alla sua naturale fine. La durezza dell’atteggiamento tedesco, dopo l’annuncio della neutralità italiana, fu una diretta conseguenza della totale convinzione circa l’intervento sicuro italiano a fianco degli alleati. Se all’inizio dell’alleanza i rapporti non si erano mai ammantati di incondizionata fiducia, nel corso degli anni, soprattutto l’ultimo anno e mezzo, si verificò un cambiamento d’opinione in quanto la personalità del generale Pollio e i suoi sforzi per raggiungere accordi sicuri suscitarono una giustificata fiducia nella sua fedeltà all’alleanza e una seria predisposizione ad aiutare gli alleati. Von Moltke cercò di indirizzare questi buoni rapporti per consolidare i trattati militari e le convenzioni, tuttavia senza mai pienamente contare sulla cooperazione italiana, stretta com’era tra problemi di ordine finanziario e carenze di livello logistico, derivanti, in parte, dalla logorante guerra in Libia. La realtà dei fatti, una volta conosciuta la neutralità italiana, mostrava come per il Capo di Stato Maggiore tedesco contasse molto l’aiuto dell’esercito italiano. D’altra parte se von Moltke non avesse creduto all’invio della 3ª armata non avrebbe manifestato tutta la sua incredulità allorché Salandra affermava la neutralità dell’Italia. Nel novembre 1914 il generale tedesco scrisse: Da anni l’intesa prendeva una posizione contraria alla Triplice. Solo un anno prima della guerra furono rivisti e rinnovati gli accordi tra Italia e Germania, nella primavera del 1914 questi accordi furono stabiliti in modo impegnativo. L’Italia si era impegnata a mettere a disposizione, in caso di guerra tra la Germania e la Francia, due divisioni di cavalleria e tre corpi d’armata. […] Nello stesso modo fu concluso un accordo navale tra Germania, Italia e Austria secondo il quale doveva avere luogo un’azione comune della marina austriaca e italiana, a cui avrebbero preso parte le navi tedesche che si trovassero nel Mediterraneo allo scoppio della guerra. Tutti questi accordi furono presi in maniera così chiara e impegnativa da non lasciare dubbi sulla fedeltà dell’Italia alla Triplice. Ciò nonostante l’Italia ha mancato alla sua parola. Dichiarò la sua neutralità passando sopra, con indifferenza, a tutti gli accordi. Un tradimento più oltraggioso forse non si trova nella storia.21 A due mesi dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, Prezzolini aprì l’edizione del 28 agosto inserendosi nell’acceso dibattito tra “neutralisti e interventisti” con queste parole: Il mistero della generazione di un nuovo mondo europeo si compie. Forze oscure scaturite dalla profondità dell’essere sono al travaglio ed il parto avviene tra rivi mostruosi di sangue e gemiti che fanno fremere. Noi non guardiamo soltanto al dolore. Salute al mondo nuovo! Ci darà la guerra quello che molti delle nostre generazioni hanno atteso da una rivoluzione? L’animo è calmo di fronte alla totalità del fatto che si compie e non possiamo dubitar di domani. La civiltà non muore! Indietreggia per prendere un nuovo slancio. Si tuffa nella barbarie per rinvigorirsi. Vincesse per quella che ci sembra barbarie, non sarà mai che l’albero selvatico sul quale s’annesta il ramo dolce, domestico e tenero. Non esiste un monopolio della civiltà. Nessun popolo ha il possesso esclusivo dell’ideale. Tutti i popoli hanno una sola missione, alla quale più o meno ritrarsi agli occhi di chi domina. […] L’Italia ha 21 H. von Moltke, Erinnerungen, Briefe, Dockumente, 1877-1916, Stuttgart, 1922, pp. 8-9. scelto la parte più grande e più bella. Ma troppo difficile. Non siamo abbastanza alti per essere neutrali. Il nostro pensiero si arresta davanti alla carezzevole visione di un’Italia abbastanza superiore, abbastanza riconosciuta, abbastanza imparziale, per giudicare; così forte da far rispettare il proprio giudizio; tanto rispettata ed amata, da non avere bisogno di forza. E la visione si annebbia di fronte all’indiscutibile fatto che non possiamo essere neutrali, non siamo abbastanza forti, non ci amano. Ma intanto la neutralità è stata un bene perché ha affermato una cosa: l’autonomia dell’Italia, che in questo conflitto l’Italia ha degli interessi propri, degli interessi che non sono quelli delle nazioni alla coda delle quali ci vorrebbero portare. Il primo dovere di un paese è l’autonomia. Il miglior modo di collaborare alla civiltà umana è quello di portarvi intatta la propria libertà e la propria natura. Noi non siamo né la Francia, né la Germania. Sia pure uno di questi paesi più civile dell’altro noi tradiremmo la civiltà ponendoci al suo servizio. Noi renderemo il massimo servizio alla sua civiltà mostrando la nostra autonomia. E dal punto di vista politico noi non vediamo per l’Italia alcuna ragione di decidere fra la Francia e la Germania ma piuttosto parecchie di decidere fra l’Inghilterra e l’Austria. La neutralità è stata dunque un bene, in quanto ha dichiarato la nostra indipendenza dalle altre nazioni ma in modo attivo. La neutralità è stata eccellente ma come transizione e preparazione alla guerra. Non possiamo essere imparziali quando tutti i nostri interessi sono in gioco. E il principale interesse è questo che l’Italia è fatta ma non è compiuta. E soprattutto che l’Italia non essendosi fatta da sola aspetta finalmente l’atto che la dimostrerà capace di fare da sé. Il ’59 fu con la l’aiuto della Francia, il ’60 con la protezione dell’Inghilterra, il ’66 con le forze della Prussia, il ’70 per l’assenza dei francesi. Il 1914 sarà una data di più o una data nuova? La Libia ha cancellato Adua. Quale nome cancellerà quelli di Lissa e Custoza? Il primo interesse dell’Italia è di dimostrare al mondo che essa ha dei propri interessi.22 Prezzolini descrive con lucida chiarezza gli eventi di politica estera più importanti, per l’Italia, degli ultimi sessant’anni, chiedendosi quale fosse la scelta migliore da compire per il Paese in quel delicato momento. Non ha dubbi. La neutralità, almeno all’inizio delle ostilità, gli sembrò la soluzione più saggia. Neutralità, però, vista in chiave di preparazione alla guerra, resa necessaria, secondo il direttore de «La Voce», dagli innumerevoli interessi in gioco per cui inevitabile. Nei passi successivi Prezzolini specifica quali fossero gli elementi da prendere in considerazione nel caso si dovesse abbandonare l’iniziale neutralità dichiarata dal governo italiano: Come per la guerra di Libia noi volemmo, contro il facilismo e la leggerezza nazionalista, presentare quegli elementi di previsione che dal lato economico, strategico, internazionale purtroppo la realtà si è incaricata di dichiarare fondati così anche per questa guerra vogliamo opporci al facinolismo ed alla letteratura che già han gettato i loro rami parassitari allo sfruttamento dell’intuizione popolare, riconfermando i nostri convincimenti. La guerra non sarà e, specialmente non augurabile sia, troppo facile; non deve essere fatta per aiutare nessuno, ma per nostri fini autonomi, soprattutto per poterci presentare, il giorno della pace, con il possesso effettivo, l’unico che oggi conti, di quanto sta a cuore agli italiani. Una delle maggiori disgrazie della guerra libica fu la convinzione che essa sarebbe stata facilissima e breve. Anche per la nostra non occorrono illusioni: non può, non è augurabile sia facile; difficilmente sarà breve. Ma gli italiani danno oggi maggiori speranze. Si sente nel paese un accordo più serio perché non v’è cupidigia di terre da fruttare di pingui raccolti da mietere, di oro zolfo diamanti da raccogliere. Si tratta di passare il nostro esame. Fummo, finora, una nazione aspirante al grado di grande. Oggi non si tratta neppur di questo ma di ben altro. Si tratta di sapere se siamo una nazione.23 22 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 28 agosto 1914, p. 3. 23 Ivi, 28 agosto 1914, pp. 5-8. 17 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 L’edizione di settembre vede protagonista la «La Voce» del dibattito che interessò partiti politici e associazioni culturali italiane di fronte alla guerra. Il partito liberale, secondo Prezzolini, si mostrò quello più sfuggente e obbediente in maniera passiva alle decisioni imposte dal governo.24 Il giornalismo borghese: “Ha almeno un pensiero. Pensa per la borghesia che non saprebbe altrimenti che cosa pensare”.25 In grave imbarazzo, secondo il direttore, si trovavano i nazionalisti, dopo le feroci campagne contro la Francia, la democrazia, l’anticlericalismo e le pubbliche dichiarazioni: “Perché si marciasse assieme ai tirolesi e agli ulani”.26 I clericali temevano invece il seme anti clericale che una vittoria della Francia avrebbe potuto seminare, mentre i repubblicani avrebbero voluto attaccare sin da subito l’Austria, rappresentando in pieno le ideologie irredentiste. I pacifisti – responsabili in parte della debolezza delle nazioni che alle loro lusinghe hanno dato più retta, come la Francia, la quale, se si salverà dal militarismo tedesco lo dovrà al militarismo russo - cercano di riparare al disastro delle loro idee, dicendo che da questa guerra così immane nascerà un salutare amore per la pace. E’ certo che, per risollevarsi dalla catastrofe economica, parecchie nazioni vorranno godere lunghi anni di pace, e che, se questa guerra darà soluzione a molte questioni si avrà la probabilità di un periodo di riposo assai lungo. Ma basta guardare la carta del mondo per capire che nessuna nazione vorrà rinunziare a prevedere i più aspri conflitti venturi, ai quali saranno chiamati mezzi di distruzione più potenti, leghe di stati più vaste, eserciti più numerosi. Basti pensare all’inevitabile conflitto dell’occidente con gli slavi, a quello tra Stati Uniti e Giappone, alle risoluzioni delle questioni dell’Asia Minore e della Cina, per capire che, quanto spetta ad occhio umano guardare, vi saranno ancora guerre e più micidiali. Invece di propaganda pacifista credo che le nazioni si prepareranno a guerre più grandiose, per le quali, poiché oggi la massa è tutt’altro che resa indifferente dall’impiego di mezzi distruttivi efficacissimi, occorrerà che il tutto il popolo sia preparato, in modo da offrire con uno sforzo organico e ordinato, il massimo della potenza.27 L’edizione del 28 settembre si aprì con il consueto editoriale del direttore Prezzolini, dal titolo La guerra tradita, che torna sul tema della neutralità: Nel momento in cui scrivo è opinione diffusa che ogni possibilità di azione immediata sia scomparsa. Il governo evidentemente, si riserva di tutelare i nostri interessi appena siano compromessi e forse vuole aspettare l’autorevole esempio e la spinta della Rumenia, che ha dato prove certo non comuni di destrezza e di tempismo. Agli uomini che sono al governo è già parso un atto eroico dichiarare la neutralità […], comunque sia mi pare ormai certo, che il tempo di un atto eroico è passato. Ormai la fortuna ha ceduto la sua chioma e volto la sua ruota. Non v’è chi ragioni che non sappia a chi, presto o tardi, arriderà la vittoria. E anche se noi agiremo con la massima buona fede del mondo, saremo sempre veduti come gente che s’è volta alla forza, alla fortuna, alla opportunità, al ricatto. […] Il nostro paese ne risente sempre, rivoluzionario in principio, conservatore in fine, ma né l’una cosa né l’altra nettamente. Lo stato, che doveva realizzare l’antitesi del cattolicismo, complotta, mercanteggia, tratta, tollera i cattolici. La chiesa vive a spese e con tolleranza di un regime che dovrebbe condannare come empio. Il socialismo patteggia con i borghesi per averne favori di riforme. I borghesi si assicurano contro la rivoluzione cedendo i posti grassi ai socialisti. L’Italia soffre di questa perpetua finzione, in cui nessuno è al suo posto. La guerra sarà abolita nel mondo il giorno 24 25 26 27 18 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 13 settembre 1914, p. 4. Ivi, 13 settembre, p. 5. Ibidem. Ivi, 13 settembre, p. 8. in cui nel mondo ci sarà giustizia: non prima!28 Il 13 novembre Prezzolini firmò il consueto editoriale che annunciava le novità della rivista per il 1915, ma anche la sua uscita di scena da direttore de «La Voce», lasciando a Giuseppe De Robertis la direzione, quest’ultimo nominato dallo stesso Prezzolini. Ecco le sue ultime parole: “Sarebbe stato un mio vivo desiderio dedicarmi tutto a la Voce, lasciando ogni altra collaborazione ma questo non è possibile. Del resto ho sempre sperato ed atteso in questi anni, fin dal primo anno de La Voce, qualcuno, un giovane, che mi sostituisse. La Voce è fatta per i giovani!”.29 NOTA BIBLIOGRAFICA B. von Bülow, Memorie, Mondadori, Milano, 1931; F. Fischer, Assalto al potere mondiale, La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi Editore, Milano, 1965; M. Mazzetti, L’esercito italiano nella triplice alleanza, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1974; R. Webster, L’imperialismo industriale italiano 19081915, Einaudi Editore, Milano, 1974; M. Isneghi, G. Rochat, La grande guerra 1914-1918, La Nuova Italia, Firenze, 1999; R. De Felice, Mussolini: il rivoluzionario, 1883-1920, Einaudi Editore, Milano, 2005; E. Hobsbawm, Il Secolo breve, Rizzoli, Milano, 2006; R.F. Betts, L’alba illusoria, L’imperialismo europeo nell’Ottocento, Il Mulino, Bologna, 2008; A. Biagini, L’Italia e le guerre balcaniche, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2012; R. Sciarrone, Strategie militari franco-tedesche a confronto (1905-1913), Nuova Cultura, Roma, 2013. FONTI Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea (BSMC), R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 13 gennaio 1914; 28 gennaio 1914; 28 aprile 1914; 28 giugno 1914; 28 agosto 1914; 13 settembre 1914; 28 settembre 1914; 13 novembre 1914. 28 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 28 settembre 1914, pp. 2-4. 29 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 13 novembre 1914, p. 2. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Marie Curie, Hertha Ayrton e le altre. Donne e scienziate STEFANO OSSICINI Dipartimento di Scienze e Metodi dell’Ingegneria e Centro Interdipartimentale En&Tech, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia È il 7 novembre 1911, le agenzie di stam- Institution di Londra. Prima donna a ottenere il premio Nopa di tutto il mondo rilanciano l’annuncio bel, nel 1903. Prima donna docente alla Sorbona nel 1906. dell’Accademia delle Scienze di Svezia: Prima donna a essere accolta nell’ Accademia Francese di Marie Sklodowska-Curie (1867-1934) è stata insignita del suo secondo premio Nobel, questa volta per la chimica. Premio Nobel che segue quello del 1903, per la fisica, ottenuto assieme al marito Pierre Curie (1859-1906) e a Henri Becquerel (1852-1908). Marie è la/il prima/o scienziata/o a ricevere un secondo premio Nobel. A tutt’oggi è l’unica/o ricercatrice/ore ad aver ottenuto due premi Nobel in due discipline scientifiche diverse, fisica e chimica. Gli altri pluripremiati sono lo statunitense John Bardeen (1908-1991) due volte premio Nobel per la fisica, nel 1956 per la scoperta del transistor e nel 1973 per la spiegazione della superconduttività; l’inglese Frederick Sanger (1918-2013) due volte premio Nobel per la chimica, nel 1958 per lo studio della struttura dell’insulina, e, nel 1980 per i suoi studi sul DNA e lo RNA; infine Linus Pauling (1901-1994), premio Nobel per la chimica nel 1954 per le sue ricerche sul legame chimico e premio Nobel per la pace, nel 1962, per la sua battaglia contro la proliferazione delle armi nucleari. Marie Curie è abituata ad arrivare per prima [1]. Prima alla laurea in fisica alla Sorbona di Parigi nel 1893, prima al concorso per l’insegnamento della fisica nel 1896, prima donna a ottenere il dottorato in fisica in Francia nel 1903. Della commissione per la sua tesi di dottorato facevano parte due futuri premi Nobel, Gabriel Lippmann Marie Curie (1845-1921), premio per la fisica 1908 per lo sviluppo della fotografia a colori, e Henri Moissan (1852-1907), pre- Medicina nel 1922. E dopo la morte, prima donna sepolta, mio per la chimica nel 1906 per aver isolato il fluoro e per per i suoi meriti scientifici, nel Panthéon a Parigi, nel 1995. l’invenzione del forno a arco elettrico. La commissione concluse i suoi lavori giudicando le scoperte presentate come Risultati non da poco, basti pensare che ad oggi sono solo il più grande contributo scientifico mai fatto in una tesi di 47 (di cui 18 a partire dal 2000, e ben 5 nel solo 2009) le dottorato. Prima donna a essere ricevuta, nel 1903, alla Royal donne che hanno ricevuto il premio Nobel, a fronte di circa 19 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 800 uomini. In fisica le donne premiate, in oltre un secolo, sono solo 2 (su un totale di 199 laureati): Marie Curie e la tedesca Marie Goeppert-Mayer (1906-1972), nel 1963, per gli studi sulla struttura del nucleo atomico. In chimica 4 (su 169 laureati): di nuovo Marie Curie, sua figlia Irène JoliotCurie (1897-1956), nel 1935, per la scoperta della radioattività artificiale, Dorothy Crowfoot-Hodgkin (1910-1994), nel 1964, per la determinazione attraverso i raggi x della struttura delle biomolecole, Ada Yonath (1939-...), nel 2009, per gli studi sulla struttura e la funzione dei ribosomi. In medicina in tutto 11 (su 207 laureati) , fra cui Rita Levi-Montalcini (1909-2012), nel 1986, per la scoperta dei fattori di crescita. Una sola per l’economia (su 75 laureati), Elinor Ostrom, nel 2009, per gli studi sulla “governance”. 13 per la letteratura (su 111 laureati), compresa Grazia Deledda (1871-1936), nel 1926, e 16 (su 127 laureati) per la pace. Oltretutto, questa volta, il premio Nobel del 1911 è solo e tutto suo, di Marie. Nel 1903 il premio ottenuto per la fisica era stato condiviso con il marito Pierre Curie e con Henri Becquerel, per la scoperta e le ricerche sulla radioattività. E molti, sia in Francia, che all’estero, l’avevano considerata come una mera appendice del marito, un’assistente e nulla di più. In una lettera del 1903, indirizzata a Stoccolma e firmata da diversi membri dell’Accademia delle scienze di Francia, solo Henri Becquerel e Pierre Curie erano stati proposti per il Nobel di quell’anno. Fu Gösta Mittag-Leffler (1846-1927), famoso matematico e membro dell’Accademia reale svedese, che considerava profondamente ingiusta quella scelta, ad avvertire Pierre Curie che il nome di Marie non era stato menzionato per il premio. Nell’agosto 1903 Pierre rispose evidenziando in dettaglio il contributo di Marie e proponendo un riconoscimento contemporaneo. Mittag-Leffler approfittò del fatto che Marie era stata proposta da altri l’anno prima e così si arrivò al riconoscimento anche per lei [2]. Eppure riguardo al ruolo dei due Curie, la storia era andata esattamente all’opposto. Henri Becquerel, nel marzo 1896, aveva osservato l’emissione di radiazione ionizzante da parte di certi sali di uranio. Raggiunto all’inizio del 1896 dalla notizia della scoperta dei raggi x da parte del tedesco Wilhelm Röntgen (1845-1923), futuro primo premio Nobel per la fisica nel 1901, Becquerel si mise ad indagare se i materiali fosforescenti, materiali che, esposti per qualche tempo ad una sorgente luminosa, emettono una debole luce dopo che la sorgente è stata eliminata, fossero in grado di produrre oltre alla luce anche raggi x [3]. Prese allora una scheggia di sol20 fato di uranio e potassio, fosforescente una volta esposta alla luce solare, e la pose su di una lastra fotografica avvolta in strati di carta nera. Sviluppata, la lastra mostrò la forma della scheggia fosforescente. Un effetto paragonabile a quello dei raggi x. Ma ecco che, il 26 febbraio 1896, il caso intervenne. Becquerel preparò il sale di uranio e la lastra fotografica, ma il tempo era incerto e lasciò il tutto in un cassetto. Il sole non si fece vedere per alcuni giorni, ed il 1 marzo Becquerel sviluppò lo stesso la lastra fotografica sicuro di trovare al più una debole traccia della scheggia. Con sorpresa, invece, la forma della scheggia era particolarmente intensa. Era la scoperta della radioattività. Ed era stata proprio Marie a scegliere, nel 1897, come tema della sua tesi di dottorato la scoperta di Becquerel. Era stata lei a intuire l’esistenza di altri materiali radioattivi, diversi dall’uranio, intuizione che portò alla scoperta del polonio e del radio. Era stata lei a scegliere il nome di radioattività per questi fenomeni. Pierre era intervenuto solo successivamente, quando si era reso necessario utilizzare un metodo fine, quantitativo, per la misura dell’intensità della radioattività [4]. La scelta era caduta sugli strumenti basati sull’effetto piezoelettrico (quell’effetto per cui alcuni cristalli sono in grado di generare una differenza di potenziale elettrico quando sono soggetti ad una deformazione meccanica), effetto e strumenti scoperti e costruiti, a partire dal 1880, da Pierre a da suo fratello Jacques Curie (1856-1941) [5,6]. Per cui il premio Nobel ad entrambi i coniugi Curie fu una decisione sacrosanta [7-10]. Anche se molti continuavano a vedere in Pierre il vero artefice e in Marie un semplice aiuto. Ancora nel 1909, Hertha Ayrton, una fisica inglese di cui parleremo più a lungo nel seguito, stanca di leggere continuamente sui giornali inglesi il solo nome di Pierre quale scopritore del radio, mandò una lettera alla Westminster Gazette: “Si sa che è molto difficile eliminare gli errori, ma sembra che l’errore che attribuisce ad un uomo i meriti di una donna abbia più vite di un gatto”. Nel 1906 Pierre era morto, investito da una carrozza trainata da cavalli. Marie aveva preso il suo posto di professore alla Sorbona ed era riuscita a isolare per la prima volta, nel 1910, il radio nella sua forma pura, metallica. Un’impresa ragguardevole, che accanto alla precisa determinazione del numero atomico del radio stesso, allo studio dei suoi composti, alla scoperta del polonio, al lavoro per la scelta e la determinazione di un’unità di misura per la radioattività (su proposta di Marie, nel 1909, a tale unità fu dato il nome di curie, in onore di Pierre) [11] le era valso questo secondo SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA premio, ora privo di ombre. Ma neanche questa volta Marie poté godersi il riconoscimento senza angustie. Dopo la morte di Pierre, Marie aveva passato un periodo terribile di depressione [12]. Tornata a vivere nella casa natale di Pierre a Sceaux, alle porte di Parigi, le erano state di grande conforto e aiuto per il ritorno al lavoro e alla normalità la vicinanza e il sostegno del suocero Eugéne Cuire (1827-1910), medico, che era stato sulle barricate durante la rivoluzione del 1848 e che assieme ai figli adolescenti aveva trasformato la sua casa in un’infermeria nelle tragiche giornate della Comune di Parigi del maggio 1871. Nonno Eugéne divenne, anche, una figura fondamentale per la prima figlia di Marie, Irène [13]. In quegli anni Marie, Mé per le figlie, mise in piedi un interessante esperimento di educazione alternativa organizzando una scuola per le sue figlie e i figli e le figlie dei suoi amici [14]. I Perrin: Jean Baptiste Perrin (1870-1942) professore alla Sorbona, futuro premio Nobel per la fisica nel 1926 per i suoi studi sulla struttura atomica della materia, e sua moglie Henriette Duportal (1869-1938), nota scrittrice e, assieme alle sue sorelle, una delle prime donne in Francia a raggiungere la laurea. I Langevin: Paul Langevin (1872-1946) professore di fisica al Collegio di Francia, allievo di Pierre e suo successore al Collegio, un’autorità nel campo delle proprietà magnetiche della materia, e sua moglie Emma Jeanne Desfosses (18741970) . Henri Mouton (1869-1935) chimico-fisico e biologo dell’Istituto Pasteur, scopritore insieme a Cotton dell’effetto Cotton-Mouton sulla doppia rifrazione della luce in un liquido in presenza di un campo magnetico trasverso. Gli Chavannes, famiglia protestante: Edouard Chavannes (1865-1918), considerato il più grande sinologo del suo tempo e sua moglie Alice Dor (1866-1927), poetessa. Il celebre scultore Jean Magrou (1869-1945) e sua moglie Jeanne Rixens, nipote del pittore André Rixens (1846-1925). E infine gli Hadamard, famiglia di origine ebraica: Jacques Salomon Hadamard (1865-1963), presidente della Società Matematica di Francia, uno dei grandi matematici del secolo scorso, forte sostenitore della causa sionista, e sua moglie Louise-Anna Trénel (1858-1960), figlia del Direttore della Scuola rabbinica di Francia. In questa scuola, denominata la Società degli Scienziati per l’Insegnamento Sperimentale, Marie insegnava fisica, Jean Perrin chimica, Paul Langevin matematica, Henri Mouton scienze, Henriette Duportal storia e francese, Alice Dior inglese, tedesco e geografia e Jean Magrou disegno e belle arti. Molto peso veniva dato alle attività pratiche, di laboratorio, alle attività artistiche e a quelle sportive, e soprattutto all’eguaglianza fra maschi e femmine. Come ricorderà anni dopo Irène Curie, probabilmente lei è stata la prima cittadina in Francia a mettere gli sci ai piedi. Un’altra allieva di quella scuola, l’adolescente, era nata nel 1894, Isabelle Chavannes, futura ingegnere chimico industriale, di cui rimangono gli appunti, scoperti pochi anni or sono, relativi proprio alle lezioni, in quella scuola, di Marie Curie [14], ricorda che una volta Marie pose loro il seguente quesito “Come fareste per mantener caldo il liquido contenuto in questo recipiente?”. Fra gli studenti Francis Perrin (1901-1992) futuro fisico, Jean Langevin (1899-1990), anche lui diventerà un fisico, Pierre (1894-1916) e Etienne (18991916) Hadamard, entrambi moriranno in guerra a Verdun, Irène Curie, le star della scuola, propongono soluzioni ingegnose: circondare il recipiente di lana, isolarlo con metodi raffinati, etc.., Marie sorride e dice: “Ebbene, io comincerei col mettere un coperchio”. Questa serenità non dura però molto. A fine 1910 Marie viene candidata all’Accademia delle scienze di Francia, l’Accademia dei cosiddetti Immortali, in sostituzione del chimico-fisico Dèsiré Gernez (1834-1910), deceduto. E’ vero, sarebbe la prima donna a far parte dell’Accademia, ma è già premio Nobel e professoressa alla Sorbona. Non sembrano esserci ostacoli. Ma il 16 Novembre 1910 la notizia della sua candidatura diventa pubblica con un articolo del quotidiano Le Figaro. E subito si scatena una campagna di stampa diffamatoria. Molti amici della cerchia di Marie erano noti per le loro posizioni progressiste e cosmopolite. Ad esempio Emile Borel (1871-1956), figlio di un pastore protestante, matematico, specialista di teoria delle funzioni, membro dell’Accademia delle scienze e sua moglie Marguerite Appel (1883-1969), scrittrice nota sotto lo pseudonimo di Camille Marbo, e figlia di Paul Appel (1855-1930) matematico e preside della Facoltà di scienze della Sorbona. In vecchiaia Marguerite pubblicò il libro di memorie “Á travers deux siécles: souvenirs et rencontres”, una miniera di informazioni sugli anni difficili della Curie [15]. Assieme i due Borel avevano fondato il periodico mensile “Revue du mois”, che si occupava di letteratura, arte, teatro, scienza e politica. Era su quella rivista che era apparso il necrologio scritto da Marie per Pierre [12]. Fra le altre amiche di Marie, una figura notevole era quella di Loïe Fuller (1862-1928), statunitense, pioniera della danza moderna, apertamente omosessuale, che aveva lavorato con i fratelli Lumière [16]. La Fuller aveva brevettato numerosi apparati illuminotecnici che facevano uso di luce elettrica, anche prodotta mediante particolari gel chimici [17]. Aveva addirittura pensato di utilizzare per i suoi abiti di scena la luminescenza prodotta dal radio della Curie. Fra l’altro Loïe Fuller era membro della Società astronomica di Francia. Ma gli amici della Curie erano, soprattutto, noti per la loro attività durante l’affare Dreyfus, e per essere stati, fin dalla fondazione, membri influenti della Lega per i Diritti dell’Uomo. Alfred Dreyfus (1859-1935), ufficiale alsaziano di origine ebraica, ingiustamente accusato di spionaggio a favore della Germania nel 1895, era stato prima condannato ai lavori forzati, poi graziato nel 1899 dal presidente della repubblica e infine riabilitato pienamente nel 1906. In suo favore ci fu una mobilitazione degli intellettuali progressisti culminata nella famosa lettera di Emile Zola (1840-1902), “J’Accuse”, al presidente della repubblica, pubblicata sull’Aurore. 21 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 Nonostante la completa dimostrazione dell’innocenza di Dreyfus, il caso restò per decenni uno spartiacque fra destra e sinistra in Francia. Ancora nel 1908 durante la cerimonia della inumazione delle ceneri di Zola al Panthéon, Alfred Dreyfus subì un attentato in cui rimase ferito. E’ la stampa di destra francese, con in testa il quotidiano antisemita e ultranazionalista L’Action Francaise, diretto da Leon Daudet (1867-1942), figlio dello scrittore Alphonse Daudet (1840-1897), a menare le danze contro la candidatura di Marie all’Accademia. Non solo vengono ritirate fuori le accuse a Marie di aver rubato la scena al marito Pierre, ma la si accusa, lei di famiglia cattolica, che però non aveva voluto far battezzare le figlie, di essere, invece, di origine ebrea. Su Le Figaro esce un lungo saggio, intitolato “Il travestito verde” (verde era il colore dell’abito degli accademici) della scrittrice Marie de Régnier (1875-1963) che accusa la Curie di tradire l’eterno ideale femminino: le donne sono fatte solo per l’amore, la devozione e non per l’ambizione [18]. Viene scelto un candidato da opporre alla Curie, il fisico Edouard Branly (1844-1940), uno dei pionieri delle radiocomunicazioni. I nazionalisti francesi non avevano ancora digerito il fatto che il Nobel del 1909 per la fisica era stato dato solamente all’italiano Guglielmo Marconi (1874-1937) e al tedesco Ferdinand Braun (1850-1918). Branly era cattolico e aveva lasciato la Sorbona per l’Università Cattolica. Divenne, suo malgrado, il campione della destra. Su L’Action Francaise comparve un articolo di Daudet intitolato “Dreyfus contro Branly” [19]. Notare la finezza, la Curie non veniva neanche nominata, ma la sua candidatura veniva tacciata come femminista e eccentrica, frutto di quel covo di intellettuali, ebrei e ugonotti che era la Sorbona. La votazione dell’Accademia avvenne il 23 gennaio 1911, occorreva una maggioranza di 30 voti. Alla prima votazione Branly ottenne 29 voti, la Curie 28 e il fisico Marcel Brilluoin (1854-1948) uno. Alla seconda Branly ne ottenne 30, la Curie rimase a 28. Branly aveva vinto. Marie non entrerà mai a far parte dell’Accademia delle Scienze, non vorrà neanche più essere candidata e da allora non pubblicherà più i suoi lavori sulle riviste scientifiche dell’Accademia. Per vedere una donna membro di questo istituto bisognerà attendere fino al 1962. Ma questo è solo un piccolo assaggio di quello che la Curie dovrà affrontare nell’anno del suo secondo Nobel. A partire dalla cooperativa di insegnamento, organizzata per le ragazze e i ragazzi dei suoi amici, era nata una forte amicizia tra Marie e Paul Langevin, amicizia che lentamente si era trasformata in una storia di amore. Nel 1910 i due avevano affittato un piccolo appartamento vicino alla Sorbona, dove solevano passare i momenti liberi assieme. Paul Langevin aveva una difficile situazione familiare; sposato con quattro figli, il suo matrimonio era stato un continuo di litigi spesso violenti e di discussioni feroci. La famiglia della moglie gli rimproverava sia le sue tendenze progressiste che il suo magro stipendio di professore. Accettando un lavoro nell’industria avrebbe potuto guadagnare ben di più [20,21]. 22 La moglie di Langevin, Jeanne, sospettando qualcosa, era riuscita con l’aiuto della sorella a intercettare una lettera di Paul a Marie. Poco dopo, nella primavera del 1911, uno strano furto era avvenuto nell’appartamento dei due a Parigi e diverse lettere di Paul e Marie erano state trafugate. Ne nacque un complicato scontro fra le varie parti, Jeanne arrivò a minacciare apertamente di morte Marie [2,22]. Lo scontro venne mediato da Jean Perrin e dal cognato di Jeanne, Henri Bourgeois (1864-1946), editore del giornale conservatore Le Petit Journal. Pare che ci furono anche ingenti versamenti di denaro. Alla fine si giunse, comunque, ad un accordo: Paul e Marie non si sarebbero più visti, mentre Jeanne rinunciava alla pubblicazione delle lettere, che rimanevano però in suo possesso. Nei primi giorni di novembre del 1911 si svolse a Bruxelles la prima delle famose conferenze Solvay. Ernest Solvay (1838-1921), di formazione chimico-fisico, era un imprenditore di successo. Assieme al fratello Alfred Solvay (1840-1894) aveva sviluppato un processo industriale per la produzione di carbonato di sodio. Le sue industrie si espansero rapidamente in tutto il mondo, rendendolo ricchissimo. Solvay, di ideali socialisti, introdusse, in anticipo sulle legislazioni, un sistema pensionistico per i lavoratori nel 1878, istituì l’orario lavorativo di 8 ore nel 1897 e nel 1913 concederà le ferie pagate. La passione per la scienza era rimasta una sua costante e dopo una discussione con il chimico tedesco Walther Nernst (1864-1941), che sarà premio Nobel per la chimica nel 1920, si decise a organizzare una conferenza scientifica sui temi allora scottanti della nuova fisica e della nuova chimica. Quella del 1911, dal titolo Radiazioni e Quanti, preseduta da Hendrik Lorentz (1853-1928), premio Nobel per la fisica del 1902, fu la prima di una serie di prestigiose conferenze che durano tuttora [23]. Di quella conferenza ci resta una famosa foto che vede assieme, all’Hotel Metropol di Bruxelles, i 24 partecipanti, fra cui ben 10 premi Nobel presenti e futuri, tra i quali Max Planck (1858-1947), Albert Einstein (1879-1955) e Ernest Rutherford (1871-1937). La delegazione francese era composta da Jean Perrin, Henry Poincarè (1854-1912), Marcel Brilluoin, Paul Langevin e Marie Curie. Inutile dire che quest’ultima era la sola donna presente. Forse Jeanne Langevin avrà visto questa conferenza come una rottura del patto firmato nei mesi precedenti, fatto sta che il 4 novembre 1911 un articolo apparve sul quotidiano dal titolo “Una storia di amore: madame Curie e il professor Langevin”. Nell’articolo si parlava della scomparsa da Parigi sia di Madame Curie che di Langevin, e quest’ultimo veniva accusato di aver abbandonato la moglie e i quattro figli per seguire Marie. La storia venne ripresa e alimentata da diversi giornali. La replica di Marie, affidata al periodico Le Temps, fu immediata. La vicenda della fuga era una pura invenzione, una vera follia. In quei giorni, lei era stata a Bruxelles per partecipare ad una conferenza importante assieme ad una ventina dei migliori scienziati del mondo. Henri Poincarè, SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Emil Borel, Jean Perrin e il fratello di Pierre Curie, Jacques, intervennero sulla stampa in suo favore. L’interesse sembrò quindi scemare e nel frattempo, come abbiamo visto, il 7 novembre, l’Accademia delle Scienze di Svezia annunciava il secondo premio Nobel a Marie. Interessante è che l’Accademia svedese stessa, allarmata dal clamore, aveva contattato diverse volte l’ambasciatore di Svezia a Parigi onde rimanere informata sugli sviluppi della vicenda, venendone rassicurata. Questa volta, però, contrariamente al 1903, l’interesse dei giornali francesi per il premio non fu particolarmente vivo, la notizia fu spesso relegata nelle pagine interne. Contemporaneamente si lanciarono sulla affare Curie-Langevin sia il Petit Journal che soprattutto, ancora una volta, Leon Daudet con il suo famigerato l’Action. Ne nacque, così, una replica fortemente ampliata della campagna dell’anno precedente, quella relativa alla nomina di Marie all’Accademia delle Scienze. Gli attacchi alla Curie diventarono feroci, sia su l’Action che su L’Intransigeant. Marie venne accusata di essere una sorta di vedova nera, per giunta straniera e probabilmente ebrea, che rubava il marito ad una povera donna francese e toglieva il padre ai suoi quattro figli. Una donna fredda e calcolatrice, una intellettuale emancipata, ostile al culto della famiglia, che aveva fondato la sua fama sul lavoro del marito morto, di cui ora disonorava la memoria. Di più, si arrivò ad insinuare che la storia tra Marie e Paul era nata quando Pierre era ancora in vita e che quest’ultimo, disperato per il tradimento della moglie e dell’amico, si era suicidato. Questo era il vero motivo del suo incidente del 1906! Su l’Excelsior comparve perfino una studio morfologico di Marie, accompagnato da disegni che la ritraevano in forma parossistica. Immagini simili fra non molto compariranno sulle peggiori pubblicazioni razziste, annunciando un triste futuro. Di nuovo si lanciarono accuse contro la presunta lobby massonico-ebraico-tedesca-ugonotta, attiva nelle Università, pronta a difendere una straniera contro una francese. Il 23 novembre venne raggiunto il culmine. La rivista L’Oeuvre diretta da Gustave Téry (1870-1928), che era stato in gioventù un libero pensatore estremista e che all’inizio del secolo si era trasformato in un acceso nazionalista, un fondamentalista cattolico violentemente antisemita, pubblicò presunte copie di alcune delle lettere di Marie e Paul, quelle trafugate nello strano furto della primavera precedente, lettere che dimostravano il legame tra i due. Naturalmente gli estratti venivano accompagnati dalle solite accuse e dal grido “la Francia siamo noi” e non questa accolita di cosmopoliti senza dio, senza patria, senza famiglia e dreyfusardi. Quel giorno stesso una folla rumoreggiante si raccolse attorno alla casa dei Curie a Sceaux, alle porte di Parigi. Marie Curie e la sua famiglia erano ormai assediate al grido “Abbasso la straniera, ladra di mariti! Tornatene in Polonia!” Sassi vennero lanciati contro le finestre. Occorreva fare qualcosa [2,22]. La pubblicazione delle lettere di Marie aveva prodotto dei cambiamenti anche in alcuni dei suoi amici e colleghi, evidentemente non pronti ad accettare la sua storia d’amore. Altri, i Perrin, i Borel, Jacques Curie, Loïe Fuller rimasero, invece, al suo fianco. E sono i Borel, questa volta, a prendere il timone in mano. Marguerite Borel e Andrè-Louis Debierne (1874-1949), chimico, da sempre collaboratore dei Curie, che nel 1899 aveva scoperto l’attinio e nel 1910 assieme a Marie aveva isolato il radio metallico, si precipitano a Sceaux per affrontare la teppaglia e per proteggere Marie e Eve Curie (19042007), la più piccola delle sue due figlie. Lo stesso Debierne si reca poi alla scuola frequentata dalla figlia maggiore Iréne per sottrarla al clamore. Emil Borel prepara per tutte loro una stanza in un suo appartamento alla Scuola Normale, di cui è il Direttore. Qui Marie trova finalmente riparo. La situazione diventa complicata e incandescente. Il ministro della pubblica istruzione convoca Borel e gli ingiunge di far sloggiare la Curie da un appartamento che appartiene all’Università, un’istituzione che lei, con la sua presenza, sta screditando. Il ministro minaccia di rimuovere Borel dal suo incarico, Borel non indietreggia di un passo. Terrà le Curie a casa sua finché sarà necessario ed è pronto a presentare le proprie dimissioni e quelle di altri docenti della Sorbona e a farne un caso pubblico se il ministro insiste. Borel non verrà rimosso e Marie rimarrà in quella casa alla Sorbona. Marguerite Borel è convocata da suo padre, Paul Appel, preside della facoltà di scienze della Sorbona, che aveva sostenuto Marie nella sua battaglia per l’Accademia, ma che oggi chiede alla figlia di non immischiarsi in questo affare e le rivela che si sta pensando di chiedere a Marie di lasciare la Francia e proseguire il suo lavoro in Polonia. Marguerite è furibonda, e risponde al padre “Se tu giocherai un ruolo qualsiasi in questo idiota movimento nazionalista, se insisterai con la richiesta che la Curie debba abbandonare la Francia, giuro che non mi rivedrai mai più”. Del trasferimento forzato della Curie in Polonia non se ne farà più niente [15]. Per il momento Marie è salva, grazie al coraggio civile di pochi. Durante i giorni nei quali Marie rimarrà dai Borel molte cose succedono. I suoi amici intervengono a più riprese. Jacques Curie manda una lettera aperta ai giornali in sua difesa, piena di dignità e buon senso. Il matematico Paul Painlevè trasforma la sua conferenza all’Associazione degli studenti universitari in una apologia di Marie. Altri, come Loïe Fuller, vanno ostentatamente a visitarla. Ma, mentre sugli altri periodici la storia sembra perdere peso, l’Oeuvre continua nella sua campagna, annunciando, fra l’altro, che Jeanne Langevin ha denunciato per abbandono del tetto coniugale Paul, e che Paul e Marie sono stati convocati in tribunale per il 9 dicembre. In teoria, il giorno dopo, il 10 dicembre, Marie dovrebbe essere a Stoccolma per ricevere il premio Nobel. Gli eventi sembrano precipitare di nuovo. Paul Langevin sfida a duello Gustave Téry. Il duello avviene il 26 novembre, al mattino, nel bosco di Vincennes, ma nessuno dei due spara, ci si limita solo a puntare le armi. Lo stesso giorno una viva descrizione del mancato duello compare su diversi quotidiani di Parigi. La notizia fa il giro del 23 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 mondo e raggiunge anche la Svezia. Svante Arrhenius (1859-1923), chimico svedese, premio Nobel per la chimica nel 1903 e membro del comitato per il Nobel, scrive a Marie dicendole che per lui e molti colleghi è preferibile che lei non si faccia vedere il 10 dicembre alla premiazione e che qualora l’Accademia avesse creduto all’autenticità delle lettere non le avrebbe conferito il premio [2]. Marie Curie è profondamente addolorata e distrutta, scrive a Gösta Mittag-Leffler, che ancora una volta è dalla sua parte, e si consiglia con lui sul da farsi. Infine spedisce una lunga lettera a Arrhenius rivendicando la validità del suo lavoro scientifico, chiedendo rispetto per la sua vita privata e annunciando che sarà a Stoccolma, pronta a ricevere il premio. La lettera termina con la frase: “In tutta questa vicenda penso di non aver nulla da rimproverarmi, se non di aver trascurato i miei interessi.” [24]. Così Marie sarà a Stoccolma, accompagnata dalla figlia Irène e dalla sorella Bronia, e riceverà dalle mani del re di Svezia il suo secondo premio Nobel. Il discorso di accettazione del premio sarà privo di paure e pieno di rivendicazioni dei suoi meriti. Ma lo stress è stato troppo, appena tornata in Francia la Curie avrà un crollo psicofisico e dovrà essere ricoverata in ospedale [25]. Nel frattempo, il 9 dicembre, Paul Langevin e Jeanne si separano e nella causa di separazione non viene fatta alcuna menzione di Marie Curie. Paul e Marie rimarranno buoni amici per il resto della loro vita, ma la loro storia d’amore è irrimediabilmente finita. Il 1912 sarà l’anno del recupero e della guarigione, opera soprattutto di Hertha Ayrton, la fisica inglese amica di Marie, che la invita a trascorrere con le figlie un lungo periodo in Inghilterra, in incognito, lontano dai riflettori e dalla stampa francese. Un lungo soggirono che coinciderà con il punto più alto del movimento delle suffragette, di cui Hertha Ayrton è una delle espeonenti più importanti e la sua casa un punto di riferimento. Hertha Ayrton ha molti punti in comune con Marie Curie e ha avuto anch’essa una vita piena di difficoltà e scontri affrontate con un piglio molto battagliero [26]. Anche lei, scienziata sposata con uno scienziato, quando William Ramsay (1852-1916), chimico scozzese, premio Nobel per la chimica nel 1904, se ne uscì con la battuta che il merito delle donne scienziato era dovuto agli uomini coautori dei loro articoli, rispose con grande spirito che, guarda caso, anche Sir William Ramsay aveva sempre pubblicato lavori assieme a dei collaboratori maschi. Hertha Ayrton (1854-1923), alla nascita Phoebe Sarah Marks, adottò il nome Hertha da adolescente prendendo spunto da un poema popolare dell’epoca che attaccava le convenzioni religiose. Rimase per tutta la vita un’agnostica, comunque sempre orgogliosa della sua origine ebraica. Avendo presto perso il padre, un orologiaio che era dovuto fuggire dalla Polonia, cominciò giovanissima a lavorare per potersi mantenere agli studi e per aiutare la madre a mantenere la numerosa famiglia, otto fra fratelli e sorelle. 24 Hertha fu sempre incoraggiata nei suoi intendimenti dalla madre, dalla scrittrice George Eliot (1819-1880) che la prese a modello per il personaggio di Mirah nel suo romanzo Daniel Deronda, e da Barbara Leigh-Smith Bodichon (18271891) che l’appoggiarono anche finanziariamente. Barbara Bodichon era una delle più note militanti del movimento per il voto alle donne. Nel 1857 aveva scritto il libro Women and Work e nel 1866 aveva fondato il primo comitato per il suffragio femminile. La Bodichon contribuì pure alla nascita del primo collegio femminile a Cambridge, il Girton College, fondato nel 1873, che solo nell’aprile 1948 verrà, per un numero ristretto di donne, aggregato all’Università di Cambridge, mentre il suo pieno riconoscimento ci sarà infine nel 1972 [27]. Hertha riuscì ad essere ammessa al Girton College nel 1876, dove si diplomò in matematica. A quel tempo non era permesso alle donne conseguire una laurea. La Ayrton lavorò allora come insegnante iscrivendosi in seguito, nel 1884, al Collegio Tecnico di Finsbury. Qui costruì uno sfigmomanometro e inventò uno strumento per la divisione esatta delle linee [28]. Nel 1885 sposò William Edward Ayrton (1847-1908), professore di fisica e ingegnere elettrico, politicamente progressista, vedovo e con una piccola figlia a carico, Edith Ayrton (1879-1945), la quale divenne scrittrice e sposò Israel Zangwill (1864-1926), anche lui scrittore e noto esponente del movimento sionista. William e Hertha ebbero una figlia, Barbara Bodichon Ayrton (1886-1950). Entrambe le ragazze, Barbara e Edith, giocheranno un ruolo importante nel movimento di emancipazione delle donne, nella battaglia delle suffragette. Nel 1893 Hertha riprese i suoi studi e le sue ricerche scrivendo diverse lavori sulla lampada ad arco, che confluirono in un libro molto diffuso, pubblicato nel 1902 [29]. Nel 1899 ricevette, per le sue pubblicazioni, un premio dall’Istituto degli Ingegneri Elettrici (IEE) e ne divenne nello stesso anno il primo membro donna. All’epoca l’istituto contava ben 3300 membri. Fu anche la prima donna a tenere un seminario di fronte alla Royal Society nel 1904. Royal Society che l’insignì, nel 1906, della prestigiosa medaglia Hughes, ma che, nel 1902, le aveva rifiutato l’affiliazione in quanto donna maritata. Occorrerà aspettare il 1946 per avere la prima donna membro della Royal Society [27,30]. Nei primi anni del novecento Hertha passò ad occuparsi di problemi di idrodinamica e dinamica dei materiali discreti [31]. E’ sua una notevolissima monografia, oggi riscoperta e apprezzata, sulle ondulazioni, le increspature e il movimento della sabbia, ricca di ingegnosi esperimenti, svolti costruendo appositi strumenti [32]. Fu tale lavoro a portarla a Parigi per una presentazione dove ebbe modo di riincontrare Marie Curie, conosciuta a Londra nel 1903, di cui era diventata grande amica. La sua attività scientifica, così come la sua amicizia con Marie, durò tutta la vita, fino alla sua morte nel 1923. Hertha Ayrton si era da sempre impegnata in battaglie sociali, soprattutto in favore dell’emancipazione delle donne e SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA fu sempre pronta ad agire in prima persona. Già nel 1876 si tà, impreparate, per motivi di salute. Fu il primo di una lunera iscritta alla Società centrale per il suffragio alle donne. ga serie di scioperi della fame; negli anni se ne conteranno Fece poi parte della Unione nazionale delle società per il suf- diverse centinaia. Nel settembre 1909 il governo, temendo fragio alle donne (NWSS) partecipando a diversi congressi, le conseguenze degli scioperi della fame, varò una nuova moltissime manifestazioni e comizi, anche come oratrice. legge, che imponeva la nutrizione forzata delle prigioniere L’11 dicembre del 1906 era presente al famoso banchetto al con mezzi violenti e degradanti, utilizzando imbuti e tubi inSavoy Hotel di Londra organizzato dalla NWSS per festeg- seriti a forza in bocca, nel naso, nel retto delle prigioniere. I giare la liberazione delle femministe imprigionate per le loro resoconti e le immagini di tali trattamenti crearono ancora maggiore malcontento ed un’enorme indignazione [35]. proteste. Nel 1907 la Ayrton passò alla più radicale WSPU (Unione sociale e Il 18 novembre del 1910, a 56 politica delle donne), fondata da anni, Hertha Ayrton era in piazza Emmeline Pankhurst (1858-1928) con altre 300 attiviste a circondare e dalle sue figlie Christabel (1880il parlamento che aveva rifiutato 1958), Sylvia (1882-1960) e Adela di discutere l’ennesima proposta di (1885-1961) Pankhurst, divenendare la possibilità del voto ad un done una importante sostenitrice certo numero di donne. Quel giorno passerà alla storia come “Black economica e una militante attiva, Friday”, il venerdì nero. I poliziotti, assieme alle figlie Barbara e Edith assieme ad una vera e propria teppa, Zangwill. Nel 1909 si espresse, si scatenarono in numerose violencome molte, in favore del passaggio ze, anche sessuali, contro le dimoa metodi più radicali, vista l’inutilità stranti. Molte donne furono picchiadelle proteste portate avanti fino ad te e brutalizzate, due morirono nei allora e le sempre maggiori violenze esercitate dalle autorità e dagli giorni successivi e vi furono più di cento arresti, e conseguenti scioperi avversari politici sulle suffragette [33,34]. della fame. Le femministe cominciarono a Allora il governo inglese adottò un’altra strategia. Con una leginterrompere i comizi politici, a gettare sassi contro le finestre del parlage, passata alla storia con il nome mento, contro Downing Street e poi di “Disposizione del Gatto e del Topo” (Cat and Mouse Act), fu decontro le vetrine delle sedi dei quotiHertha Marks Ayrton (portrait by Dalal-N) ciso che, non appena le condizioni diani, di grandi magazzini e negozi. delle scioperanti fossero state gravi, Venne dato inizio ad una campagna di disubbidienza civile; manifesti e graffiti cominciarono ad per evitare una morte in carcere e la relativa enorme risonanapparire sui muri delle città, si scrivevano slogan con il gesso za, esse venissero rilasciate, per dover poi rientrare in prisui marciapiedi, le multe non venivano pagate e ci furono gione non appena risanate. Da parte delle suffragette furono danneggiamenti della corrispondenza, mediante versamento organizzati dei luoghi sicuri, uno di questi era l’appartamendi acidi nelle buche postali. Ne seguì un altissimo numero di to di Hertha Ayrton, dove le prigioniere appena rilasciate venivano curate, adeguatamente rifocillate e rimesse in piedi arresti, condanne e imprigionamenti. Il 22 giugno del 1909 Marion Wallace-Dunlop (1864- e fu creata una rete clandestina in patria e all’estero per far 1942), un’artista, attivista della WSPU, stampò con inchio- scappare chi voleva, o doveva, fuori dall’Inghilterra. stro indelebile (scelse il viola come simbolo di dignità) un Di fronte alla sordità e alla violenza del potere la lotta delle manifesto di protesta su una parete della sala di St. Stephen suffragette divenne sempre più dura. Centinaia di militanti fia Westminster, allora l’entrata principale del Parlamento. nirono in carcere, a decine fecero ripetuti scioperi della fame, Il manifesto riportava l’annuncio di una manifestazione di spesso rovinandosi la salute e pagando enormi prezzi [36]. Una di queste fu proprio Barbara Ayrton, la figlia di Hermassa in Parliament Square per il 29 giugno, durante la quale vennero arrestate 108 suffragette, e riproduceva un pas- tha, che aveva studiato chimica e fisiologia al London Colsaggio, sul diritto alla protesta, del Bill of Rigths del 1689, lege e che nel 1906 si era iscritta alla WSPU di cui era didichiarazione che rappresenta di fatto il fondamento della ventata una delle migliori organizzatrici. Fu fra le ispiratrici costituzione inglese. Questa dichiarazione era stata ratificata della grande campagna del 1910, durante la quale ci furono enormi manifestazioni in tutto il paese con decine e decine di proprio in quella sala. Imprigionata per quell’atto, Marion iniziò il 5 luglio uno migliaia di persone. Nel marzo 1912 Barbara venne arrestata, sciopero della fame per chiedere che alle suffragette fosse insieme a varie altre militanti, per aver distrutto, a sassate, riconosciuto il ruolo di prigioniere politiche. Dopo giorni di delle vetrine in Regent Street, durante un vero e proprio raid astensione dal cibo, il 9 luglio, venne rilasciata dalle autori- organizzato nel West End londinese, che vide fra l’altro la 25 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 devastazione dei magazzini Harrods. Barbara fu imprigionata ad Holloway, il duro carcere londinese, dove partecipò ad uno sciopero della fame. Sempre sostenuta dalla madre Hertha, Barbara, nel 1913, fu costretta a fuggire in Francia. Lì rimase per diversi mesi (chissà? Forse sarà stata ospite della Curie), nel pieno di una campagna sempre più militante [37]. Le attiviste del movimento, infatti, non solo continuavano a rompere finestre e vetrine, a interrompere cerimonie e comizi, a pedinare e disturbare gli uomini politici avversi al suffragio e talvolta a distruggerne le automobili, ma, dopo la morte di una di loro, Emily Davison (1872-1913), che per protesta aveva tentato di interrompere il Derby ad Epsom ed era stata travolta da un cavallo di proprietà del re Giorgio V (1865-1936), in molte cominciarono una vera e propria campagna di incendi dolosi. Diverse case, edifici pubblici, chiese, stazioni, sedi di giornali, uffici postali, club e ritrovi sportivi vennero dati alle fiamme [38]. Non tutte, fra cui Sylvia e Adela Pankhurst e le Ayrton, furono d’accordo con questo ulteriore inasprimento, e abbandonarono la WSPU. In particolare Hertha, Barbara e Edith Ayrton, nel 1914, fondarono una nuova organizzazione, le United Suffragists, movimento teso ad una collaborazione con il mondo operaio, di cui Barbara Ayrton fu il primo segretario. Sulle Ayrton, sulle Curie, sul movimento femminista, su tutti si abbatté nell’agosto del 1914 la stupida e terribile prima guerra mondiale, in cui milioni di europei, intere generazioni, andarono al macello. Nulla più rimase uguale. Emmeline e Christabel Pankhurst divennero rapidamente delle scatenate nazionaliste. Christabel tornò in settembre a Londra da un lungo esilio per impegnarsi a fondo in una nuova campagna, questa volta in favore della guerra. Il movimento femminista scemò e il giornale The Suffragette vide il suo nome mutato in Britannia. Sylvia e Adela Pankhurst si schierarono, invece, con il fronte pacifista. Hertha e Marie reagirono, da scienziate, a loro modo. La prima, Hertha, inventando, a partire dalle sue ricerche di fluidodinamica, un sistema di ventilazione per liberare le trincee dai gas [39]. La seconda, Marie, grazie alle sue grandi capacità organizzative, mettendo in piedi, con la figlia Irène, un sistema di ambulanze dotate di macchine per i raggi x portatili, alimentate da una dinamo collegata al motore. Il primo mezzo di questo tipo al mondo. Impararono a guidarle loro stesse. Queste ambulanze saranno attive su molti fronti, anche su quello italiano, contribuendo così a salvare molte vite. Oltre 150 donne verranno istruite dalle due Curie all’utilizzo dei raggi x [12]. Barbara Ayrton-Gould lavorò per mantenere vivi gli ideali femministi e, dopo la guerra, entrò nel partito laburista, dove fu per più di venti anni membro, poi vicepresidente e presidente del comitato esecutivo. Più volte candidata al parlamento, sarà deputata dal 1945 al 1950. Solo alla fine della guerra, nel 1918, un limitato numero di donne, le nubili con un certo reddito al di sopra dei 30 anni, poté accedere al voto in Gran Bretagna. Il suffragio univer26 sale per tutti i maggiori e le maggiori di 21 anni fu introdotto nel 1928. In Francia e in Italia il suffragio per le donne arrivò solo dopo la resistenza e la fine della seconda guerra mondiale, nel 1945 e 1946. In Svizzera nel 1971. Per ritrovare un movimento femminista dell’ampiezza e diffusione di quello dei primi anni del Novecento occorrerà aspettare gli anni ‘60 e ‘70. Se è pur vero che Marie Curie è sempre stata restia a prendere apertamente posizioni impegnate e che la gran parte dei suoi interventi pubblici è sempre e solo stata a favore della scienza e della ricerca, la figlia Irène ci ricorda che in lei esisteva “un femminismo intransigente, una rivolta contro lo stato sociale presente, un desiderio passionale di veder realizzata la pace e la comprensione tra i popoli”. Non a caso le uniche prese di posizione “politiche” di Marie Curie sono state quella a favore delle femministe imprigionate in Inghilterra, apponendo la sua firma ad un appello del 1912 su richiesta di Hertha Ayrton e un intervento, su insistenza di Irène, in favore di Sacco e Vanzetti, contro la pena di morte a loro inflitta negli anni ‘20. Notevole è stata anche l’attività di Marie Curie nell’istituto da lei fondato. Qui, durante la sua direzione, furono attivi ricercatori di 15 diverse nazionalità, di differenti credi politici e religioni. In particolare un numero non indifferente di scienziate, oltre cinquanta, a partire dalla figlia Irène, ha lavorato presso il laboratorio di Marie Curie, sempre disponibile ad assumere ricercatrici di talento. Nel 1931, ad esempio, su 37 ricercatori impegnati presso l’Istitut du Radium, ben 12 erano donne, una percentuale rimarchevole, non solo per quell’epoca. Per molte di queste ricercatrici la permanenza presso l’Istituto Curie fu l’avvio e/o il trampolino di lancio della loro carriera scientifica. Di seguito alcuni esempi, che mostrano sia la grande personalità che la forza morale e l’impegno civile di molte delle ricercatrici passate dall’Istituto Curie, e anche l’insieme dei risultati ottenuti e la rete di collaborazioni e amicizie nate nel lavoro comune [40-44]. Harriet Brooks-Pitcher (1876-1933) fu la prima fisica nucleare canadese. Prima donna a ricevere un master alla McGill University di Montreal sotto la supervisione di Ernest Rutherford. Dopo aver passato un periodo al Cavendish Laboratory di Cambridge, lavorò all’inizio del secolo sotto la guida di Marie Curie a Parigi. Qui si occupò del rinculo radioattivo e del decadimento dell’attinio. Nel 1904 ottenne un posto al Barnard College, affiliato alla Columbia University di New York. Nel 1907 si sposò e fu costretta a lasciare l’università, condizione allora obbligatoria per le donne maritate. Ellen Gleditsch (1879-1968), chimica norvegese, lavorò fra il 1907 e il 1912 all’Istituto di Marie intorno all’ipotesi di William Ramsay sulla trasmutazione del rame in litio. Riuscì a confutare brillantemente questa tesi in una pubblicazione congiunta con Marie. La Gleditsch, in quanto donna, non aveva potuto frequentare l’università in Norvegia, riuscendo solo ad ottenere un titolo non accademico in chimica. Lavorando presso la Curie ottenne nel 1911 la laurea SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA in scienze alla Sorbona. Superando altre difficoltà connesse al suo genere, fu rifiutata per questa ragione da Theodor Lyman (1874-1954) ad Harvard, divenne una ricercatrice molto nota. Annoverata fra i migliori radiochimici del mondo fu autrice di diversi libri sulla radioattività, di un libro di testo di chimica inorganica e di una biografia del fondatore della chimica Antoine Lavoisier (1743-1794). Nel 1917 fu la seconda donna a essere eletta all’Accademia delle Scienze di Oslo. Tornò più volte come visitatrice all’Istituto Curie intessendo una fitta rete di amicizie e collaborazioni internazionali e portando con sé due giovani ricercatrici norvegesi Randi Holwech (1890-1967), nel 1919-1920, e Sonja Dedichen (1902-1998), nel 1924-1925. Solo nel 1929 riuscì a ottenere una posizione permanente all’Università di Oslo, seconda donna professoressa in Norvegia, dove rimase fino alla pensione. Dopo la presa del potere da parte di Hitler in Germania e l’annessione dell’Austria agì in prima persona, organizzando l’espatrio e nuove possibilità di impiego per diversi ricercatori e ricercatrici ebrei e oppositori del regime. Durante la seconda guerra mondiale, già oltre i sessanta anni, fu particolarmente attiva nella resistenza norvegese all’occupazione nazista. Per lungo tempo fu anche leader della Federazione Internazionale delle Donne Universitarie e membro del comitato di controllo internazionale delle armi nucleari dell’UNESCO. Nel 1962, a 83 anni, divenne la prima donna a ricevere un dottorato “ad honorem” dalla Sorbona di Parigi. Lucie Blanquies (1883-?), francese, lavorò nel laboratorio di Marie tra il 1908 e il 1910, scrivendo una serie di articoli sui raggi α prodotti da differenti sostanze radioattive e sui prodotti di decadimento della serie dell’attinio. Eva Ramstedt (1879-1974), fisica svedese, studiò e pubblicò diversi lavori insieme alla Curie, fra il 1910 e il 1911, sul radon, il gas emanazione del radio, e fu successivamente ricercatrice per molti anni presso l’istituto Nobel di Stoccolma, guidato da Svante Arrhenius. Dopo il suo soggiorno a Parigi collaborò a lungo con Ellen Gleditsch, assieme alla quale scrisse diverse pubblicazioni e libri, fra cui il primo libro di testo scandinavo sulla radioattività. Ricoprì dagli anni ’20 fino al pensionamento, nel 1945, il ruolo di professoressa all’Università e al Teacher Training College di Stoccolma. Attiva, anche lei, a lungo nella Federazione Internazionale delle Donne Universitarie, ne divenne vice presidente dal 1922 al 1930 e presidente del comitato internazionale dal 1920 al 1945. May Sybil Leslie (1887-1937), chimica inglese, nel periodo 1909-1911 lavorò, con una borsa di studio, dalla Curie allo studio del torio, studio che continuò poi nei laboratori di Ernest Rutherford a Manchester. Durante la prima guerra mondiale lavorò in fabbrica, quale responsabile della produzione industriale di acido nitrico. Alla fine della guerra venne licenziata per far posto ai suoi colleghi maschi tornati dal fronte. La Leslie scrisse molti articoli e diversi libri di testo e divenne infine, nel 1928, professoressa all’Università di Leeds. La Leslie, la Gleditsch e la Ramstedt rimasero in contatto per tutta la loro vita scientifica, pubblicando anche dei libri assieme e tenendo in vita un’ampia rete di collabo- razioni. Margarethe von Wrangell (1877-1932), nata a Mosca, studiò a Lipsia e ottenne un dottorato a Tübingen nel 1909 in chimica. Lavorò a Londra da William Ramsay e in seguito a Parigi da Marie Curie. Successivamente cambiò il suo campo di studi dalla radiochimica alla chimica agraria, interessandosi di fosfati e dirigendo dal 1912 una stazione di ricerca a Tallin in Estonia. In seguito alla rivoluzione bolscevica emigrò in Germania dove lavorò per un periodo al Kaiser-Wilhem Institut di fisica-chimica a Berlino, collaborando con Fritz Haber (1868-1934), premio Nobel per la chimica del 1918 per la sintesi dell’ammoniaca. Nel 1923 la Wrangel divenne professoressa presso l’Hochschule di Hohenheim, vicino Stoccarda, dove diresse fino alla morte l’Istituto per la nutrizione delle piante. Jadwiga Szmidt (1889-1940), fisica polacca, studiò alla Sorbona e lavorò nel laboratorio di Marie nel 1911. Collaborò con la Gleditsch e la Leslie, lavorando poi a lungo, anche lei, presso il laboratorio di Ernest Rutherford a Manchester. Dopo la prima guerra mondiale e la rivoluzione bolscevica divenne ricercatrice dell’Istituto Radiologico del nuovo Politecnico di San Petersburg/Leningrado collaborando con Abram Joffe (1880-1960), dove rimase fino alla morte. Irèn Götz (1889-1941), ungherese, attiva a Parigi dal 1911 al 1913, dove si occupò di studi sul radon, ottenne un dottorato “ad honorem” dall’Università di Budapest nel 1912. Nel 1919 fu nominata dal governo rivoluzionario ungherese professoressa di chimica teorica all’Università di Budapest, la prima donna ordinario in Ungheria. Costretta a fuggire, pochi mesi dopo, dal nuovo governo controrivoluzionario di destra, la Götz lavorò dal 1922 al 1928 all’Università di Cluj in Romania, per poi trasferirsi in Germania a Berlino fino al 1931. Infine emigrò definitivamente in Unione Sovietica dove divenne Direttrice dell’Istituto per le Ricerche sull’Azoto di Mosca. Qui morì di tifo nel 1941, allo scoppio della seconda guerra mondiale. Suzanne Veil (1886-1956) , francese, entrò nel laboratorio di Curie nel 1912 per ottenere il dottorato in chimica. Nel 1924 ottenne il premio Cahours dell’Accademia di scienze. Nel 1930 divenne capo laboratorio alla Scuola pratica di alti studi di Parigi. Nel 1940, dopo l’occupazione del nord della Francia, si trasferì a Grenoble alla Facoltà di scienze, per poi tornare a Parigi alla fine della guerra. Madeline Monin-Molinier (1898-1976), fisica francese, ricercatrice all’Istitut du Radium dal 1917 al 1921. Titolare di una borsa di studio della Carnegie Foundation. Elizabeth Rona (1891-1981) nata a Budapest, qui ottenne il dottorato in chimica e fisica nel 1912 , per poi lavorare nel laboratorio di Kasimir Fajans (1887-1975) all’Università Tecnica di Karlsruhe. Tornata in Ungheria fu costretta a fuggire dopo la controrivoluzione del 1919. Passò prima un periodo a Berlino da Lise Meitner (1878-1968) e Otto Hahn (1879-1968), premio Nobel per la chimica 1944, e poi fu attiva nell’istituto di Marie Curie, collaborando con lei e Irène. Lavorò poi a lungo all’Istituto del Radio di Vienna con Stefan Mayer (1872-1949) fino al 1938, quando l’Austria fu 27 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 annessa alla Germania. Meyer fu costretto a dimettersi ed Elizabeth dovette emigrare e per un certo tempo fu ricercatrice all’Università di Oslo nel gruppo di Ellen Gleditsch, che aveva conosciuto a Parigi. Rona emigrò poi, nel 1941, negli Stati Uniti dove lavorò, fra l’altro, nei Laboratori nazionali di Oak Ridge. Attiva in numerosissime collaborazioni internazionali, fu una grande esperta nella separazione delle sostanze radioattive, in particolare del polonio, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “Polonium Woman”. Dopo essersi cominciata ad occupare di oceanografia, nel 1965 si trasferì all’Istituto di Scienze Marine dell’Università di Miami dove rimase fino al pensionamento nel 1972. Marthe Klein (1885-1953) , francese, fu collaboratrice di Marie Curie dal 1919 al 1921 negli studi relativi all’utilizzo dei raggi x nella diagnostica clinica. Si occupò durante la prima guerra mondiale della formazione delle infermiere al fronte all’utilizzo dei raggi x. In seguito sposò Pierre-Ernest Weiss (1865-1940) fisico, esperto di magnetismo, seguendolo a Strasburgo. Renée Galabert (1884-1956), francese, cominciò a lavorare presso l’Istituto di Marie Curie nel 1919. Nel 1923 assunse la direzione del Servizio di Misure dell’Istituto, dove rimase fino al 1934. Sonia Slobodkine-Cotelle (1897-1945), chimica di origine polacca, si laureò alla Sorbona e lavorò per parecchi anni nell’Istituto Curie, a partire dal 1919. Di lei rimangono molte pubblicazioni, la maggior parte dedicate alla determinazione delle vite medie delle sostanze radioattive. Fu per diversi anni attiva nel Servizio misure dell’istituto. Nel 1927 si ammalò gravemente dopo aver inavvertitamente ingerito del polonio. Il suo caso fu uno dei primi a sollevare un forte interesse per le conseguenze sanitarie dell’uso delle sostanze radioattive. La gran parte dei collaboratori di Marie Curie, compresa Marie stessa, la figlia Irène e il genero Frédéric Joliot (1900-1958), moriranno a causa dell’esposizione alle radiazioni. Alicjia Dorabialska (1897-1975), polacca, nata nella zona allora occupata dal regime zarista, si laureò a Mosca in fisica-chimica e, nel 1918, ottenne una posizione al Dipartimento di Chimica Fisica dell’Università di Varsavia, dove completò nel 1922 il dottorato. Alicjia incontrò Marie Curie durante un soggiorno di quest’ultima in Polonia nella primavera del 1925. Marie la invitò a passare un periodo nel suo Istituto. Qui lavorò nel 1925-1926, e poi nel 1929, interessandosi soprattutto del determinazione accurata delle variazioni di calore che avvengono nelle trasmutazioni radioattive, un problema che rimase al centro della sua attenzione negli anni seguenti. Nel 1934 divenne professoressa di chimica fisica presso la Università di Leopoli. La sua nomina, in quanto donna, sollevò un’accesa discussione. Qui scelse come sua assistente Ruth Bakken, che aveva studiato con Ellen Gleditsch a Oslo. Nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, entrò a far parte attiva della resistenza, organizzando fra l’altro diverse università clandestine. Gli studi superiori erano stati proibiti dall’autorità tedesca occupante. Nel 1945, terminata la guerra, divenne professoressa 28 di chimica al Politecnico di Varsavia e infine Direttrice del Dipartimento di Chimica Fisica del Politecnico di Lodz, fino alla sua pensione nel 1968. Morì a Varsavia nel 1975. Jeanne Samuel-Lattes (1888-1979), chimica francese, attiva all’Istituto Curie dal 1921 al 1928, si interessò particolarmente degli effetti biologici delle radiazioni inventando una tecnica per individuare le sostanze radioattive iniettate. Nel 1927 ottenne il dottorato alla Sorbona per le sue ricerche per lavorare poi presso l’Istituto Henri Poincaré di Parigi. Stefania Maracineanu (1882-1944), fisica rumena; negli anni ‘20 studiò, presso l’Istitut du Radium della Curie, la vita media del polonio e sviluppò un metodo per la determinazione dell’intensità delle particelle alfa. Qui ottenne, nel 1924, il dottorato. Dal 1925 al 1930 fu ricercatrice presso l’Osservatorio Astronomico di Parigi. Fu poi attiva in patria con posizioni dirigenziali, occupandosi anche di tematiche legate all’ambiente e al clima. Eliane Montel (1898-1992), chimica francese, che lavorò nell’Istituto di Marie nel biennio 1928-1929 pubblicando ricerche sulla penetrazione del polonio nel piombo. La Montel riuscì nell’impresa di citare in una sua pubblicazione lavori di sole donne. Divenne professoressa alla Scuola Normale di Sevres. Mathilde Wertenstein, polacca, attiva nel campo delle proprietà elettrochimiche degli elementi radioattivi; lavorò negli anni ‘10 e poi ebbe una borsa di studio negli anni ‘20 presso l’Istituto della Curie. Divenne infine ricercatrice presso il Laboratorio radiologico della società scientifica di Varsavia. Catherine Chamiè (1888-1950) nata a Odessa in Russia, per studiare all’Università fu costretta a emigrare a Ginevra dove ottenne un dottorato in fisica nel 1913, occupandosi delle proprietà magnetiche della materia. Tornata a lavorare ad Odessa, un pogrom contro la comunità francese della città, nel 1919, la costrinse a fuggire con tutta la famiglia in occidente. Dopo un breve periodo passato in Svizzera, arrivò a Parigi dove lavorò come insegnante per sostenere la famiglia. Nel 1921 fece domanda per entrare nell’Istituto Curie, Marie l’assunse il 15 aprile del 1921. Catherine finì per rimanerci fino al suo pensionamento nel 1949, diventandone una figura particolarmente importante, anche dal punto di vista amministrativo. Scoprì, fra l’altro, l’effetto Chamiè, una particolare tecnica di esposizione fotografica delle sostanze radioattive che permetteva di discriminare fra quelle solubili e quelle insolubili. Si occupò della classificazione di materiali radioattivi e scrisse diversi lavori in collaborazione con Marie Curie, con Irène Curie e Ellen Gleditsch. La Chamiè pubblicò anche due libri di psicologia nel 1937 e nel 1950. Antonia Eliszabeth Korvezee (1899-1978), chimica olandese, ottenne il dottorato in chimica nel 1930 all’Università di Delft, in Olanda, e lavorò per diversi anni, a partire dal 1929, nell’Institut du Radium dando importanti contributi in chimica teorica e fisica nucleare. Dopo grandi difficoltà, dovute al fatto di essere donna, riuscì infine a divenire, nel 1953, ordinario di chimica teorica presso l’Università Tecnica di Delft, la prima donna professoressa in questa Università. Per ricordarla dal 1989 è nato il premio “Antonia SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Korvezee Equal Opportunities” Branca Edmée Marques (1899-1976), chimica portoghese, partì per Parigi nel 1931 rimanendovi vari anni, lavorando alla separazione dell’attinio dai minerali di terre rare e ottenendo il dottorato alla Sorbona sotto la direzione delle due Curie. Tornata in Portogallo divenne direttrice del primo Centro di Ricerche in Radiochimica della Università di Lisbona, dove ottenne una cattedra nel 1966. Marietta Blau (1894-1970), fisica austriaca, ottenne il dottorato nel 1919 e lavorò per molti anni, non pagata, all’Istituto per la Ricerca sul Radio di Vienna. Una borsa di studio della Federazione delle Donne Universitarie le permise di lavorare a Göttingen e nel 1932-1933 e poi nel 1938 presso l’istituto di Marie Curie. La Blau inventò un metodo fotografico per la determinazione della traiettoria delle particelle, in seguito molto utilizzato, ottenendo il premio dell’Accademia delle Scienze di Austria nel 1937, insieme alla sua collaboratrice Hertha Wambacher. Costretta ad abbandonare l’Austria nel 1938, in quanto ebrea, dopo l’occupazione tedesca, Marietta Blau prima fu accolta in Norvegia da Ellen Gleditsch e poi fu aiutata da Einstein a trovare una posizione in Messico e successivamente negli Stati Uniti prima a Brookhaven e poi all’Università di Miami. Nel 1960 ritornò in Austria, lavorando di nuovo, ancora non pagata, all’Istituto per la Ricerca sul Radio di Vienna collaborando agli esperimenti al CERN di Ginevra. La Blau è stata proposta diverse volte per il premio Nobel per la fisica, in particolare da Erwin Schrödinger (1887-1961), uno dei padri della moderna meccanica quantistica, premio Nobel per la fisica nel 1933. Alice Prebil (1907-1987), nata a Karlovac in Jugoslavia, fu attiva nel laboratorio di Marie Curie fra il 1932 e il 1934, collaborando in particolare con Iréne Curie sulla radioattività artificiale. Lavorò anche presso il Radium Institute di Berna in Svizzera e l’Istituto Superiore di Sanità di Roma dove collaborò con il direttore Domenico Marotta (1886-1974). Sposò negli anni trenta Philip Leigh-Smith (1892-1967), diplomatico e scrittore, nipote di Benjamin Leigh-Smith (1828-1913), famoso esploratore artico e fratello di Barbara Bodichon, la mentore di Hertha Ayrton. Divenuta inglese, Alice continuò la sua carriera scientifica in Gran Bretagna. Hélène Emmanuel-Zavizziano, di origine greca. Arrivò negli anni ‘30 all’istituto di Marie e pubblicò diversi e significativi lavori sul protoattinio. E infine Marguerite Perey (1909-1975) che lavorò all’Institut du Radium per venti anni. Non avendo mezzi economici per frequentare l’università la Perey era diventata un tecnico chimico. Marie Curie la prese nel 1929 come sua assistente e ne curò la formazione. Nel 1939 la Perey scoprì un nuovo elemento chimico, l’ultimo che mancava nella tabella periodica, a cui diede il nome di francio in onore della Francia, così come la Curie aveva chiamato polonio, il primo elemento da lei scoperto, in onore della Polonia. Ottenuto un dottorato in scienze nel 1946, la Perey, nel 1949, divenne professoressa di chimica nucleare all’Università di Strasburgo e infine, nel 1962, divenne la prima donna eletta all’Acca- demia delle Scienze di Francia, quella posizione che era stata negata sia a Marie nel 1911 che a Irène Curie negli anni ‘50. A differenza della madre, Irène si era ostentatamente candidata per ben tre volte, facendone ogni volta un caso pubblico. Non solo la vita di Marie Curie è stata particolare, anche quella della sua famiglia ha avuto tratti fuori dalla normalità. Ai premi Nobel di Marie e di suo marito Pierre del 1903 per la fisica e di Marie nel 1911 per la chimica, vanno aggiunti quelli della figlia Irène e di suo marito Frédéric Joliot per la chimica nel 1935. Nel 1936, Irène fu anche sottosegretaria alla ricerca scientifica per il governo popolare di Leon Blum. In quella coalizione, per la prima volta in Francia, furono presenti donne con responsabilità di governo. Lei e soprattutto il marito, assieme a Paul Langevin, furono poi fra le figure più significative della resistenza francese nei lunghi anni della occupazione nazista, durante i quali l’Istituto Curie fu posto sotto controllo. Nel 1946 quando fu fondata la CEA (Commissione per l’Energia Atomica) Frédéric ne sarà il direttore e Irène uno dei commissari. Sotto la guida di Frédéric Joliot-Curie, nel 1948, fu costruito il primo reattore nucleare francese. Nei primi anni 50 entrambi i Curie-Joliot furono fatti dimettere dalle loro posizioni nella CEA per le loro simpatie di sinistra. In una sorta di specchiamento della vicenda Marie-Pierre, fu Frédéric, questa volta, a succedere, alla morte di Irène nel 1956, a sua moglie alla cattedra di fisica nucleare. L’altra figlia di Marie, Eve Curie, ha attraversato tutto il secolo, diventando un’apprezzata concertista e scrittrice. Fuggita dalla Francia dopo l’occupazione tedesca del 1940 si impegnò da Londra nella guerra al nazifascismo. Coeditrice del quotidiano Paris Presse dal 1945 al 1949, fu nominata nel 1952 consigliere speciale del segretario generale dell’ONU. Nel 1954 sposò Henry Richardson-Labouisse (1904-1987), diplomatico degli Stati Uniti, che fu per 15 anni direttore dell’UNICEF, ritirando, così, di persona il premio Nobel per la pace conferito all’UNICEF nel 1965. Eve Curie fu anche la prima biografa di Marie. Il suo libro, Madame Curie, pubblicato nel 1937, contribuì fortemente alla creazione del mito di Marie, angelo del laboratorio, musa della ricerca e genio ossessivo. Il libro, più volte trasposto in film e sceneggiati, rappresentò la canonizzazione della figura pubblica di Marie. Nulla in questa biografia veniva detto sulla storia d’amore fra Marie e Paul Langevin e sullo scandalo conseguente. Ma, ironia e, talvolta, tenerezza della Storia, una nipote di Marie, Hélène Langevin-Joliot (1927-), figlia di Irène e Frèdèric Joliot, anche lei fisica nucleare, fra le prime donne a dirigere un laboratorio del CNRS francese e particolarmente attiva nella battaglia per un sempre maggior riconoscimento del ruolo delle donne nell’attività scientifica, conobbe sui banchi dell’università e poi sposò Michel Langevin (19261985), anche lui fisico e nipote di Paul Langevin, chiudendo in qualche modo il cerchio dolce e maledetto, esploso nel 1911. 29 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 BIBLIOGRAFIA [1] U. Amaldi, “Il testamento intellettuale e morale di Marie Curie”, la cà granda 48, 21 (2007). [2] S. Quinn, “Marie Curie. 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SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Da Londra 1851 a Milano 2015. Riflessioni sulle grandi esposizioni universali * AGNESE VISCONTI È da tener presente anzitutto che le expo sono nella storia una novità che ha inizio nel 1851 e che continua ancor oggi. Esse si distinguono dalle fiere precedenti che erano perlopiù fenomeni locali, e anche dalle manifestazioni finalizzate a far conoscere gli oggetti esposti. Mentre le expo ebbero fin da subito lo scopo di far progredire: inizialmente si trattò dell’idea di progresso dell’industria e delle manifatture, e in breve anche di altre questioni: il lavoro, il benessere, la cultura, fino ai grandi tempi globali che caratterizzano le expo degli ultimi anni. Agli oggetti esposti si accompagnarono fin dalle prime expo congressi e dibattiti su temi importanti: temi che in parte rispecchiavano il mondo in cui si svolgevano, in parte lo anticipavano, in parte si trovavano invece a non comprenderlo: temi sul lavoro, la salute, la Dichiarazione dell’indipendenza americana, la presa della Bastiglia, la costruzione del Canale di Panama, le colonie. E molto presto, già a Vienna nel 1873, vennero inclusi i divertimenti e in seguito oggetti non industriali. Un tratto comune a tutte le esposizioni fu quello di sottolineare l’immagine nazionale: di qui l’apporto finanziario pubblico. Ancora possiamo dire, scorrendo l’elenco delle expo, che inizialmente si trattò di un fatto europeo, poi nella prima metà del Novecento, molte sono le expo negli Stati Uniti, e infine dopo la Seconda Guerra Mondiale il ventaglio si allarga all’Oriente. Infine per quanto riguarda delle strutture per ospitare le expo, esse furono inizialmente temporanee: l’effimero è un elemento comunicativo efficace e persuasivo. Realizzazioni effimere si accompagnavano al potere: archi, drappi, panneggi, ecc. Effimero implica spesso l’uso di strutture smontabili, e perciò di grande libertà espressiva. Anche la Tour * Il presente articolo riprende, in forma ridotta e modificata, il saggio Dalla grande Esposizione di Londra del 1851 all’Expo di Milano del 2015, pubblicato in http://www.semidicultura.beniculturali.it/ Eiffel (Expo di Parigi 1889) era nata per essere effimera e poi è rimasta ed è diventata l’emblema di Parigi; effimero il padiglione della Germania di Ludwig Mies van der Rohe, tra i maestri del Movimento Moderno, per l’Expo di Barcellona del 1929: fu demolito, ma poi ricostruito nel 1986 da un gruppo di architetti spagnoli. In altri casi all’effimero si sostituisce un’architettura stabile: tale all’Expo di Genova del 1992 la soluzione di Renzo Piano che prevedeva un nuovo assetto della città, rimasto anche dopo l’expo. Passiamo ora a illustrare alcune delle principali expo e a mostrarne le caratteristiche, cercando di collegarle sia tra loro sia con il contesto storico all’interno del quale si svolsero. La prima expo è a Londra nel 1851. Era stato il principe consorte Alberto che nel 1849 nel suo ruolo di presidente della Royal Society of Arts aveva deciso di promuovere l’organizzazione di una grande esposizione universale dell’industria. L’area sarebbe stata quella del prato di Hyde Park in Kensington Street. Le difficoltà iniziarono subito: fu indetto un concorso, nessun progetto fu giudicato adatto, tanto che l’idea del principe Alberto di attirare a Londra tutte le ricchezze e le industrie del mondo e soprattutto mostrare la ricchezza e la grandezza delle industrie britanniche sembrava fallire. La soluzione venne infine dal progetto di un giardiniere, John Paxton, che progettò molto rapidamente un edificio provvisorio come sede dell’esposizione, il Crystal Palace che riprendeva la forma di una serra. Nel giro di pochi mesi fu montato un edificio di tre livelli: l’intelaiatura era in ferro, la copertura in vetro. Era l’emblema della vittoria del ferro, ossia dell’industria, e però nello stesso tempo la forma della serra ricordava quanto ancora la produzione manifatturiera fosse legata alla natura. Il palazzo fu smontato alla fine dell’expo. Ad attirare l’attenzione furono soprattutto i padiglioni esotici: quelli legati agli esploratori e alle colonie, mondi immaginati per i visitatori europei, di cui per la prima volta potevano farsi una visione, ancorché piuttosto approssimativa. E naturalmente il ristorante, chiamato Gastronomic Sympo31 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 sium of all Nations, dove si potevano gustare cibi provenienti da tutti i paesi del mondo. Anche questa era una novità per i visitatori europei. Diversa l’esposizione di Parigi del 1867 che si tenne nel Palazzo ovale di vetro e ferro (il vetro era con le manifatture Saint Gobain la vera gloria francese) del Champ de Mars. A fianco dello scopo industriale, vi era quello di decretare il trionfo di Napoleone III. E inoltre il tema della pace e dell’armonia universale per il genere umano. Si noti il termine universale che ci rimanda agli enciclopedisti. I più eminenti scrittori francesi, tra i quali Victor Hugo che scrisse l’introduzione alla Guida, contribuirono con le loro penne a inneggiare alla gloria di Francia. Intorno al palazzo era stato allestito un parco per i divertimenti illuminato fino a mezzanotte, i concerti, un pallone che permetteva di vedere l’expo dall’alto e naturalmente ristoranti internazionali di ogni genere. Parigi era prospera e l’imperatore vittorioso. Ma le nubi si addensavano su questa expo trionfale che non seppe né rispecchiare né prevedere i tempi: erano in arrivo la guerra prussiana. l’esilio di Napoleone III, i massacri della Comune. La presenza dei regnanti fu molto alta: i visitatori furono circa 15 milioni L’expo ebbe un grandissimo successo, pari a quello di Londra. Napoleone III si dimostrò interessato al bene del suo popolo con due padiglioni sulle condizioni di igiene e di benessere, presentando anche un progetto di abitazioni operaie. Dal punto di vista produttivo, l’elemento che regnò incontrastato fu il vetro, come si è visto la vera gloria delle manifatture francesi. E numerose furono le serre che, con le loro piante esotiche alimentari e non, segnavano l’epopea della concentrazione in Europa delle ricchezze della natura di tutto il globo, iniziata dopo la scoperta dell’America Sull’altro fronte, a contraddire il progetto di armonia e di pace universale troneggiavano i cannoni di Krupp della Prussia: un monito alla guerra franco-prussiana del 1870. L’esposizione successiva si tenne a Vienna nel 1873. Essa ebbe luogo a Prater nell’edificio appositamente costruito, la Rotunde, e fu inaugurata alla presenza di Francesco Giuseppe con lo scopo di festeggiare il suo venticinquesimo anniversario di regno e anche con quello di ridare splendore all’immagine indebolita dell’Impero austro-ungarico. Furono presenti e destarono stupore India e Giappone, più ancora della Gran Bretagna e della Francia. L’Italia fu presente soprattutto con opere d’arte. L’expo ebbe un buon successo: i visitatori furono più di 7 milioni anche se l’ingresso e i ristoranti erano carissimi. Tra i divertimenti vi era un orchestra di Strauss che ininterrottamente intratteneva con musica, operette, walzer. E intorno alla Rotunde un grande parco divertimenti per quando i visitatori erano stanchi: giostre, caroselli, altalene. La Germania ripresentò i cannoni di Krupp, che questa volta non si limitavano a una minaccia, ma che si erano dimostrati arma reale e letale. L’Italia fu presente con il grande plastico della Galleria Vittorio Emanuele II, la più imponente del mondo. Sembrava che ormai il ferro avesse sostituito in tutto il legno. In 32 parte era così, soprattutto nei paesi che come Regno Unito, Francia e Germania erano ricchi di miniere di carbone. E però non per altri: si pensi all’Italia, che nonostante il plastico della Galleria Vittorio Emanuele II, stentava ad avviare la propria industrializzazione per l’alto costo del combustibile che veniva importato via mare dalla Gran Bretagna. La legna era ancora utilizzata (con tutti i danni legati al diboscamento) e anche l’acqua che muoveva i mulini, consentendo la possibilità di alcune manifatture. Passiamo ora a Philadelphia dove nel 1876 si svolse la prima esposizione statunitense. Essa aveva per tema il Centenario dell’indipendenza americana. Si svolse a Fairmount Park, ancora oggi il cuore del sistema dei parchi municipali di Philadelphia che comprende anche uno zoo. È il più grande parco cittadino del mondo. I lavori tardarono a finire e nelle ultime settimane gli operai lavorarono giorno e notte sotto la pioggia. Ma alla fine il risultato fu splendido. Il giardino era pieno di piante esotiche. Un grande richiamo alla natura. È l’epoca in cui gli scritti di Thoreau, Perkins Marsh ed Emerson cominciavano a penetrare nella cultura americana. Il meraviglioso parco di Fairmount e la successiva attenzione e cura al suo incremento e abbellimento sono un esempio della sensibilità di un largo settore dell’opinione pubblica verso la natura. Un altro centenario fu festeggiato a Parigi nel 1889, quello della Presa della Bastiglia, e, nella tradizione delle expo, anche questa non era pronta per il giorno dell’inaugurazione. Qui, a differenza che a Philadelphia, non trionfò la natura, ma la costruzione. In primo luogo la Tour Eiffel, eretta dall’ingegnere Alexandre-Gustave Eiffel, specialista in strutture metalliche, per essere smontata, ma che ebbe un tale successo (per salire fino in cima si pagava) che non solo 32 SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA rimase, ma divenne da allora l’emblema di Parigi. Di grande rilievo, ma non ancora trionfale, fu la presentazione della prima automobile a benzina: una Benz costruita dall’ingegnere tedesco Carl Friedrich Benz. L’invenzione era rivoluzionaria: alla macchina a vapore si sostituiva il motore a scoppio, e cioè al carbone si sostituiva il petrolio. Una nuova fonte energetica destinata a ridisegnare la vita dell’umanità intera. La Benz, a ben guardare, rappresentava il nuovo, il petrolio, il futuro, mentre la Tour Eiffel il carbone e il ferro: un presente destinato a passare il testimone. La Tour Eiffel ebbe successo. La Benz lo avrebbe avuto in seguito, ancora maggiore. Altra grande novità fu la presentazione dell’elettricità in tutti i suoi usi. Edison stesso si presentò con un suo padiglione. Il pubblico ne fu molto attratto. E arriviamo finalmente in Italia: a Milano nel 1906, quando fu organizzata l’expo per festeggiare il traforo del Sempione che significava commercio, ferrovia, apertura all’Europa. Si era in piena Belle Epoque e il mondo guardava con fiducia al nuovo secolo. Caratteristica di Milano fu l’effimero. Tutti i padiglioni furono costruiti per non durare oltre il tempo dell’expo, tranne l’Acquario realizzato su progetto dell’architetto Sebastiano Locati e situato accanto all’arena, di cui riproduce l’architettura ellittica. Era allora il padiglione dedicato alla piscicoltura. Oggi è uno dei più significativi edifici liberty di Milano. L’expo fu sistemata in due luoghi distinti: il primo fu il Parco situato tra il Castello e l’Arena, il secondo la Piazza d’Armi, collegati da un treno elettrico. Fu una mostra ferroviaria importantissima, ma il nuovo si era fatto strada rispetto all’expo di Parigi del 1889: apparvero le automobili di varie case costruttrici con i loro primi modelli e la Daimler Benz. Dietro al petrolio e al motore a scoppio avanzava anche l’elettricità, la fonte energetica che aveva consentito e stava consentendo, con le dighe che si stavano realizzando in Valtellina e nel Bergamasco, il processo di industrializzazione della Lombardia. Di grande rilievo anche il padiglione dell’industria serica, importantissima per l’economia lombarda: tutto il processo manifatturiero della seta diventò spettacolo con la ricostruzione di una filanda e l’esposizione di una grande varietà di tessuti. Ma non solo: prevalsero le arti grafiche, le industrie della carta, della ceramica e del vetro. Dall’Europa torniamo negli Stati Uniti: a San Francisco che celebra nel 1915 l’apertura del Canale di Panama, la cui costruzione era stata resa possibile dal medico dell’esercito statunitense William Crawford Gorgas che era riuscito a prevenire la diffusione della malaria intervenendo sulle acque stagnanti, affumicando le abitazioni e rendendo obbligatorio l’uso delle zanzariere. Il suo sistema fu controverso e costoso, ma, una volta messo in atto, portò a un rapido abbassamento, e infine ad un totale annullamento del rischio di contrarre la malaria per le migliaia di operai, ingegneri, tecnici che lavorarono alla costruzione del canale. L’expo ebbe molto successo: si contarono 18 milioni di visitatori. La maggior attrazione, oltre ai congressi, ai ristoranti e all’illuminazione, fu il modello funzionante del Canale di Panama. Oggi sono in corso lavori di ampliamento del canale per consentire il passaggio di navi di maggior tonnellaggio e più numerose. Inoltre si discute di un grande progetto sinonicaraguense che prevede l’escavazione di un canale lungo il confine sud del Nicaragua. Tornando all’expo, essa mostrò l’importanza ormai assunta dalla California e dal West americano lungo tutta la costa pacifica. Intanto il numero di paesi che aspiravano ad essere sede di un’expo aumentava, al punto che si rese necessario fondare un ente che esaminasse e valutasse le richieste. Così venne fondato il Bureau International des Expositions, organizzazione intergovernativa istituita tramite la Convenzione concernente le esposizioni internazionali conchiusa a Parigi nel 1928. La prima expo che seguì fu quella di Parigi del 1931. Fu l’expo delle Colonie. La Prima Guerra Mondiale aveva cambiato la carta geografica del mondo, in particolare dell’Africa che era stata spartita quasi interamente fra Francia e Regno Unito. La fiera rappresentò il nuovo ordine coloniale. Gli inglesi non parteciparono, pertanto l’expo fu mutilata del grande affresco dell’impero britannico: si temeva che la manifestazione potesse trasformarsi in terreno di coltura per i germi anticolonialisti. Le altre potenze coloniali parteciparono tutte. Ma nessuna con un impegno forte come l’Italia. Al centro del grande padiglione costruito dall’architetto Armando Brasini era stata posta la Venere acefala rinvenuta nel 1913 a Cirene, oggi tornata in Libia. Altre sculture classiche scandivano il perimetro della sala. Ogni colonia aveva il suo spazio e i visitatori compivano il 33 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 giro del mondo, dai mari del Sud, ai Caraibi, dall’Africa, al Madagascar, al Tonchino. E a ricordare il ruolo delle missioni nel programma di civilizzazione del colonialismo furono costruite due chiese una protestante e una cattolica. Anche qui, come a Milano per l’acquario, un edificio fu costruito per durare: il Palais de la Porte Dorée, oggi Cité nationale della storia dell’immigrazione, situato a est di Parigi e aperto al pubblico nel 2007. La sinistra aveva attaccato l’expo su “L’Humanité” con una dura requisitoria sui suoi significati, invitando a non visitarla e a visitare invece la contro-esposizione organizzata in una sede del sindacato. Arriviamo così all’Expo di Chicago del 1933, ideata per la celebrazione dei cent’anni della creazione della municipalità di Chicago e nello stesso tempo per infondere allegria e speranza in quegli anni bui della Grande Depressione. Le difficoltà indotte dalla crisi sconsigliarono a molti governi di affrontare le spese per presentarsi al Chicago. Non fu così per l’Italia che decise di impegnare il meglio delle sue forze per mostrare che gli italiani erano non solo artisti, ma anche scienziati. L’aviazione fu il fulcro della fiera: in cielo si svolsero competizioni ed esibizioni aree di ogni tipo. Molto ammirate le evoluzioni dell’aereonautica italiana di Italo Balbo A monito di un futuro tutt’altro che allegro stavano però il dirigibile tedesco Zeppelin con le svastiche e l’assenza dell’Unione Sovietica. Le minacce che si avvicinavano al mondo furono ancora più tangibili a Parigi nel 1937. Questa expo fu infatti l’ultimo atto del rituale della pace e del progresso prima del disastro. I padiglioni dominanti furono quelli della Germania e dell’Unione Sovietica che si fronteggiavano l’un l’altro. In una posizione infelice si trovava invece il piccolo padiglione repubblicano spagnolo, opera dell’architetto Josep Luis Sert, rifugiatosi a Parigi per sfuggire alla guerra civile, che ospitava il dipinto Guernica di Picasso, eseguito appena dopo i bombardamenti tedeschi e italiani sulla cittadina. Guernica, che Picasso non volle andasse in Spagna prima della fine della dittatura di Franco, fu ospitato al Moma di New York dove rimase fino alla morte di Franco (1975), quando fu portato in Spagna. Torniamo ora in Italia, a Roma, per l’expo che non ebbe luogo. Nel 1935 la delegazione italiana presso il Bureau International des Expositions chiese di poter organizzare l’expo a Roma nel 1941. L’idea era di fare una esposizione fuori della città, su un terreno da recuperare, tra Roma e il mare, il polo dell’espansione a sud ovest della città. Si voleva il primato della vastità e un’esposizione non effimera, bensì stabile: ovvero edifici costruiti in materiali durevoli. In proposito ricordo che il progetto di esposizione durevole verrà ripreso dopo la Seconda guerra mondiale: a cominciare soprattutto dalle esposizioni di Genova 1992 e Lisbona 1998. A Roma i lavori procedettero a ritmo sostenuto. Ma l’expo, venne spostata al 1942, e infine sospesa per la guerra. L’area interessata prese il nome di EUR e agli edifici costruiti se ne aggiunsero altri dopo la guerra. Attualmente l’EUR 34 è zona residenziale e sede di uffici pubblici e privati, tra cui il Ministero della Salute, quello delle Comunicazioni, quello dell’Ambiente, la Confindustria, la sede centrale dell’Eni e quella delle Poste Italiane. Situazione incerta, al pari di quella dell’Expo di Roma, sembrò avere l’Expo di Bruxelles che avrebbe dovuto tenersi nel 1955, ma che fu spostata al 1958 a causa della Guerra di Corea e della prima fase della Guerra fredda. Tema dominante dell’Expo fu l’energia atomica, l’energia che, utilizzata contro il Giappone in guerra, avrebbe dovuto diventare energia di pace. Era un’illusione che durò qualche decennio (atom for peace, atomo per la produzione, per uso economico, produttivo), illusione che portò alla costruzione di centrali nucleari per la produzione di energia elettrica, soprattutto negli Stati Uniti, in Unione Sovietica, nel Regno Unito e in Francia. Una forma energetica molto discussa fin dall’inizio e ancor più oggi, dopo i gravi incidenti di Cernobyl nel nord dell’attuale Ucraina e di Fukushima. E ora vale la pena di soffermarsi su di un’expo di grande interesse, quella di Spokane, Washington del 1974: la prima che abbia avuto per tema l’ambiente. Era uscito due anni prima il Rapporto dell’MIT per il Club di Roma, I limiti dello sviluppo, che prevedeva un declino per l’umanità entro cento anni nel caso in cui non fossero stati ridimensionati tasso di crescita della popolazione, dell’industrializzazione, dell’inquinamento e delle risorse. E nello stesso 1972 le Nazioni Unite avevano decretato il 5 giugno giornata mondiale dell’ambiente. Si tenga presente che la decisione della cittadina di Spokane di tenere l’expo era stata fatta prima dell’uscita del volume del Club di Roma e che fu il comune di Spokane a sospingere le Nazioni Unite a decretare il 5 giugno giorno dell’ambiente. L’Expo di Spokane dunque si pose all’avanguardia per quanto concerne le questioni ambientali. Aggiungo ancora che lo studio del Club di Roma è stato aggiornato nel 2004 da Donella e Denis Meadows che ne hanno confermato le previsioni, mettendo in particolare risalto il degrado ambientale e la finitezza delle risorse. L’expo si tenne sulle rive del fiume Spokane che era stato disinquinato allo scopo. Nel corso dei numerosi congressi sull’ambiente che ebbero luogo fu messa per la prima volta in discussione la concezione, fino ad allora predominante, che bigger is better. I temi ambientali furono ripresi all’Expo di Okinawa nel 1975. L’expo fu organizzata per la difesa del mare e della fauna marina e nello stesso tempo per ricordare la riconsegna dell’isola di Okinawa al Giappone da parte degli americani (1972), restituzione che avrebbe dovuto placare l’inimicizia tra i due paesi, inimicizia che invece durò ancora a lungo: un esempio di come le questioni legate alla Seconda guerra mondiale continuavano ad agitare il mondo, e come intanto si affacciassero, e non certo timidamente, quelle dell’ambiente e della finitezza delle risorse. Come si può immaginare i padiglioni dell’expo furono un susseguirsi di fauna marina, navi, barche, scienza e tecnologia. Il successo maggiore lo ebbe Aquapolis, la futura città sul mare, la più grande struttura galleggiante del mondo. 34 SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA I temi dell’ambiente non furono invece i principali a Genova nel 1992, sebbene ormai fossero questione ampiamente dibattuta in tutto il mondo: si pensi al Rapporto Brundtland (dal nome della signora norvegese Gro Brundtland presidente della Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo), pubblicato nel 1987 con il titolo Our common future. Nel rapporto Brundtland venne per la prima volta formulato il concetto di sviluppo sostenibile, ossia un concetto relativo non solo all’ambiente ma anche, meglio soprattutto ai rapporti tra uomini e ambienti. Il concetto di sviluppo sostenibile metteva in luce un significativo principio etico: la responsabilità delle generazioni di oggi nei confronti di quelle future, toccando quindi almeno due aspetti delll’ecosostenibilità: il mantenimento delle risorse e l’equilibrio ambientale. E ancora ricordo che il 1992 fu l’anno del Summit di Rio de Janeiro, la prima Conferenza mondiale dei capi di stato sull’ambiente. Rio siglò un accordo sui cambiamenti climatici che portò, a sua volta, alla stesura del Protocollo di Kyoto, sottoscritto nel 1997 ed entrato in vigore nel 2005. Genova fu soprattutto la celebrazione del cinquecentenario della scoperta dell’America, anche se portava un messaggio ambientale: proteggere le acque del mondo. Tutti i paesi esposero imbarcazioni o modelli di imbarcazioni, antiche carte nautiche, sottomarini. L’expo si svolse al Porto antico e permise la ristrutturazione della zona e della parte retrostante, su progetto dell’architetto genovese Renzo Piano. Le due principali attrazioni furono l’acquario e il grande bigo che fu inteso con una duplice funzione: da un lato di immagine e dall’altro strutturale (sostiene il tendone della piazza delle feste, situata nelle vicinanze). Il recupero dell’area è poi continuato negli anni seguenti. Un’altra expo in occasione del cinquecentenario della scoperta dell’America si tenne a Siviglia. Alle questioni ambientali tornò invece a rivolgersi l’Expo di Lisbona, 1998 che toccò, al pari di quella di Genova, anche la risistemazione di parte della città e la costruzione di molte infrastrutture. Il sito fu scelto nella parte orientale di Lisbona. Rappresentò un passaggio dall’uso del territorio a scopo industriale a quello residenziale e ricreativo. La concezione di effimero che, come abbiamo visto, aveva dominato a lungo nelle expo precedenti, veniva ora sostituita da quella della stabilità. Il tema ufficiale fu: un patrimonio per il futuro, con lo scopo di celebrare gli oceani nel mondo e però anche il ruolo storico del Portogallo nell’età delle scoperte e l’arrivo in India di Vasco da Gama. Molte delle infrastrutture costruite per l’expo sono state riconvertite. L’area utilizzata da Expo ha assunto il nome di Parco delle Nazioni, all’interno del quale è stato costruito un parco fieristico internazionale. Rimasto è l’Oceanario formato da 5 ambienti marini, la Torre di Vasco da Gama e infine un complesso di reti di trasporto. Queste strutture hanno modificato la città, dotandola di un profilo più internazionale e avvicinandola al mercato globale, rispecchiando così un nuovo aspetto del mondo moderno: quello della globalizzazione. Grande successo ebbe anche l’expo di Aichi, 2005, dove si aspettavano 15 milioni di visitatori, e ne vennero 22 milioni, tra i quali moltissimi giapponesi. Il tema scelto era formulato in modo semplice e lineare: la saggezza della natura. Fu un’expo verde, all’insegna del ridurre, riutilizzare, riciclare. Le attività organizzate furono perlopiù ambientali e globali e diedero la conferma definitiva dell’importanza del Giappone in Oriente. Questo da un lato, dall’altro si facevano notare per la loro mole i due padiglioni del gruppo Toyota e del gas in netta contraddizione con il tema di expo verde. Restiamo in Oriente con l’expo di Shangai, 2010. È quello che precede Milano, 2015. Anche nel caso di Shangai, come ad Aichi, abbiamo un tema formulato in modo semplice: better city better life, ovvero migliorare la qualità della vita in ambito urbano. L’intento era di discutere del problema della pianificazione urbana e dello sviluppo sostenibile nelle nuove aree cittadine, nonché quello del come effettuare le riqualificazioni nel tessuto urbano esistente. La tematica partiva dal presupposto che dal secolo scorso ad oggi la popolazione che vive nelle città è aumentata dal 5%a più del 50%. Alcuni padiglioni particolarmente attraenti furono quello degli Emirati arabi, le cui forme curvilinee riprendevano le dune del deserto; quello del Regno Unito fatto di migliaia di fili acrilici trasparenti che di giorno incanalavano la luce verso l’interno, e di notte verso l’esterno; e il Padiglione italiano costruito in cemento trasparente. Sottolineo ancora che a Shangai, come ad Aichi,si è trattato di un tema solo, a differenza di quello di Expo 2015 Milano, che è duplice e molto complesso (nutrire il pianetaenergia per la vita) e che si propone di includere tutto ciò che riguarda l’alimentazione e l’energia, dal problema della mancanza di cibo per alcune zone del mondo, a quello dello sfruttamento delle risorse naturali e dell’inquinamento dei suoli e dell’acqua, a quello dell’educazione alimentare, fino alle tematiche legate agli Ogm, nonché quelle legate alla finitezza delle fonti energetiche fossili, alla ricerca nel settore delle energie rinnovabili. Forse troppo. Si vedrà. BIBLIOGRAFIA Aimone Linda e Olmo Carlo, Le esposizioni universali. 1851-1900 il progresso in scena, Torino, Allemandi, [1990] Allwood John, The Great Exhibitions, London, Studio Vista, 1977 Dall’Osso Riccardo, Expo da Londra 1851 a Shangai 2015, Milano, La Rovere, 2008 Findling John (ed.), Historical Dictionary of World’s Fairs and Expositions, N. Y, Greenwood Press, 1990 Fusina Sandro, Expo: le esposizioni universali da Londra 1851 a Roma 1942, Milano, Il Foglio, 2011 May Trevor, Great Exhibitions, Oxford, Shire, 2010 www.expo2015.org/it/cos-e/la-storia/il-bie-e-le-esposizioni-universali www.expo.rai.it/storia-expo www.musee-orsay.fr/en/.../universal-exhibitions.ht www.uzexpocentre.uz/index.php? 35 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 La donna cinese nel Nuovo Millennio CHIARA D’AURIA Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Salerno L a condizione femminile nella Cina contemporanea si colloca all’interno del più ampio dibattito in corso tra gli studiosi e nell’opinione pubblica internazionale sulla modernità della società cinese. Come evidenziato da Jean Louis Rocca, gli interrogativi sull’evoluzione del “Paese di mezzo” dalla fine dell’era di Mao ai nostri giorni talvolta si concentrano su aspetti precisi e tra questi un ruolo di primo piano è rivestito dalla situazione della donna e dalla sua emancipazione1. Se è vero che la società cinese è diventata una società di soggetti2 grazie agli effetti delle politiche di riforme e di apertura promosse da Deng Xiaoping in poi, all’interno del contesto storico intercorrente tra la fine degli anni Settanta e gli anni Duemila emerge con forza l’obiettivo di realizzazione e di completamento della società armoniosa (héxié shèhui, 和谐 社会) messo in atto dalle ultime quattro generazioni della classe dirigente cinese a partire dalla fine del periodo maoista. Secondo questo progetto il concetto di progresso è attivamente costruito dai singoli individui per il raggiungimento di uno sviluppo economico condiviso da tutta la società, che è sempre “inclusiva” e mai “esclusiva”, cioè è diretta alla onnicomprensività di tutti i suoi soggetti3. Questa duplice spinta verso la modernità presenta aspetti certamente evidenti anche nel caso dell’analisi della condizione femminile, poiché se da una parte dal 1. J.-L. Rocca, La società cinese, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 77 e ss. 2. Idem; cfr. anche D. Davis ( a cura di), Urban Spaces in Contemporary China. The Potential for Autonomy and Community in post-Mao China, Cambridge, Woodrow Wilson Centre Press, 1995; The Consumer Revolution in Urban China, Berkeley, University of California Press, 2000. 3. M. Scarpari (a cura di), La Cina, Torino, Einaudi, vol. I, 2011, XVIIXLVII. 36 1949 ad oggi la Cina ha tentato di rafforzare l’uguaglianza della donna e dell’uomo attraverso politiche sociali nazionali, dall’altra la liberalizzazione economica si è accompagnata ad una progressiva liberalizzazione sociale, negli usi e nei costumi, nella diffusione delle mode, con la comparsa anche in Cina di una classe di donne emancipate, economicamente e culturalmente, abituate a viaggiare e quindi “cittadine del mondo”, esponenti influenti di una potente gerarchia economica. Si stima, infatti, che in Cina siano circa 20 milioni le “donne-capo” all’interno del mondo imprenditoriale e finanziario4. La tecnologia e l’uso di internet, infine, ha provocato un cambiamento importante nelle relazioni personali tra uomini e donne, con una nuova libertà femminile che sembra essere generalmente condivisa e goduta. Si tratta di aspetti tuttavia che meritano un inquadramento più preciso in quanto profondamente diversa è la percezione della condizione femminile nella società cinese di oggi e quindi la realtà di vita della donna nella Repubblica Popolare Cinese dei nostri giorni. 4. M. D’Ascenzo, Fatti più in là. Donne al vertice delle aziende: le quote rosa nei CDA, Milano, Gruppo 24Ore, 2011, p. 16. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Nonostante tre decenni di socialismo ed altrettanti di modernizzazione e liberalizzazione economica, la società cinese si presenta al mondo contemporaneo ancora fortemente radicata alle sue tradizioni culturali e familiari, anche se ha mostrato una certa propensione all’adattamento verso alcuni aspetti della globalizzazione, i cui risultati sono ancora di difficile interpretazione. Se da una parte, infatti, si assiste alla continuità di alcune pratiche sociali che ancora caratterizzano la società cinese odierna, dall’altra parte è evidente la notevole reattività della società civile alle nuove opportunità sorte con la trasformazione economica e a quelle giunte con la penetrazione in Cina del processo di globalizzazione5. Questo dualismo, definito da alcuni paradossale6, in cui vive la società cinese di oggi è particolarmente evidente in relazione alla condizione della donna, per cui la comprensione di quest’ultima è possibile solo se questo “paradosso” è tenuto presente. Per questo motivo l’analisi del grado di istruzione, del ruolo nel mondo del lavoro, dell’evoluzione demografica delle donne in Cina offre l’opportunità non solo di stabilire la reale percezione della situazione femminile nel Paese ma anche di definire uno strumento affidabile per descrivere le trasformazioni sostanziali che la società cinese sta vivendo oggi. Come sottolineato da Isabelle Attané, a distanza di trent’anni dall’avvio della modernizzazione in Cina le donne sono protagoniste di una parziale regressione del proprio status, costrette a relazionarsi con un ambiente maschilista che le forza a vivere in una condizione di precarietà7. In altri Paesi asiatici, come l’India, il Pakistan, il Bangladesh e l’Indonesia, si è verificato lo stesso fenomeno, causato, secondo gli studiosi, da una molteplicità di fattori che, nel caso della Cina, rischierebbero di sconvolgere seriamente l’equilibrio sociale e demografico nazionale interessando anche quello globale8. Per comprendere la portata reale di questo fenomeno una chiave di interpretazione è costituita dall’analisi sia dell’evoluzione storica della condizione femminile in Cina sia degli effetti generati dalla transizione demografica, economica e sociale nel mondo femminile cinese. In tal modo, oltre a emergere la reale condizione sociale delle donne cinesi, si evidenziano anche le possibili evoluzioni nelle relazioni di genere in Cina9. L’uso dello strumento statistico si rivela fondamentale per impostare uno studio sistematico su questo tema, nonostante alcuni limiti rappresentati dalle modalità di indagine (scelta dei campioni, definizione dei questionari, etc.)10. Tuttavia la descrizione della situazione femminile nella Cina di oggi è resa possibile grazie all’analisi incrociata della storia di genere con la socio-demografia di genere. I risultati di questa indagine, frutto della confluenza dell’evoluzione storica della condizione femminile con l’interpretazione di dati statistici ufficiali sull’attuale qualità della vita delle donne in Cina, evidenziano che, rispetto ad altri Paesi sviluppati o emergenti, nella Repubblica Popolare Cinese, nuova potenza mondiale, avviata da oltre un trentennio verso la modernizzazione economica e sociale, si assiste attualmente ad un regresso della condizione della donna che può condurre, nella maggior parte dei casi, ad una condizione di precarietà sociale. L’analisi dell’evoluzione storica della condizione femminile in Cina fornisce gli elementi principali per verificare questa tesi interpretativa poiché da quest’ultima emerge il carattere fortemente maschilista che per millenni ha caratterizzato la tradizione sociale cinese la quale, nonostante i progressi intercorsi dalla fine dell’Impero cinese fino alla modernizzazione, attualmente ancora in atto, mantiene intatti alcuni aspetti di marginalizzazione e subordinazione della donna. È opportuno ricordare che le prime informazioni sulla vita delle donne nell’Impero cinese di cui disponiamo giunsero in Occidente grazie alla testimonianza del missionario gesuita Daniello Bartoli nel 1663: prima di questo momento il mondo occidentale poco conosceva degli usi, dei costumi e delle tradizioni del popolo cinese11. Ciò che colpisce maggiormente nella descrizione del Padre Bartoli è l’assoluta attinenza e uguaglianza a quanto riportato in opere descrittive e divulgative sulla società cinese, redatte in epoche successive12; quindi è possibile affermare che nella testimonianza storica occidentale tra il XVII secolo e la fine dell’Ottocento la condizione femminile in Cina non subì alcuna significativa mutazione, intervenuta solamente quando l’Impero guidato dalla dinastia Qing, di origine mancese, si avviava al suo collasso definitivo. Un ulteriore inquadramento storico sulla vita della donna 5. I. Attané, “Êntre femme en Chine aujourd’hui: une démographie du genre”, in Perspectives chinoises, n. 4, 2012 p. 1; M. K. White, “Continuity and Change in Urban Chinese Family”, in The China Journal, n. 53, genn. 2005, p. 9-33; J.-L. Rocca, Une sociologie de la Chine, Parigi, La Découverte, 2010. 6. G. Olivier-T. Fang, “Changing Chinese Values: Keeping up with Paradoxes”, in International Business Review, vol. 17, n. 2, 2008, pp. 194-207. 7. I. Attané, En espérant un fils….La masculinisation de la population chinoise, Parigi, Institut National d’études démografiques, Parigi, INED, 2010. 8. L. Ballouhey, Entre femme en Chine..., in «Le Monde diplomatique», dic. 2010. 9. I. Attané, “Êntre femme en Chine aujourd’hui: une démographie du genre”, cit., p. 1. 10. I. Attané, cit., p. 1. 11. D. Bartolli, Istoria della Compagnia di Gesù. La Cina, Milano, Bompiani, 1997, pp. 76 e ss. 12. Le testimonianze di maggior rilievo sono citate in P. Buckley Ebrey, The Inner Quarters: Marriage and the Lives of Chinese Women in the Sung Dinasty, Berkeley, University of California Press, 1993; E. Croll, Changing Identities of Chinese Women, Londra-New Jersey, Hong Kong University Press, 1994; D. Ko, Cindarella’s Sisters. A Revisionist History of Footbanding; Berkley, University of California Press, 2005. Molto interessante è il romanzo di J. Chung, Cigni selvatici: tre figlie della Cina, Milano, CDE, 1995. 37 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 nella Cina imperiale è fornito dalla lettura dei numerosi precetti educativi destinati alle giovani di alta estrazione sociale e alla vasta letteratura composta tra il tardo Seicento e la fine del XIX secolo in cui leggende, racconti e favole epiche consentivano la diffusione dei principi educativi e comportamentali della donna anche tra le classi meno agiate e più povere13. L’elemento portante che emerge dalla lettura di questi testi è l’obbedienza assoluta della donna, indirizzata principalmente verso tre figure, tutte maschili: il padre, i fratelli e i figli maschi, nel caso di vedovanza. A questo principio si univa l’osservanza minuziosa di altri precetti, definiti “virtuosi”: il mantenimento di un contegno discreto e mai invasivo sia in famiglia sia in pubblico; la cura del proprio aspetto fisico per il compiacimento del coniuge; la limitazione ad interventi spontanei nelle conversazioni conviviali, a cui la donna doveva partecipare prestando la massima attenzione ad ogni parola ed espressione; lo svolgimento costante e completo delle faccende domestiche. Queste condizioni di sottomissione erano dovute in parte alla concezione confuciana della società, per cui era fondamentale il mantenimento di un equilibrio tra due elementi: lo yáng (阳) il principio attivo e creatore dell’Universo, e lo yīn (阴), il principio passivo ed oscuro. Nel confucianesimo la loro opposizione binaria dava vita all’evoluzione dell’umanità e di tutto il mondo e costituiva l’elemento caratterizzante anche della società umana. L’uomo era quindi identificato con lo yáng e la donna con lo yīn14. Un esempio concreto e particolarmente rivelatore della condizione femminile è fornito dalle prescrizioni rivolte alla donna elaborate durante la dinastia Song, regnante in Cina tra il 960 e il 127915. In esse è ancora più evidente la sottomissione all’uomo e la limitazione di ogni libertà, anche di movimento oltre che di espressione, della donna. Questa era infatti tenuta ad abitare le stanze più interne della casa, generalmente anche le più oscure perché lontane dai giardini o dall’ingresso, poiché, se da una parte ne garantivano maggiore sicurezza, dall’altra erano i luoghi meno visibili anche per i membri della stessa casa o 13. Tra i testi di maggior rilievo, Nǚ Jiē ((女誡, Precetti per le donne), attribuiti alla poetessa Ban Zhao, vissuta nel I secolo d.C.; Nǚ ér jīng (女儿经, Classico per le fanciulle), elaborato sui precetti confuciani di sottomissione delle donne, e il Lǐjì (礼记, Libro dei riti), risalente alla dinastia Zhou, regnanti in Cina tra il XII e III secolo a. C. 14. S. Mann-Y. Cheng, Under Confucian eyes: writings on gender in Chinese history, Berkeley, University of California Press, 2001; R. Wang, “Dong Zhongshu’s Transformation of “Yin-Yang” Theory and Contesting of Gender Identity”, in Philosophy East and West, vol. 55, n. 2, pp. 209-231. 15. Si tratta delle regole elaborate dei filosofi neoconfuciani, cfr. Siu-chi Huang, Essentials of Neo-Confucianism: Eight Major Philosophers of the Song and Ming Periods, Westport, Greenwood Press, 1999; P. Ching Chung, Palace Women in the Northen Sung: 960-1126, Leiden, Brill, 1981; P. Buckley Ebrey, The Inner Quarters. Marriage and the Lives of Chinese women in the Sung Period, Berkeley, University of California Press, 1993. 38 famiglia. Talvolta le donne non vedevano mai fisicamente i propri parenti di sesso maschile fino ad una certa età, e fin da bambine erano segregate in spazi ad hoc (mentre era concesso ai bambini di giocare con altri maschietti). Inoltre era necessario che le piccole fanciulle della casa adottassero un tono della voce mai troppo alto e che non corressero o si muovessero al di fuori dei luoghi per loro prescelti. Per questo motivo, la pratica della fasciatura dei piedi era effettuata fin dai quattro anni e, nonostante il piede piccolo fosse generalmente considerato un requisito fondamentale per definire il grado di bellezza femminile, in realtà si trattava del risultato di una necessità sociale, quella, cioè, di immobilizzare fisicamente il più possibile le donne16. Al di là del confucianesimo, la realtà quotidiana della condizione femminile era lo specchio della generale considerazione sociale della donna: infatti già all’interno della famiglia la nascita di una figlia femmina determinava nell’immediato una cornice di emarginazione per lei. Le bambine non erano considerate membri permanenti del nucleo familiare poiché erano destinate alla famiglia del futuro marito, che era spesso scelto dalla famiglia di provenienza quando queste erano ancora piccolissime. Per questo motivo il loro nome proprio non era completato se non al momento delle nozze. Spesso nemmeno la condizione di moglie migliorava la qualità della vita e della considerazione sociale delle donne poiché solamente se avevano partorito figli maschi ed avevano condotto una vita “virtuosa” (cioè minuziosamente rispettosa delle regole sociali e familiari) potevano essere a tutti gli effetti presenti nel registro della famiglia del marito. Il matrimonio costituiva, quindi, l’unico obiettivo da perseguire per le figlie femmine che, una volta sposate, erano tenute al rispetto e alla totale obbedienza verso le suocere, oltre che verso il marito e gli altri membri maschili della nuova famiglia, all’interno della quale, a seconda dell’estrazione sociale, potevano convivere con più mogli o concubine. Il carico del lavoro domestico era interamente sulle spalle delle donne degli strati sociali meno abbienti, tanto che, qualora i genitori della giovane promessa sposa non disponessero dei mezzi economici necessari per le nozze, queste erano inviate a vivere nella futura famiglia dello sposo già da piccole e lavoravano alacremente, quasi in condizioni di servitù. Infine, sul piano successorio, poiché solamente i figli maschi potevano ereditare i beni del padre, le donne erano completamente escluse dall’asse ereditario: ciò aggravava la loro situazione di marginalizzazione e sfruttamento a causa della completa dipendenza economica dalla famiglia (prima quella di origine e in seguito quella 16. Cfr. L. De Giorgi, “Costume o tortura? La fasciatura dei piedi in Cina”, in DEP, Rivista di studi sulla memoria femminile, n. 16, 2011. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA del coniuge)17. Altri esempi di estromissione e abuso, tra cui la prostituzione forzata, la vendita della persona, l’abbandono e i maltrattamenti e le violenze fisiche e psicologiche, erano fattori quotidiani nella vita delle donne delle classi sociali più povere. Queste, a differenza delle giovani degli strati sociali più ricchi ed abbienti, vivevano nell’ignoranza e nella mancanza di istruzione, mentre alle donne delle famiglie più facoltose erano insegnate solamente alcune discipline, considerate funzionali alla loro gradevolezza nella famiglia e per il coniuge, come la musica, il canto, il disegno e talvolta la poesia18. Questa situazione di degrado personale e di isolamento sociale iniziò a cambiare con il collasso definitivo dell’“Impero celeste”: con la Rivolta dei Taiping e quella dei Boxers le sollevazioni popolari che scossero l’Impero cinese condussero ad un importante trasformazione della società cinese, includendo anche la condizione femminile. Scatenatasi nel 1851, la Rivolta dei Taiping, infatti, rappresentò una delle più estese e radicali rivolte contadine nella storia della Cina imperiale, tanto da sconvolgere profondamente l’assetto della dinastia Qing19, che riuscì a sopprimerla duramente solo nel 1864, con il sostegno militare della Gran Bretagna. Questo movimento, di portata 17. P. Buckley Ebrey, cit. Nel volume di K. Bernhardt, Women and Property in China, 960-1949, Stanford, Stanford University Press, 1999 è esaminato il diritto di proprietà delle donne durante il periodo Song: l’indagine storica della studiosa ha causato una profonda revisione della storia della condizione femminile in Cina. 18. S. Stafutti-E. Sabattini (a curai di), La Cina al femminile. Il ruolo della donna nella cultura cinese, Roma, Aracne, 2013; E. Masi, La condizione delle donne nella Cina imperiale, Roma, Problemi della pedagogia, 1965; P. Ching Chung, cit; D. Eliseeff, La donna nella Cina imperiale, Milano, SugarCo, 1991; P. Buckley Ebrey, “Donne, matrimonio e famiglia nella storia cinese”, in P. S. Roop (a cura di), L’eredità della Cina, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1994. 19. Le tensioni sociali accumulate nel Paese a causa dello sfruttamento dei contadini e per l’umiliante sconfitta nella prima guerra dell’oppio (1839-1842) e la corruzione generale in cui l’Impero versava fecero scoppiare questa ribellione, capeggiata da Hong Xiuquan che, convertito al cristianesimo, creò la società degli adoratori di Dio, fomentando i disordini sociali della provincia meridionale del Guangxi. Qui le rivendicazioni degli hakka (antichi immigrati del nord della Cina), dei contadini e dei piccoli artigiani, colpiti dalle conseguenze del trattato di Nanchino del 1842, scoppiò la rivolta e Hong si affermò come leader politico e militare tra il 1849 e il 1850. Nel gennaio del 1851 proclamò la nascita del “Regno celeste della pace universale” (Taiping Tianguo, 太平 天国 da cui il termine taiping) in cui confluivano alcuni fattori ideologici e filosofici provenienti dal cristianesimo e dalla tradizione cinese. Lo scopo della rivolta era l’abbattimento dei Qing, l’eliminazione del confucianesimo e buddhismo e della posizione di potere incontrastato dei funzionari e dei proprietari terrieri, distribuendo la terra a tutti i contadini per la creazione di in una società egalitaria. Nel 1853 i Taiping attuarono una riforma agraria secondo cui era effettuata la ripartizione delle terre per nucleo familiare, incluse le donne, costituendo così un vero e proprio Stato indipendente, con un proprio esercito. Nel 1855, fallito il tentativo di conquistare Pechin, la guerra civile si protrasse altri dieci anni. La progressiva perdita di consenso, causato dalle rivalità all’interno del movimento Taiping, favorirono le truppe imperiali che vinsero nel 1864 grazie all’aiuto di britannici e francesi. Cfr. H. Schmidt-Glintzer, La Cina contemporanea. Dalle guerre dell’oppio a oggi, Roma, Carocci, 2005; J. A. G. Roberts, Storia della Cina, Milano, Il Mulino, 2007. storica nella Cina della seconda metà dell’Ottocento, si fece promotore di una notevole emancipazione della donna, quasi totale: dalla scelta libera del proprio sposo, all’accesso all’istruzione ed alle tipologie lavorative maschili (addirittura alla cariche politiche ed amministrative) con lo stesso livello di retribuzione; fu inoltre eliminata la pratica del bendaggio dei piedi e del concubinato e le donne potevano muoversi liberamente in tutto il Paese, anche da sole20. La fine della Rivolta non provocò l’immediato ritorno delle tradizioni, nonostante la società cinese rimanesse nel suo complesso fortemente influenzata ai secoli di pratiche discriminatorie e di marginalizzazione verso la donna. La rivolta dei Boxers nel 1900, infatti, radicalizzò le conquiste ottenute precedentemente21. Se questo movimento tra i suoi obiettivi intendeva salvaguardare le tradizioni nazionali cinesi dalla crescente influenza occidentale, dall’altra le donne al loro interno si emanciparono a tal punto da partecipare alle milizie, organizzandosi in reparti divisi per età e livello sociale (rossi per le nubili e le giovani; bianchi per le sposate; verdi per le vedove ed infine neri per le anziane) e distinguendosi per coraggio e determinazione nelle operazioni di combattimento22. Questa condizione si rafforzò con la forzata apertura della tradizione imperiale verso l’Occidente. Un ampio strato di personalità della cultura e della politica tardo imperiale, infatti, si resero conto dell’ineluttabile trasformazione, necessaria alla 20. C. Carpinelli, “La lunga marcia delle donne cinesi per la conquista dei loro diritti”, in Il calendario del popolo, nov. 2008, n. 735; K. Ono, Chinese Women in a Century of Revolution, 1850-1950, Stanford, Stanford University Press, 1989. 21. La ribellione scoppiata in Cina nel 1900, nota come Rivolta dei Boxers, trova le sue radici in diversi avvenimenti del secolo precedente. Tra questi, il trattato di Nanchino e il Trattato di Tiensin che aprivano i porti cinesi agli stranieri. Inoltre, tra il 1894 e il 1895, la Cina fu sconfitta dal Giappone per il dominio sulla Corea: nell’aprile del 1895 fu costretta a firmare la pace di Shimonoseky che la obbligava a pagare un’ingente indennità di guerra e a cedere diversi territori al Giappone. Alla fine dell’Ottocento, in Cina si era formata un’associazione segreta, la Società dei Pugni e dell’Armonia, i cui membri vennero definiti dagli Occidentali Boxers poiché si dedicavano alle arti marziali. La penultima imperatrice cinese, Cixi, fomentò l’odio dei Boxers nei confronti degli occidentali, con conseguenti massacri di europei e cristiani, senza risparmiare i bambini. Fu la stessa imperatrice, il 20 giugno 1900, a spingere i Boxers ad attaccare il quartiere delle ambascerie di Pechino: in quest’occasione fu ucciso il barone e ministro tedesco Von Kettler. La reazione straniera non tardò a giungere e Germania, Austria, Francia, Italia, Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti e Giappone risposero inviando un corpo di spedizione di circa 20.000 uomini, che occupò Tianjin (Tiensin) e, raggiunta Pechino, riuscì senza incontrare particolari difficoltà a liberare gli assediati. Tuttavia massacri, saccheggi e violenze furono incessanti fino a che le navi straniere iniziarono a presidiare le coste settentrionali della Cina nell’aprile del 1900. Numerosi contingenti internazionali furono spedite a Pechino e la ribellione fu definitivamente sedata dall’Alleanza delle otto Paesi: Austria-Ungheria, Francia, Germania, Italia, Giappone, Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America. Cfr. D. Preston, The Boxer Rebellion, New York, Berkley Books, 2000; V. Purcell, La rivolta dei boxer, Milano, Rizzoli, 1972; P. Loti, Gli ultimi giorni di Pechino: reportage della rivolta dei boxer, Padova, Muzzio, 1997. 22. C. Carpinelli, “Primi passi verso i diritti”, in Noi Donne, 4 dicembre 2007. 39 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 modernità del Paese, e tra queste si ricorda l’Imperatrice Cixi, le cui riforme provocarono effetti straordinari nella vita delle donne in Cina. Nel 1898 Cixi si rivolse a Liang Qichao, noto filosofo riformista, per la riordino del sistema educativo, in modo da creare una nuova generazione di giovani colti, preparati e istruiti secondo i modelli occidentali. Liang sostenne con forza l’assoluta necessità di rottura con il passato e di integrazione della donna nell’istruzione moderna23. Le conseguenze di questa trasformazione si manifestarono nelle generazioni delle giovani più abbienti che, insoddisfatte del proprio ruolo limitato e richiuso in vincoli tradizionali ormai obsoleti, chiesero maggiore indipendenza partendo dall’accesso all’istruzione e alle Università (che furono gradualmente aperte anche a loro). L’emancipazione dall’ambiente familiare, il contatto con il sapere scientifico ed umanistico e l’apprendimento delle lingue e delle culture straniere segnò il definitivo ingresso della donna cinese nella modernità del XIX secolo. La fine dell’Impero e la rivolta di Wuchang nel 191124, che portò alla costituzione della Repubblica nazionalista, segnarono la nascita del primo movimento femminile cinese, capeggiato da Qiu Jin, una delle principali leve del movimento studentesco cinese, che si dedicò alla diffusione degli ideali nazionalisti e all’emancipazione della donna, realizzabile, secondo il suo pensiero, partendo dal nucleo principale della società cinese, la famiglia, in cui la donna doveva rivendicare la propria istruzione e il diritto al lavoro e all’indipendenza economica25. Tramite il suo Giornale delle donne (Zhongguonü bao中國女 報) Qiu Jin sottolineava che il contributo delle donne nella società cinese fosse prezioso ed indispensabile, attraverso il lavoro e lo studio. La percezione della “nuova donna” nella società tardo imperiale e repubblicana fu discordante: se da una parte alcuni ne incoraggiavano la lotta per l’emancipazione, consapevoli dei cambiamenti ormai in atto, dall’altra spesso il peso della tradizione familiare non abbandonava le giovani cinesi, le cui famiglie sottolineavano l’importanza di un comportamento che tenesse ancora conto degli antichi precetti tradizionali. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, dunque, la donna cinese poteva contare su esempi di totale emancipazione e libertà, come le giovani che militavano all’interno del movimento nazionalista di Sun Yan Set e che svolgevano professioni tipicamente maschili (come, ad esempio, il medico o il soldato), ma era tuttavia resa “ibrida” dalla cultura tradizionale in cui quotidianamente viveva. Questa condizione, tuttavia, non generò confusione negli obiettivi e soprattutto nella 23. J. Levenson, Liang Ch’i-C’ao and the Mind of Modern China, Los Angeles, University of California Press, 1970; voce “Liang Qichao” in Dizionario di filosofia, Roma, Istituto Enciclopedico Italiano G. Treccani, 2009. 24. Cfr. G. Samarani, La Cina del Novecento, Torino, Einaudi, 2008, pp. 9 e ss.; J. A. G. Roberts, cit., pp. 263 e ss. 25. K. Ono, cit., pp. 60 e ss. 40 portata dei cambiamenti sociali che le donne intendevano rivendicare: una chiara dimostrazione di questo fenomeno è rappresentata dalla nascita di numerose riviste femminili rivolte a tutte le donne, di ogni estrazione sociale, per il loro sostegno, il dibattito contro l’emarginazione e il confronto tra esperienze, esigenze e desideri26. L’avvento del successore di Sun Yan Set, Chiang Kai Shek, provocò una battuta d’arresto nel movimento di emancipazione femminile dato che il governo negò la possibilità di estensione di voto alle donne. La lotta delle donne per l’uguaglianza dei diritti politici e civili, tuttavia, proseguì nel partito nazionalista anche dopo la e una circostanza storica ne consentì il rafforzamento. La presenza giapponese in Manciuria, infatti, generò la nascita del Movimento del 4 maggio27 nel 1919, al quale aderì anche il movimento femminile, tra le cui principali esponenti spiccava Deng Yingchao28, (che nel 1925 sposò Zhou Enlai), che fece della lotta all’indipendenza e alla parità della donna il suo principale obiettivo politico. La maggior parte delle donne cinesi dell’epoca rivendicò il proprio diritto al’uguaglianza grazie al lavoro, nelle fabbriche e nelle campagne, attraverso le associazioni sindacali e le numerose leghe di solidarietà che si costituirono tra il 1919 e il 1949. Ma il principale elemento attraverso cui si sviluppò il movimento di emancipazione femminile divenne nel 1922 il Partito Comunista Cinese, fondato a Shanghai nel 1922, all’interno del quale migliaia di donne si adoperarono con coraggio assumendo ruoli tradizionalmente maschili, soprattutto nella propaganda nelle campagne e nelle fabbriche. All’interno della Lunga Marcia (長征, Chángzhēng)29 delle armate comuniste, intrapresa tra l’ottobre del 1934 e l’ottobre del 1935, prese parte attiva un numero crescente di donne, che si dedicò soprattutto all’istruzione e all’educazione delle contadine nei territori “liberati” dai comunisti30. L’avvento dell’era comunista in Cina determinò un cambiamento fondamentale sia nel movimento femminile e nei suoi sviluppi sia nella condizione delle donne 26. Lu Meiyi - Zheng Yongfu, Il Movimento delle Donne Cinesi,1840-1921, Casa editrice del Popolo di Henan, 1990, pp.128 e ss.; cfr. anche Chen Dongyuan, La Storia della Vita delle Donne Cinesi, hangwu Yinshuguan 1998, pp. 356 e ss. 27. Cfr. G. Samarani, cit. 28. Ya Chen-Chen, The Many Dimensions of Chinese Feminism, Londra, Palgrave MacMillan, 2011, p. 227; Zheng Wang, Women in the Chinese Enlightment: Oral and Textual Histories, Berkeley, University of California Press, 1999, pp. 160 e ss.; T. E. Barlow, The Question of Women in Chinese Feminism, Durham, Duke University Press, 2004. 29. La Lunga Marcia fu intrapresa dall’Armata Rossa cinese per ritirarsi dal Jiangxi allo Shaanxi e per percorrere circa 12.000 km, combattendo, dalle truppe del Guomindang di Chiang Kai Shek. Cfr. G. Samarani, cit., pp. 65 e ss. 30. C. Carpinelli, “Il movimento di liberazione della donna nella Cina di Mao”, in Noidonne, 21 gennaio 2008; L. Landy, Women in the Chinese Revolution, New York, International Socialist, 1974; E. Honig, “Socialist Revolution and Women’s Liberation in China”, in Journal of Asian Studies, vol. XLIV, n. 2, pp. 329-336. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA cinesi poiché stabilì una cesura netta con il passato e con la tradizione millenaria della società cinese di stampo confuciano. Nonostante le numerose conquiste riconosciute e consolidate durante il maoismo, tuttavia, la tradizionale base comportamentale e psicologica nei confronti della figura della donna non fu del tutto eliminata poiché il maoismo non intendeva garantire una parità assoluta tra uomo e donna ma un riconoscimento della possibilità per la donna assumere le posizioni sociali, politiche, economiche e familiari un tempo riservate unicamente agli uomini. Il comunismo cinese, quindi, costruì una società in cui la donna giungeva a diventare come l’uomo, non una in cui la donna, mantenendo la propria specificità di genere, fosse considerata pari all’uomo31. Se da una parte le differenze di genere erano state usate dalla società tradizionale per sottomettere e marginalizzare il mondo femminile, e per questo motivo erano osteggiate dal maoismo, dall’altra la loro eliminazione e negazione provocò una mascolinizzazione della donna nel periodo tra il 1949 e il 1976, con notevoli conseguenze sia sul piano dei comportamenti sociali sia su quello delle relazioni tra i due sessi. Il comunismo cinese, infatti, chiamò la donna ad occupare tutti gli spazi sociali tipicamente maschili, in un processo in cui l’uguaglianza tra i due sessi era garantita dall’eliminazione di tutte le differenze di genere. La lingua cinese, ad esempio fu modificata nelle espressioni considerate “discriminanti” nei confronti delle donne, che furono cancellate dal linguaggio quotidiano; nella scelta dell’abbigliamento, l’uniforme da lavoro e l’assenza di ogni componente ornamentale cambiò profondamente la figura femminile cinese, da sempre caratterizzatasi per l’eleganza e la dolcezza del portamento e dell’aspetto esteriore; infine, sul piano dei rapporti sociali, poiché il lavoro fu considerato il principale strumento per l’ottenimento e il consolidamento della propria indipendenza e dell’“uguaglianza” con l’uomo, il matrimonio e la famiglia divennero obiettivi trascurabili, se non talvolta “erronei”, nella mentalità femminile dell’epoca. Se da una parte l’avvento del maoismo cambiò la percezione sociale del ruolo della donna, totalmente scollegato con la tradizione millenaria cinese (una serie di leggi per garantirono dal 1949 i poi questa condizione, come quella per il diritto di voto e quella sul matrimonio)32, dall’altra non è possibile affermare che nella Cina maoista la condizione femminile fosse realmente egalitaria e 31. E. Honig, cit.; Croll, Chinese Women since Mao, Londra, M. E. Sharpe, 1983. 32. La legge sul matrimonio fu promulgata il 13 aprile 1950 e dichiarò aboliti i matrimoni decisi dai genitori, la poligamia e il concubinato; inoltre proclamò l’uguaglianza dei sessi e legalizzò il divorzio per mutuo consenso. Tra gli altri provvedimenti, fu severamente proibita la prostituzione. E. Honig, cit.; Cfr. J.-L. Domenach-H.Chang-Ming, Le marriage en Chine, Parigi, Presses de l Fondation nationale des sciences politiques, 1987; D. C. Buxbaum, Chinese Family Law and Social Change in Historical and Comparative Perspective, Londra, University of London Press, 1978. paritaria a quella maschile. Infatti sul piano economico e professionale le donne, nonostante l’invito costante svolto dalla retorica di partito a penetrare negli spazi un tempo unicamente maschili, erano ancora discriminate, percependo retribuzioni minori e occupando ruoli e funzioni di livello inferiore nella gerarchia professionale, burocratica e politica. Le donne cinesi, quindi, vivano in una dimensione sociale nella quale, pur godendo di indipendenza e autonomia rispetto a quella di pochi decenni prima, non avevano a disposizione uno spazio sociale veramente accogliente delle proprie esigenze di genere e, pur godendo di pari opportunità, non ricevevano lo stesso trattamento economico degli uomini né gli stessi incarichi professionali33. Ad esempio, la gioia della famiglia, della cura della casa e del proprio partner erano vissute come una rinuncia che la donna moderna doveva assolutamente accettare per dare la priorità alla sua affermazione sociale attraverso il lavoro, potenzialmente uguale a quello maschile ma mai lo stesso nei ruoli, nelle funzioni e nel trattamento economico. In tal modo, quindi, la retorica comunista sradicava le donne dalla loro specificità di genere privandole della possibilità di gustare la realtà della propria dimensione femminile, in nome dell’uguaglianza con l’uomo. Il continuo slancio verso l’uguaglianza di genere che il comunismo prometteva non lasciava spazio alle donne cinesi della possibilità di accorgersi di queste incongruenze e privazioni34. In tal senso un ruolo determinante fu svolto dalla Federazione nazionale delle donne cinesi (中华全国妇女联合会, Zhōnghuá Quánguó Funǚ Liánhéhuì), fondata nel marzo del 1949 con l’obiettivo di garantire parità dei diritti civili, politici e sociali delle donne ma che non fornì una reale voce all’universo femminile di quegli anni, fomentando l’uguaglianza ma non la parità tra i due sessi. Con l’avvento della Rivoluzione Culturale35, l’eliminazione di ogni forma di borghesismo colpì le donne (come gli uomini) considerati nemici della Rivoluzione, per cui soprattutto le personalità più colte e i quadri di partito furono oggetto di violenze, torture e internamenti nei campi di lavoro36. Questa esperienza storica, seppur drammatica e dolorosa, consente di evidenziare quanto profondamente dualistica fosse la condizione femminile nella Repubblica Popolare Cinese di quell’epoca, poiché nelle campagne e nelle zone più isolate del Paese, dove erano posizionati la maggior parte dei laogai (勞改), cioè i campi di rieducazione, la maggior parte delle donne sceglieva la vita in famiglia e in casa, rinunciando alle prospettive offerte dal partito per dedicarsi al matrimonio, ai figli, alla loro dimora e 33. E. Honig, cit.; E. Croll, cit. 34. E. Croll, Changing Identities, cit. 35. E. Croll, Chinese Women since Mao, cit. 36. Idem. 41 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 contribuendo al lavoro nei campi37. Questa dicotomia era il segno della mancanza di percezione obiettiva della propria reale condizione; di tale carenza soffrivano, nel loro presente, la maggior parte delle donne cinesi, soprattutto quelle che dimoravano lontane dai centri urbani e dalle zone costiere (tradizionalmente le aree più sviluppate del Paese). Se da una parte, quindi, la retorica maoista propagandava l’uguaglianza tra i sessi, dall’altra non aveva protetto le donne dall’emarginazione sociale e dagli abusi che proseguivano soprattutto nelle aree più isolate della Cina e nelle campagne. La morte di Mao Zedong, oltre che ad una profonda revisione della dottrina maoista, provocò un altrettanto profondo rinnovamento nel sistema economico e sociale del Paese poiché, come è noto, dal 1976 in poi la Cina si avviò verso la modernizzazione (soprattutto grazie alla dottrina delle quattro modernizzazioni (sì gè xiàndaihuà 四 个 现代化) per affermarsi come grande potenza economica ed internazionale38. La completa revisione della politica comunista ebbe i suoi effetti anche sulla situazione delle donne poiché l’introduzione graduale del capitalismo e successivamente del consumismo determinarono il riapparire di alcuni fenomeni discriminatori, soppressi durante il maoismo, nei confronti delle donne. Se le tendenze della moda e l’accesso a beni di consumo globali caratterizzano la contemporaneità del mondo cinese femminile e si è assistito ad un incremento notevole del numero delle donne laureate e con attività professionali nel mondo dell’imprenditoria e della finanza, negli ultimi quattro decenni è divenuto sempre più evidente che il processo di modernizzazione e di crescita dell’economia ha travolto il mondo femminile. Questo, infatti, durante gli anni del maoismo non era stato socialmente difeso né rafforzato nelle sue differenze di genere, ma “appiattito” su quello maschile secondo il principio dell’uguaglianza. Gli effetti della modernità cinese sono stati drammatici per molte donne poiché hanno provocato nuovamente l’emersione della discriminazione femminile, precedentemente ostacolata dal regime maoista, e tornata ad essere un fenomeno costante della società. La prima, più evidente forma di disparità femminile si è manifestata in ambito lavorativo, poiché le donne sono diventate i soggetti professionali più deboli ed indifesi. Le donne in Cina sono meno retribuite rispetto agli uomini, a parità di incarico; alle donne sono affidate responsabilità professionali meno prestigiose ed infine sono licenziate più dei loro colleghi 37. Idem; H. H. Wu, Laogai: i gulag cinesi, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2006; C. H. Smith, Forced Labor in China: Hearing Before the Committee on International Relations, U.S. House of Representative, Washington D.C., US Government Printing Office, 1998. 38. Le quattro modernizzazioni sono il contenuto principale della riforma promossa nel 1978 da Deng Xiaoping in quattro settori principali: agricoltura, scienza e tecnologia, industria e difesa nazionale. Cfr. M.-C. Bergère, La Cina dal 1949 ai giorni nostri, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 255 e ss.; J.-L. Domenach, Dove va la Cina?, Roma, Carocci, 2005; L. Tomba, Storia della Repubblica popolare cinese, Milano, Mondadori, 2002, pp. 141 e ss.; G. Samarani, cit., pp. 301 e ss.. 42 maschi poiché i datori di lavoro considerano elevato il costo della maternità (i tre mesi successivi al parto sono interamente retribuiti e a carico del datore di lavoro, che si assume anche l’onere di altre forme di assistenza)39. Nelle campagne il lavoro femminile è ancora svolto in condizioni precarie (a causa della scomparsa dei servizi sociali e dei presidi sanitari, un tempo esistenti grazie ai fondi messi a disposizione dalle unità collettive di lavoro) e a questo si aggiunge il carico della cura della casa e della prole40; l’aumento degli uxoricidi e degli infanticidi femminili (soprattutto a causa dell’introduzione nel 1979 della “politica del figlio unico”, jìhuà shēngyù zhèngcè计 划 生育 政策, letteralmente “politica di pianificazione familiare”41) ha determinato una vera e propria emergenza sociale, con conseguenze gravissime per l’intera società cinese che nei primi anni Duemila conta un numero superiore di uomini rispetto alle donne. Nonostante le politiche del governo abbiano fomentato una vasta compagna contro l’infanticidio e l’uxoricidio, soprattutto nelle zone rurali, la partecipazione delle giovani donne alla vita economica, politica e sociale del Paese è ancora impari rispetto a quella maschile42. Un chiaro esempio delle discriminazioni femminili contro cui il governo volle battersi è dato dal testo relativo alla legge sul matrimonio, varato nel 1980, all’interno del quale furono inserite dettagliate disposizioni che proibivano il maltrattamento e l’uccisione delle bambine e delle mogli. Fenomeni di emarginazione come la prostituzione, la vendita e la tratta di esseri umani e il fenomeno della “vendita delle mogli” (拐卖, guǎi mài, che letteralmente significa “rapimento e vendita”, causato dalla minore presenza di donne rispetto agli uomini e dalla necessità della figura femminile per il lavoro in casa e, nelle province più lontane, anche nei campi)43, sovente nascosti e segretamente sostenuti dalle autorità di pubblica sicurezza locali, ha generato l’esigenza di un intervento più massiccio del governo che, oltre ad eliminare nel 2013 39. E. Croll, cit.; From Heaven to Earth: Images and Experiences of Development in China, Londra, Routledge, 1994; J. Banister, China’s Changing Population, Stanford, Stanford university Press, 1991; D. K. Tatlow, “For China’s Women More Opportunities, More Pitfalls, in NYTimes, 25 novembre 2010. 40. M. Miranda, “La Quarta Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sulle Donne e la condizione della donna in Cina”, in Mondo Cinese, n. 90, sett.-dic. 1995. 41. Si tratta di una delle politiche principali di controllo delle nascite attuata dal governo cinese per contrastare il notevole incremento demografico del paese, più volte sottoposta a revisione. Cfr. E. Croll, China’s one-child Family Policy, Londra, MacMillan Press, 1985; H. H. Wu, Strage di innocenti: la politica del figlio unico in Cina, Milano, Guerini e Associati, 2009. 42. C. Viglione, “L’altra metà del cielo. Chiacchierata sulla condizione della donna nella Cina di fine millennio”, in Frammenti d’Oriente, febbraio 1998; E. J. Perry-M. Selden, Chinese Society: change, conflict and resistance, Londra, Routledge, 2010, pp. 162 e ss.; “Gender Equality and Women’s Development in China”, in China.org.cn/english/2005/ Aug/139404.htm. 43. R. Foot, China across the Divide: The Domestic and Global politics and the Society, Oxford, Oxford University Press, 2013, p. 145. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA la politica del figlio unico, ha provveduto a rafforzare l’attività di lavoro ed indagine della Federazione nazionale delle donne cinesi44. Nel corso della Quarta conferenza mondiale sulle donne organizzata dall’ONU a Pechino nel 1995, le dichiarazioni del governo cinese sono state decise nello stabilire che lo sviluppo della condizione femminile è un requisito fondamentale per la costruzione della società armoniosa; che la conoscenza e la soluzione dei problemi delle donne rappresenta il sistema migliore per salvaguardare questa armonia nel lungo periodo; che la promozione dello sviluppo della condizione della donna attraverso politiche armoniose di controllo è il canale principale per prevenire gli squilibri sociali45. Un aspetto positivo registratosi negli ultimi due decenni è rappresentato dall’aumento di consapevolezza della propria condizione da parte delle donne cinesi: la Federazione nazionale è diventata più influente sul governo e soprattutto più incisiva come “voce” nazionale delle donne, ed oltre a questa associazione operano nuovi gruppi femminili autonomi, sorti spontaneamente soprattutto nei principali centri urbani. Le donne cinesi, quindi, sono diventate coscienti della duplicità della visione a loro riservata dalla società della Cina modernizzata, che da una parte le lascia libere e ne consente la realizzazione come esseri umani indipendenti ed autonomi ma che, dall’altra parte, continua a discriminarle e a sfruttarle. Parallelamente esse iniziano a percepire la propria coscienza individuale e a proteggerla, riscoprendo la propria femminilità e il proprio ruolo di 44. J. Howell, “The struggle for survival: Prospects for the Women’s Federation in Post-Mao China” in World Development, n. 1, 1996, pp. 129-143; L. Bohong, The All-China Women’s Federation and Women’s NGOs. Chinese Women Organizing: Cadres, Feminist, Muslims, Queers, Oxford, Berg, 2001. 45. M. Miranda, cit.; I. Attané, cit., p. 6. madri, mogli o nubili nella società e nella famiglia, grazie al maggiore benessere economico e al consumismo. Nonostante l’azione del governo debba essere più estesa ed efficiente a favore della parità di genere,l’ex presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu Jingtao ha riconosciuto pubblicamente la persistenza di notevoli disparità tra i due sessi46: questa dichiarazione deve essere inquadrata nel processo, ancora in atto, di legittimazione della Cina al rango di grande potenza mondiale, raggiungibile, secondo la classe dirigete cinese, solo se il Paese avesse aderito al rispetto e alla tutela dei principali diritti umani e civili riconosciuti dalla comunità internazionale, tra cui si annoverano quelli relativi al miglioramento della condizione femminile. Tuttavia misure efficienti del governo cinese sono ancora largamente assenti, soprattutto contro la discriminazione sul lavoro, sulle pratiche di tratta umana delle donne, sul lavoro femminile sommerso nelle aree rurali47. Nella Cina attuale emerge che le disuguaglianze di genere si estendono anche all’assistenza sanitaria, alla rappresentanza politica e al lavoro imprenditoriale (le cosiddette “quote rosa”) e alla sfera privata sulla base di decisioni e consuetudini che, ancora oggi, traggono origine dalle famiglie48. Il sistema sociale cinese, quindi, presenta un accesso alle opportunità economiche e sociali per donne che è ancora sostanzialmente differente rispetto a quello per gli uomini. Inoltre molto importante è la forte disuguaglianza della condizione tra donne stesse, a seconda che esse risiedano e 46. I. Attané, cit., p. 7. 47. M. Miranda, cit. 48. I. Attané-C. Guilmoto, Watering the Neighbor’s Garden: the Growing Demographic Female Deficit in Asia, Parigi, Cicred, 2007, pp. 207-228. 43 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 vivano in differenti aree del Paese49. Un indice di particolare rilievo è rappresentato dal livello di istruzione primaria, che risulta essere inferiore per le bambine, soprattutto quelle nate nelle aree rurali50. L’istruzione secondaria e quella secondaria superiore, nonostante un incremento registratosi tra il 1990 e il 2010, resta ancora appannaggio di un numero limitato di giovani cinesi, per cui la durata media degli anni di istruzione obbligatoria nel 2010 per le donne è di circa l’8,8%, per gli uomini arriva al 9,1%51. Un’indagine più accurata, svolta in riferimento all’anno 2000 dalla Federazione nazionale delle donne cinesi, ha evidenziato che il tasso medio di abbandono degli studi è più alto per le giovani (36,8%) che non per i loro coetanei di sesso maschile (27,9%), rilevando che generalmente le famiglie, nel caso in cui incorrano in difficoltà economiche, considerano l’istruzione inutile per le fanciulle e non per i figli maschi52. Altro elemento rivelatore della condizione di disuguaglianza femminile in Cina è rappresentato dal tasso di occupazione: nel 2010 ammonta al 73,6% per le donne contro l’88,7% per gli uomini di fascia d’età compresa tra i 20 e i 59 anni, con una diminuzione del primo nelle aree urbane (il 60,8% delle donne è impiegato rispetto all’81,1% degli uomini). Nelle campagne, invece, il tasso di impiego femminile sale all’84,4% per le donne (contro il 94,3% di quello maschile)53. Perciò, nonostante una complessiva disparità nel mondo del lavoro, le donne sono più facilmente impiegate nelle campagne che non nelle grandi città, dove esistono opportunità professionali di maggiore responsabilità e più remunerative. Un’élite di donne-manager, con altissime remunerazioni e patrimoni miliardari, è presente in Cina ma rappresenta più il simbolo irraggiungibile ed inimitabile degli effetti della crescita economica cinese che un esempio concreto per i milioni di donne che vivono in condizioni economiche e professionali più limitate se non addirittura precarie. Queste disuguaglianze sopravvivono in Cina nonostante le garanzie costituzionali e legali che il governo riconosce al lavoro femminile54. Risultati più evidenti si ottengono attraverso un’analisi statistica relativa alla percezione della qualità del lavoro, secondo cui sul piano lavorativo le competenze professionali delle donne sono meno valorizzate rispetto 49. I. Attané, Êntre femme en Chine, cit., p. 7. 50. All Chinese Women Federation (ACWF), Executive Report of the third Sample Survey on Chinese Women’s Social Status, vol. 6, n. 108, 2011, pp. 5 e ss. 51. Idem. 52. ACWF, Executive Report of the second Sample Survey on Chinese Women’s Social Status, 2001. 53. ACWF, Executive Report of the third Sample Survey on Chinese Women’s Social Status, cit. 54. J. Burnett, “Women Employment Rights in China: Creating Harmony for Women in the Workplace”, in Indiana Journal of Legal Studies, vol. 17, n. 2, 2010, pp. 289 e ss.; I. Attané, cit., pp. 8-9. 44 a quelle degli uomini. Da questa indagine, infatti, risulta che secondo la maggior parte degli intervistati le capacità lavorative maschili sono naturalmente superiori rispetto a quelle femminili55. Le cause di questa “naturale” differenza risiederebbero anzitutto nelle competenze femminili, generalmente giudicate limitate; segue la resistenza fisica, valutata insufficiente rispetto a quella maschile; solo una piccola percentuale del campione di intervistati ritiene che le prospettive di carriera per le donne cinesi siano effettivamente più modeste rispetto a quelle di accesso maschile56. Un dato positivo è offerto dal fatto per cui, all’interno del campione, le donne intervistate mostrano una forte consapevolezza della propria condizione, ammettendo che le loro opportunità di lavoro non sono affatto equivalenti a quelle maschili, né nelle competenze, né nelle retribuzioni ed infine nemmeno nelle prospettive di carriera57. Sulla base di questi risultati statistici, è evidente che la società cinese sia rimasta ancorata alla tradizionale visione di inferiorità della donna rispetto all’uomo, ulteriormente rafforzata dalla considerazione generale per cui gli uomini sono predisposti alla vita sociale e professionale e le donne alla cura della famiglia58. Gli effetti reali di questa valutazione, generalmente condivisa nella società cinese, sono rappresentati da una forte interiorizzazione, nel mondo femminile, della dominazione maschile; questo peso è tuttavia foriero di un crescente senso di insicurezza delle donne sul lavoro e nella vita sociale, aggravata dall’eco della crisi economica internazionale degli anni Duemila59. La sfera privata rappresenta una dimensione in cui la donna cinese assume un ruolo ambivalente: se da una parte la donna cinese moderna essa partecipa attivamente alle decisioni familiari e vive liberamente la propria femminilità, senza la necessaria ed obbligatoria osservanza di “virtù” o “obbedienze”, dall’altra parte rimane inesorabilmente influenzata dalle considerazioni generali che su di lei la società proietta60. Anche in questo caso, i risultati presentati dalle indagini statistiche condotte dalla Federazione nazionale delle donne cinesi sono particolarmente rivelatori. Sebbene tre donne su quattro partecipino attivamente a decisioni di natura economica e 55. W. Guoying, “Gender Comparision of Employment and Career Development in China”, in Asian Women, vol. 27, n. 1, 2011, p. 95 e ss.; ACWF, Report of the second Sample Survey on Chinese Women’s Social Status, cit. 56. I. Attané, cit., p. 9. 57. Population Census Office and National Bureau of Statistics of China, Tabulation on the 1990 Population Census of the People’s Republic of China, Pechino, 1993; National Statistics Office, Data of the 2005 1% Sample Survey, Pechino, 2005. 58. ACWF, Executive Report of the third Sample Survey on Chinese Women’s Social Status, cit. 59. Zuo Jiping-Bian Yanjie, “Gender Resources, Division of Housework and Percieved Fairness-Case in Urban China, in Journal of Marriage and Family, vol. 63, n. 4, 2001, pp. 1122 e ss.N. 42 p. 9. 60. I. Attané, cit., p. 10. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA finanziaria relative al ménage familiare, dall’altra parte il loro accesso alle risorse finanziarie familiari è decisamente più limitato rispetto a quello maschile, sopravvivendo la tradizione sociale per cui è privilegiato il lignaggio maschile61. La percentuale di tempo dedicata al lavoro domestico risulta essere maggiore per le donne, nonostante siano impiegate stabilmente, che non per gli uomini (anche in questo caso nelle aree rurali le donne si dedicano maggiormente al lavoro domestico che non le loro concittadine residenti nelle aree urbane). Il lavoro domestico femminile è aumentato tra il 2000 e il 2010, soprattutto a causa della crisi economica internazionale, passando dal 70,2% al 70,3% per le donne che vivono nelle aree urbane e dal 73,9% al 74,1% per coloro che vivono nei centri urbani62. Dal quadro finora tracciato, la discriminazione nell’accesso alle risorse educative, finanziarie, patrimoniali e professionali per le donne cinesi, fenomeno generato dalla persistenza nella società cinese di una tradizionale marginalizzazione della donna, sta provocando un incremento della disparità di genere, nonostante gli indubbi progressi, consolidati dagli anni Cinquanta in poi, verso una maggiore autonomia femminile. La realtà delle donne cinesi di oggi, quindi, è ancora caratterizzata dalla dipendenza dal mondo maschile e dalla disuguaglianza rispetto ad esso. Questa condizione è certamente paradossale rispetto alla corsa verso la modernità che la Cina contemporanea effettua da quasi quattro decenni ma rischia di provocare effetti molto seri sull’equilibrio generale della società stessa63. Una delle principali conseguenze dell’emarginazione femminile, come è già stato osservato, è la minore presenza di donne rispetto agli uomini in Cina: nel 2010, il numero di uomini di età compresa tra i 15 e i 59 anni ogni 100 donne era di 107,2 e, se non si assisterà ad un incremento delle nascite femminili, nel 2050 questo dato arriverà al 116,364. Tenendo presente che il fenomeno del celibato in Cina è abbastanza diffuso, ma ancora contenuto, un suo rafforzamento non solo diminuirebbe il numero di matrimoni e quindi di nuove nascite (poiché nella Cina contemporanea il legame coniugale rappresenta il principale contesto sociale finalizzato alla procreazione, essendo le convivenze e la condizione di genitore single fenomeni ancora poco diffusi su una popolazione di oltre 2 miliardi e mezzo di persone)65 ma indurrebbe una 61. ACWF, cit.; J. L. Osburg, Engendering Wealth in China: New’s Rich of the Rise of an Elite Masculinity, Chicago, The University of Chicago Press, 2008; I. Attané-C. Guilmoto, cit. 62. ACWF, cit. 63. I. Attané, Êntre femme en Chine, cit. p. 14. 64. UN-WPP, World Population Prospect. The 2010 Revision, New York, United Nations, 2011. 65. H. Evans, Women and Sexuality in China, New York, Continuum, 1997; Yuen Sun-Pong – Law Pui-Lam – Ho Yuying, Marriage, Gender and Sex in a Contemporary Village, New York, E. Sharpe, 2004. massiccia emigrazione dei celibi cinesi verso Paesi vicini. La riduzione della natalità e quindi il rallentamento della crescita della popolazione dovuta a questo fenomeno apre uno scenario sociale certamente inesplorato nella Repubblica Popolare Cinese. Tuttavia una marcata o definitiva prevalenza numerica degli uomini sulle donne (provocata dalla debolezza dello status femminile rispetto a quello maschile), renderebbe la condizione femminile ancora più fragile e precaria, con una possibile contrazione delle conquiste di libertà ed indipendenza finora ottenute non solo in seno alla famiglia ma anche nella società intera66. Ulteriori effetti sono possibili anche nelle relazioni di genere e nei rapporti tra i rispettivi status poiché la società cinese è ancora legata al vincolo matrimoniale come principale condizione non solo per la creazione di una futura famiglia ma anche per l’esercizio della sessualità67. La dicotomia tra uomini sposati e celibi, quindi, tenderebbe a rafforzarsi nel caso di un tasso della popolazione femminile in contrazione, poiché quest’ultimo fattore potrebbe indurre alla radicalizzazione della competizione tra i diversi gruppi maschili. In particolare, gli uomini celibi delle classi meno abbienti sarebbero, in condizioni di ipergamia femminile, più svantaggiati rispetto a quelli degli strati sociali più elevati nel riuscire a sposarsi. I più benestanti, a causa della migliore condizione economica, godrebbero di un livello di accesso maggiore al matrimonio68. La diminuzione della popolazione femminile in età matrimoniale, quindi, oltre a determinare un rafforzamento dello status degli uomini delle classi sociali più agiate rispetto ai meno abbienti, con un evidente disparità sociale tra gruppi, provocherebbe un ulteriore effetto: quello di trasformare la possibilità di vivere in coppia e di avere accesso ad una partner in un indicatore di status economico69. Si tratta di scenari potenziali e certamente in conflitto con il progetto di héxié shèhui cinese ma che, essendo riconducibili alla discriminazione delle donne, possono contaminare seriamente l’equilibrio complessivo della società cinese. Il semplice fatto che, al di là delle possibili prospettive future, la marginalizzazione femminile sia praticata nella Cina di oggi nei confronti di un gruppo di genere molto debole e fragile come quello delle donne rende l’obiettivo della società armoniosa ancora da consolidare. Nonostante questo progetto, infatti, la condizione di disparità femminile, come la persistenza di altre forme di discriminazione e di squilibrio sociale nella Cina di oggi, è causata, come ha evidenziato da JeanLuc Domenach, dal fatto che la società cinese attuale è caratterizzata da una dimensione di “fiducia contrattata” tra i cinesi e la classe dirigente. La dimensione sociale 66. R. Collins, “A Conflict Theory of Sexual Stratification”, in Social Problems, vol. 19, n. 1, 1974, pp. 3 e ss. 67. J. McMillan, Sex, Science and Morality in China, Londra-New York, Routledge, 2006. 68. I. Attané, cit. p. 15. 69. Idem. 45 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 cinese è “inviluppata”, cioè dominata da un meccanismo di controllo dall’alto verso il basso, determinato da una dilatazione del potere del partito attraverso lo Stato70. In questo modo l’élite dirigente riesce a distribuire adeguatamente (e senza compromettere l’unità dello Stato stesso né del proprio potere) lo spazio dei fenomeni sociali. In Cina, quindi, coesistono disuguaglianze intrasettoriali e trasversali agli strati sociali la cui presenza si rende indispensabile per consolidare il ruolo di arbitro e di guida dello Stato (e quindi della classe dirigente). La persistenza di tali diversità rappresenta, quindi, un “male necessario” della società cinese attuale perché rende fondamentale il ruolo e la funzione di constante controllo e monitoraggio dell’élite di governo71. Le autorità politiche riescono ad evitare che la società civile non si frammenti a causa delle disuguaglianze esistenti (né si organizzi in modo autonomo) sviluppando e rafforzando politiche sociali a livello nazionale. Come affermato anche da Yves Chevrier, nonostante il disegno di società armoniosa, la disgregazione sociale nella Cina di oggi rappresenta la condizione necessaria per il mantenimento del potere del partito e per la costruzione di quello dello Stato72. Questo stesso riempie tutti gli spazi sociali e non lascia libero corso ad autonomie “non ufficiali” (cioè 70. J.-L. Domenach, cit., p. 259 e ss. 71. Idem. 72. Y. Chevrier, “L’Empire distendu: esquisse du politique en Chine des Qing à Deng Xiaoping”, in J.-F. Bayart, La greffe de l’Etat, Karthala, Parigi, 1996, pp. 265-395. 46 movimenti spontaneamente sorti che non siano però registrati e quindi riconosciuti dalle autorità politiche stesse). Per questi motivi la condizione di precarietà e disagio femminile resta ancora irrisolta nel paese che risulta essere la più grande potenza economica asiatica e che da quattro decenni è lanciato verso la modernizzazione: come in altri casi di disuguaglianze e frammentazioni sociali attualmente in essere in Cina, anche la controversa situazione di marginalizzazione femminile è riconducibile alla confusione di interessi diversi, nata dall’incontro tra individui e gruppi sociali73. Come osservato, questo incontro non si sviluppa mai in un campo anarchico bensì in uno spazio sociale controllato, generando il bisogno di un arbitro (il partito attraverso lo Stato), che prometta fiducia e stabilità in una dimensione sociale presente ed una futura. A differenza del passato maoista, il moderno progetto di armonizzazione e di controllo delle frammentazioni sociali non si configura più come “pubblico” ma esclusivamente “privato” perché rivolto alla nuova e popolosa società di soggetti cinese. 73. Idem. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Il ruolo dei militari nella crisi di un regime. Cile 1970-1973 GAETANO OLIVA Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Istituto Universitario “Carolina Albasio” di Castellanza (VA) PREMESSA Q uesto lavoro intende analizzare come e perché le Forze Armate cilene, “costituzionaliste” e tradizionalmente apolitiche, assunsero il potere nel 1973. Inoltre vuole spiegare il ruolo tradizionale avuto dalle Forze Armate cilene, secondo la Costituzione del 1925 e il relativo ordinamento giuridico, e le relazioni delle Forze Armate col potere civile, rilevando la loro apparente apoliticità e mettendo in risalto le norme legislative che regolano tali relazioni. Il 9 ottobre 1969 i rappresentanti dei partiti comunista, socialista, radicale, del MAPU (Movimento d’azione popolare unitaria – l’ala cosiddetta “rebelde” della DC), del piccolo Partito socialdemocratico e di un raggruppamento d’indipendenti di sinistra (API), si incontrarono nella sede del Partito socialista e crearono un comitato di coordinamento incaricato di elaborare un programma e di trovare un accordo per la presentazione di un candidato comune alle elezioni presidenziali del 1970. Qualche mese dopo, il 17 dicembre 1969 fu comunicato il programma con cui la coalizione delle sinistre (UP – Unidad Popular) intendeva presentarsi allo scontro elettorale. Il manifesto politico di UP si apriva con la seguente dichiarazione: Il programma di Unità Popolare Il potere popolare. — I cambiamenti rivoluzionari di cui il paese ha bisogno potranno essere realizzati soltanto se il popolo cileno prenderà il potere e lo eserciterà effettivamente. Il popolo cileno ha conquistato, attraverso un lungo processo di lotte, determinate libertà e garanzie democratiche la cui difesa richiede una costante vigilanza e lotta. Ma non ha conquistato il potere. Le forze popolari e rivoluzionarie non si sono unite per lottare per la semplice sostituzione di un presidente della repubblica con un altro, né per rimpiazzare al governo un partito con un altro, bensì per realizzare i cambiamenti di fondo che la situazione nazionale esige contando sul trapasso del potere dagli antichi gruppi dominanti ai lavoratori, ai contadini e ai settori progressisti delle classi medie delle città e delle campagne. Il trionfo popolare aprirà così la via al regime politico più democratico della storia del paese. In materia di struttura politica il governo popolare ha il duplice compito di: - preservare e rendere più effettivi i diritti democratici e le conquiste dei lavoratori; - trasformare le attuali istituzioni per fondare un nuovo Stato in cui i lavoratori e il popolo abbiano l’esercizio reale del potere.1 Le forze popolari avevano come scopo della loro politica quello di rimpiazzare la struttura economica esistente, mettendo fine al potere del capitale monopolistico nazionale e straniero per avviare la costruzione del socialismo in Cile. Dopo laboriose trattative per la scelta di un candidato presidente comune, la coalizione di UP il 22 gennaio 1970 scelse il nome di Salvador Allende già candidato per il partito socialista nelle elezioni del 1958 e del 1964. Le lezioni del 4 settembre 1970, che si svolsero dopo una campagna elettorale particolarmente accesa, decretarono la vittoria di stretta misura di Unidad Popular e del suo candidato Salvator Allende. Un fatto nuovo e per molti versi unico nella storia politica, non solo del Cile. Per la prima volta, infatti, un presidente espressione di una coalizione di forze di sinistra, era stato portato al potere da una vittoria elettorale ottenuta sulla base di un programma di radicali riforme strutturali. Ma secondo la Costituzione cilena del 1925, non avendo nessun candidato ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, spettava al Congresso scegliere, entro 50 giorni, fra i due candidati che avevano ottenuto il maggior numero di consensi.2 La borghesia cilena e una parte della DC con a capo il presidente uscente Frei erano state colte di sorpresa dalla vittoria di Allende e reagirono con estrema durezza e aggressivi1 Programma di Unità Popolare in AA.VV., Il Cile. Saggi, documenti, interviste, Roma, Editrice «Il Manifesto», 1973, p. 244. 2 Nel Congresso le forze politiche erano così ripartite: DC 75 fra deputati e senatori, UP 80, Destra 45. 47 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 tà. Nei due mesi che separarono le lezioni dalla ratifica del Congresso, la destra usò tutte le armi possibili per impedire le elezioni di Allende, compresa quella del terrorismo economico. Iniziò una campagna coordinata di sabotaggio economico: furono prelevati dalle banche cilene e trasferiti all’estero 650 milioni di escudos, migliaia di capi di bestiame attraversarono l’Argentina nel sud del paese, molte imprese rallentarono la produzione, sospesero le vendite a credito, arrestarono l’acquisto di materie prime e di pezzi di ricambio, sospesero dal lavoro gli operai. Tale campagna trovò ampia risonanza su tutta la stampa conservatrice che cercò con ogni mezzo di diffondere il panico nell’opinione pubblica e di ingene- Salvador Allende rare una sorta di psicosi collettiva circa le conseguenze disastrose che avrebbe avuto per l’economia cilena l’avvento di un governo socialista. Si tentava con questi mezzi di esercitare pressioni sulla DC e sulle Forze Armate, incitandole a impedire l’elezione di Allende.3 A tale proposito sono indicative le parole del Generale Schneider Comandante in Capo dell’Esercito cileno: Esa intervención en política esta fuera de todas nuestras doctrinas. Somos garantes de un proceso legal en el que se funda toda la vida constitucional del país. Por ello no se puede permitir que se realicen tales actividades. Es nuestra doctrina garantizar la estabilidad interna y a ello deben tender todos nuestros esfuerzos y es una razón poderosa por la cual no debemos tener preferencia por ninguna tendencia, candidatura o partido. […] Insisto en que nuestra doctrina y misión es de respaldo y respeto a la Constitución Política del Estado. De acuerdo con ella el Congreso dueño y soberano en el caso mencionado y es misión nuestra hacer que sea respetado en su decisión. Si se producen hechos anormales nuestra obligación es evitar que ello impidan que se cumpla lo que indica la Constitución. El Ejército va a garantizar el veredicto constitucional.4 48 nale ed esse diventano “i protettori armati” della nazione. Su misión durante la paz es contribuir al progreso general y a la instrucción de las clases menos preparadas, a la vez que garantir el funcionamiento de las instituciones y el respeto a las leyes siendo en caso de guerra el mejor exponente de la virilidad del país y el firme baluarte en que ha de estrellarse la ambición y la audacia de los que pretenden desconocer sus derechos u hollar su libertad.5 I concetti di “difesa del territorio” e di “protettori armati della nazione” sono equivoci. Il territorio nazionale, senza i relativi abitanti, è una specie di recipiente vuoto e può non avere un rilevante valore umano. A sua volta il concetto di “nazione” può essere un’astrazione, se si prescinde dal popolo che le dà concretezza e valore; e in questo modo le parole “protettori armati della nazione” possono essere una frase vuota. Di fatto nelle nazioni democratiche la difesa del territorio nazionale coincide con la difesa degli interessi, soprattutto economici, delle classi dominanti. A tale proposito si è voluto osservare le origini e l’evoluzione delle Forze Armate cilene e delle loro istituzioni e in particolar modo la loro ideologia, trattando inoltre i problemi di difesa nazionale del Cile e l’uso delle risorse. El desarrollo material de las Fuerzas Armadas, de su equipamiento, le su poderío bélico, estaba fuertemente exigido por la inercia de su propio proceso de modernización. Su modernización constante dependía enteramente, in embargo, de las posibilidades de equipamiento provenientes de la producción bélica de los países industriales desarrollados. En este sentido, el desarrollo que ellas alcanzaban no estaba sustentado en la producción interna, en el desarrollo de las fuerzas productivas nacionales, y tendía, por tanto, a crearse un hiato entre la modernización castrense y el desenvolvimiento de las fuerzas productivas internas. Este no se expresaba en el desarrollo de las Fuerzas Armadas. Mas bien, el nivel alcanzado por ellas expresaba una situación divorciada respecto de su base material en la sociedad: “con sus cascos en punta, sus monóculos y sus mostachos, pero sin industria pesada y sin mercados de capitales extranjeros por conquistar”.6 In tutte le nazioni o stati che possiedono un ordinamento economico, sociale e politico democratico, il ruolo delle Forze Armate si fonda sul concetto di difesa del territorio nazio- Le Forze Armate di ogni società civile, organizzata secondo lo schema dei moderni stati democratici, hanno avuto la 3 Il 24 ottobre 1970 il Congresso cileno eleggeva Allende Presidente con 153 voti contro i 35 a Alesandri candidato delle destre. Il martedì 3 novembre Allende assumeva ufficialmente la carica insieme al governo da lui nominato. 4 Internista al Comandante in Capo dell’esercito cileno il Generale René Schneider riportata dal giornale «El Mercurio» l’8 maggio 1970. Il contenuto di tutta l’intervista fu definita dalla stampa dell’epoca la “Dottrina Schneider”. Il fondamento di tale dottrina si basa sulla interpretazione del concetto di subordinazione delle Forze Armate al potere civile, in uno stato di diritto, cioè le istituzioni armate sono professionali, gerarchizzate, disciplinate, obbedienti e non deliberanti. 5 Augusto Varas, Felipe Agüero, El Desarrollo Doctrinario de las Fuerzas Armadas Chilenas, Ed. Andres Bello, Santiago, 1979, p. 3. Le considerazioni riportate dagli autori sono tratte da una conferenza dal titolo La Defensa Nacional, tenuta presso l’Università del Cile nel 1917 dal Colonnello dell’esercito cileno Mariano Navarrete. Successivamente pubblicata nel «Memorial del Ejército», n. 358, novembre-dicembre 1970. 6 Augusto Varas, Felipe Agüero, Fernando Bustamante, Chile Democrazia Fuerzas Armadas, Santiago, FLACSO, 1980, pp. 31-32. Le frasi comprese tra le “” sono state riportate da Alain Joxe, Las Fuerzas Armadas en el sistema politico chileno, Santiago, Ed. Universitaria, 1970, p. 51. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA fondamentale funzione di difendere gli interessi delle classi dominanti e sono state sempre i difensori armati di tali interessi. El desarrollo del hombre en el cuartel aumenta triplemente el capital hombre: el desarrollo físico, (más resistencia para el trabajo y mayores horas para producir), desarrollo intelectual (mejor calidad de producción y mayor producción), desarrollo moral (más honradez para producir, exactitud en el trabajo, etc.). Todo redunda a favor de la producción, cuyo aumento es auge económico. El Ejército con su existencia, da seguridad a la industria y al comercio que pueden desarrollarse tranquilamente.7 Nel 1970 in Cile fu eletto un governo costituito da un’alleanza di forze politiche di Unità Popolare. Nel testo si cercherà di spiegare la politica e gli avvenimenti del governo di Unidad Popular: esaminando gli eventi cileni tra il 1970 e il 1973, tracciando semplicemente il loro contesto storico politico e i passi tattici fatti dai diversi settori della società cilena, evidenziando come il corpo dei capi militari cileni sia passato dall’apparente apoliticità al decisivo intervento armato contro il legittimo potere di UP. Considerábamos la neutralización del Ejército, su no intervención contra el movimiento popular, como condición necesaria y suficiente para la conquista del Gobierno, como ocurrió efectivamente. Luego, con el Gobierno en las manos, pensábamos que seriamos capaces de modificar el carácter de las FF. AA., contando con una correlación de fuerzas favorables en el país y apoyándonos en los sectores democráticos de las instituciones militares. Esta concepción se mostró insuficiente. De hecho, aunque tenía en cuenta el carácter de clase de las FF. AA., lo subvaloraba.8 In una nazione democratica che possiede un esercito efficiente, viene a determinarsi un “assurdo storico” nel momento in cui il relativo ordinamento economico, sociale e politico è radicalmente modificato. Anche se molti capi militari erano pienamente convinti del rispetto per la Costituzione e per la suprema autorità legittimamente costituita, la loro devozione a essa e la loro cieca e militaresca obbedienza al Capo dello Stato furono messe in crisi dall’incalzare degli eventi. Aún así, desafortunadamente, tenemos grupos de ciudadanos que, al margen de la ley, tratan de quebrar nuestra Institucionalidad, creando en menor o mayor medida, angustias, dudas e intranquilidad en los integrantes de nuestra sociedad. La solución es principalmente POLITICA, y es nuestro Gobierno, legalmente constituido quien debe buscar las soluciones más adecuadas, considerando algo que constituye un defecto del sistema democrático, cual es el ROBUSTECIMIENTO DE LOS PRINCIPIOS DE AUTORIDAD. El eterno problema del sistema democrático está en plena vigencia en nuestro país. HASTA DONDE CADA INDIVIDUO ES LIBRE DE HACER LO QUE LE PLAZCA SIN QUE ATROPELLE EL DERECHO DE LOS DEMAS Y PONGA EN PELIGRO NUESTRO SISTEMA DE VIDA. Si la acción de una parte de la sociedad chilena rebasa todos los lími- 7 Colonnello Agustín Benedicto, El Ejército en el Estado Moderno, «Memorial del Ejército», Santiago, Año XVIII, Febrero 1929, p. 138. 8 Ivi, p. 209. Gli autori hanno riportato la relazione presentata al Comitato Centrale del Partito Comunista cileno dal Segretario Generale Luis Corvalán nell’agosto del 1977. Pubblicata in seguito nell’Edizione Colo-Colo, 1978, p. 29. tes legales; el Gobierno y las Fuerzas de Orden tienen la obligación de mantener el orden interno a todo trance.9 Molti capi militari, che erano maggiormente condizionati dallo spirito di classe o dai privilegi economici e sociali della classe, cui appartenevano per nascita o per acquisizione; sfruttarono abilmente tutte le circostanze concrete, che la situazione politica determinò degenerando in tutto il paese, occupando il posto dei colleghi entrati in crisi e diventarono gli alfieri della “difesa del territorio nazionale” o della “sicurezza nazionale”. LA SICUREZZA NAZIONALE Può sembrare strano che le Forze Armate cilene, “costituzionaliste” e tradizionalmente apolitiche, abbiano assunto il potere nel settembre del 1973. Analizzando però diversi aspetti di “le Forze Armate cilene”, si comprende che la presa del potere da parte dei militari fu il prodotto quasi spontaneo di una serie di fattori, che si vogliono considerare in questo capitolo. Il punto di partenza di ogni dottrina militarista, e quindi anche quella cui s’ispiravano e s’ispirano i militari cileni, è la sicurezza nazionale. Nella mente dei militari cileni tale sicurezza era intesa soprattutto come quella degli interessi della borghesia cilena, collegati a quelli dell’imperialismo americano. È ovvio che la natura specifica di tale sicurezza affiori apertamente quando sorge una minaccia contro il sistema economico-socio-politico borghese e, soprattutto, in una situazione di crisi le Forze Armate manifestano con la massima evidenza che sono una dei più importanti elementi dell’ordinamento borghese dello stato. La oligarquía se libera del sistema presidencial monárquico y autoritario con ayuda de la marina; la clase media se libera del sistema parlamentario oligárquico y corrompido con ayuda del ejército de tierra. La marina actúa, en 1891, como una fracción de la oligarquía; el ejército, en 1924, como una fracción de la clase media. En cada caso, la acción militar lleva a cierto progreso en el camino de la democratización formal, a un acrecentamiento de la participación política real, a un aumento del cuerpo electoral (especialmente a partir del Frente Popular), así como a la mayor eficacia del sistema, acompañándose todo este conjunto de hechos — de manera no fortuita — por la aceleración en cierto tipo de inversiones extranjeras que conducen a una expansión y a un fortalecimiento del poder económico del estado en el interior del país al mismo tiempo que de su dependencia del exterior.10 Le Forze Armate cilene erano, come in ogni società democratica, i protettori della nazione, perché dovevano: - difendere la sovranità nazionale e l’integrità territoriale; - salvaguardare l’ordine interno e garantire il governo costituzionale. Per ora si lascia da parte la difesa dell’integrità territoriale e della sovranità nazionale e concentriamoci invece su “or9 Maggiore Juan de Dios Barriga, Lo que debemos saber sobre Seguridad y Defensa Nacional, «Memorial del Ejército», n. 373, maggio-agosto, 1973. 10 Alain Joxe, Las Fuerzas Armadas en el sistema político Chileno, Santiago, Editorial Universitaria, 1970, p. 115. 49 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 dine interno” e “governo costituzionale”. Trattandosi di una società classista, è ovvio che il governo costituzionale non sia altro quello di una o più classi dominanti, che nelle società moderne sono in genere classificate come “borghesia”. La stessa cosa si deve dire per l’ordine interno: è quello instaurato soprattutto per gli interessi della borghesia. Si ha che sino al 1970 “il governo costituzionale cileno” e “l’ordine interno” della società cilena coincidevano con gli interessi della borghesia, e non era necessario che le Forze Armate cilene manifestassero chiaramente la loro reale funzione. Invece con l’amministrazione Allende alla borghesia sfuggì il controllo della situazione e per la difesa dei suoi interessi si fecero avanti le Forze Armate. LA SICUREZZA NAZIONALE COME IDEOLOGIA Come per ogni esercito, anche per quello cileno la sua funzionalità esige la professionalità e l’efficiente utilizzazione del complesso armamento degli eserciti moderni. Il presupposto è che esso sia molto disciplinato e organizzato in modo gerarchico, centralizzato e autoritario e che tutti i sottoposti siano stati addestrati all’ubbidienza cieca e automatica. Premesso ciò, si determinano meglio i tre concetti fondamentali, nei quali si sviluppa l’ideologia della sicurezza nazionale delle Forze Armate cilene, fondata sulla geopolitica, la strategia totale e il ruolo privilegiato delle Forze armate. La Geopolitica è una scienza creata da ideologi tedeschi durante la prima guerra mondiale, sviluppata dai nazisti al tempo della seconda guerra mondiale e insegnata per molti anni nelle accademie militari di tutto il mondo. La Geopolítica la ubicamos como ciencia a principios del presente siglo como la culminación de un proceso de ideas políticas, geográficas y filosóficas acumuladas durante siglos. Luego, el concepto de una estrecha relación entre las constantes geográficas con las políticas no es fruto ni de un determinado pensador ni ha surgido en forma espontánea. Un análisis del proceso humano sobre la tierra muestra cómo un grupo complejo de ciencias se ha movido entre los extremos geográficos y políticos.11 È in diretta opposizione alla scienza universale del marxismo-leninismo, offre una concezione totale dell’uomo e può 11 Augusto Pinochet Ugarte, Geopolitica, Santiago, Editorial Andres Bello, 1984, p.53. Lo stesso autore definisce il rapporto tra Geopolitica e Stato: «La Geopolítica considera al Estado como un organismo supraindividual y, como tal, un organismo vivo que se halla empeñado en una lucha constante por la existencia. La Tierra, por su configuración natural, está dividida en cierto número de espacios que son el escenario de estas luchas entre los Estados. Este hecho condiciona una política encadenada al espacio, con leyes determinadas y constantes que afectan, en forma permanente, a los pueblos que actúan en una región, a medida que van haciendo su aparición en la Historia. […] Uno de los objetivos de la Geopolítica es el de proporcionar antecedentes sobre la posible aplicación y utilización de estas leyes espaciales en la política exterior del Estado y en el periodo de desarrollo. La eterna actitud beligerante de los pueblos entre sí obliga a que la política exterior del Estado prime sobre la interna. Las ideologías políticas y los sistemas de gobierno dan solidez y ayudan a obtener en forma más eficaz aquellos objetivos de carácter nacional dentro de las condiciones geográficas donde se asienta el Estado». Ivi, p.31. 50 essere sintetizzata nelle seguenti affermazioni: 1) l’individuo non esiste; 2) i popoli sono miti; 3) esiste solo la nazione e senza di essa non può esistere l’uomo come singolo né come gruppo o popolo; 4) la nazione coincide con lo stato, ed esso non è altro che il potere della nazione o la nazione che esercita il potere; 5) il mondo non è altro che una totalità di nazioni che sono poteri in conflitto permanente; cioè la nazione per definizione esiste solo in conflitto e richiede competitività per sussistere ed espandersi; 6) la guerra è la condizione naturale delle nazioni e quindi dei popoli e dei singoli uomini, la cui funzione è reale solo in seno alla nazione; 7) lo stato e la nazione poiché è soggetto di potere è uno organismo, che deve crescere ed espandersi; quindi deve difendersi e lottare, perché la sua legge primordiale è occupare sempre altro spazio; 8) “la guerra è la cosa più naturale, il problema quotidiano. La guerra è eterna. Non vi è pace e tutta la vita è lotta o guerra” (Adolf Hitler). Nell’attuale sviluppo della lotta l’antagonismo fondamentale è tra Est e Ovest, Nord e Sud, o tra Comunismo e Cristianesimo, Paesi Occidentali e Fondamentalismi Islamici, e, di conseguenza, tutte le nazioni o stati e i relativi popoli e uomini sono necessariamente amici o nemici in una situazione permanente di guerra, che permea tutte le relazioni: diritto, morale, arte, ecc. In questa visione la nazione non ammette nessun superiore a se stessa e nessuna limitazione al suo potere. A sua volta “la nazione latinoamericana”, basata sul vincolo geografico, economico, strategico e storico, si definisce come totalità di nazioni allineate, ad eccezione di Cuba, e dipendenti dal blocco occidentale “cristiano e anticomunista” dominato dagli USA. La strategia totale. La strategia è la scienza della conduzione della guerra. L’antagonismo “Comunismo-Cristianesimo” o “Est-Ovest” rileva che la guerra è totale e quanto apparentemente sembra, una situazione di pace non è altro che “guerra fredda” o “guerra di religioni”. Se la guerra è totale, tutti ne sono coinvolti, militari e civili, col risultato che tutte le attività umane, sia collettive sia individuali, sono in funzione della guerra. Il nemico è ovunque e qualsiasi azione o lo danneggia o lo favorisce. Se la guerra è totale, anche la strategia è totale e si basa su tre concetti: il progetto nazionale, la sicurezza nazionale e il potere nazionale. Il progetto nazionale è l’insieme degli obiettivi dello stato che si possono conseguire, date le risorse disponibili. A sua volta la sicurezza nazionale è la base del progetto o lo scopo che s’intende conseguire con l’insieme degli obiettivi. Infine il potere nazionale, assoluto o incondizionato, giustifica e legittima tutte le attività pubbliche e private, che sono in funzione degli obiettivi o del progetto e dello scopo o della sicurezza nazionale. Ne consegue che tutti i cittadini devono vivere e lavorare perché il potere nazionale aumenti e diventi SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA sempre più efficiente. In questo modo la strategia assume le seguenti forme: - nel campo economico lo sviluppo consiste soprattutto nell’aumento della capacità offensiva della sicurezza nazionale, e quindi è data priorità assoluta ai settori produttivi di alto valore strategico; - nel campo culturale sono utilizzate al massimo tutte le idee, particolarmente religiose, che sviluppano nella psiche dei singoli il valore del potere nazionale. In altre parole, la verità e la falsità delle idee dipendono dal loro contributo positivo o negativo al raggiungimento degli obiettivi strategici; - nel campo della politica le attività di tutti gli organismi sociali e tutte le manifestazioni civiche sono collegate con la strategia totale e perciò sono guidate dal proposito di mobilitare il popolo per la guerra contro “il comunismo internazionale”; - nel campo militare si crea uno stato di “all’erta” permanente per l’uso della forza militare, dove sia necessario. Vedi particolarmente la fase iniziale di stabilizzazione di un regime e l’eliminazione dei suoi nemici più vicini. Per conseguire la massima sicurezza e un potere nazionale sempre più efficiente sono necessari dei sacrifici. Perciò nel campo dell’economia si giustificano livelli di vita di sussistenza, e in quello dei diritti civili la soppressione delle libertà individuali; e in entrambi i casi, il limite è determinato soprattutto dalla reale efficienza del potere nazionale. In altre parole la vita di sussistenza può avvicinarsi anche allo zero e le libertà personali possono essere soppresse totalmente, se così è richiesta dall’efficienza del potere nazionale. Il ruolo privilegiato delle Forze Armate. Solo “l’èlite nazionale” può gestire la strategia; e la massa può e deve partecipare alla strategia, ma solo perché è guidata e controllata per la realizzazione del progetto nazionale. A sua volta l’èlite, dopo che ha elaborato il progetto nazionale e quindi la sicurezza e il potere nazionale, si rivolge ai suoi agenti o alle Forze Armate perché mettano in atto la strategia. Augusto Varas riporta un saggio di Lucien Pye, preparato per dei corsi di scienze sociali e di sicurezza nazionale dello Smithsonian Istituto in USA. Vi si legge quanto segue: Nella maggioranza delle società sottosviluppate il problema è la difficoltà di creare organizzazioni effettive capaci di usare adeguatamente tutte le attività fondamentali della vita moderna. Generalmente in tali società vi è uno squilibrio nello sviluppo delle organizzazioni. Se una di esse si sviluppa efficacemente e rapidamente, molto presto deve compiere anche le funzioni delle altre organizzazioni. Cioè quelle più salde e autonome assumono il compito di quelle che sono meno strutturate. Pertanto le autorità militari spesso devono controllare le più importanti organizzazioni della società e possono essere forzate dai fatti a sostituirsi alle autorità civili.12 tuzione principale” delle società latinoamericane. Il pubblico americano in generale e i militari latinoamericani, che frequentano i corsi nelle accademie militari USA, sanno molto bene che gli eserciti latinoamericani sono utili ed essenziali per quello che gli USA definiscono “sviluppo”. Comunque, il punto di vista di Pye, rappresentativo della politica internazionale del Pentagono, segnala che i militari sono la migliore organizzazione esistente o la più “chiamata” ad assumere il potere con la forza delle circostanze. Non è pura coincidenza che i militari, a parte le loro funzioni spesso mitiche e tradizionali di “difesa”, sono predestinati come i principali agenti istituzionali della strategia geopolitica per due ragioni importanti: l’incapacità, il tradimento e la demagogia politica dei popoli civili, e, la primordiale necessità geopolitica o l’ansia sfrenata per una guerra totale. Estas orientaciones, que son el resultado de un muy meditado análisis, y que están avaladas por la experiencia de una larga vida al servicio de la Patria, tienen por objeto servir de guía a los Oficiales de los Estados Mayores destinados al trabajo de apreciación que debe hacerse antes de llevar a la práctica la conformación de un instrumento bélico más moderno, tanto en su estructura orgánica, en sus medios, en sus procedimientos, como en su gestión profesional, para seguir garantizando el desarrollo del país y asegurar el cumplimiento de nuestras misiones constitucionales.13 Infatti, il “disordine” sociale ed economico legittima l’intervento dei militari come l’unica struttura alternativa, capace di “rigenerare e recuperare” la società e il potere statale. La nazione e lo stato sono fondamentalmente dei poteri ma se le strutture civili diventano inoperanti per il salvataggio interno ed esterno, l’istituzione militare resta l’unica depositaria del potere reale della macchina dello stato. Il risultato finale è che i vertici militari, nelle cui mani sono le Forze Armate, si assumono il compito di “salvare la nazione”. In situazione di guerra totale le Forze Armate non possono quindi permettersi di essere neutrali poiché essendo l’unico elemento nazionale debitamente integrato nel sistema interamericano o nelle strutture imperialistiche, il loro ruolo sarà di essere al fianco degli USA contro “il nemico” o contro “il comunismo internazionale” sia dentro sia fuori le frontiere nazionali. IL CONDIZIONAMENTO ISTITUZIONALE Questo modo di pensare vuole giustificare il mantenimento di un esercito bene equipaggiato e addestrato, come “isti- La suddetta ideologia serve per comprendere meglio la dottrina dei militari cileni, nella quale si devono distinguere due aspetti: la dottrina istituzionale delle Forze Armate e le dottrine individuali dei suoi membri. La prima consiste nelle funzioni attribuite dalla Costituzione e dall’ordinamento giuridico cileno alle Forze Armate. Tali funzioni, già analizzate, sono in genere un risultato storico. Invece le dottrine individuali dei militari suppongono una particolare situazione so- 12 Augusto Varas, Las nuevas relaciones de poder en América Latina. Escenario y perspectivas. Santiago, Ed. Quimantu, 1980, p. 22. Inoltre cfr., Lucien Pye, Aspects of Political Development. An Analytical Study, Toronto, Little Brown and Co., 1966, pp. 87-88. 13 Augusto Pinochet Ugarte, Ejercito de chile: trayectoria y futuro, Santiago, FASOC Vol. VII, No. 4, 1992. Fascicolo pubblicato dopo una lezione magistrale di Pinochet all’Università di Santiago Facoltà di Scienze Politiche il 21 de agosto de 1992. 51 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 cio-economica e ideologica, collegato alla selezione sociale e quindi alla posizione di classe e alla situazione culturale e politica dei militari nella società. Si precisa che quando si parla degli atteggiamenti più o meno dottrinali dei militari latinoamericani, ci si riferisce quasi soltanto al settore degli ufficiali. Infatti, la truppa è in genere un miscuglio amorfo d’individui delle classi più basse, ai quali dall’indottrinamento militare e forse anche da quello religioso è stata tolta ogni autonomia mentale e devono solo eseguire gli ordini al modo delle parti inanimate di una macchina. Il contesto storico della dottrina è dato dalla storia del mondo latinoamericano. Limitando il discorso alla sola storia militare, quella degli ultimi venti anni occupa molti volumi. Però la vittoria militare popolare di Cuba nel 1959 e i golpe militari apparentemente progressisti, il 1968 nel Perù e il 1971 in Bolivia, hanno fatto cambiare gli atteggiamenti dei militari poiché devono affrontare le nuove richieste delle masse latinoamericane. Ben presto, però, la combinazione delle dipendenze militari e la manipolazione diretta dall’esterno della forza militare locale hanno pian piano annullato gli effetti positivi dei tre avvenimenti ed hanno motivato un “contro indottrinamento” nelle scuole militari interamericane e locali. Non solo gli USA ma anche le classi dominanti delle varie regioni del mondo latinoamericano sono ora molto attenti che non si ripeta un’altra Cuba. Più che nel passato ora i militari latinoamericani non vivono in una specie d’isolamento dalla lotta di classe. Anche se non contaminati dalla realtà socio-economica,vivono immersi in essa e quindi nella realtà politica dei vari stati e nella relativa dipendenza economica dal capitalismo mondiale, diretto soprattutto dagli USA. Si può anche dire che i militari latinoamericani sono una specie di casta, indipendente dalle classi. Ciò è dovuto ai particolari valori sociali, culturali e politici, che sono permessi e si rafforzano in seno all’istituzione militare. Così il valore dello “spirito di corpo” produce la subordinazione individuale e la dedizione assoluta all’istituzione militare e ai suoi obiettivi e pian piano riduce e cancella le diversità ideologiche individuali. América Latina se ha caracterizado por una secular dificultad para estabilizar acuerdos democráticos. Esta limitación explica - en parte - el permanente, recurso o tentación de usar la fuerza militar para resolver disputas políticas internas o para imponer determinados proyectos de desarrollo que no cuentan con una legitimación social mayoritaria. Sin embargo, las élites democráticas poco o nada conocen de la vida, historia, necesidades y perspectivas de la institución militar y la defensa nacional en sus respectivas sociedades. En consecuencia, el uso y abuso de las FFAA en política ha dejado un negativo saldo en su estabilidad y desarrollo institucional. A su vez, los proyectos de estabilización democrática que se han intentado en la región con posterioridad a las intervenciones militares han adolecido de una falla básica en materias de política hacia las FF AA. En la medida que las democracias latinoamericanas no dan cuenta adecuadamente del problema de la inserción de las fuerzas armadas en el proceso democrático, definiendo los temas de la defensa nacional al interior de sus proyectos de cambio, han dejado sin resolver un problema crucial. 52 Este, poco tiempo después se ha vuelto en contra de las propias instituciones democráticas, sea bajo la modalidad de formas de acomodación autonómicas o bien en nuevas intervenciones militares.14 A sua volta il valore dell’esclusiva funzionalità dei militari o il relativo comportamento predefinito verso il settore civile produce lo sterile apolitismo, fondato sul principio della non deliberazione, e soprattutto l’isolamento culturale con la conseguente chiusura mentale, che è impenetrabile più che in altre istituzioni, compresa la chiesa. Questa chiusura è comune a ogni istituzione. Nel caso delle istituzioni militari latinoamericane è ulteriormente accentuata dal concetto di difesa della “civiltà occidentale”, che è piena di deformazioni ideologiche e di falsificazioni storiche. Tale concetto, istillato nella mente dei giovani militari al tempo del loro addestramento nelle accademie di guerra, è fondamentale per l’accettazione incondizionata della difesa della propria regione nella cornice della difesa degli USA, dell’emisfero e della cultura cristiano-occidentale. Si aggiunga che tale accettazione è collegata alla dipendenza delle forze militari delle varie regioni dagli USA per l’equipaggiamento, per l’addestramento e per i rifornimenti, senza dei quali i militari delle varie regioni latinoamericane non potrebbero sopravvivere. Per concludere questa panoramica, è importante dire che quello che manca allo forzo democratico latinoamericano — od anche alla chiesa o ai cristiani, in quanto interessati a questo tipo di discorso sul futuro della società. latinoamericana — è la capacità di prospettare una politica, un progetto politico alternative all’esistente, dove si rifletta sul problema dei militari in una prospettiva diversa dall’attuale. Uno dei punti più deboli del movimento democratico in A. L. è proprio il fatto che non ha saputo esprimere fino ad oggi, una riflessione sufficiente sul problema militare in una prospettiva storica o politica distinta: una riflessione su quella che dovrebbe essere la funzione dei militari in un nuovo progetto politico per l’A. L. o sul problema della sicurezza nazionale in una prospettiva democratica. È questa una riflessione che ancora dobbiamo fare ed è questo uno dei punti cardinali essenziali per una futura politica. Io penso che per arrivare a questo, dobbiamo partire da questa premessa fondamentale: Non bisogna più parlare di “sicurezza emisferica”, ossia della sicurezza di un sistema dove stanno insieme Stati Uniti o America Latina, ma parlare di sicurezza latinoamericana. Cambiare cioè il soggetto della sicurezza: da un sistema dove c’è da una parte una superpotenza nucleare e dall’altra paesi sottosviluppati, bisogna passare al concetto di un sistema dove il soggetto di questa. sicurezza sia l’America Latina in quanto tale e non l’A. L. legata agli USA. Questo suppone ridefinire i rapporti economici, sociali, politici o militari dell’A. L. con gli USA, partendo dall’idea che l’A. L. è un soggetto a sé stante, geopolitico, diverso dagli Stati Uniti: per alcuni aspetti può essere complementare, per altri contrastante, ma comunque diverso. Non ci sono cioè interessi comuni fra USA e A. L. Partendo quindi da questa nuova base che è il concetto di sicurezza latinoamericana (dove si vede come minaccia a questa sicurezza per. esempio l’egemonia di una superpotenza straniera), si deve trovare un rapporto diverso con gli USA. È a partire da questo concetto di sicurezza latinoamericana che si può arrivare a collegare la sicurezza al popolo, vale a dire, collegare la funzione della sicurezza a una funzione di liberazione del popolo, in cui il popolo si trasforma in soggetto della vita politica, culturale, economica, ecc. e dove si mette l’accento su tutti gli aspetti di integrazione comune latinoamericana. Si devono individuare nuovi rapporti tra il popolo è le forze armate, 14 Augusto Varas, Las nuevas relaciones de poder en América Latina. Escenario y perspectivas, cit., p. 1. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA in quanto espressione di uno stato democratico, di un continente preoccupato della sua sicurezza come unità a se stante, nel concerto delle nazioni del mondo. In questo modo l’A. L. potrebbe svolgere un ruolo nella creazione del cosiddetto “nuovo ordine internazionale”, in collegamento con le diverse unità geografiche e politiche esistenti, come Europa, USA, Paesi socialisti, Paesi del Terzo Mondo, ecc. Riassumendo, la realizzazione di questo compito suppone: 1. Ripensare alla funzione geopolitica dell’A. L. 2. Ammettere il pluralismo politico all’interno della comunità latinoamericana. 3. Infine, in funzione di questo processo pluralistico o democratico, ripensare il collegamento fra Forze Armate professionali e popolo democratico e cosciente. Se si potesse fare tutto questo, sarebbe più facile che si potesse sviluppare una corrente democratica all’intorno delle F. A., condizione questa necessaria per mutare la situazione dell’A. L.15 Limitando il discorso al Cile, era ovvio che alla fine i militari cileni siano entrati in conflitto con la politica antimperialista e indipendente di UP nel 1970. Come casta, gli interessi dei militari sono difesi nei momenti di crisi politica ed economica sia come mantenimento e miglioramento del livello di vita e sia come condizioni per l’efficienza dell’attività militare. Segue che i militari formano, soprattutto nei momenti più critici per la vita di un popolo,un costante gruppo di pressione. Se poi la crisi penetra nelle caserme, utilizzando il severo codice della giustizia militare, gli elementi sospetti sono espulsi o congedati o anche semplicemente corretti col metodo delle sanzioni sociali e della pressione pubblica. Parallelamente a questo meccanismo istituzionale di autodifesa c’è una sezione del codice penale, ugualmente rigorosa, che tratta tutti i crimini contro la “inviolabilità” costituzionale dei militari. Un esempio della protezione militare dei militari si trova nella legge di sicurezza dello stato del 1958, che definisce crimine qualsiasi offesa contro la dignità o la morale delle Forze Armate da parte dei politici, della stampa e di altri; e la punizione relativa può consistere in multe, prigioni e censura di pubblicazioni. TITULO II Delitos contra la Seguridad Interior del Estado 15 José Antonio Viera Gallo, América Latina, Trabajo presentado en la Comisión de Estudios Institucionales de los partidos de izquierda chilenos en Roma 18 de septiembre de 1977, pp.15-16. Durante el gobierno del presidente Allende fue subsecretario de Justicia, desde noviembre de 1970 hasta diciembre de 1972. José Antonio Viera Gallo después del golpe militar en 1973, partió al exilio, radicándose en Italia, donde continuó desempeñando su profesión, entre otras actividades. En Roma editó la revista de opinión “Chile-América”. Trabajó como Consultor de la UNESCO, CEPAL, FAO y en el Consejo Mundial de Iglesias. Ocupó, también, la Secretaría General Adjunta del International Documentation Center, IDOC, con sede en Roma. Asimismo, integró el Consejo Directivo de HUIRIDOCS, Sistema de Información y Documentación sobre Derechos Humanos, con sede en Oslo, Noruega. En abril de 2007 fue nombrado ministro por la Presidenta Michele Bachelet Jeria, en el Ministerio Secretaría General de la Presidencia, cargo que desempeñó hasta el 10 de marzo de 2010. La Presidenta lo nombró miembro del Tribunal Constitucional, en el cargo de ministro, labor que cumplirá por los próximos 3 años, a contar del 11 de marzo de 2010. Il testo è dattiloscritto in italiano mentre le note biografiche sono scritte in spagnolo. Si trova nella Sezione B- Riviste, bollettini, periodici, dell’archivio Ferdinando Murillo Viana. Artículo 4.o Sin perjuicio de lo dispuesto en el Título II del Libro II del Código Penal y en otras leyes, cometen delito contra la seguridad interior del Estado los que en cualquiera forma o por cualquier medio, se alzaren contra el Gobierno constituido o provocaren la guerra civil, y especialmente: a) Los que inciten o induzcan a la subversión del orden público o a la revuelta, resistencia o derrocamiento del Gobierno constituido y los que con los mismos fines inciten, induzcan o provoquen a la ejecución de los delitos previstos en los Títulos I y II del Libro II del Código Penal o de los de homicidio, robo o incendio y de los contemplados en el artículo 480 del Código Penal; b) Los que inciten o induzcan, de palabra o por escrito o valiéndose de cualquier otro medio a las Fuerzas Armadas, de Carabineros, Gendarmería o Policías, o a individuos pertenecientes a ellas, a la indisciplina, o al desobedecimiento de las órdenes del Gobierno constituido o de sus superiores jerárquicos; c) Los que se reúnan, concierten, o faciliten reuniones tinadas a proponer el derrocamiento del Gobierno constituido o a conspirar contra su estabilidad; d) Los que inciten, induzcan, financien o ayuden a la organización de milicias privadas, grupos de combate u otras organizaciones semejantes y a los que formen parte de ella, con el fin de sustituir a la fuerza pública, atacarla o interferir en su desempeño, o con el objeto de alzarse contra el Gobierno constituido; e) Los empleados públicos del orden militar o de Carabineros, policías o gendarmerías, que no cumplieren las órdenes que en el ejercicio legítimo de la autoridad les imparta el Gobierno constituido, o retardaren su cumplimiento o procedieren con negligencia culpable; f) Los que propaguen o fomenten, de palabra o por escrito o por cualquier otro medio, doctrinas que tiendan a destruir o alterar por la violencia el orden social o la forma republicana y democrática de Gobierno; g) Los que propaguen de palabra o por escrito o por cualquier otro medio en el interior, o envíen al exterior noticias o informaciones tendenciosas o falsas destinadas a destruir el régimen republicano y democrático de Gobierno, o a perturbar el orden constitucional, la seguridad del país, el régimen económico o monetario, la normalidad de los precios, la estabilidad de los valores y efectos públicos y el abastecimiento de las poblaciones, y los chilenos que, encontrándose fuera del país, divulguen en el exterior tales noticias. Artículo 5.o Los delitos previstos en el artículo anterior serán castigados con presidio, relegación o extrañamiento menores en sus grados medio a máximo, sin perjuicio de las penas accesorias que correspondan según las reglas generales del Código Penal.16 In questo modo si ha una specie di cintura di sicurezza per ogni informazione sui militari. Inoltre la medesima legge proibisce tutte le incitazioni, di parole e di fatti, all’indisciplina o alla disubbidienza nelle Forze Armate; e così l’istituzione militare è validamente difesa contro tutte le infiltrazioni comuniste, nemico numero uno di ogni disciplinato esercito gerarchico e antipopolare. L’ESTRAZIONE SOCIALE DEI MILITARI CILENI Per determinare meglio la definizione di “casta” dei militari cileni si deve tenere presente la loro particolare funzione nel sistema statale, che fin dal principio del secolo XX difendeva gli interessi riformisti della classe media contro il dominio dell’oligarchia e allo stesso tempo, reprimeva le 16 Ministerio del Interior Ley 12927 Seguridad Interior del Estado del 02-08-1958. Cfr., il seguente sito URL: http://www.leychile.cl/ N?i=27292&f=1958-08-06&p= Biblioteca del Congreso Nacional de Chile. 53 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 Più esatto è invece lo studio, condotto sugli ufficiali cileni raccolti nel 1965. Si riporta il questionario distribuito durante le interviste: Augusto Pinochet 54 Como parte de un estudio sobre las FFAA estamos recogiendo información a ofíciale, militaros que han prestado sus servicios profesionales en el Ejército y que debido a su experiencia nos ayudará a comprender mejor la relación entro el ejército y el pueblo de Chile. Desde luego quedaremos especialmente agradecidos a Ud por la cooperación que pueda prestarnos contestando a las preguntas que le haremos a continuación. Debido a su carácter estrictamente científico ellas son estrictamente confidéncialos, ya que serán sometidas a procesos posteriores de análisis estadístico que hacen imposible la identificación de los autores de las opiniones. Asimismo ostas preguntas solo constituyen una base de explicación científica y no son bajo ningún aspecto una prueba de conocimientos o de inteligencia. Dada la finalidad eminentemente científica del trabajo que estamos realizando, las opiniones que Ud se sirve manifestarnos a continuación no necesitan llevar su firma, y son, por lo tanto, estrictamente confidenciales. a) Grado b) Arma de Servicio c) Unidad de escuela, Academia de Guerra, o Politécnica Militar d) Lugar de nacimiento e) ocupación de su padre f) ocupación del padre de su esposa g) parientes en las fuerzas armadas o Carabineros (especificar grado de parentesco, grado alcanzado y si están en servicio activo o no) h) Educación (numero de años) Universidad, Escuela Militar, Academia de Guerra, Academia Politécnica, Escuelas Militares Extranjeras i) Antigüedad obtenida en el curso militar de la Escuela Militar Preguntas de “orientación de opinión”: 1) Si tuviera que escoger entre las siguientes alternativas, en cuál de ellas se situaría hoy políticamente?: derecha, hacia la derecha, hacia la izquierda, izquierda. Por favor, comente las razones de su decisión y el significado que le da a la alternativa escogida. 2) Un cuestionario distribuido a una muestra de la población de Chile mostró que los civiles tienen gran confianza en que si fuere violada la Constitución, los militare la defenderían. Concretamente, en que circunstancias cree Ud que los militares deberían intervenir en este problema? 3) Hasta que punto cree Ud que la participación en programas de desarrollo es incompatible con la eficacia militar del ejército? 4) En su opinión, cuál debería ser la actitud del gobierno respecto a una mayor participación del ejército en dichos programas? 5) Cree Ud que una amplia participación de los oficiales en los programas de desarrollo es compatible con su función profesional y su propia imagen como oficiales? 6) En cierto modo, una guerra limitada es buena para el país ya que largos periodos de paz producen un debilitamiento general de la población? 7) Los militares son necesarios para un país aunque no haya guerra, para actuar como guardianes de la Constitución en caso de que el gobierno decidiera violarla?19 classi più basse e i lavoratori. In questo modo c’è una stretta connessione tra le classi rappresentate dai militari e le funzioni attribuite a essi. Lo studio di Roy Allen Hansen che analizza i generali dell’esercito cileno, congedati tra il 1952 e il 1964, mostra che sino agli anni del 1940 le classi medie predominavano nelle file degli ufficiali, in precedenza dominate dalle classi superiori e dall’aristocrazia, e che tra gli anni 1950 e 1960 gli aspiranti ufficiali dell’esercito furono reclutati principalmente tra le classi medio-basse a causa del declino del prestigio militare.17 I trentasette ufficiali studiati da Hansen hanno origine nella classe media, definiti dai redditi paterni. Non è esatto ubicare gli ufficiali nel settore della classe media attenendosi unicamente al loro reddito poiché in questo modo si finiscono col trascurare i molti vantaggi e privilegi, che i militari in genere hanno in materia di trasporti e di alloggio18. Il livello degli ufficiali graduati, intervistati nella scuola militare “Bernardo O’Higgins” fu il seguente. Apparteneva alla classe medio-alta il 42%, alla classe media il 39% e alla classe medio-bassa il 19%. A sua volta il livello sociale dei 17 Roy Allen Hansen, Military culture and organizational decline. A study of the Chilen army. Phd thesis at University of California , Los Angeles, 1967. Avaible from University Microfilms Service, N. XUM 687466, Ann Arbor, Michigan, USA, pp.170-210. 18 Per illustrare la ricerca scientifica di Hansen, vale la pena riportare alcuni passaggi rilevanti del suo lavoro. Alla fine del 1964 egli si recò in Cile e si mise in contatto con il segretario generale dell’Accademia di Guerra, Generale René Schneider, che gli diede pieno accesso alla biblioteca dell’Accademia e gli permise di intervistare i membri della Forza Armata. Il risultato del suo lavoro entrò a far parte della sezione classificata della biblioteca dell’Accademia di Guerra e fu a disposizione di un numero limitato di giornalisti alla fine del 1969. Cfr., Ibidem. 19 Hansen riuscì a intervistare solo 200 militari. Nonostante il numero relativamente basso d’interviste, il suo lavoro è uno dei pochi che presenta una visione documentata della realtà militare cilena dell’epoca. Infatti, poco dopo i fatti del “Tacnazo” uno studente americano che aveva collaborato con Hasen, tentò di vendere i fogli originali con le domande del questionario a ufficiali in servizio e in pensione. Inoltre l’importanza delle informazioni contenute nel suo lavoro furono di grande utilità agli uffici della CIA in Santiago per creare una rete di contatto tra i militari cileni che parteciparono successivamente al complotto per eliminare il proprio Generale Schneider nel 1970. Cfr., Ivi, p. 346. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA graduati militari intervistati nell’accademia di guerra e al politecnico militare, diede questi risultati: il 29% degli intervistati apparteneva alla classe alta, il 65% a quella media, e il 6% alla classe bassa. Un altro importante studio è di Agüero, che si riferisce alla situazione all’inizio degli anni 1970, quando era possibile individuare cinque strati orizzontali del corpo degli ufficiali cileni. Il vertice era costituito da generali, che avevano più di trentacinque anni di servizio e in genere provenivano dalle numerose “promozioni” degli anni 1929, trenta, trentuno e trentadue. Si erano formati durante l’ultimo periodo del governo Ibáñez20 e al tempo della successiva anarchia rivoluzionaria, avevano conosciuto le amare vicissitudini della reazione civile antimilitarista. Questi erano di elevatissima professionalità e la loro lunga carriera si era svolta nell’ambito dei principi di non deliberazione e di distacco dalle contingenze politiche. Seguiva un sottile strato di colonnelli, che aveva trenta, trentacinque anni di servizio e provenivano dalle poche promozioni avvenute tra il 1933 e il 1938. Questo gruppo era caratterizzato dalla formazione avuta in una scuola militare adatta ai programmi d’insegnamento del ginnasio in un periodo di grande povertà delle istituzioni armate e di scarsi incentivi professionali. E tutto ciò richiedeva che vi fosse in essi una solida vocazione militare. Veniva poi un grosso strato di ufficiali, che avevano venti, trenta anni di servizio ed erano usciti dalla scuola militare alla fine del 1939, durante la seconda guerra mondiale e nel periodo della “guerra fredda”. Erano in genere caratterizzati da una non dissimulabile simpatia per la causa nazista. Il quarto strato, promosso tra il 1949 e il 1957, aveva una mentalità certamente anticomunista. Erano inoltre ufficiali di formazione classica e caratterizzati dall’esperienza compiuta con gli armamenti tradizionali. C’era infine lo strato più giovane, formato a partire dal 1958. Erano giovani educati alla concezione della guerra antisovversiva, nella quale perdeva attualità l’eventualità di un’aggressione armata extracontinentale in America Latina mentre emergeva la guerriglia come la più pericolosa minaccia per la sicurezza continentale. La loro formazione militare era avvenuta in modo differente e vi erano stati introdotti mezzi come i comandos, i paracadutisti e i metodi d’istruzione della controguerriglia. La successiva partecipazione di numerosi contingenti di questi giovani ai brevi corsi della scuola delle Americhe, istituita dagli Stati Uniti, diedero loro un chiaro orientamento nordamericano. Ogni struttura bellica si basa, in ultima analisi, sul soldato. E allora non bastano un sistema di stretti legami interistituzionali, un equipaggiamento moderno e adeguato, un coordinamento dottrinario e strategico per rendere efficiente una macchina da guerra: e ancor meno bastano quando essa è destinata a combattere contro uomini che vivono sulla stessa terra e sono, quindi, compatrioti. È dunque neces20 Il colonnello, poi generale, Carlos Ibáñez del Campo, eletto presidente nel 1927, fu costretto nel 1931 a lasciare il potere da un movimento di borghesia urbana contrario ai suoi metodi autoritari. sario inculcare contemporaneamente nei combattenti — e anzitutto nei capi incaricati della direzione operativa — una forte motivazione politica. Di qui il sempre maggior interesse per la formazione psicologica e professionale di ufficiali e di sottufficiali, compito che il governo della Casa Bianca ha assegnato a una rete di insediamenti militari destinati a istruire il personale straniero e, in particolare quello latino-americano.21 Come si vede, all’interno della gerarchia dell’esercito cileno nel 1970 esisteva un’eterogenea suddivisione, derivante dalla forte influenza dell’ambiente circostante, dall’educazione familiare e da una mentalità, formatasi sulle tesi di difesa emisferica, diffuse nel continente. Tuttavia tenendo, presenti i risultati dei tre studi esaminati e particolarmente l’ultimo, nel 1970 gli ufficiali dell’esercito cileno provenivano, dal generale al sottotenente, dal ceto medio-alto22. Per la formazione dello spirito di “casta” il comportamento militare è sottoposto, sin dall’adolescenza, al forte influsso delle norme e dei precetti dell’istituzione. Dall’età di quindici o sedici anni ci si assoggetta a un regime di vita, che ha una marcata somiglianza con quella propria della formazione ecclesiastica e segna in modo indelebile la personalità, creando una notevole differenza con i civili di qualsiasi attività. In quanto alle associazioni, cui partecipavano gli ufficiali, si può dire che nell’ultimo decennio erano notevolmente diminuiti gli aderenti alla massoneria. In conclusione, gli ufficiali cileni del 1970 erano elementi della democrazia borghese imperante, avversi al marxismo e inclini al modo di vita nordamericano. I SOTTUFFICIALI E I COSCRITTI Intorno al 1970 i sottufficiali formavano un’omogeneità sociale quasi completa. La loro provenienza dalla classe operaia e dai contadini li rendeva tipici rappresentanti del popolo salariato, senza che s’identificassero tra essi strati generazionali caratterizzati dall’influenza dell’evoluzione politica. Il sottufficiale coltiva con sapienza una tradizione di assoluta apoliticità. Il suo mondo è la caserma e la famiglia. Per lui la disciplina militare costituisce un elemento di ordine e di rigida sottomissione alla gerarchia imposta dalla carriera. La sua massima ambizione è di raggiungere il grado di sottufficiale maggiore. Egli a sempre coltivato con orgoglio le virtù militari, inculcandole con determinazione nei giovani coscritti, e adempie gli ordini degli ufficiali in piena accettazione della gerarchia del comando. Se quegli ordini andavano più in là dei limiti di legittimità, si adeguava al principio secondo il quale chi li impartiva ne era responsabile. Neanche i sottoufficiali più anziani, con trent’anni di servizio e più, si erano trovati nelle condizioni di dover seguire un’avventura, che li portasse a infrangere il giuramento alla bandiera. Le attività politiche, svolte da alcuni capi militari, non erano giunte al punto di coinvolgerli. 21 Cfr., Raul Ampuero, La formazione del soldato multinazionale, in «Mondoperaio», Roma, n. 4, aprile 1977, p. 41. Traduzione dallo spagnolo di Gabriella Lapasini. 22 Cfr., Augusto Varas, Felipe Agüero, El Desarrollo Doctrinario de las Fuerzas Armadas Chilenas, cit., pp. 1-42 55 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 Ne consegue che la truppa e i sottufficiali partecipavano senza troppi problemi alle repressioni avvenute in piazza Bulnes a Santiago il 194623, ancora nella capitale il 2 aprile 195724, nella borgata Josè Marìa Caro nel dicembre 1962, e, nella miniera di El Salvador nel 196625, adempiendo gli ordini superiori al fine di ristabilire l’ordine pubblico. 23 Tale repressione fu la conseguenza dei seguenti avvenimenti politici che avvennero in quegli anni: «Las conspiraciones peronista. A partir de 1943 se hizo sentir la influencia del peronismo sobre la imaginación política de los oficiales chilenos, igual que ocurría en el conjunto de América Latina. Hasta se constituyó, en 1946, un «Ministerio del Tercer Frente», en la confusión que reinaba durante la enfermedad del presidente Juan Antonio Ríos, poco antes de la muerte de éste, y como resultado de los conflictos que dividían a comunistas y socialistas, y al día siguiente de la mortífera represión de una manifestación callejera en Santiago. Dicho Ministerio se apoyaba en la alianza de algunos jefes socialista con ciertos jefes militares inspirados en el peronismo». Cfr., Alain Joxe, Las Fuerzas Armadas en el sistema político chileno, cit., p.79. 24 Los desordenes de abril, 1957. En 1957 le fueron otorgados nuevamente píenos poderes, a causa de los des ordenes anárquicos producidos en Santiago. Durante los tres primeros días de abril se produjeron graves desórdenes como consecuencia del alza del costo de la vida y de la congelación de los salarios, insertada en el marco de la política antiflacionista aplicada por Ibáñez, aconsejado por la misión de expertos norteamericanos, Klein-Sacks. La causa inmediata de los desórdenes, sobre los cuales no existe ningún estudio histórico serio, fue un aumento de las tarifas de transportes colectivos. Los revoltosos que bajaron de sus «callampas» hacia el centro de Santiago, trataron de apoderarse del palacio presidencial, de incendiar la Catedral y el Congreso, apedrearon la sede de «El Mercurio», saquearon las tiendas e incendiaron automóviles. Los desordenes pudieron tomar tal incremento, en parte, porque según se dijo, se dejó pasar un lapso demasiado largo entre el momento en que los carabineros, literalmente vencidos por la muchedumbre, habían abandonado la calle a los revoltosos y el momento en que el general jefe de plaza que tenia la responsabilidad de mantener el orden a título del estado de urgencia, pudo iniciar la represión. Ciertos comentaristas vieron en esta incuria la huella de una intervención indirecta de grupos de derecha que deseaban provocar la represión. El Gobierno atribuyó los hechos a la influencia comunista, pero los comunistas tentaron, al contrario, de contener esta agitación anárquica que no controlaban, de manera alguna. Para restablecer el orden la tropa disparó y según las cifras oficiales, causó 18 muertos, según fuentes oficiosas, causó 70 muertos y más de 200 heridos. El Presidente, que había recibido píenos poderes, renunció a ellos al cabo de pocos días. Cfr., Ivi, pp. 82-83. Inoltre cfr., «Keesing’s Contemporary Archives», April 2-9 1957, p. 1500. 25 Gli accadimenti avvenuti alla miniera di El Salvador sono connessi al mandato militare in zona di emergenza durante l’amministrazione Frei: «Sin embargo, bajo la administración Frei, estas facultades fueron extendidas, hasta abusivamente, y los usos técnicos y logísticos de las fuerzas armadas fueron extendidos hasta incluir sus funciones represivas (legalmente justificadas). Para explicar este fenómeno, podemos citar el ejemplo de la masacre de ocho trabajadores de El Salvador, en marzo le 1966. El coronel Manuel Pinochet (primo del dictador) fue designado Comandante de la Zona (Jefe de Plaza) declarada por Frei zona de emergencia, como resultado de una prolongada huelga de mineros del cobre. Al mismo tiempo, Pinochet fue nombrado interventor militar (director temporáneo) de la compañía minera. Esta posición dual está agravada por el hecho de que las funciones del Comandante de Zona están lejos de ser claramente definidas, y, ambiguamente, incluyen el control del Orden Público, así como una superposición de autoridad sobre los tradicionales poderes civiles locales. Efectivamente, el Comandante de Zona es el representante elegido por el Presidente, llenando el papel temporal de dictador local. Pinochet emergió del escándalo público suscitado por la muerte de los trabajadores completamente indemne; intocado por la ley civil y protegido por la ley militar, con la justificación de que las muertes eran el resultado de una misión pacificadora de parte de los militares. El papel dual de Comandante de Zona permite llevar a cabo dos aspectos de la represión antipopular, en interés de la Seguridad del Estado y del capitalismo». Cfr., Raul Ampuero, El poder político y las Fuerzas Armadas, cit., pp. 3-4. 56 In quanto alla coscrizione, ragioni fondamentalmente di bilancio la limitarono, sino al 1970, a contingenti molto limitati, comprendenti un terzo o un quinto della base di coscrizione annuale. Per questo, salvo l’eccezione di limitati e periodici corsi studenteschi, quasi il cento per cento dei coscritti chiamati annualmente nelle file dell’esercito erano giovani figli di operai e contadini, non ancora iscritti nei registri elettorali. UNO SGUARDO D’INSIEME Il 1970 le Forze Armate cilene rappresentavano gli interessi e le contraddizioni della media borghesia. E ciò perché la loro struttura disciplinare le sottometteva all’azione di comando di un’èlite, formata dagli ufficiali e quantitativamente minoritaria ma investita di tutte le attribuzioni legali e regolamentari per organizzare, insegnare e usare lo strumento coercitivo dell’esercito secondo le proprie concezioni ideologiche, anche se la maggioranza dei membri delle Forze Armate erano della più pura estrazione popolare. Così l’opinione, secondo la quale l’esercito cileno appartiene alla classe media, è ampliamente giustificata riguardo agli ufficiali. Non si può dire la stessa cosa dei sottufficiali e della truppa. Vale il commento generale che anche in questi settori ci sono soldati professionali, e come tali difendono anche la gerarchia istituzionale e i relativi diritti professionali. ALTRI FATTORI Si considerano altri aspetti per determinare meglio la fisionomia o il pensiero personale degli ufficiali cileni sull’importante problema delle relazioni tra l’ordinamento civile e quello militare. Durante la loro carriera gli ufficiali del sud avevano contatti soprattutto con l’alta classe rurale o con l’aristocrazia possidente; invece nel nord li avevano con i professionisti e i commercianti, che erano considerate classi “alte” in termini locali e medie su scala nazionale. Quelli che dimorarono più lungamente a Santiago ebbero maggiori contatti con la nuova classe media urbana. Le esperienze, fatte dai militari durante la loro carriera, possono essere rilevanti per determinare la loro personalità. In genere però è difficile ottenere soddisfazioni nella carriera in funzione puramente militari, sempre che non si tratti di attività di alto livello. Una particolare esperienza fu l’incorporazione dei militari ai programmi di sviluppo nazionale di “Azione Civica”. Essa fu promossa il 1961 dal pentagono per migliorare l’immagine dei militari presso i civili ma portò solo uno scarso numero di militari al contatto diretto con i problemi sociali, umani ed economici. Inoltre questa deviazione dell’attività militare, che sino allora era esclusivamente orientata alla difesa, non fu ben accolta da tutti i settori militari poiché i progetti di sviluppo potevano essere portati a termine più economicamente dai soli civili. Comunque, l’incorporazione di ufficiali SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA superiori in istituzioni civili fu l’inizio di un’integrazione istituzionale nei compiti dello sviluppo nazionale e gli effetti di tale integrazione furono considerati positivi perché favoriva una fuori uscita dal forzoso mutismo politico dei militari. La sfortunata contropartita di tale processo fu, nel periodo di Allende, l’emergere di atteggiamenti chiaramente fascisti in molti ufficiali superiori. Si consideri di nuovo la dottrina istituzionale dell’esercito cileno, che ha una chiara evoluzione storica e una pratica corrispondente. L’influenza prussiana, stabilita dalla missione tedesca diretta da Emil Körner alla fine del secolo scorso, è riconosciuta ancora oggi come effettiva e come fattore primordiale nel mantenimento della disciplina. Sebbene non si possa determinare bene l’importanza, l’influenza USA era considerevole e comincia a essere rilevante soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Tale influenza è decisiva come conseguenza dello spostamento dell’attenzione dalla difesa esterna a quella antisovversiva e la conseguente adozione, com’era avvenuto in altri paesi latinoamericani, di programmi di azione civica e lo sviluppo di efficienti forze di “pacificazione”o di polizia. Nel primo capitolo si è considerata la dottrina militare cilena, com’è stabilita dalla Costituzione del 1925 e dal codice di giustizia militare del 1926. Considerando anche le successive modificazioni, risultava che nell’apparato statale l’esercito era molto repressivo. Tuttavia gli interventi militari nel passato erano stati piuttosto pochi, uno ogni circa quaranta anni. Si può allora dire che sino al 1969 i militari erano “soddisfatti” della posizione loro concessa nel sistema. Si trattava però di un delicato equilibrio della relazione civico-militare poiché esso era fondato anche sull’obbedienza al “Generalissimo”. In questo modo l’equilibrio reggeva perché almeno una parte dell’alta gerarchia militare era dalla parte del governo costituzionale. Quando però un tale settore fu eliminato, come nell’agosto del 1973, l’equilibrio fu rotto e restò aperto il cammino alla completa insurrezione istituzionale. LA DOTTRINA SCHNEIDER Riallacciandosi a quanto si è già detto riguardo a settori della gerarchia, sostenitori della linea costituzionalista, dobbiamo far riferimento a quella che fu definita la “dottrina Schneider”. LA DOCTRINA SCHNEIDER - Que piensa el Comandante en Jefe con respecto a la participación de personal militar en actividades políticas? Esa intervención en política está fuera de todas nuestras doctrinas. Somos garantes de un proceso legal en el que se funda toda la vida constitucional del país. Por ello no se puede permitir que se realicen tales actividades. Es nuestra doctrina garantizar la estabilidad interna y a do deben tender todos nuestros esfuerzos y es una razón poderosa por la cual no debernos tener preferencia por ninguna tendencia, candidatura o partido. GARANTIZAMOS - Cuál es su pensamiento con respecto a la próxima elección que se vislumbra como un proceso difícil? Vamos a llegar a la elección manteniendo nuestra tradición de pleno respaldo a las decisiones del Gobierno Constitucional de la República, vamos a garantizar la normalidad del proceso eleccionario y a dar seguridad de que asuma el Poder Ejecutivo quien resulte electo. Puede darse el caso de que ninguno de los candidatos obtenga mayoría absoluta en septiembre. Se ha dicho en varios tonos que podrá ocurrir por primera vez que el Congreso chileno no ratificara al poseedor de la mayor cantidad de votos y, en cambio, designara como Presidente de Chile a quien obtenga la segunda mayoría. Cuál sería en ese caso la actitud del Ejército? Insisto en que nuestra doctrina y misión es de respaldo y respeto a la Constitución Política del Estado. De acuerdo con ella el Congreso es dueño y soberano en el caso mencionado y es misión nuestra hacer que sea respetado en su decisión. CUMPLIREMOS LA CONSTITUCION - Y si en ese caso se produce una situación de seria convulsión interna que incluso podría degenerar en algo mayor? Si se producen hechos anormales nuestra obligación es evitar que ellos impidan que se cumpla lo que indica la Constitución. El Ejército va a garantir el veredicto constitucional - Después de las circunstancias vividas últimamente, cuál es, según su concepto, la situación del Ejército? Puede asegurarse que existe estabilidad total? Pequeñas situaciones locales no implican un síntoma de inestabilidad. Hay solidez institucional. Los hombres del Ejército viven una sociedad viva, que vibra, es imposible, entonces, que están totalmente al margen de lo que ocurre a su alrededor, pero es indispensable que no participen. Y, en último caso, quien tenga una inquietud grande con respecto a ciertas ideas, ciertas tendencias, o ciertas actividades políticas y desee participar en ellas, lo mejor es que deje el uniforme y las abrace como un civil. Esa es nuestra posición. DISCIPLINA - Los mismos sucesos mencionados hacen pensar a muchos que se ha relajado la disciplina en el Ejército. Existe la misma obediencia y disciplina de antes? La disciplina se mantiene inalterable, naturalmente que con los cambios derivados de la época en que vivimos. La disciplina se fundamenta en la conciencia de superior y subalterno, en el ascendiente de mando. Lógicamente no es como antaño cuando no había acceso a la gestación de las órdenes. Ahora el subordinado piensa e incluso sugiere y esto es un aporte a la efectividad de esa orden, pero, llegado el momento de cumplir lo resuelto, se cumple sin discusión26 René Schneider, con quarantuno anni di carriera nell’esercito e ufficiale di stato maggiore, fu designato comandante 26 Generale René Schneider intervista rilasciata dal Comandante in Capo dell’Esercito al periodico «El Mercurio» l’8 maggio 1970. René Schneider Chereau, oficial de Estado Mayor brillante carrera militar, fue designado Comandante en Jefe el 23 octubre de 1969, en circunstancias conflictivas para las Fuerzas Armadas. Su saludo al Ejército en el momento de asumir traduce en compleja situación que entonces vivía la institución castrense: “Al asumir el mando del Ejército deseo expresar a todos sus miembros el alto honor que significa comandar a nuestra institución, cuya trayectoria profesional cuyos fundamentos doctrinales y de principios permanecen inconmovibles e inalterables frente a quienes han pretendido perturbar su normal conducto de acción”.Militar constitucionalista sucedió en el Alto Mando al General Sergio Castillo Arànguiz, quien debió dejar su cargo, llamado a retiro, porque no judo controlar un pronunciamiento que se produjo en las filas, al frente del cual apareció Roberto Viaux Marambio, a la sazón General de Ejército, pero llamado a retiro. Ese acontecimiento se le conoce en jerga popular como “El Tacnazo”, porque Viaux escogió el cuartel del Regimiento de Artillería Tacna, en Santiago, para precipitar el pronunciamiento, que constituyó un grave problema para el gobierno de la época presidido por el democratacristiano Eduardo Frei. Cfr., AA.VV., El caso Schneider, Santiago, Editora Nacional Quimantú, 1972, pp.172-173. 57 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 in capo il 23 ottobre del 1969 in circostanze abbastanza conflittuali per le Forze Armate. Infatti, si trattava di un periodo politico particolarmente nuovo per Cile, con il movimento popolare in ascesa e con una campagna elettorale presidenziale particolarmente difficile, nella quale figuravano tre candidati: - Salvatore Allende, candidato di UP (coalizione di sinistra: PC, PS, Partito Radicale, Movimento di alleanza popolare (MAPU) e Partito Socialista Democratico); - Jorge Alessandri, candidato dalla destra nazionalista; - Radomiro Tomic, candidato dalla DC (Democrazia Cristiana). Si andava alle urne con una situazione politica, che vedeva da un lato un forte schieramento di sinistra e dall’altro le tendenze moderate, divise in due schieramenti: la DC e le forze di destra. In questo quadro politico, alla vigilia della campagna elettorale il generale Schneider, comandante in capo dell’esercito, dichiarò l’8 maggio del 1970, in un’intervista nella prima pagina del «El Mercurio», i seguenti punti: 1) l’esercito garantirà il verdetto costituzionale o elettorale; 2) l’intervento dell’esercito nella politica è contrario a tutte le nostre dottrine; 3) se ci saranno delle anormalità o dei turbamenti, sarà nostro dovere assicurare il totale completamento del processo costituzionale; 4) sarà Presidente il candidato deciso dall’elettorato, se otterrà la maggioranza assoluta; o quello designato dal Congresso, nel caso che nessuno dei candidati lo ottenesse; 5) ogni membro delle Forze Armate, che sia “preoccupato” per certe idee politiche o attività e tendenze, dovrebbe lasciare le file della propria Arma e continuare a vivere come civile. Una serie di congetture e d’interpretazioni seguirono alle affermazioni del generale, in quanto si era in presenza di due fattori, che davano alle elezioni un carattere incerto ed enigmatico: - la generalizzata convinzione che lo scarto di voti per la vittoria dei tre candidati, sarebbe stato minimo; - la circostanza che nessuno di essi avevano l’appoggio maggioritario in Parlamento. Pertanto la solenne dichiarazione di rispetto dei procedimenti costituzionali poneva le Forze Armate e il suo comandante in capo in una posizione precisa di fronte a tutte le forze politiche, nessuna delle quali avrebbe potuto pensare di ribaltare la situazione politica, che si veniva a creare dopo le elezioni, con l’aiuto delle Forze Armate. Dopo la vittoria di UP, il 2 settembre 1970 Schneider dichiarò: «Noi appoggeremo e proteggeremo sino alla fine il Presidente che è eletto dal congresso».27 Il 25 ottobre 1970 Schneider fu assassinato da un complotto politico organizzato dalla destra e alcuni membri delle Forze Armate. L’uccisione di Schneider fu il primo esempio 27 Ivi, p. 182. 58 della violenta risposta reazionaria, data dagli USA e dagli oppositori di Allende alla “via pacifica al Socialismo”.28 Il 21 dicembre del 1970 il Presidente Allende descrisse Schneider come il simbolo del soldato con una coscienza umana e civica, che serve la madre patria in pace, obbedendo alla legge. La dottrina Schneider fu forse una continuazione del mito delle Forze Armate, e servì per mantenere una cecità generale rispetto alla presenza politica dei militari. Inoltre fu ingannata l’opinione pubblica, facendola pensare che Allende controllava le Forze Armate. La dottrina, un pò mitizzata dall’assassinio di Schneider, non fu conosciuta apertamente fino al 1970. In un discorso del 13 marzo del 1970 egli riaffermò la credenza popolare 28 Il Generale Prats racconta l’avvenimento nel suo diario: «El jueves 22 de octubre me encontraba trabajando en mi oficina del 50 piso del Ministerio de Defensa Nacional, cuando a las 08:30 suena el citófono interno y siento la emocionada voz del ayudante del Comandante en Jefe, Comandante Santiago Sinclair, quien me avisa apresuradamente que Schneider ha sido victima de un atentado, que está herido y que fue trasladado al Hospital Militar. Parto con el General Manuel Pinochet al Hospital Militar y nos encontramos con la dolorosa noticia de que el estado de Schneider es gravísimo. Su automóvil había sido bloqueado poco después de las 08:00 en la intersección de Martín de Zamora con Américo Vespucio por varios automóviles, para permitir que un grupo de individuos jóvenes rodeara su vehiculo, y destrozara con martillos los cristales traseros y de la puerta lateral izquierda. Estos, al percatarse de que Schneider intentaba usar su pistola, descargaron sus armas de fuego, algunas calibre 45, sobre su cuerpo vulnerable y huyeron. El conductor, viendo que Schneider se desangraba, se traslado a gran velocidad al Hospital Militar, donde — en los momentos en que llegamos con el General Manuel Pinochet — era eficientemente sometido a los auxilios que el grave caso requería por un grupo de cirujanos militares. Veo el cuerpo inconsciente de Schneider, inmóvil sobre la camilla, con su rostro hecho mármol y su busto bañado en sangre. Uno de los tres balazos le había perforado los pulmones, le rozó el corazón y le destrozó su hígado. Siento un intenso dolor ante la tragedia del gran amigo y me siento como si rodara por un negro precipicio, en medio de una vertiginosa iluminación de imágenes siniestras en que se alternan multitudes enloquecidas y despavoridas que gritan desaforadamente en medio del agudo traqueteo de ametralladoras y el ronco estallido de bombas. […]. A las 10:00 concurre el Presidente Frei al Hospital Militar, profundamente impresionado por lo ocurrido. Analizamos rápidamente la situación, te impongo de las medidas que he adoptado y me confirma su confianza como Comandante en Jefe Subrogante del Ejército. […] . A medianoche espero en el Hospital Militar el resultado de una segunda operación de Schneider. Lamentablemente, sólo puede lograrse el taponaje de la región abdominal. Su estado es de suma gravedad. Durante el día viernes 23 de octubre, entre viajes al Hospital Militar y a la Comandancia en Jefe, reviso y apruebo las medidas de seguridad para el funcionamiento del Congreso Pleno del día siguiente. La situación de orden público se presenta aparentemente controlada. En todos los cuarteles del Ejército se vive un estado de tensa indignación y de angustiosa espera de la evolución de los esmerados cuidados que los cirujanos militares prestan día y noche a Schneider. A las 13:00 del sábado 24 de octubre, es proclamado Salvador Allende Gossens como Presidente de la República: 153 votos a su favor de los partidos de la Unidad Popular y Democracia Cristiana, 35 votos en favor de Alessandri y 7 votos en blanco. A las 19:00, los tres Comandantes en Jefe, Almirante Tirado, General Guerraty y yo, con el General Director de Carabineros, Vicente Huerta, cumplimos el deber protocolar de saludar al Presidente Electo en su domicilio. Es la primera vez que converso con Salvador Allende. Enseguida, me traslado al Hospital Militar donde recibo esperanzado el informe médico de que Schneider ha experimentado una leve reacción favorable. El domingo 25 de octubre, a las 07:30 me avisan telefónicamente del Hospital Militar que Schneider ha sufrido un paro cardiaco. Llego a las 07:50 a la sala de operaciones, en el momento que el Comandante en Jefe deja de existir». Cfr., Carlos Prats Gonzales, Memorias. Testimonio de un soldado, cit., pp. 184-187. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA La Moneda che le Forze Armate avrebbero rispettato il sistema legale democratico: Nel nostro paese viviamo sotto un governo legale, il quale è stato eletto, accettato e controllato dal popolo, dalla nazione. Il sistema elettorale, dal quale è derivato il presente governo, è definito con assoluta precisione; e nel relativo processo legale le Forze Armate devono agire come una garanzia e un pilastro per la sua normale e giusta comprensione.29 29 Il discorso è tenuto da Schneider il 13 marzo del 1970 al Consiglio Generale delle Forze Armate Cilene. Il Generale Carlos Prats, presente alla riunione, descrive l’avvenimento nelle sue memorie: «El 13 de marzo se inicia un Consejo de Generales. al que asisten los generales de división Manuel Pinochet, Pablo Schaffhauser, Camilo Valenzuela, Francisco Gorigoitía y yo; los generales de brigada Eduardo Arriagada, Raùl Poblete, José Larrain, Galvarino Mandujano, Augusto Pinochet, Orlando Urbina, Furique Garín, Manuel Torres de la Cruz. Oscar Bonilla, Ervaldo Rodriguez, José Valenzuela, Alfredo Canales, Eduardo Cano, Pedro del Río y José Rodríguez, y el Coronel Mario Sepúlveda. No concurrieron, por encontrarse transitoriamente en el extranjero los generales de brigada Rolando González y Héctor Bravo y el Agregado Militar en los EE.UU., General de brigada Ernesto Baeza. He enumerado los asistentes a este consejo, porque, además de ser el primero en que Schneider reunía a todos los generales, es la oportunidad en que el Comandante en Jefe define con absoluta claridad su pensamiento completo sobre la situación que vivía el Ejército, y señala las pautas orientadoras de la marcha de la Institución en el futuro». Ivi, pp. 147-148. La dottrina Schneider fu un prodotto storico del ruolo dei militari sino al 1970, soprattutto come un gradino nell’evoluzione della relazione che le Forze Armate avevano col potere civile, relazione che era subordinata alla situazione politica, formulata in difesa degli interessi della sicurezza nazionale basati sulla Costituzione del 1925. Le opinioni politiche del generale non andavano di conseguenza molto più in la della Costituzione e avevano soprattutto l’intento di convincere sia i settori civili sia quelli militari del dovere costituzionale dei militari. La dottrina Schneider non è una dichiarazione rappresentativa del pensiero degli ufficiali cileni ma piuttosto un’opinione personale, con effetti soprattutto orali o non necessariamente pratici. Si aggiunge che il relativo terreno di prova furono gli avvenimenti del 1970-73, quando la dottrina fu portata alla pratica dal generale Prats, secondo comandante in capo di Schneider e comandante in capo sotto Allende. Per una migliore conoscenza della dottrina o del pensiero di Schneider si riportano le frasi più importanti di alcuni suoi appunti, stesi nei momenti cruciali di settembre-ottobre del 1970. Sono note personali su un seminario, che lui tenne all’accademia di guerra il 10 settembre e quelle relative a un 59 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 suo discorso all’accademia del politecnico il 15 ottobre. Dagli appunti sul seminario si deduce che per lui due problemi si presentavano all’esercito e soprattutto al suo comandante in capo: 1) l’esercito non doveva convertirsi in un ostacolo tra le due principali forze elettorali; 2) il futuro dell’esercito trascendeva la politica qualunque fosse il partito eletto per governare. Qual è il nostro atteggiamento? L’unico: la legalità. Gli altri atteggiamenti ci dividono, e ci collocano contro il popolo. I risultati elettorali sono sotto la nostra responsabilità. La soluzione è politica e spetta al Congresso; non è sicuramente una soluzione armata. No alla guerra civile. Il nostro futuro è inquietante e insicuro, anche sotto altri aspetti. Assicurare la nostra istituzionalità: difficile, ma non impossibile. Sia Allende sia Alessandri richiedono appoggio per governare. Ci sono dettagli precisi per negare quest’appoggio: il Congresso. Uniti, saremo capaci.30 Negli appunti per il suo discorso all’accademia del politecnico militare, il 15 ottobre del 1970, scrisse: L’ambiente istituzionale attuale richiede dimostrazione di tranquillità professionale. Riconosco inquietudine nelle persone, dubbi sul futuro, angoscia personale che io ho. Questo non può cambiare il nostro atteggiamento professionale. L’ho detto molte volte che è l’unica cosa che ci unisce. Intimidazioni, infiltrazioni multiple, Generale Viaux, politici diversi, lettere, telefono,conversazioni; obbiettivo rompere l’unione (...). Politica seguita mantenimento della posizione legale. Mantenere contatto (...); appoggio a ciò che decide il Congresso. Per golpe, informazioni opportune. Mantenere l’unione istituzionale, preparazione per attuarla, piani e analisi di ogni circostanza. Politica: futura garanzia costituzionale nostra principale difesa, nostra inalterabile posizione, dottrina chiara e precisa; unione istituzionale (dentro l’esercito) e tra istituzioni (con marina e aviazione). Proporre al futuro governo politica di difesa nazionale, politica istituzionale. Pianificazione per sei anni: definizione, obiettivi, classificazione; programmare la nostra evoluzione. Non fermare l’evoluzione e i cambi. Dobbiamo accettarli, dirigerli; non cadere in estremi. Ciò che non desidero: sono colpi di stato militari o civili, organizzazioni civili con molteplici obiettivi, campagna del terrore.31 Questa dottrina illumina, nelle vissute circostanze del 1970, certe posizioni strategiche che adottò Schneider come militare costituzionalista e non come un politico civile né con interessi in mente, che non fossero quelli puramente democratici. Possiamo riassumerle brevemente: 1) l’esercito deve appoggiare l’evoluzione democratica; 2) l’esercito è il garante di questo processo, e come tale ha l’ultima parola in questi problemi; 3) l’appoggio del parlamento e dell’esercito è essenziale per il governo, sia di sinistra sia di destra; 4) l’unità dell’esercito è fondamentale per evitare una situazione di guerra civile; 5) l’unità può essere raggiunta soltanto con l’appoggio totale al regime legale. LA COSTITUZIONE DEL 1925 30 Cfr., Joan Garces, Allende y la experiencia chilena – las armas de la critica, Barcelona, Ed. Ariel, 1976, p. 273-274. Inoltre cfr., AA.VV., El caso Schneider, cit., pp. 187-192. 31 Ibidem. 60 I fattori storici che hanno forgiato il carattere dei militari cileni (Forze Armate e Carabinieri) non sono una serie lineare di elementi trascendenti. Invece, molti dei problemi del ruolo delle Forze Armate nella vita della società cilena si trovano, di fatto, mascherati col risultato che tra il dettato costituzionale e l’azione quotidiana dei militari si sviluppano divari e contraddizioni tra le Forze Armate e la società. La Costituzione del 192532 fornisce il referente essenziale per comprendere adeguatamente il comportamento e l’attività dei militari per tutto il periodo del governo costituzionale in Cile sino al 1973. Uno dei miti della cultura politica cilena è che le Forze Armate sono fuori o sopra le parti, dalle lotte e dei problemi sociali e politici della società. Per tale cultura la presenza delle Forze Armate nella società è solo in funzione della difesa delle frontiere nazionali e dei relativi interessi strategici, includendo in tale difesa quella del patrimonio nazionale e della sicurezza di tutti i cittadini o dell’ordine interno. Così dovrebbe essere. Così forse non è stato nel Cile al tempo della crisi dal 1970 al 1973. Infatti, tale concezione dimentica che in genere le Forze Armate hanno un alto potere coercitivo col risultato che in una situazione di forte polarizzazione politica possono avere un ruolo traumatico. ORIGINE DELLA COSTITUZIONE DEL 1925 Alla prima Costituzione del Cile, nel 1828, caratterizzata come liberale pur essendo stata emanata sotto la presidenza di Francisco Antonio Pinto, che era stato un generale dell’esercito cileno, seguì la Costituzione del 1833 fondata, a differenza della precedente, su “principii nettamente autoritari e conservatori”; e anche questa volta il Presidente della Repubblica, Joaquin Prieto, era un generale dell’esercito cileno. Nel 1891 l’ordinamento costituzionale fu notevolmente modificato, il potere esecutivo fu ridotto quasi all’impotenza e si rafforza invece quello legislativo-parlamentare. Il testo della Costituzione del 1833, interpretata erroneamente da buona parte della storiografia come la carta autocratica voluta dal ministro 32 Hasta el 11 de Septiembre de 1973 rigió en Chile la Constitución de 1925, preparada en ese año por una comisión pluralista designada por el entonces Presidente de la Republica don Arturo Alessandri y aprobada plebiscitariamente en Agosto del mismo año. Su contenido, en lo fundaméntale es el mismo de la Constitución de 1833, aunque hizo avances en materia de garantías individuales e y sociales, definición del régimen político y perfeccionamiento de Estado de Derecho. Por ello, puede decirse que ha habido en Chile, formal y sustantivamente, una notable continuidad y regularidad constitucional, desde 1833 hasta 1972, es decir, durante 140 años. Cfr., Jorges Tapia Valdés, Poder Judicial, gobiernos de facto y protección de la Constitución: el caso de Corte Suprema de Chile, Rotterdam, Institute for the New Chile, 1979, p. 33. Jorge Tapia Valdés, abogado y profesor universitario, desempeñó tareas docentes en la Universidad de Chile como Profesor de Derecho Constitucional. En los últimos años ha sido investigador y docente en varias universidades latino y norteamericanas. Actualmente es Profesor Visitante de Derecho Publico en la Universidad Erasmo de Rotterdam y asociado del Instituto para el Nuevo Chile. Durante el gobierno del Presidente Allende desempeño las carteras ministeriales de Justicia y Educación. El presente trabajo fu expuesto y debatido durante el Seminario sobre Seguridad Nacional y Fuerzas Armadas, organizado por el Instituto para el Nuevo Chile en Febrero de 1979. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA degli interni [Diego Portales], rappresenta la volontà dei costituenti di andare al di là dell’emergenza politica e dei rapporti di forza del momento e di disegnare una istituzionalità di più ampio respiro. In essa vengono recepite le inquietudini dei liberali dell’epoca e in essa convivono, in una sorta di curioso equilibrio, elementi di presidenzialismo e di parlamentarismo. Non a caso rimane in vigore, per quasi un secolo, sino al 1925 e garantisce il quadro istituzionale del paese anche durante l’esperienza del parlamentarismo (1891-1925).33 Con l’inizio del nuovo secolo la situazione politica diventa ancora più instabile per l’inasprirsi della questione sociale e anche in Cile fecero la loro comparsa “i partiti democratici”, che nelle elezioni del 1924, ebbero la maggioranza in entrambe le camere sotto la presidenza di Arturo Alessandri, un civile di origine italiana che in precedenza aveva formulato un programma politico democratico e quasi rivoluzionario per quegli anni. Basta pensare al decentramento amministrativo, al suffragio femminile, alla separazione della chiesa dallo stato, all’imposta sul reddito, al codice del lavoro e al controllo del governo sull’industria dei nitrati. Esasperati dall’indifferenza con cui i parlamentari affrontano la loro richiesta di aumenti salariali, il 2 settembre 1924, 56 ufficiali dell’esercito fanno irruzione nel Senato mentre è in corso un dibattito su un progetto di legge per l’istituzione di uno stipendio ai parlamentari (le cariche parlamentari non sono retribuite) come strumento di democratizzazione del Congresso che avrebbe permesso l’accesso a persone senza fortune personali, e esprimono la loro protesta. Qualche giorno dopo formano un comitato che presenta a Alessandri un memorandum con una serie di petizioni. Queste ultime, vanno al di là delle rivendicazioni dei militari e includono una serie di punti contenuti nel programma elettorale di Alessandri mai realizzati. Tra questi viene contemplata la riforma della Costituzione, la promulgazione immediata di uno statuto dei lavoratori, l’approvazione di un’imposta alla rendita e una serie di altre leggi riguardanti la questione sociale. […]. All’Esercito intanto si associa nella protesta la Marina, dichiaratamente antialessandrista. Dinanzi a questa situazione Alessandri rinuncia alla sua carica e abbandona il paese. L’11 settembre del 1924 si costituisce una giunta militare che annuncia i suoi propositi di “abolire le falde politiche” e convocare una libera assemblea costituente con l’obiettivo di redigere una nuova Costituzione che ponga fine al “parlamentarismo selvaggio” degli ultimi trent’anni e accolga le aspettative legittime di ordine e progresso del popolo cileno. Alla fine di questo processo le forze armate sarebbero ritornate nelle loro caserme. […]. Dopo pochi mesi la giunta militare si scioglie e dà vita, insieme a esponenti dei Partiti radicale, democratico e a alcune frazioni dei liberali, a un movimento di militari e civili che chiedono il ritorno di Alessandri e la formazione di un governo civile. Il presidente riassume il suo incarico alla fine del gennaio 1925 […] nomina immediatamente una commissione consultiva costituita dai rappresentanti di tutte le tendenze politiche, inclusi i comunisti, e delle organizzazioni sociali con il compito di preparare e organizzare un’assemblea costituente che però, per problemi dovuti alle tensioni politiche, non viene mai eletta. La commissione consultiva si fa quindi carico della stesura della nuova Costituzione che, sottoposta a plebiscito, viene votata in agosto e promulgata il 18 settembre 1925. Sottraendo al Congresso una serie di prerogative in materia finanziaria, […] Alessandri instaura un regime di tipo presidenziale. […]. Ma il punto debole di questa Costituzione è il nodo non risolto della relazione presidente-parlamento. Il grande potere extraparlamentare dei partiti politici che era stato un elemento fondamentale della crisi del sistema politico precedente, sopravvive alla riforma del 1925 e nel corso dei decenni successivi si consoliderà sempre di più.34 33 Maria Rosaria Stabili, Il Cile. Dalla Repubblica Liberale al dopo Pinochet (1861-1990), Firenze, Giunti Gruppo Editoriale, 1991, p.13. 34 Ivi, pp. 49-51. Il 30 agosto del 1925 fu votata la nuova Costituzione che rimase in vigore fino al 1980. ALCUNI RILIEVI SULLA COSTITUZIONE DEL 1925 La Costituzione del 1925 è divisa in dieci capitoli, con un totale di 110 articoli, più dieci disposizioni transitorie. La commissione Consultiva fu consigliata da un gruppo di tecnici, che la perfezionarono dal punto di vista lessicogrammaticale e giuridico. Tuttavia, per la ristrettezza del tempo, si commisero degli errori, così ad alcune materie non si diedero l’ubicazione e l’importanza che le circostanze richiedevano. Inoltre la Costituzione del 1925 non è stata applicata nella sua integrità perché i precetti, che contengono alcune delle più interessanti riforme, non sono stati mai regolati. Così avvenne con le assemblee provinciali, i tribunali amministrativi, l’indennizzo per i condannati poi risultati innocenti, la proprietà familiare, e altre disposizioni, che sono state chiamate “le disposizioni programmatiche incomplete della Costituzione del 1925”. A esse si deve aggiungere che il decentramento amministrativo, cui aspiravano i costituzionalisti del 1925, non si realizzò mentre, di fatto, si accentuò la centralizzazione, con evidente danno per la vita delle provincie e specialmente degli organi di amministrazione locale che sono le municipalità. Sono numerosi i progetti di riforma che sono stati presentati per modificare la Costituzione del 1925, ma molti di essi non sono stati nemmeno discussi. Solo due leggi di riforma sono state promulgate: - la legge n. 7727, del 23 novembre del 1943; - la legge n. 12548, del 30 settembre del 1957. La prima aveva come finalità principale quella di ordinare la finanza; l’altra invece trattava della nazionalizzazione dei nati in Spagna e della perdita della nazionalità cilena. Dal 1925 fino al 1973 si è creata una nutrita e interessante legislazione complementare e regolamentare della Costituzione35, in vigore sino al 1980, anno in cui è stata promulgata la nuova Costituzione cilena da Pinochet. L’ARTICOLO 22 DELLA COSTITUZIONE Per comprendere in maniera sufficientemente adeguata “il mito militare cileno” e quindi la reale funzione dei militari nella vita della Repubblica, si deve soprattutto analizzare l’articolo 22 della Costituzione, che fu ridefinito nel 1970. Art. 22.- La fuerza pública está constituida única y exclusivamente 35 El estudio de la Constitución de 1925, de las decisiones judiciales y de la práctica política chilena, lleva a la conclusión de que el país había elaborado un vasto y complejo sistema de protección de la supremacía constitucional. Dentro de dicho sistema, podían distinguirse tres niveles de control de la constitucionalidad: el de los actos del Poder Legislativo, el de los actos políticos de Gobierno, y el de los actos comunes de la Administración ordinaria. Cfr., Jorges Tapia Valdés, Poder Judicial, gobiernos de facto y protección de la Constitución: el caso de Corte Suprema de Chile, cit., p.12. 61 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 por las Fuerzas Armadas y el Cuerpo de Carabineros, instituciones esencialmente profesionales, jerarquizadas, disciplinadas, obedientes y no deliberantes. Sólo en virtud de una ley podrá fijarse la dotación de estas instituciones. La incorporación de estas dotaciones a las Fuerzas Armadas y a Carabineros sólo podrá hacerse a través de sus propias escuelas institucionales especializadas, salvo la del personal que deba cumplir funciones exclusivamente civiles.36 Secondo tale articolo «La forza pubblica è essenzialmente ubbidiente. Nessun gruppo armato può deliberare». Nel 1970 si precisò che «La forza pubblica è istituita unicamente ed esclusivamente dalla Forza Armata e dai carabineros, istituzione professionale, gerarchizzata, disciplinata, obbediente e non deliberante». In primo luogo la forza pubblica è un’istituzione professionale. La sua unica funzione è l’intervento tecnico, difensivo e repressivo, per la conservazione dell’ordinamento legale e costituzionale della società cilena. Pertanto la forza pubblica non deve infiltrarsi in nessun altro campo di attività e tanto meno in quello politico. In astratto la professionalità della forza pubblica è senz’altro un alto valore sociale ma per la sua adeguata valutazione, deve essere considerata nel concreto della società cilena. Nel 1925, quando fu promulgata la Costituzione, l’ordinamento economico-sociale della Repubblica cilena era di natura capitalistico-borghese, e per di più il capitalismo cileno era subordinato a quello internazionale e soprattutto a quello statunitense. In questo modo “la professionalità” o l’efficienza difensiva e offensiva dei militari serviva alla difesa dell’ordinamento capitalistico della società. Quest’aspetto negativo della professionalità dei militari cileni è sottolineata dal fatto che gli ufficiali potevano partecipare alle elezioni nazionali mentre ai soldati invece questo diritto era negato. Gli ufficiali in genere avevano una formazione alto-borghese, la più favorevole all’ordinamento sociale ed economico capitalistico e, di conseguenza la loro partecipazione attiva alla vita e alla lotta politica non poteva essere un pericolo per tale ordinamento. Invece i soldati, in genere di estrazione popolare, aderiscono molto facilmente soprattutto a movimenti politici contrari al capitalismo. Di qui la necessità di negare loro il diritto al voto nelle elezioni nazionali affinché salvaguardassero la loro professionalità militare. Così i soldati potevano essere usati come dei burattini, che devono attendere unicamente a quanto gli ufficiali, ordinavano. Un altro limite della professionalità dei militari, particolarmente se eccessiva, è una specie d’isolamento sociale. La specializzazione tecnica di tipo militare può rendere difficile l’inserimento nella società civile, quando si lascia il servizio militare. Da tutto ciò deriva una lunga permanenza degli ufficiali ed anche sottufficiali nell’esercito, con il conseguente quasi totale distacco dal resto della società. L’aspetto negativo del fenomeno è evidenziato dal grado 36 Artículo sustituido por la Reforma Constitucional contenida en la Ley N. 17.398, de 9 de Enero de 1971. 62 di chiusura dei circoli militari, soprattutto degli ufficiali. A volte la chiusura è tale che gli iscritti sembrano membri di una casta. Per alcuni teorici l’esclusione dei militari dalla vita politica è un elemento del sistema sociale borghese, studiato per isolare i militari dai conflitti presenti nelle società borghesi. Tale fatto però si tratta di un equivoco perché gli ufficiali, in genere di formazione borghese, interverranno con tutta la forza repressiva delle armi se i conflitti sociali mettono in pericolo gli interessi o i privilegi della borghesia. Il mito della professionalizzazione dell’esercito fu rotto dal Tacnazo del 1969 quando il reggimento blindato “Tacna” distanza a Santiago, occupò la caserma (come l’anno prima avevano fatto gli studenti con l’Università e i cristiani di sinistra con la Cattedrale) e pose una serie di rivendicazioni professionali (più armi) e sindacali (più salario). Il capo dell’iniziativa era il generale Viaux, messo a riposo proprio alla vigilia del colpo e molto popolare per le sue prese di posizione “sindacali” in favore dei militari. La rivolta si spense non appena fu data la garanzia che sarebbero state accolte le rivendicazioni; ma se solo il reggimento blindato si ribellò apertamente, in pratica tutto l’esercito fu complice poiché l’aviazione si rifiutò di intervenire e i “reparti fedeli” non diedero l’assalto alla caserma occupata. L’episodio del Tacna, “il primo sciopero dei militari in Cile”, fa sospettare «al livello più alto della gerarchia militare, un abbozzo di manovra più politica che professionale, tendente a revocare alla Democrazia Cristiana il beneficio dello sforzo che essa si decideva in extremis a compiere in favore delle Forze Armate, obbligandola ad agire sotto la pressione delle baionette»37: un’operazione di inequivocabile segno di destra. È importante chiarire che se la ribellione poté passare ed avere una conclusione vincente fu a causa di una frattura, ormai consolidata all’interno delle Forze Armate. La rottura del rigoroso professionalismo, che da quarant’anni circa aveva caratterizzato l’esercito nella sua interezza, significava il rifiuto, di segno politico uniforme, di “un’ideologia militare” che si basava su una sostanziale adesione al regime. L’esercito risentiva delle forti tensioni sociali e le esprimeva al suo interno mostrandosi politicamente non unificato, fra un’ala di destra golpista e fascista, di “stampo brasiliano”, e un’ala di sinistra, addirittura di estrema sinistra. In mezzo vi era la massa indecisa, turbata dal pronunciamento del Tacna, ma che si rifiutava di dargli un contenuto propriamente politico e che una volta soddisfatte le domande relative agli stipendi e agli armamenti, accettò la capitolazione degli ammutinati e le sanzioni per avere attentato alla disciplina. La forza pubblica gerarchizzata. Cioè è un’organizzazione centralizzata o di vertice, e tutto l’esercito è subordinato al 37 Gli avvenimenti citati sono avvenuti durante il governo Frei. Dopo tali eventi il governo nomina al comando dell’esercito il generale Schneider, un militare assolutamente costituzionalista e professionalmente rispettato che avrà il difficile compito di restaurare la disciplina nei ranghi militari. Cfr., Alain Joxe, I militari cileni dal legalismo alla violenza istituzionale, in «Politica Internazionale», n.11, novembre 1973, p.49. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA controllo di un ristretto gruppo degli alti membri dell’élite professionale. Invece la massa dei militari prima è addottrinata con i valori astratti di “Nazione”, “Ordine”, “Madre Patria” e simili, dietro i quali sono però nascosti i reali e concreti interessi della borghesia. Tutto ciò porta a sviluppare tra di essi differenze economiche, sociali e di prestigio, e così si mantiene fra i militari una permanente atmosfera competitiva. Segue l’ubbidienza cieca o meccanica perché, eccettuati i pochi che riescono ad analizzare adeguatamente le mistificazioni, tutti pensano che la fedeltà agli ordini di quelli che stanno al vertice dell’organizzazione è per la salvaguardia dei suddetti valori. La forza pubblica è disciplinata. La disciplina militare, che riguarda la struttura stessa delle Forze Armate, è l’insieme delle norme sull’ubbidienza o sull’obbligo dei militari di eseguire gli ordini ricevuti dai propri superiori; e dipende proprio da tale obbedienza la forza del principio gerarchico. Le norme sull’ubbidienza militare sono contenute soprattutto nel libro del regolamento militare. Ad esempio l’articolo 6: Il soldato deve essere cosciente che, solo compiendo esattamente il suo dovere nel suo rango, gli può essere riconosciuta la più alta stima dai suoi superiori; perciò deve dimostrare un grande amore per il servizio, ambizioni oneste ed un costante desiderio di essere utilizzato in situazioni di alto rischio; deve inoltre dimostrare valore, talento, preparazione e costanza in tempo di pace e di guerra; ed un grande spirito di sacrificio, contrario a qualunque altra intenzione egoistica. 38 Le forme più rilevanti d’indisciplina sono la sovversione, l’ammutinamento, la diserzione, l’omissione d’informazione su attività sovversive e l’insubordinazione. Tali forme d’indisciplina sono considerate crimini e la loro pena massima è la morte. È facile avvertire che la disciplina militare, così concepita, riduce i soldati e i sottufficiali ma anche gli ufficiali inferiori a degli automi nelle mani dei più alti gradi militari, dei quali già si è detto che anche in Cile erano soprattutto di estrazione borghese e perciò a servizio del relativo ordine sociale di tipo capitalistico. Vi sono però l’articolo 335 e parte dell’articolo 336 del codice di giustizia militare, che contengono delle norme apparentemente contrarie al suddetto articolo 6. Art. 335. Se un inferiore ha ricevuto un ordine e sa che il superiore nel dettarla non ha potuto verificare sufficientemente la situazione, o quando gli avvenimenti hanno anticipato gli ordini, o se teme con ragione che l’esecuzione di un ordine produce un male grave che il superiore non ha potuto prevedere, o l’ordine tende notoriamente all’esecuzione di un delitto, il subalterno potrà sospendere l’esecuzione dell’ordine e nel caso urgente anche modificarlo, dandone però l’immediato resoconto al superiore. […]. Art. 336 […]. Se però il subalterno non si attiene all’ulteriore ingiunzione del superiore di eseguire l’ordine, momentaneamente sospeso o modificato, potrà ricevere la massima reclusione militare e persino 38 Reglamento de Disciplina para las Fuerzas Armadas, n. 1445, Santiago, 14 de diciembre de 1951, in Código de Justicia Militar, cit., p. 301. la morte.39 L’articolo 335, considerato attentamente, non è contrario all’articolo 6 del regolamento militare ma lo rafforza. Di fatto il sottoposto può momentaneamente sospendere o modificare un ordine del superiore, solo perché si realizzi meglio lo scopo per il quale l’ordine è stato emanato e che circostanze concrete, sfuggite al superiore, possono impedire il conseguimento. Deve perciò avvertire al più presto il superiore, che, di fatto, accetta la momentanea sospensione dell’esecuzione dell’ordine impartito o la sua modificazione solo o soprattutto in funzione dello scopo reale, che si era prefisso nell’emanarlo. In conclusione, la disciplina delle caserme cilene è simile al funzionamento di una macchina o di un robot. Tutti devono eseguire bene e presto qualsiasi ordine, soprattutto in circostanze difficili, al di fuori di qualsiasi considerazione sulla sua obiettiva razionalità e del suo valore umanamente non negativo. La forza pubblica è obbediente. Per l’articolo 22 della Costituzione l’aggettivo “obbediente” non si riferisce all’obbedienza automatica, propria dell’istituzione militare; ma a quella istituzionale dei militari di grado superiore al potere civile, perché il capo supremo costituzionale di tutti i militari è il Presidente della Repubblica, riconosciuto come “Generalissimo”. Non si tratta di un’autorità puramente decorativa o non funzionale nell’amministrazione militare. È un potere discrezionale, del quale la Costituzione ha investito il Presidente e che discuteremo più avanti. Qui si vuole rilevare soltanto che, nella relazione tra potere civile e quello militare, l’obbedienza-servizio dei militari di grado superiore molto facilmente genera insoddisfazione in essi, perché possono sentirsi minacciati dal potere del Presidente. La forza pubblica è non deliberante.40 Questo termine deve essere collegato a professionale e si riferisce alla “prescindenza politica” delle Forze Armate, tanto quanto istituzione che riguardo ai suoi membri soprattutto di grado superiore: è loro proibito di deliberare su qualsiasi aspetto della società cilena. 39 Ivi, p. 112. 40 La Constitución Política actual transcribió el antiguo Art. 157 y le dio un nuevo numero: 22. Las Actas de las Comisiones de Reforma, al referirse a este artículo dicen escuetamente: “no dio lugar a debate; se aprueba tal como estaba en la Constitución de 1833”. Y en esta forma los Constituyentes de 1925 jugaron una mal pasada a los miembros de las Fuerzas Armadas y no aclararon su verdadero sentido y alcance. La caída de O’ Higgins; la tentativa o’ higginista de 1825; el motín de Campino; la disolución de tres Congresos; las renuncias de Blanco y Eyzaguirre; los motines militares por falta de pago; el hábito de cuartelazos y pronunciamientos; todos son antecedentes concretos que indujeron a los constituyentes de 1833 a poner fin a este estado de desintegración cívica mediante un precepto constitucional riguroso, inflexible, lacónico: “La Fuerza Pública es esencialmente obediente, Ningún Cuerpo Armado puede deliberar”. Era la fórmula más positiva de terminar con este espíritu de turbulencia; había que encauzar a las Fuerzas Armadas de esa época por un sendero diferente; ellas debían, antes que la sociedad, conjurar el peligro y la anarquía. Y éstos son, a mi juicio, los antecedentes que indujeron a los constituyentes de 1833 a contemplar una disposición rígida, ajustada a la época […]. Cfr., Capitán Fernando Montaldo Bustos, Ningún cuerpo armado puede deliberar, «Memorial del Ejército», Julio-Agosto, 1953. 63 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 Su questo tema il comandante in capo generale Carlos Prats entrò in una disputa pubblica con i senatori democristiani, di opposizione, circa l’integrazione di alcuni alti capi militari imposti da gabinetti politici nel 1972. Posteriormente e stando in esilio Prats commentò che la tanto discussa prescindenza politica della Forze Armata cilena ha contribuito al suo isolamento dalla vita sociale e a una concezione profondamente deformata dei problemi sociopolitici.41 Perciò nel pieno della crisi del 1972 Prats patrocina almeno l’integrazione del comandante in capo in ogni ramo del governo. E prima di questa crisi il corpo dei generali aveva consegnato al Presidente Allende un memorandum, che è riprodotto nel libro-memorie di Prats e dal quale traspare con molta chiarezza il carattere nettamente politico e di natura almeno centrista ma forse anche di destra della loro richiesta. Essi erano in accordo con la posizione del partito Democratico Cristiano e senz’altro avrebbero costituito, con la loro presenza in seno al governo, “un gruppo di pressione politica” in linea con gli elementi più di destra di tale partito. Da quanto si dirà studiando il pensiero di Prats, la richiesta di partecipazione alla vita politica da parte dei generali è disegno contrario a quanto intendeva Prats. Quest’ultimo era per l’inserimento dei supremi comandi delle Forze Armate nella vita politica allo scopo di un migliore sviluppo della società cilena e quindi di tutti i suoi cittadini. L’alta ufficialità invece, pensava che con la loro presenza nel governo, si rafforzava la pressione politica di centro e di destra. IL PROBLEMA MILITARE CILENO Raul Ampuero, parlando del problema militare cileno al tempo del governo di UP 1970-73, si pone due domande: Fu il rispetto della legalità formale, che permise alla coalizione di UP di guadagnarsi il favore delle Forze Armate per instaurare il socialismo? O al contrario l’appoggio, che queste dettero al governo, rese impossibili i cambiamenti rivoluzionari?42 Il presente lavoro ha cercato di rispondere nel seguente modo alle due domande. La fedeltà formale al dettato costituzionale, secondo il quale gli alti ufficiali delle Forze Armate cilene non hanno un potere deliberante e il loro capo supremo è il Presidente della Repubblica, ebbe un’importanza rilevante perché esse si mettessero dalla parte del Presidente legittimamente eletto dal popolo e poi designato dal Congresso. Le Forze Armate, infatti, appoggiarono il Presidente nella relativa azione governativa per la realizzazione del socialismo per la via pacifica; ma solo nella fase iniziale o sino a quando la collaborazione produceva per essi miglioramen41 Cfr., Carlos Prats González, Memorias testimonio de un soldado, Santiago, Ed. Pehuèn, 1985, pp. 580-610. Inoltre cfr., Guido Vicario (a cura di), Il soldato di Allende. Dalle “Memorie” di Carlos Prats González, Roma, Editori Riuniti, 1987, pp.229-233. 42 Raúl Ampuero, El poder político y las Fuerzas Armadas, Santiago, Ed. Punto Final, 1973.p. 2 64 ti economici e di potere e purché la volontà per le riforme socialiste non avesse mai toccato i fondamenti dell’ordinamento capitalistico-borghese del Cile. In altre parole era un assurdo storico e sociale l’idea di realizzare il socialismo, in una società come quella cilena, con l’aiuto delle Forze Armate. CONFERMA TEORICA L’assunto è dimostrato anzitutto teoricamente. In tutte le società storiche del passato, l’esercito è stato sempre lo strumento più efficace del potere di una o più classi dominanti. L’esempio più tipico possono essere gli eserciti popolari della Rivoluzione Francese. Da quando Napoleone diventò Primo Console, l’esercito francese combatté soprattutto per gli interessi della classe borghese, che si stava sostituendo all’antica nobiltà nella funzione di classe dominante. Limitando il discorso al Cile, si può dire che né il professionalismo né la neutralità ideologica potevano impedire che le relative Forze Armate non fossero in funzione dell’ordinamento capitalistico o per il mantenimento di un ordine sociale, che difende e sviluppa i privilegi di una o più classi dominanti. E conosciamo bene i relativi meccanismi. A) La stretta dipendenza dell’individuo dall’istituzione militare. 1) Nonostante la legislazione militare cilena preveda, come quelle europee, il principio dell’obbedienza critica, l’imposta abitudine ad assimilare l’ordine gerarchico genera nel soldato un meccanismo di ubbidienza automatizzata, fino a dare alla subordinazione gerarchica un carattere quasi assoluto. 2) L’istituzione militare garantisce al soldato, che ha ubbidito agli ordini, una protezione nei confronti delle istituzioni civili; e ciò da un lato dà sicurezza al soldato, dall’altro lo lega irrimediabilmente a una concezione corporativa della giustizia. 3) La formazione professionale, unilaterale ed escludente qualsiasi utilizzazione civile, contribuisce a legare i soldati e soprattutto gli ufficiali all’istituzione. 4) Il principio della cosiddetta neutralità ideologica, di fatto, consiste nella proibizione a deliberare. Inoltre si attua con maggior vigore e quasi soltanto negli strati più bassi della scala gerarchica, dove assume la funzione di barriera contro l’eventuale contagio d’idee, soprattutto valide, che possono mettere in crisi la cieca ubbidienza militaresca. Invece diventa sempre di più, specialmente negli alti gradi, pretesa a un ordinamento sociale nel quale i militari, particolarmente i più alti in grado, devono essere favoriti come e più di tutti gli altri cittadini di pari dignità e professionalismo. B) La fusione istituzionale con il sistema socio-politico capitalista. 1) La Costituzione prevedeva un controllo sulle Forze Armate; ma con una serie di meccanismi si cercò sempre di sottrarle a ogni forma di controllo democratico. A questo scopo era funzionale la suprema ed esclusiva autorità del Presidente sopra i corpi armati, vera e propria garanzia del mantenimento dell’esercito al di fuori di ogni contatto con SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA le idee ed i partiti rivoluzionari; e furono proprio le Forze Armate che eliminarono, anche fisicamente il legittimo Presidente costituzionale. 2) In tutte le norme di diritto e canoni di comportamento ideologico, che legano l’esercito agli organi del potere, l’istituzione della “zona di emergenza” è quella che fa meglio risaltare l’integrazione della macchina militare con il potere civile e, in particolare,con i partiti che specificatamente lo esercitano. Infatti, nella zona, dichiarata di emergenza, il comandante del corpo militare assume anche il potere civile. Inoltre, mentre inizialmente tale istituzione era legata a situazioni di minaccia militare esterna o di calamità naturale, sotto l’amministrazione democristiana fu data la facoltà al Presidente di dichiarare una zona di emergenza per affrontare situazioni di agitazione sociale o politica. Un esempio efficace è dato dai fatti di El Salvador, quando l’autorità del comandante della piazza si estese fino all’interno della fabbrica Andes Copper, diventando lo strumento della direzione della fabbrica. 3) La rigorosa stratificazione, vigente all’interno dell’esercito, durante il processo di formazione degli ufficiali è spinta a un tal punto, che fra ufficiali e sottufficiali si forma una vera e propria barriera quasi infrangibile. 4) La negazione del diritto di voto ai sottufficiali i quali rimangono gli unici cileni a non poter votare, cioè a non usufruire di quel diritto di cui godono gli analfabeti, gli invalidi e tutti i cittadini maggiori di diciotto anni. C) Subordinazione della difesa nazionale del paese a una concezione “emisferica”. Questa subordinazione si manifesta attraverso i trattati, che avevano il loro centro nei Patti di Mutuo Aiuto (PAM) ed erano stati sottoscritti e firmati dal Cile nel 1952. Con essi il sub-continente diventa una specie di santuario del “mondo libero”, il cui nemico fu identificato nell’Unione Sovietica e nel campo socialista. Inoltre il PAM aggiunge un nuovo anello alla catena della dipendenza cilena, quello della subordinazione logistica e strategica al Pentagono, che diventa l’arbitro silenzioso dell’equilibrio del sub-continente per mezzo della discriminata assegnazione delle risorse e degli armamenti. Tali accordi permettono agli USA di colpire duramente ed anche direttamente i paesi soggetti a sovversione. L’ingresso dei cileni nel sistema di difesa dell’emisfero comporta così un’adesione implicita al sistema capitalista. Il carattere dipendente delle Forze Armate cilene al piano imperialista, che ne deriva, è stato evidenziato dal ruolo assegnato alla marina cilena nelle manovre congiunte con gli USA (“Unita”); infatti, è coinvolta in combattimenti contro potenze extra continentali, nemiche degli USA, ma non “nemici naturali” dei cileni. È vero che durante il governo di UP vi fu un’apertura tecnica verso altre esperienze istituzionali (Cuba, URSS) e una diversificazione nell’acquisto delle armi dall’Europa; e questi fatti dettero alle Forze Armate cilene una relativa autonomia dall’America; ma contemporaneamente continuarono tutti gli impegni che legavano l’esercito cileno al Pentagono e all’Organizzazione degli Stati Americani. CONFERMA STORICA L’assunto è forse confermato con più evidenza da un insieme di fatti, che sono strettamente legati tra di loro come effetto a causa. Sorvolando sulla precedente storia del Cile, con l’inizio del XX Secolo la sua classe dominante era formata da un ristretto gruppo di oligarchi che, circondati da funzionari, professionisti, commercianti e industriali piuttosto piccoli, sfruttavano la massa delle classi inferiori con gli strumenti delle istituzioni liberali e borghesi. Anche nel Medioevo era così. I nobili e l’alto clero si godevano la vita col lavoro delle masse dei contadini, che erano lasciati nell’ignoranza e nella miseria. Nel mondo moderno le masse sfruttate non sono formate solo dai contadini ma anche e soprattutto da quelli che lavorano per la produzione industriale e per i molti e grandi lavori pubblici; l’unità di tali masse genera in essi, prima la coscienza di classe sfruttata e poi una lotta sociale sempre più aspra. Nel mondo moderno le masse popolari non possono essere tenute nell’ignoranza e nella miseria, perché una minoranza si goda sfacciatamente la vita, senza la decisiva efficienza delle Forze Armate, le cui numerose truppe possono essere solo di origine popolare. In altre parole in ogni società borghese l’eventuale ricorso alla violenza armata dell’esercito è una necessità costituzionale. Così nel Cile nel 1957 una rivolta generale delle bidonvilles, provocata dalla crisi che seguì alla fine del boom coreano, fu repressa dall’esercito con estrema durezza e secondo gli osservatori stranieri i morti furono parecchie centinaia.43 Dopo tale data le Forze Armate cilene hanno sempre saputo ricordare al popolo, mediante piccoli massacri, l’esistenza dei grandi massacri e la pesante autorità dei capi militari. Nel Cile, quando è indetto uno sciopero generale di tipo rivendicativo per il raggiustamento dei salari o per altro simile motivo, è proclamato automaticamente lo stato di emergenza e l’esercito assume il comando dei carabineros e mette unità militari in servizio di ordine pubblico; e di solito capitano dei morti “accidentali”, perché i militari non sanno fare altro che sparare. Siamo al 1969. In genere i giovani ufficiali, formati negli Usa,sono inquieti per i problemi sociali ed economici e, come in genere gran parte della classe media, sono snazionalizzati e hanno come ideale la vita dei borghesi degli Stati Uniti. Perciò, con un’inflazione cronica che nel 1969 tormentava il Cile, gli ufficiali esigono un raggiustamento degli stipendi, superiore a quello delle altre categorie dei dipendenti dello stato. E vogliono anche l’ammodernamento delle armi, che sono il fondamento per uno stipendio superiore. Se non si può dimostrare la propria efficienza armata, alla fine non si potrà giustificare neanche uno stipendio alto. Pertanto le Forze Armate fecero pervenire al Presidente Frei, per via gerarchica e senza “deliberare” né riunirsi, in 43 Cfr., Alain Joxe, I militari dal legalismo alla violenza istituzionale, Politica Internazionale, n. 11, novembre 1973, pp. 47-48. 65 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 una maniera molto costituzionale, una serie di richieste che riguardavano gli stipendi e gli armamenti. Queste richieste, non soddisfatte, fecero crescere l’odio dei militari per Frei e per la democrazia cristiana; ma soprattutto spiegano il tacnazo o l’occupazione, sotto la direzione di un generale messo a riposo qualche giorno prima, della propria caserma da parte del reggimento “Tacna”. Si ha così la prima sicura comparsa, tra gli ufficiali cileni, di una destra che pensa soprattutto all’aumento dei privilegi economici e sociali e forse anche al potere politico. L’aviazione rifiutò di intervenire contro gli ammutinati e le cosiddette “truppe fedeli” non si prestarono a dare l’assalto. Comunque gli alti ufficiali, soddisfatte le domande riguardanti, gli stipendi e agli armamenti, accettarono la capitolazione degli ammutinati e le relative sanzioni. Subito dopo Frei nomina alla testa dell’esercito il generale Schneider. Dopo i militari anche i giudici reclamarono il raggiustamento dello stipendio; e i due fenomeni, uniti all’ingente acquisto di armi moderne, dettero il via a una ripresa catastrofica dell’inflazione. È questo il primo momento della dimostrazione storica. Ai più alti comandi militari cileni il proprio favore a un eventuale governo di tipo socialista doveva significare soprattutto, anche se inconsciamente, un più alto prestigio e aumentati benefici economici. Alle elezioni del 1970 Allende, candidato di UP, ottenne la maggioranza relativa del 36,3% dei voti e fu designato Presidente dal Congresso dopo un negoziato con la democrazia cristiana. Ebbe così inizio il governo di UP e il primo anno fu un successo economico. Le tensioni sociali furono ridotte al minimo, salvo nelle campagne,dove la riforma agraria prese talvolta aspetti di rivoluzione agraria. L’esercito fu oggetto, da parte del governo, di cure attente. Il potere di acquisto e il livello di vita dei militari migliorarono a seguito del raggiustamento dello stipendio e di vantaggi in natura di ogni sorta. Inoltre l’esercito era soddisfatto anche sotto il profilo professionale, grazie alla continuazione del piano di acquisto di armi moderne. E vi erano per di più soddisfazioni di amor proprio: mai sotto nessun regime, da vent’anni, i militari erano stati presi tanto in considerazione. Come esperti di questioni di difesa partecipavano alle decisioni di sviluppo regionale; e numerosi generali furono designati come gerenti o rappresentanti del governo nelle industrie nazionalizzate o sul punto di esserlo. Quest’atteggiamento del governo verso i militari si spiega con la necessità, in cui si trovava, di convincere le Forze Armate ad appoggiare il processo cileno di transizione pacifica al socialismo. Infatti, tutti quelli che erano contrari alla svolta socialista, quasi dal giorno stesso della vittoria elettorale di Allende non fecero altro che moltiplicare le iniziative perché ciò non fosse; e col passare dei mesi la democrazia cristiana, che si era accordata con UP perché Allende fosse designato Presidente dal Congresso, cominciò a condizionarlo sempre più pesantemente; quindi, collegata con la destra parlamentare, nemica di UP, mise il governo nell’impossibilità di portare avanti le riforme e persino di legiferare. 66 Fu a questo punto che Allende pensò all’esercito come a un sostituto della DC, e l’entrata del primo generale nel governo nel 1972 permise al Presidente di continuare a governare. Nei mesi di luglio e agosto dello stesso anno andò a vuoto una nuova fase di negoziato con la democrazia cristiana, la borghesia intensificò la propria azione contro il governo e la situazione diventò sempre più difficile. Infatti, le forze di opposizione cambiarono atteggiamento nei confronti delle Forze Armate, e il loro scopo fu di privare il governo dell’appoggio dei militari. Il concetto di “legalità” e “neutralità” delle Forze Armate che animava l’opposizione, fu spiegato in un editoriale di «El Mercurio». L’editorialista scriveva che non bastava che le Forze Armate si limitassero a non deliberare; questo significava, infatti, non intervenire in politica, sino a quando non era ben chiaro che lo spirito di lealtà alla Costituzione non era usato in modo che esse rimanessero inerti mentre si violavano i principi della Costituzione. La Semana Política La Doctrina del Ejército El artículo comenta la petición de retiro del general Alfredo Canales Márquez, solicitado por el comandante en jefe del Ejército, general Carlos Prats González. El general Canales se desempeñaba como director de instrucción del Ejército, y se dijo que se le solicitaba la renuncia «por convenir al interés institucional». El general Canales señala que la petición se debe a una conversación sostenida con el contraalmirante Horacio Justiniano, en que manifestó su inquietud por la situación del país. Un escueto comunicado del Ejército informó oficialmente que el comandante en jefe, general don Carlos Prats González, pidió al Gobierno el retiro del general de brigada don Alfredo Canales Márquez, «por convenir al interés institucional». La medida tuvo inevitable trascendencia política tanto porque se la vinculaba a las especulaciones en torno a un «Plan Septiembre», denunciado por el Gobierno, como porque esta decisión no está dentro del mecanismo eliminatorio normal de los institutos armados. Además, el separar a un general diciendo que ello conviene al «interés institucional» implica dejar al afectado en una situación pública controvertible. El general Canales, por su parte, sintiéndose autorizado para explicar a sus conciudadanos y a sus compañeros de armas las causas de su separación del Ejército, y obrando en defensa de su honor militar, formuló declaraciones públicas severas. Explicó el general que se había pedido su retiro teniendo sólo a la vista una relación escrita del señor almirante don Horacio Justiniano, que le fue remitida al general Prats por el Comandante en Jefe de la Armada, almirante don Raúl Montero Cornejo, relación que daba cuenta de una conversación sostenida por el general Canales con el almirante Justiniano en que el primero había manifestado opiniones políticas. El general rechazó en forma terminante los cargos y el procedimiento que se emplearon para su retiro. Cualquiera que sea el juicio definitivo que el país se forme de esta incidencia militar, debe lamentarse desde luego que ella se hubiera prestado de algún modo para hacer surgir resquemores o sospechas entre dos ramas de la Defensa Nacional. A no dudarlo, hay en los partidos marxistas que gobiernan la intención próxima o remota de cambiar al Ejército profesional y a las demás instituciones armadas de la República por otra que está en consonancia con los principios de la revolución marxista-leninista y que históricamente ha sido uno de los pasos fundamentales para consolidar todos los regímenes comunistas del mundo. No puede pretender Chile ser una excepción en esta materia, si, como dicen los comunistas, el proceso chileno está sometido como los demás a las leyes generales del socialismo. Nuestras Fuerzas Armadas tienen pues enemigos muy poderosos, y cualquier tentativa de desunirlas o de abrir paso a incomprensiones entre ellas favorece a tales enemigos. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA La introducción de posibles malas interpretaciones en los mandos medios de alguna rama castrense respecto de otras, o el empleo de medidas para alejar progresivamente de las filas a los jefes y oficiales que se mantienen en la verdadera doctrina de nuestra Defensa Nacional serían recursos extraordinariamente perjudiciales para los institutos armados y para la propia seguridad del país. Corresponde, sin duda, a la superioridad del Ejército calificar las elevadas razones que le han dado motivo para provocar el retiro del general Canales, pero la opinión pública está cierta de que tal determinación obedece a la llamada doctrina del Ejército, expuesta públicamente ante la ciudadanía, en su tiempo, por el general Schneider y, con ocasión de las Fiestas Patrias, en forma reiterada por el general Prats. No debe llamar la atención que este tema profesional castrense adquiera jerarquía política. Ello se debe a que la revolución que desenvuelve el Gobierno del Presidente Allende toca puntos esenciales para la vida de la República y, en estos instantes, parece estar poniendo en juego nada menos que el criterio constitucionalista que ha de imperar en nuestros hombres de armas. Un problema de esta especie rebasa el marco de las instituciones a las cuales afecta. El principio constitucional que rige la conducta de las Fuerzas Armadas es que ellas son esencialmente obedientes y que no pueden deliberar. Esto significa que deben cumplir con fidelidad las instrucciones de sus superiores jerárquicos en la esfera en que éstos son competentes y que no pueden intervenir en el juego de la política contingente. Mientras las acciones de un Gobierno han quedado libres de todo reproche de inconstitucionalidad, la obediencia y la prescindencia profesional de la política no presentan problemas ni en la teoría ni en la práctica para los institutos armados. Las dificultades nacen cuando hay riesgos de que la Constitución quede sobrepasada, ya sea por acciones individuales del gobernante, ya sea por la virulencia de un proceso, revolucionario que tiende precisamente a destruir el orden actual. Rige en este segundo caso la doctrina constitucionalista de obediencia y no deliberación del Ejército y con mayor vigor que nunca, a condición de que no se confunda la verdadera doctrina del Ejército con la falta de personalidad en el mando y con la sumisión indiscriminada a las posibles arbitrariedades que provengan del Gobierno. La doctrina del Ejército exige lealtad a la Constitución y al país, más que a hombres, a regímenes o a gobiernos. Estos últimos pasan, en tanto que las instituciones armadas están al servicio de valores permanentes. Por hondos que sean los cambios en la sociedad y en las propias instituciones castrenses, conforme a las exigencias de los tiempos, regir. siempre la defensa de la patria, concebida como una totalidad, instalada sobre un territorio, constituida en nación y dueña de un destino que cumplir en el concierto de los pueblos. Según esto, no corresponde a un concepto constitucional y profesional del Ejército aquella política que emplee los llamados resquicios legales o los ardides reglamentarios para transformar a la institución en otra cosa que lo que ella es y debe ser en concepto de la Constitución Política del Estado y de las demás leyes y principios fundamentales de la República. Así como no puede ser válida una interpretación de la norma constitucional que destruya a la Constitución misma, tampoco puede ser válida una interpretación de la doctrina del Ejército que haga posible la destrucción de éste. Los principios constitucionales que gobiernan la conducta leal del Ejército parten del supuesto evidente de que tales principios exigen la existencia misma del Ejército, de modo tal que jamás podrán interpretarse en forma que contraríen a la misión específica, a la naturaleza jerárquica y disciplinada o a la unidad fundamental de la institución. Y lo que decimos del Ejército parece aplicable a la Armada Nacional y la Fuerza Aérea, así como a las tres ramas de la Defensa Nacional consideradas como un dispositivo de seguridad integrado y verdaderamente funcional. Forzoso es llegar entonces a la conclusión de que cualquier medida conducente a transformar en órganos políticos a las instituciones que la Carta Fundamental describe como «esencialmente profesionales» o que, aspirando a una supuesta democratización, desnaturalice su carácter de «jerarquizadas», de «disciplinadas» y de «obedientes» es contraria a la auténtica doctrina Schneider que tanto ha proclamado el actual Gobierno. No basta entonces que las Fuerzas Armadas se limiten a no deliberar, esto es a no intervenir en política contingente, sino que es preciso que su espíritu de lealtad a la Constitución no sea utilizado para que se mantengan inertes mientras se violan los demás principios de la Carta Fundamental relativos a la naturaleza de tales fuerzas, a su misión y a su eficacia defensiva. Papel actual de las fuerzas armadas Durante muchos años estas columnas insisten en la necesidad de que las Fuerzas Armadas, así como otros institutos y servicios que satisfacen necesidades permanentes y esenciales del Estado, tuvieran el trato que corresponde a su alta jerarquía. En concreto, la seguridad nacional, la administración de justicia y el magisterio parecen dignas de especial trato para el buen desempeño de las respectivas funciones y para que puedan constituirse en expectativas atrayentes para la juventud. Por desgracia, el interés de los Gobiernos por sus propios programas económicos o sociales postergó muchas veces las aspiraciones legítimas de los servicios e institutos básicos del Estado. En lo que concierne a las Fuerzas Armadas, justo es reconocer que este Gobierno adoptó una política de mayor atención hacia las más urgentes necesidades de aquellas instituciones. Lo cierto es que este nuevo trato a las ramas castrenses del Estado ha permitido que los hombres de armas recuperen poco a poco la posición que antes tenían en la sociedad chilena, superando así un estado de relativa postergación que fue posible merced a que nunca se esclareció hasta dónde llegaba la obediencia constitucional de las Fuerzas Armadas y hasta dónde la paciencia para soportar con heroísmo riesgos graves de paulatino deterioro profesional por falta de medios indispensables. La expectación suscitada por el retiro forzoso del general Canales no habría tenido lugar si los militares se mantuvieran en el antiguo plano relegado. Por el contrario, es la importancia adquirida por las Fuerzas Armadas lo que da singular relieve a la referida decisión del comandante en jefe del Ejército. Mientras las Fuerzas Armadas se mantengan como «instituciones esencialmente profesionales, jerarquizadas, disciplinadas, obedientes y no deliberantes», como lo establece la Constitución, su papel será cada vez más prestigioso y decisivo en la convivencia chilena. No son los militares, los marinos y los aviadores quienes han ambicionado o impuesto ese nuevo papel. Son más bien los hechos la causa determinante de dicha situación. Tanto el Gobierno como los opositores rodean a las Fuerzas Armadas de creciente consideración. Día a día se abren nuevas oportunidades para que los miembros de aquéllas reciban más estrechos contactos con la organización productiva estratégica del país y logren un conocimiento más acabado de los problemas políticos, sociales y económicos que se relacionan directa o indirectamente con el gran tema de la seguridad nacional. Mientras las condiciones de nuestra economía no sigan el curso de una inflación galopante y de una crisis grave de divisas, que hoy caracterizan al país, las necesidades de equipo e instalaciones así como las rentas del personal pueden ser atendidas en forma correspondiente a la alta misión de las Fuerzas Armadas. Este proceso de verdadera reivindicación del papel de las Fuerzas Armadas es saludable para el país y beneficioso profesionalmente para dichas instituciones. Si las ramas de la Defensa Nacional conservan su integridad, su naturaleza, su unidad y su función específicamente castrense e intactos los caracteres que la Constitución y las leyes les fijan, podrá llegar el caso en que sean ellas el único o acaso el único ejemplo de intachable constitucionalidad mientras un fermento corrosivo continúe debilitando las bases chilenas.44 Allora Allende pensò di porre fine alla crisi, facendo entrare diversi generali nel governo e affidando loro posti importanti; ma gli ufficiali di grado superiore, che non volevano saperne di adesione neppure alla linea moderata di UP, erano sufficientemente numerosi e stavano al gioco solo apparentemente. A marzo del 1973 le elezioni legislative furono un successo per i partiti di UP. Ottennero, infatti, il 44% dei voti e non era escluso che alle successive potessero arrivare al 50%. Pertanto dopo le elezioni di marzo il solo strumento, per impedire la riforma socialista dell’ordinamento sociale ed economico, era il colpo di stato militare. Un primo tentativo 44 Articolo pubblicato sulla rivista «El Mercurio» il 24 settembre 1972. 67 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 fallì il 29 giugno; ma nello stesso tempo i generali, che erano ancora per il colpo di stato, fecero il censimento dei capi e delle unità fedeli al governo; e i mesi successivi vide la loro sistematica repressione all’interno dell’istituzione militare. In precedenza, nell’ottobre del 1972 il Congresso aveva votato una legge, che fu promulgata per un’inspiegabile negligenza dell’esecutivo, che poteva porre il veto. La legge dava alle Forze Armate poteri d’inchiesta e di perquisizioni esorbitanti e il diritto di avocare davanti a tribunali militari tutte le cause concernenti detenzioni di armi, da quelle di guerra a quelle “bianche”. La legge, che poteva essere usata perché i militari reprimessero le milizie armate organizzate dalla destra, sino al 29 giugno del 1973 restò lettera morta; invece dopo e soprattutto da agosto in poi la misero in opera. In questo modo gli alti ufficiali, che si preparavano al colpo di stato, a cominciare da agosto agirono su due fronti: da un lato con l’epurazione di elementi, della marina e dell’aviazione, vicini al governo, dall’altro lato con un’attenta perquisizione all’interno delle imprese sia pubbliche sia private con grande spiegamento di reparti delle Forze Armate usando una violenza e torture inaudite nei confronti dei contadini nelle regioni dove la riforma agraria aveva preso un andamento più rivoluzionario. Alla fine di agosto i generali, riuniti in assemblea, votarono contro il mantenimento a capo dell’esercito di Prats, che intendeva restare fedele al governo costituzionale. Prats dette le dimissioni e gli successe Pinochet.45 In questo modo i fatti di agosto del 1973 dimostrarono che l’esercito stava ritrovando la sua unità intorno al nucleo politico di destra, che non era alla sommità del comando ma che deteneva il potere reale; e col colpo di stato dell’11 settembre sarebbe stata eliminata tutta l’opposizione costituzionalistica dell’esercito. In altre parole i fatti di agosto rilevarono molto bene l’autentica anima delle Forze Armate cilene, che non potevano essere qualitativamente diverse da quella di ogni esercito borghese: i militari a servizio di un’oligarchia soprattutto economica o di un ristretto gruppo d’individui, che vogliono moltiplicare ricchezze e privilegi in modo dinamico e selvaggio; ma con la pretesa più o meno esplicita che essi, gli alti comandi militari, sono la punta di diamante di tutti i privilegiati e del relativo ordinamento sociale, economico e politico; e perciò essi, gli alti comandi militari, sono per diritto i massimi fruitori dei privilegi economici e sociali. LA LEGITTIMAZIONE DEL GOLPE Sulla scena politica la coalizione di UP subì una sconfitta nel Congresso Nazionale da parte dell’opposizione. Fu approvata una mozione che dichiarava “illegale” il governo di Allende. Acuerdo adoptado por la H. Cámara de diputados, el día 23 de agosto de 1973, y dirigido a S. E. el Presidente de la Republica. 45 Cfr., Alain Joxe, I militari dal legalismo alla violenza istituzionale, cit., p. 53. 68 La Cámara de Diputados aprueba un proyecto de acuerdo que declara que el Presidente Allende ha quebrantado gravemente la Constitución. Santiago, 23 de agosto de 1973. A S. E. EL PRESIDENTE DE LA REPUBLICA. Tengo a honra poner en conocimiento de V. E. que la Cámara de Diputados ha tenido a bien prestar su aprobación al siguiente Acuerdo: «Considerando: 1°. Que es condición esencial para la existencia de un Estado de Derecho, que los Poderes Públicos, con pleno respeto al principio de independencia reciproca que los rige, encuadren su acción y ejerzan sus atribuciones dentro de los marcos que la Constitución y la ley les señalan, y que todos los habitantes del país puedan disfrutar de las garantías y derechos fundamentales que les asegura la Constitución política del Estado; 2°. Que la juridicidad del Estado chileno es patrimonio del pueblo que en el curso de los años ha ido plasmando en ella el consenso fundamental para su convivencia y atentar contra ella es, pues, destruir no sólo el patrimonio cultural y moral de nuestra nación sino que negar, en la práctica, toda posibilidad de vida democrática; 3°. Que son estos valores y principios los que se expresan en la Constitución Política del Estado que, de acuerdo a su artículo 2°., señala que la soberanía reside esencialmente en la nación y que las autoridades no pueden ejercer más poderes que los que ésta les delegue y, en el articulo 3°., se deduce que un Gobierno que se arrogue derechos que el pueblo no le ha delegado, incurre en sedición; 4°. Que el actual Presidente de la República fue elegido por el Congreso Pleno, previo acuerdo en torno a un estatuto de garantías democráticas incorporado a la Constitución política, el que tuvo como preciso objeto asegurar el sometimiento de la acción de su Gobierno a los principios y normas del Estado de Derecho, que .l solemnemente se comprometió a respetar; 5°. Que es un hecho que el actual Gobierno de la República, desde sus inicios, se ha ido empeñando en conquistar el poder total, con el evidente propósito de someter a todas las personas al más estricto control económico y político por parte del Estado y lograr de ese modo la instauración de un sistema totalitario, absolutamente opuesto al sistema democrático representativo que la Constitución establece; 6°. Que, para lograr ese fin, el Gobierno no ha incurrido en violaciones aisladas de la Constitución y de la ley, sino que ha hecho de ellas un sistema permanente de conducta, llegando a los extremos de desconocer y atropellar sistemáticamente las atribuciones de los demás Poderes del Estado, violando habitualmente las garantías que la Constitución asegura a todos los habitantes de la República, y permitiendo y amparando la creación de poderes paralelos, ilegítimos, que constituyen un gravísimo peligro para la nación, con todo lo cual ha destruido elementos esenciales de la institucionalidad y del Estado de Derecho; 7°. Que, en lo concerniente a las atribuciones del Congreso Nacional, depositario del Poder Legislativo, el Gobierno ha incurrido en los siguientes atropellos: a) Ha usurpado al Congreso su principal función, que es la de legislar, al adoptar una serie de medidas de gran importancia para la vida económica y social del país, que son indiscutiblemente materia de ley, por decretos de insistencia dictados abusivamente o por simples resoluciones administrativas fundadas en «resquicios legales», siendo de notar que todo ello se ha hecho con el propósito deliberado y confeso de cambiar las estructuras del país, reconocidas por la legislación vigente, por la sola voluntad del Ejecutivo y con prescindencia absoluta de la voluntad del legislador; b) Ha burlado permanentemente las funciones fiscalizadoras del Congreso Nacional al privar de todo efecto real a la atribución que a éste le compete para destituir a los Ministros de Estado que violan la Constitución o la ley o cometen otros delitos o abusos señalados en la Carta Fundamental, y c) Por último, lo que tiene la más extraordinaria gravedad, ha hecho «tabla rasa» de la alta función que el Congreso tiene como Poder Constituyente, al negarse a promulgar la reforma constitucional sobre las tres .reas de la economía, que ha sido aprobada con estricta sujeción a las normas que para ese efecto establece la Carta Fundamental; 8°. Que, en lo que concierne al Poder Judicial, ha incurrido en los SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA siguientes desmanes: a) Con el propósito de minar la autoridad de la magistratura y de doblegar su independencia, ha capitaneado una infamante campaña de injurias y calumnias contra la Excma. Corte Suprema y ha amparado graves atropellos de hecho contra las personas y atribuciones de los jueces; b) Ha burlado la acción de la justicia en los casos de delincuentes que pertenecen a partidos y grupos integrantes o afines del Gobierno, ya sea mediante el ejercicio abusivo del indulto o mediante el incumplimiento deliberado de órdenes de detención; c) Ha violado leyes expresas y ha hecho «tabla rasa» del principio de separación de los Poderes, dejando sin aplicación las sentencias o resoluciones judiciales contrarias a sus designios y, frente a las denuncias que al respecto ha formulado la Excma. Corte Suprema, el Presidente de la República ha llegado al extremo inaudito de arrogarse en tesis el derecho de hacer un «juicio de méritos» a los fallos judiciales, determinando cuándo éstos deben ser cumplidos; 9°. Que, en lo que se refiere a la Contraloría General de la República ─ un organismo autónomo esencial para el mantenimiento de la juridicidad administrativa ─ el Gobierno ha violado sistemáticamente los dictámenes y actuaciones destinados a representar la ilegalidad de los actos del Ejecutivo o de entidades dependientes de él; 10°. Que entre los constantes atropellos del Gobierno a las garantías y derechos fundamentales establecidos en la Constitución, pueden destacarse los siguientes: a) Ha violado el principio de igualdad ante la ley, mediante discriminaciones sectarias y odiosas en la protección que la autoridad debe prestar a las personas, los derechos y los bienes de todos los habitantes de la República, en el ejercicio de las facultades que dicen relación con la alimentación y subsistencia, y en numerosos otros aspectos, siendo de notar que el propio Presidente de la República ha erigido estas discriminaciones en norma fundamental de su Gobierno, al proclamar desde el principio que .l no se considera Presidente de todos los chilenos; b) Ha atentado gravemente contra la libertad de expresión, ejerciendo toda clase de presiones económicas contra los órganos de difusión que no son incondicionales adeptos del Gobierno; clausurando ilegalmente diarios y radios; imponiendo a estas últimas «cadenas» ilegales; encarcelando inconstitucionalmente a periodistas de oposición; recurriendo a maniobras arteras para adquirir el monopolio del papel de imprenta, y violando abiertamente las disposiciones legales a que debe sujetarse el Canal Nacional de Televisión, al entregarlo a la dirección superior de un funcionario que no ha sido nombrado con acuerdo del Senado como lo exige la ley, y al convertirlo en instrumento de propaganda sectaria y de difamación de los adversarios políticos; c) Ha violado el principio de autónoma universitaria y el derecho que la Constitución reconoce a las Universidades para establecer y mantener estaciones de televisión, al amparar la usurpación del Canal 9 de la Universidad de Chile, al atentar por la violencia y las detenciones ilegales contra el nuevo Canal 6 de esa Universidad, y al obstaculizar la extensión a provincias del Canal de la Universidad Católica de Chile; d) Ha estorbado, impedido y, a veces, reprimido con violencia el ejercicio del derecho de reunión por parte de los ciudadanos que no son adictos al régimen, mientras ha permitido constantemente que grupos a menudo armados se reúnan sin sujeción a los reglamentos pertinentes y se apoderen de calles y camiones para amedrentar a la población; e) Ha atentado contra la libertad de enseñanza, poniendo en aplicación en forma ilegal y subrepticia, a través del llamado Decreto de Democratización de la Enseñanza, un plan educacional que persigue como finalidad la concientización marxista; f) Ha violado sistemáticamente la garantía constitucional del derecho de propiedad, al permitir y amparar más de 1.500 «tomas» ilegales de predios agrícolas, y al promover centenares de «tomas» de establecimientos industriales y comerciales para luego requisarlos o intervenirlos ilegalmente y constituir as., por la vía del despojo, el .rea estatal de la economía; sistema que ha sido una de las causas determinantes de la insólita disminución de la producción, del desabastecimiento, el mercado negro y el alza asfixiante del costo de la vida, de la ruina del erario nacional y, en general, de la crisis económica que azota al país y que amenaza el bienestar mínimo de los hogares y compromete gravemente la seguridad nacional; g) Ha incurrido en frecuentes detenciones ilegales por motivos polí- ticos, además de las ya señaladas con respecto a los periodistas, y ha tolerado que las víctimas sean sometidas en muchos casos a flagelaciones y torturas; h) Ha desconocido los derechos de los trabajadores y de sus organizaciones sindicales o gremiales, sometiéndolos, como en el caso de El Teniente o de los transportistas, a medios ilegales de represión; i) Ha roto compromisos contraídos para hacer justicia con trabajadores injustamente perseguidos como los de Sumar, Helvetia, Banco Central, El Teniente y Chuquicamata; ha seguido una arbitraria política de imposición de las haciendas estatales a los campesinos, contraviniendo expresamente la Ley de Reforma Agraria; ha negado la participación real de los trabajadores de acuerdo a la Reforma Constitucional que les reconoce dicho derecho; ha impulsado el fin de la libertad sindical mediante el paralelismo político en las organizaciones de los trabajadores; j) Ha infringido gravemente la garantía constitucional que permite salir del país, estableciendo para ello requisitos que ninguna ley contempla; 11°. Que contribuye poderosamente a la quiebra del Estado de Derecho, la formación y mantenimiento, bajo el estimulo y la protección del Gobierno, de una serie de organismos que son sediciosos porque ejercen una autoridad que ni la Constitución ni la ley les otorgan, con manifiesta violación de lo dispuesto en el artículo 10, N° 16 de la Carta Fundamental, como por ejemplo, los Comandos Comunales, los Consejos Campesinos, los Comités de Vigilancia, las JAP, etc.; destinados todos a crear el mal llamado «Poder Popular», cuyo fin es sustituir a los Poderes legítimamente constituidos y servir de base a la dictadura totalitaria, hechos que han sido públicamente reconocidos por el Presidente de la República en su último Mensaje Presidencial y por todos los teóricos y medios de comunicación oficialistas; 12°. Que en la quiebra del Estado de Derecho tiene especial gravedad la formación y desarrollo, bajo el amparo del Gobierno, de grupos armados que, además de atentar contra la seguridad de las personas y sus derechos y contra la paz interna de la Nación, están destinados a enfrentarse contra las Fuerzas Armadas, como también tiene especial gravedad el que se impida al Cuerpo de Carabineros ejercer sus importantísimas funciones frente a las asonadas delictuosas perpetradas por grupos violentistas afectos al Gobierno. No pueden silenciarse, por su alta gravedad, los públicos y notorios intentos de utilizar a las Fuerzas Armadas y al Cuerpo de Carabineros con fines partidistas, quebrantar su jerarquía institucional e infiltrar políticamente sus cuadros; 13°. Que al constituirse el actual Ministerio, con participación de altos miembros de las Fuerzas Armadas y del Cuerpo de Carabineros, el Excmo. señor Presidente de la República lo denominó. «de seguridad nacional» y le señaló como tareas fundamentales las de «imponer el orden político» e «imponer el orden económico», lo que sólo es concebible sobre la base del pleno restablecimiento y vigencia de las normas constitucionales y legales que configuran el orden institucional de la República; 14°. Que las Fuerzas Armadas y el Cuerpo de Carabineros son y deben ser, por su propia naturaleza, garantía para todos los chilenos y no sólo para un sector de la Nación o para una combinación política. Por consiguiente, su presencia en el Gobierno no puede prestarse para que cubran con su aval determinada política partidista y minoritaria, sino que debe encaminarse a restablecer las condiciones de pleno imperio de la Constitución y las leyes y de convivencia democrática indispensables para garantizar a Chile su estabilidad institucional, paz civil, seguridad y desarrollo; 15°. Por último, en el ejercicio de las atribuciones que le confiere el articulo 39 de la Constitución Política del Estado, La Cámara de Diputados acuerda: PRIMERO. ─ Representar a S. E. el Presidente de la República y a los señores Ministros de Estado miembros de las Fuerzas Armadas y del Cuerpo de Carabineros, el grave quebrantamiento del orden constitucional y legal de la República que entraña los hechos y circunstancias referidos en los considerándoos N° 5° a 12 precedentes; SEGUNDO. ─ Representarles, asimismo, que, en razón de sus funciones, del juramento de fidelidad a la Constitución y a las leyes que han prestado y, en el caso de dichos señores Ministros, de la naturaleza de las instituciones de las cuales son altos miembros y cuyo nombre se ha invocado para incorporarlos al Ministerio, les corresponde poner inmediato término a todas las situaciones de hecho referidas, que in69 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 fringen la Constitución y las leyes, con el fin de encauzar la acción gubernativa por las vías del Derecho y asegurar el orden constitucional de nuestra patria y las bases esenciales de convivencia democrática entre los chilenos; TERCERO. ─ Declarar que, si así se hiciere, la presencia de dichos señores Ministros en el Gobierno importaría un valioso servicio a la República. En caso contrario, comprometerán gravemente el carácter nacional y profesional de las Fuerzas Armadas y del Cuerpo de Carabineros, con abierta infracción a lo dispuesto en el artículo 22 de la Constitución Política y con grave deterioro de su prestigio institucional, y CUARTO. ─ Transmitir este acuerdo a S. E. el Presidente de la República y a los señores Ministros de Hacienda, Defensa Nacional, Obras Públicas y Transportes y Tierras y Colonización». Dios guarde a V. E. Luis Pareto González (Presidente), Raúl Guerrero Guerrero (Secretario).46 Dopo la presentazione della mozione, i militari presenti nel governo si affrettarono a fare la seguente dichiarazione che fu pubblicata dalla stampa: I ministri militari, conforme alla risoluzione approvata, autorizzati dal loro giuramento di fedeltà alla Costituzione, porranno fine a tutte le situazioni che infrangono la Costituzione e la legge; guideranno le azioni governative in modo coerente con la legge, e assicureranno l’ordine costituzionale. D’altronde, il carattere nazionale e professionale delle Forze Armate sarebbe messo in pericolo seriamente con un’aperta infrazione della Costituzione.47 Questa mozione, una chiara “messa in piazza” del ruolo dei militari e dei loro doveri, in realtà mancava di validità giuridica. Dimostrava però tutto il suo peso politico e persuasivo. Il potere legale dichiarava che il potere esecutivo era 46 Cfr., AA.VV., Antecedentes Histórico-Jurídicos Años 1972-1973, Santiago, Editorial Jurídica de Chile, 1980, pp. 143-148. 47 Dichiarazione contenuta in un articolo della rivista «El Mercurio» del 24 agosto del 1973. Nello stesso articolo fu pubblicata anche una dichiarazione di UP: «Declaracion UP. El comité ejecutivo de la Unidad Popular emitió el siguiente comunicado: Compañeros: La obcecación de la oposición ha llegado al límite más peligroso de estos últimos tiempos. En ese objetivo deben entenderse el acuerdo irracional, sin destino jurídico e inconstitucional de la mayoría de la Cámara de Diputados y la embestida contra las Fuerzas Armadas, especialmente canallesca en el caso del ataque al hogar y la persona del ministro de Defensa, general Carlos Prats. La dirección nacional de la Unidad Popular, declarada en estado de emergencia y de reunión permanente, ha decidido ordenar a sus organismos y militantes a lo largo de todo el país lo siguiente: 1.Todas las directivas provinciales y comunales de la Unidad Popular y sus bases deben constituirse en sesión permanente, cualquiera que sea el estado de los actos o conflictos provocados por las fuerzas reaccionarias para intentar, una vez más, el derrocamiento del Gobierno Popular. 2.- Respecto de la clase trabajadora y sus tareas, este comité ejecutivo respalda en todas sus partes y hace suyo el instructivo general emitido por la Central Única de Trabajadores y declara que ese organismo será el que mantenga la conducción de la clase en su lucha por la defensa del Gobierno constitucional. 3.- La gravedad extrema del momento que vive Chile exige la mayor y más férrea unidad de los partidos populares. 4.- Formulamos un llamado a todos los sectores que se opongan al enfrentamiento sangriento entre chilenos, a unirse en torno a la defensa del Gobierno legítimo 5.Todos nuestros militantes y simpatizantes deben colaborar y cumplir sin pausa con las tareas de vigilancia, trabajo voluntario y en las labores de abastecimiento y movilización que realicen y planteen las autoridades de Gobierno para que el país mantenga su marcha incontenible hacia un destino superior. Los obreros, empleados, campesinos, profesionales y técnicos, juventudes, hombres y mujeres de todos los sectores patrióticos responderán con su fuerza al desafío criminal del golpismo y lo aplastarán definitivamente. ¡Unidad y combate, venceremos! Comité Ejecutivo Nacional Unidad Popular». 70 illegale, e così obbligava i generali-ministri, parte integrante dell’esecutivo, a scegliere la legalità parlamentare o l’illegalità governativa. Ovviamente, la risoluzione di tale dilemma non fu difficile per quei generali che già sostenevano posizioni contro la coalizione di UP. Nei restanti giorni di agosto del 1973, aumentò la tensione nei circoli militari. Il 24 agosto si dimisero il generale Guillermo Pickering, comandante degli istituti militari, e il generale Mario Sepùlveda, comandante della seconda divisione dell’esercito, di istanza a Santiago. Furono rimpiazzati rispettivamente dai generali Sergio Arellano Stark e Herman Brady, conosciuti entrambi come simpatizzanti della DC e fautori del golpe di settembre. Invece i due generali uscenti erano, anche se tacitamente della stessa linea politica di Prats. Il 28 agosto chiese le dimissioni dal governo anche all’ammiraglio Raùl Montero, Ministro delle Finanze, che tornò al suo posto di Comandante della Marina; questo perché Allende non aveva fiducia nel comandante supplente, vice-ammiraglio Toribio Merino. Immediatamente si formò un nuovo gabinetto politico, ma ci fu solo l’inclusione del comandante in capo dei Carabineros. L’intento era di mantenere la stabilità istituzionale intorno ai leader del momento. Caras nuevas, cambios y enroques: ¡El nuevo gabinete! A raíz de las renuncias de ministros militares, se forma un nuevo gabinete, en el que participan el contraalmirante Daniel Arellano y el general de división Rolando González. Los ministros debutantes en el Gabinete del Presidente Allende son solamente tres: el contraalmirante Daniel Arellano, quien asumió la cartera de Hacienda en reemplazo del almirante Raúl Montero, y el general de división, Rolando González, quien se desempeñará como ministro de Minería en lugar del ingeniero Pedro Felipe Ramírez, y el doctor Mario Lagos, que reemplaza al doctor Jirón. El contraalmirante Arellano ha cumplido una brillante carrera en las filas de la Armada Nacional, siendo jefe de la Primera Zona Naval. Por su parte, el general González es especialista en Geología y Geodesia, disciplinas íntimamente relacionadas con la cartera que desempeñará. El doctor Lagos es profesor universitario y especialista en cirugía del tórax. Volvió «pinocho» Al Ministerio del Interior regresó el ex ministro Carlos «Pinocho» Briones. Su nombramiento fue hecho en carácter de independiente de izquierda y como señaló expresamente el Presidente, «lo nombraba de acuerdo a sus prerrogativas constitucionales». Otros cambios «Fanta» Letelier, que dejó la Secretaría del Interior, asumió la Cartera de Defensa, reemplazando al general Carlos Prats. Pedro Felipe Ramírez pasó de Minería a Vivienda, mientras el resto del equipo ministerial quedaba «igual pascual». Los que se fueron Además del general Prats y el almirante Montero, cuyas renuncias ya se conocían, dejaron el gabinete los ex ministros de Salud, Dr. Arturo Jirón y el «Pibe» Palma, que desde su puesto de ministro de Vivienda pasará a colaborar directamente con el Presidente en otro cargo de alta responsabilidad. Y así se cumplió la reestructuración del gabinete.48 Il direttore generale dei Carabineros, Josè Maria Sepùlveda, fu nominato Ministro dell’Agricoltura; il controammiraglio Daniel Arellano alle finanze, sostituendo Montero; il 48 Articolo pubblicato sul diario «Clarín» il 29 agosto del 1973. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA generale di divisione Rolando Gonzales alle miniere; il generale di brigata Humberto Magliochetti ai trasporti e opere pubbliche. A sua volta Orlando Letelier rimpiazzò il generale Prats al Ministero della Difesa. Queste nomine provocarono uno scandalo sulla stampa di opposizione al governo, che fece sentire la sua voce con diversi articoli come ad esempio: “Infiltrazioni marxiste nei carabineros”, ecc… La situazione nella marina era lontana dall’essere stabile. Il 7 agosto, quando la stampa d’opposizione denunciò “attività sovversiva di sinistra tra i marinai e i lavoratori portuali”, tre politici, Garreton (MAPU), Atamirano (PS) ed Enriquez (MIR), s’interessarono della faccenda, soprattutto perché i lavoratori e i marinai erano stati accusati di sedizione e posti sotto la legge di sicurezza interna dello stato. Allende stesso approvò l’applicazione della legge. ACCION DE EXTREMISTAS Armada detecto movimiento subversivo en dos unidades La oficina de Relaciones Públicas de la Armada comunicó de manera oficial la detección de un movimiento subversivo en dos unidades de la Escuadra, apoyado por elementos ajenos a la Institución. La Comandancia en Jefe de la Armada, a través de la oficina de Relaciones Publicas, informó oficialmente ayer tarde que «en los últimos días de la semana pasada» fue detectada la gestación de un movimiento subversivo en dos unidades de la Escuadra, «apoyado por elementos extremistas ajenos a la institución». La declaración expresa textualmente: «En los últimos días de la semana pasada fue detectada por los Servicios de Inteligencia de la Armada la gestación de un movimiento subversivo en dos unidades de la Escuadra, apoyado por elementos extremistas ajenos a la institución. De inmediato se procedió a la substanciación de un sumario interno que ha permitido individualizar y detener a varios tripulantes, presumiblemente comprometidos. En el citado proceso que se instruye se han formulado cargos por faltas graves a la disciplina y a las disposiciones del Código de Justicia Militar al personal que habría deliberado con elementos ajenos a la institución, cuya vinculación y responsabilidad una vez esclarecida será sancionada rigurosamente de acuerdo con el reglamento de disciplina de la Armada y el Código de Justicia Militar. Estos hechos son consecuencia evidente de la intensa campaña de propaganda perniciosa que han estado desarrollando grupos extremistas mediante continuos llamados a la desobediencia. La Armada Nacional condena violentamente todo intento destinado al quebrantamiento de la disciplina y la cohesión institucional que afecta a la institución, expresando que será inflexible en la aplicación de las medidas tendientes a controlar la situación y sancionar a sus responsables». Pedro Barahona Lopetegui, capitán de Fragata, jefe de Relaciones Públicas de la Armada. Santiago, 7 de agosto de 1973. Valparaíso.- (Corresponsal).- Según ha trascendido, en el crucero, «Almirante Latorre» y en el destructor «Blanco Encalada», que se encuentran atracados al molo de abrigo en Valparaíso, se iba a concretar el pasado fin de semana una acción subversiva aprovechándose de que gran parte de la dotación no se encontraría a bordo por efecto de las guardias que tienen franco. Esta acción, cuyos verdaderos alcances están siendo conocidos en estos instantes por la justicia naval, a través de los jefes y oficiales encargados de estructurar los sumarios correspondientes, concentra básicamente a personal de distintos grados de las tripulaciones de ambas naves. Los movimientos, que, al parecer, consultaban incluso el desplazamiento de unidades, fueron detectados a tiempo por miembros de la Inteligencia Naval, lo que permitió lograr controlar la situación a tiempo. Esto derivó en la inmediata detención de quienes aparecían como responsables e implicados en los hechos, estableciéndose la actuación de varios elementos infiltrados que ya están perfectamente in- dividualizados. Los sumarios están desarrollándose con gran agilidad, de acuerdo a las instrucciones que en tal sentido se han impartido, a fin de descubrir en toda su amplitud el movimiento que pretendía soliviantar al personal de la Escuadra con fines hasta ahora desconocidos. Tanto la Comandancia en Jefe de la Escuadra como la Comandancia en Jefe de la Primera Zona Naval han observado rigurosa reserva sobre este hecho, expresándose solamente que cualquier informe será entregado por la Comandancia en Jefe de la Armada en Santiago, a través de su Departamento de Relaciones Públicas. Acuarteladas fuerzas armadas en Valparaiso Valparaíso.- (por Eduardo Parra, corresponsal).- De acuerdo con disposiciones emanadas de sus respectivas jefaturas, fueron acuartelados en primer grado las Fuerzas Armadas y Carabineros en la provincia. La medida fue dispuesta ante la situación reinante en la zona y en general en todo el país. Contingentes fuertemente armados comenzaron ayer a custodiar algunos centros vitales de la zona, vías de comunicación, etc., con el objeto de evitar cualquier atentado.49 I cento lavoratori e marinai degli arsenali navali furono arrestati; e senza essere giudicati, furono torturati brutalmente con metodi nazisti, tipici dal golpe di settembre in poi: scosse elettriche, simulazione di soffocamento, ecc… Quando poi furono giudicati, i lavoratori non ebbero neppure la possibilità di una difesa legale, e si formularono vaghe accuse di “non aver adempiuto doveri militari”. Altamirano e Garreton denunciarono clamorosamente i fatti accaduti. La reazione militare fu immediata, entrambi furono accusati dalla corte navale di Valparaiso e il mandato di comparizione fu firmato da uno dei cospiratori, l’ammiraglio Toribio Merino. Questi pretendeva che fosse tolta ai due politici l’immunità parlamentare, e che si presentassero davanti alla corte militare. Nei fatti, i marinai e i lavoratori detenuti erano stati forzati a confessare, sotto la tortura, che stavano eseguendo ordini di Altamirano, Garreton e Enriquez. Marineros torturados La situación de los marineros y trabajadores de ASMAR (Astilleros y Maestranzas de la Armada) detenidos bajo la acusación pública de profesar ideas de izquierda, causa honda preocupación. Con alguna lentitud, debido a la prolongada incomunicación en que han permanecido los prisioneros, han comenzado a fluir informaciones que han conmovido a la clase trabajadora. En efecto, se ha sabido que los marineros y trabajadores detenidos fueron sometidos a crueles torturas. Algunas de ellas, en materia de sadismo, no tienen nada que envidiar a las que aplican a sus opositores algunos regimenes fascistas como el brasileño. Se ha pretendido arrancarles confesiones para configurar presuntos delitos, entre ellos el de insurrección. Se ha buscado vincular a los suboficiales y marineros detenidos con partidos políticos de izquierda y con imaginarios planes para apoderarse de buques de la Escuadra. Sin embargo, a pesar de los repudiables métodos usados, el Fiscal Naval se ha tenido que conformar con acusarlos de “incumplimiento de deberes militares”. Este es un concepto muy vago que, cuando mas, sirve para encubrir cargos que no es posible sostener por falta de pruebas. Lo que ha quedado en clara, en cambio, es que los suboficiales, marineros y trabajadores de ASMAR detenidos y torturados, han sido objeto de estos tratos inhumanos por su negativa a sumarse a los planes golpistas que descaradamente propugnan sectores de la oficialidad. Los testimonios en este sentido son variados y elocuentes. Las victimas de esta insólita represión interna en la Armada, al parecer están unidos por un vínculo común: su decisión de no prestarse para aventuras golpistas que pretenden agredir a la clase trabajadora. Es por eso que la situación de los marineros y trabaja- 49 Articolo pubblicato sulla rivista «El Mercurio» l’8 agosto del 1973. 71 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 dores presos ha despertado la más amplia solidaridad en todo el país. Numerosas organizaciones de masas, partidos políticos, personalidades, órganos de prensa, etc., han protestado enérgicamente por esta situación y han expresado su solidaridad con los detenidos. Como es lógico, PF se suma a su vez a esas manifestaciones. Los trabajadores ven en los marineros hoy torturados, en los militares, aviadores y carabineros que también rechazan el golpismo, a sus mejores amigos. El pueblo esta con quienes, dentro de las FF. AA. y Carabineros, hacen lo posible por contrarrestar la creyente amenaza golpista que manipulan la burguesía y el imperialismo.50 Qualche tempo dopo, il giorno precedente al golpe, Altamirano dichiarò che una volta si era unito a un gruppo di marinai, che l’avevano invitato ad ascoltare la loro denuncia su dei piani insurrezionali, organizzati da ufficiali importanti della marina. Le persistenti denuncie della stampa di sinistra sulle attività dei cospiratori furono ostensibilmente lasciate da parte dall’esecutivo, che preferì avere fede nei procedimenti della giustizia, allora sotto “l’imparziale” direzione di Toribio Merino. Persino Allende criticò il comitato esecutivo dell’UP per aver fatto delle dichiarazioni d’appoggio ai marinai detenuti: Unidad Popular: (Comité Ejecutivo Nacional): Declaración sobre las torturas en la Armada (6 de agosto de 1973) “Frente a la siniestra campaña derechista respecto de los sucesos ocurridos en la Armada, el Comité Ejecutivo de la Unidad Popular declara: 1. Su solidaridad con los marinos y suboficiales procesados cuya única actitud fue defender la Constitución y la ley y rechazar a quienes pretendieron comprometer a la Armada en el golpismo. Igualmente acuerda hacer llegar todo su apoyo y solidaridad a las esposas, hijos y familiares de los procesados. 2. Denunciar que las torturas sin precedentes a que han sido sometidos y que nadie ha podido desmentir, constituyen un atentado a los derechos humanos. El pueblo exige garantías de corrección, trato digno y respeto por los derechos inalienables de los marinos injustamente acusados. 3. Entregar su más amplio respaldo a los compañeros Carlos Altamirano, Secretario General del Partido Socialista; Oscar Garretón, Secretario General del Partido MAPU, y Miguel Enríquez, a quienes se pretende implicar en una supuesta subversión. La Unidad Popular y el pueblo saben que no están en su seno quienes pretenden permanentemente dividir a las Fuerzas Armadas. Por el contrario, ha sido y es su política de siempre el respeto irrestricto por su carácter profesional y constitucionalista. 4. Alertar al pueblo sobre esta nueva maniobra reaccionaria que atenta contra la seguridad nacional al pretender separar al pueblo de las Fuerzas Armadas intentando comprometerlos con los intereses golpistas del imperialismo y los reaccionarios. ¡¡El pueblo exige castigo para los golpistas!! ¡¡Contra la sedición y el fascismo, unidad y combate, venceremos!! Comité Ejecutivo Nacional Unidad Popular”51 In base al seguente intervento fatto da Allende: Salvador Allende: 50 Articolo pubblicato sulla rivista «Punto Final», Santiago, Año VIII, n. 191, Martes 28 agosto de 1973, p. 1. 51 La dichiarazione è pubblicata in Víctor Farías, La Izquierda Chilena 1969-1973, Santiago, Centro de Estudios Publicos, 2000, p. 4907. 72 Declaración sobre la campaña contra las torturas en la Armada (6 de agosto de 1973) “Es decisión del Gobierno impedir el enfrentamiento entre chilenos y por esa superior razón señala que las acciones o declaraciones que contribuyen a dificultar un proceso crítico como el que vive la nación, son altamente perjudiciales. “El Gobierno ha insistido en que no puede deformarse la realidad chilena con un falso antagonismo entre el pueblo y las Fuerzas Armadas. Instituciones estas que deben mantener su integridad y profesionalismo para cumplir con las elevadas responsabilidades que imponen la defensa y seguridad nacionales. “El Gobierno, de acuerdo con su conducta invariable de respeto al Estado de Derecho, no puede ni debe emitir juicio alguno sobre los hechos que se investigan y que se encuentran en estado de tramitación “En relación con las denuncias públicas sobre flagelaciones a miembros de la Marina sometidos a proceso, ha sido informado que algunos de éstos han ejercitado las acciones legales ante los tribunales respectivos. “Por otra parte, ha dispuesto que se tomen todas las medidas que sean necesarias para esclarecer los hechos referidos y se adopten las medidas concordantes con los resultados de la investigación. “Si hay culpables de torturas, serán sancionados; en caso contrario, serán castigados los que se hayan hecho responsables de imputaciones sin fundamentos”.52 il comitato esecutivo dell’UP pubblicò in seguito una versione più moderata nel tono di quella precedente.53 I marinai leali e antigolpisti torturati e incriminati scrissero una lettera aperta ad Allende e ai lavoratori del Cile: Carta de los marineros torturados a Salvador Allende (Agosto de 1973) A su Excelencia el Presidente de la República, y a los trabajadores de todo el país: Nosotros los marinos de tropa, antigolpistas, les decimos a las autoridades, a los trabajadores de todo Chile y a nuestros familiares, que ni las amenazas que nos hacen nuestros jefes, de volver a flagelarnos, ni mil torturas más, nos impedirá decirle la verdad a nuestra gente, la clase obrera y a nuestros compañeros de tropa del Ejército, Fuerza Aérea y ciudadanía en general. Los reaccionarios han usado todos los medios de convicción para mentirle al pueblo diciendo que nosotros los marinos, con los señores Altamirano, Garretón y Enríquez, íbamos a bombardear las ciudades de Viña del Mar, Valparaíso y otras. Los hechos son diferentes, nosotros esclarecemos estos hechos tan 52 Ivi, p. 4904. È interessante tradurre la parte in corsivo del testo che evidenzia la polemica con l’esecutivo di UP: «Il governo non deve creare falsi antagonismi tra il popolo e le Forze Armate, le quali devono conservare il loro professionalismo e la loro integrità per portare a termine i loro compiti ed eccezionali responsabilità nella difesa e la sicurezza nazionale». 53 Si riporta la seconda dichiarazione rivisitata dopo l’intervento di Allende: «Unidad Popular (Comité Político): Declaración sobre las torturas en la Armada (6 de agosto de 1973). El Comité Político de la UP, autoridad máxima de los partidos de izquierda, declara que el comunicado del Comité Ejecutivo del Partido Federado de la Unidad Popular sobre el proceso que sigue la Fiscalía de la II Zona Naval no tiene los alcances que le han dado algunos sectores, en el sentido de que implicaría un apoyo a los actos subversivos en la Armada. La UP está convencida que el proceso establecerá que los inculpados no han cometido acto alguno de subversión. Por lo misma razón, el Comité Político de la UP reafirma su solidaridad con el Secretario General del PS, senador Carlos Altamirano, y con el Secretario General del MAPU, diputado Oscar Garretón. Está fuera de toda lógica que pudieran participar en actividades subversivas personeros de partidos integrantes del Gobierno y de una coalición que ha expresado reiteradamente su posición de respecto irrestricto al carácter profesional y constitucionalista de los institutos armados». Ivi, p. 4906. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA inmensamente distorsionados por la derecha reaccionaria junto a los oficiales y grupos golpistas de la armada, que por fuera se ven limpios, blancos – y por dentro están podridos. Es falso que los señores Altamirano, Garretón y Enríquez nos dirigieran. Es distinto. Nosotros acudimos a distintas personalidades para dar cuenta del golpe de Estado que preparaba la oficialidad golpista coludida con los reaccionarios de otras ramas de las Fuerzas Armadas y partidos políticos de derecha. Nosotros los marinos, antigolpistas de tropa, buscamos por todos los medios comunicarles al pueblo y al Gobierno de este golpe de Estado que planificaba la oficialidad golpista de la Armada. Para nosotros era vital evitar esa gran masacre contra el pueblo, que estaba ya planificada con fecha definida entre el 8 y el 10 de agosto, por datos e informaciones concretas, sumando a éstos las diferencias de nuestros jefes para con nosotros, la tropa, donde nos explicaban que por tales o cuales razones el Gobierno marxista debía ser derrocado y limpiado el pueblo de dirigentes marxistas. Era, sin duda, el Plan Yakarta, como nosotros habíamos logrado saber por ellos mismos y corroborado en el proceso que se nos sigue. En tanto a hechos, por ejemplo: A uno de nosotros, el comandante Bilbao, Fiscal, le preguntó de cómo se iba a restituir la legalidad, cuando no iba a quedar después del golpe ningún líder de izquierda vivo. También para nosotros dentro de este plan, la suerte era incierta. En el juicio que se nos sigue podrán darse cuenta ustedes, la ciudadanía, de los tenebrosos planes que iba a ejecutar la oficialidad golpista contra la clase trabajadora, nuestra clase, porque nosotros los marinos de tropa somos hijos del pueblo, por lo tanto, jamás haríamos fuego contra él. Nuestro delito Oponerse al golpe de Estado, por lo cual ellos fracasaron. Se nos ha flagelado y torturado criminalmente. Se nos ha ofrecido no flagelarnos más, inclusive dejarnos en libertad, con tal de que nosotros cooperemos y digamos que los señores Altamirano, Garretón y Enríquez nos dirigían y que nos habían ordenado bombardear Valparaíso, Viña, la Escuela Naval y otras cosas por el estilo. Como nos negamos, nos seguían golpeando en la cruz, nos colgaban en ataúd, nos hacían tomar las meadas de los verdugos, nos colgaban de los pies y nos sumergían en el agua, nos sumían en pozos de barro, nos aplicaron corriente, nos tiraban agua caliente en el cuerpo, después fría y decenas de cosas más. En Valparaíso nos vendaron los ojos En Talcahuano (la tortura) fue sin venda y estuvo a cargo, en forma de hecho, de los señores Koeller, capitán Bhuster, teniente Jaeger, Letelier, Luna, Alarcón, Tapia, Maldonado, Leatich. Nos hacían hablar en grabadora lo que ellos querían en Talcahuano. Pegándonos culatazos por todos lados y nos decían: tienen que hablar lo mismo donde el Fiscal. Y el Fiscal nos preguntaba: “¿Se sienten mal?”, !Si les han hecho algo, díganme”. Llegábamos machucados. Apenas sí podíamos hablar, otros no podían andar, otros con conmoción cerebral no podían venir a declarar. Nosotros le preguntamos a la ciudadanía si a los señores Viaux, Souper, comandante Sazo (de la Armada y que aún se encuentra en servicio) ¿los torturaron? Si defender al Gobierno, la Constitución, la legalidad, el pueblo, es un delito, y, al contrario, derrocar al Gobierno, atropellar la ley y terminar con la vida de miles de seres humanos, eso es legal.¡Que contesten los trabajadores! Firmado: Sargento 2° (MG) Juan Cárdenas. Cabo 2° (Artill.) Alberto Salazar. Marinero 1° (MA) Ernesto Zúñiga S. Marinero 1° (MA) Ernesto Carvajal. Cabo 2° (EL) José Lagos A. Marinero 1° (Art.) David Valderrama. Marinero 1° (Art.) Claudio Espinoza. Marinero 1° (CF) José Velásquez A. Marinero 1° (CF) Luis Rojo G. Marinero 1° (Art.) Mario Mendoza U. Marinero 1° (EL) Roberto Fuentes F. Cabo 2° (MQ) José Jara. Cabo 1° (ME) Miguel González. Marinero 1° (MQ) Tomás Alonso. Cabo 1° (Art.) Pedro Lagos. Cabo 2° (Art.) Juan Rodán B. Marinero 1° (MA) Jaime Salazar. Cabo 2° (E) Pedro Blasset C. Cabo 2° (MA) Sebastián Ibarra V. Marinero 1° (Art.) Luis Ayala N. Marinero 1° (Art.) Carlos Ortega D. Marinero 1° (Art.) Rodolfo Claro C. Cabo 2° (MA) Teodosio Cifuentes R. Marinero 1° (Art.) Juan Segovia A. Marinero 1° (Art.) Juan Dotts. Cabo 1° (MQCA) Carlos Alvarado. Cabo 1° (EL) Mariano Ramírez. Marinero 1° (MR-AFMQ) Alejandro Retameo. Marinero 1° (MR-AF-MQ) Luis Fernández R. Operador 3° (MQ) Bernardino Farina. Operador 3° (MQ) Víctor Martínez C. Marinero 1° (MQ) Nelson Córdoba. Marinero 1° (MA) Orlando Véniz V.54 Le denuncie di queste ingiustizie, formulate dai partiti PS, MAPU e MIR, facevano parte di una campagna diretta ai soldati, aviatori e marinai, stimolandoli a disobbedire agli ordini insurrezionali e antipopolari. Mancando però una ferma organizzazione nelle caserme, tali appelli suonarono nel vuoto. La stampa di sinistra pubblicava sui giornali articoli con i titoli come “Soldato, fermamente con il popolo” oppure “Soldato, la madre patria è la classe operaia”; inoltre pubblicava entusiastici articoli sulle Forze Armate rivoluzionarie di Cuba e i concetti sulla sicurezza nazionale popolare adottati dalla politica militare cubana. E questi articoli erano intercalati da altri sulla tortura, sulla repressione militare, su incursioni e controlli delle armi fatti alle organizzazioni dei lavoratori, ecc… Altro motto costante, fatto da alcuni settori della sinistra, era: “No alla guerra civile”. Il MIR definì queste posizioni politiche, come “criminalmente insufficienti, difensive e apolitiche”. Il conflitto nella direzione militare della marina non era ancora risolto. All’inizio di settembre la stampa d’opposizione attaccava costantemente il comandante in capo Montero, accusandolo di: - aver permesso, negli anni passati, che navi della flotta sovietica penetrassero nelle acque cilene offendendo la sovranità, l’onore, la sicurezza e l’indipendenza dello stato, in realtà una missione sovietica, accompagnata da ufficiali della marina cilena, aveva svolto compiti d’ispezione; - non aver risolto e chiarito il problema della concessione del porto di Colcura alla Russia; in realtà, c’era solo il progetto della costruzione di un porto peschereccio, con l’aiuto di un credito sovietico. Montero come risposta a tali accuse offrì immediatamente le sue dimissioni come comandante in capo, Allende le respinse dicendo che era nel “supremo interesse della nazione” e per “imperativo di superiore gerarchia” che egli doveva rimanere al suo posto fino alla fine dell’anno, quando automaticamente si sarebbe ritirato, al termine di quaranta anni di servizio. La situazione di Montero era insostenibile; tuttavia mantenne il suo ruolo di comandante in capo fino al giorno del golpe, quando fu sostituito da Merino. All’inizio di settembre, ci furono delle manovre militari congiunte con la marina nordamericana, realizzate annualmente sotto l’auspicio della Giunta Interamericana di Difesa (JID). Le attività della JID avevano coinciso di solito con momenti di crisi politica nei vari paesi Latinoamericani. Nel 54 Ivi, pp. 4908-4910. È interessante tradurre le frasi in corsivo del testo: «Se difendere il governo, la Costituzione, la legalità e il popolo è un crimine, e al contrario violare la legge e distruggere la vita di molti esseri umani non lo è, quale è allora la legalità? Che i lavoratori rispondano». 73 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 caso del Cile non fu il prodotto di una semplice coincidenza, ma la coordinazione di piani esistenti tra gli USA e le Forze Armate cilene. Tradizionalmente le manovre “Unite” si eseguivano a settembre ed erano state stabilite in conformità del patto di aiuti militari, firmato tra il Cile e gli USA nel 1952 e approvato dal Senato dell’epoca con 25 voti favorevoli e 6 contrari. Negli anni precedenti la crescente opposizione, soprattutto sotto l’amministrazione Frei, indusse il governo cileno a ottenere che avessero una forma diversa. Le manovre continuarono, però fuori dalle acque territoriali; e i marinai nordamericani non sbarcavano nei porti cileni come invece succedeva nelle manovre precedenti. Nel programma base di UP si dichiarava l’intenzione di «denunciare, rivedere e respingere gli accordi che significavano compromesso e limitavano la nostra sovranità; specialmente il trattato di assistenza reciproca (Rio1947), il patto mutuo di aiuti (1952) e altri patti firmati tra il Cile e gli USA»55. Nel 1973, le operazioni “Unite” compivano però ventuno anni di pratica; e quindi l’Unidad Popular, nei suoi tre anni di vita, non aveva mantenuto le sue promesse elettorali, riguardo a tale proposito. Non bisogna dimenticare però una risoluzione su tale problema, proposta dal ministro delle relazioni estere del Cile, Clodomiro Almeyda, all’assemblea generale dell’organizzazione degli stati americani nel 1973: El fundamento histórico de la situación que analizamos, se encuentra en la naturaleza del contexto internacional que rodeó y condicionó la configuración formal definitiva del sistema interamericano a fines de los años 40. Eran los tiempos de la más aguda guerra fría y la potencia hegemónica en el continente necesitaba, aquí, como en otras partes del mundo, de un dispositivo jurídico e institucional de seguridad y dominación que a la vez legitimara su hegemonía y le permitiera incluso utilizar en su favor los recursos naturales y hasta humanos del subcontinente latinoamericano. La tercera reunión de consulta de los ministros de Relaciones Exteriores en Río de Janeiro en 1948; la Conferencia sobre la Guerra y la Paz en Chapultepec, México, en 1945; y la Conferencia Sobre el Mantenimiento, de la Paz y la Seguridad Continentales en Río de Janeiro en 1947, que aprobó el tratado de asistencia recíproca de los Estados Americanos y finalmente, la Novena Conferencia de Estados Americanos que se reunió en Bogotá en 1948, articularon todo un sistema de relaciones hemisféricas que encubrió e institucionalizó la dependencia de América Latina respecto a los Estados Unidos e insertó todo ese sistema naciente en el proceso político de la guerra fría sobre el supuesto de una presunta solidaridad hemisférica, que ni la historia, ni la economía, ni la política, han podido verificar en el pasado ni en el presente. Con relación al presente, basta con aludir al impresionante material de investigación disponible, acumulado por los organismos internacionales que proporcionan una abrumadora evidencia acerca de la oposición de intereses y divergencias de políticas entre el norte y el sur, para reafirmar que la supuesta solidaridad hemisférica ha sido y es un gigantesco artificio que no puede servir de cimiento para construir nada como no sea ayudar a la deformación de la conciencia de los pueblos latinoamericanos, obstaculizando su despertar y su liberación. […] Está naciendo ya, aunque no nos lo hayamos propuesto conscientemente, el germen de lo que puede y debe llegar a ser un verdadero sistema latinoamericano, constituido por políticas comunes, movidas por intereses, ideales y principios comunes, que tienden a buscar formas orgánicas e institucionales para manifestarse. Creemos los chilenos que ha llegado la hora de promover conscientemente este proceso, La caducidad irreversible del sistema interameri55 Programa Básico de Gobierno de la Unidad Popular, cit., p. 33. 74 cano en su forma actual, encuentra su contrapartida en la emergencia de estos principios y elementos orgánicos en que tiende a expresarse la presencia latinoamericana en el mundo contemporáneo. Tenemos los latinoamericanos la obligación de concebir con audacia una perspectiva y un programa que sirvan para ir articulando iniciativas dispersas y recogiendo experiencias comunes y para diseñar una meta que imprima sentido y organización a este irresistible movimiento histórico que pugna por nacer, expresarse y afirmarse. Lo que hemos estado acostumbrados a llamar “El sueño de Bolívar”, parece ahora, en una versión de fines del siglo XX, querer convertirse en realidad. En la perspectiva de promover la progresiva institucionalización de un sistema latinoamericano, la regulación de la convivencia interamericana, hemisférica, cambia de sentido y de naturaleza. Lo que hasta ahora ha sido el sistema interamericano dispositivo de dominación del norte sobre el sur, debe llegar a ser en el futuro y en la medida en que un sistema latinoamericano se expresa institucionalmente, la estructura orgánica y hemisférica que sustente el diálogo entre los Estados Unidos, por una parte, y la América Latina por otra. Tal diálogo estaría dirigido a regular el conflicto latente manifiesto entre ambas partes, buscarle respuestas constructivas y propósitos comunes que puedan servir de cimiento a una política de cooperación interamericana en el plano económico-social y en el plano cultural, científico y tecnológico. Es por ello necesario y urgente: 1. Que los órganos competentes de la entidad dejen sin efecto incondicionalmente las sanciones políticas y económicas contra Cuba, que Chile, como otras naciones latinoamericanas rechaza, cuestionando su legitimidad. Por nuestra parte, pensamos que la subsistencia de tan insólita situación no sólo conspira contra todo intento serio de reorganizar el sistema interamericano en el futuro, sino que hasta amenaza con obstruir el normal funcionamiento de la organización en su actual etapa. 2. Que se disuelva prontamente la “Comisión Especial de Consulta sobre Seguridad”, tal como lo ha planteado la representación chilena en el Consejo de la OEA, por estimar incompatible su existencia con el irrestricto derecho de cada país de darse el régimen político y social que soberanamente desee, sin discriminación ideológica de ninguna naturaleza. 3. Que se reexaminen, a la luz del principio que acabamos de señalar, aquellos tratados y convenciones Ínter-hemisféricas que, como el Tratado interamericano de Asistencia Recíproca, o entidades que, como la Junta Interamericana de Defensa o el Colegio Interamericano de Defensa, se inspiran y contienen disposiciones o prácticas incompatibles con la neutralidad política e ideológica sobre la que necesariamente debe sustentarse toda estructura que quiera regular las relaciones entre los Estados Soberanos del continente. […].56 La soluzione proposta dal Ministro si basava sul riesaminare, alla luce del principio del diritto di ogni paese di darsi il regime politico e sociale che sovranamente desidera e senza discriminazione ideologica di nessuna natura, quei trattati e convenzioni interemisferici, come il trattato internazionale di assistenza reciproca, e quegli enti, come la giunta interamericana di difesa o il collegio interamericano di difesa, che s’ispiravano e contenevano disposizioni o pratiche incompatibili con la neutralità politica e ideologica, sulla quale necessariamente deve sostenersi tutta la struttura che regola le relazioni tra gli stati sovrani del continente. Il giorno 6 settembre 1973 Allende ordinò espressamente ai capi della marina di uscire da Valparaiso e di riunirsi con la flotta americana il giorno dieci. 56 Discorso fu pronunciato dal Ministro delle Relazioni Estere del Cile, Clodomiro Almeyda, nel III Periodo Ordinario della Sessione dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione degli Stati Americani il 4 aprile 1973 a Washington D.C., USA. È stato pubblicato sulla rivista «Estudios Internacionales», Santiago, Anno VI, n. 21, 1973, pp. 84-90. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Realidades y Fantasías El diario Clarín señala que los allanamientos efectuados por las Fuerzas Armadas son provocadores para la clase obrera, y que deben evitar que disminuya el afecto del pueblo por las Fuerzas Armadas, ya que esto también atenta contra la seguridad nacional. La derecha chilena sueña con una ayuda «infinita» del imperialismo norteamericano, pero no se detiene a meditar en la realidad que enfrenta ese país, estremecido por los escándalos políticos y económicos mayores del siglo. El caso Watergate y las acusaciones de fraude contra el vicepresidente Spiro Agnew son sólo una manifestación del hondo drama que corroe el corazón mismo del imperio. Ello se refleja también en las fluctuaciones del valor de la divisa nacional, el dólar, lo que a su vez crea una inflación interna fruto de la inestabilidad de los capitalistas y acarrea, igualmente, inflación a otras naciones de la Tierra. Por último, es preciso recordar que EE.UU. viene saliendo de una feroz derrota militar en Indochina y que su opinión pública es visiblemente hostil a otras aventuras externas, incluyendo muy especialmente los vastos territorios de América Latina. Como resultado de los hechos que someramente hemos indicado, el nuevo Secretario de Estado, Kissinger, trata de mejorar la «imagen» de esa gran potencia ante los ojos de los pueblos débiles del Tercer Mundo. No solamente ha promovido el término de la guerra en el sudeste asiático y ha intentado relajar las tensiones con los países socialistas, sino que ha insinuado la posibilidad de normalizar las relaciones con Cuba. Ello deriva de conveniencias para las empresas transnacionales en que gira el capital imperialista, más que de razones humanitarias o convicciones teóricas, pero de todas maneras es una realidad que debe ser analizada y aceptada. En estos momentos, pues, para los Estados Unidos, no es un «buen negocio» complicarse en un golpe de Estado en Chile o financiar al Gobierno que sugiere de esa sedición antidemocrática y gorila. Uso y abuso de los militares Tal vez por eso la derecha, cazurra y sofisticada, quiere sacar las castañas con la mano del gato y busca la quiebra de la disciplina de las Fuerzas Armadas, para empujarlas a un gobierno militar, que no podría solucionar los problemas que el país enfrenta y que acarrearía sobre los uniformados el odio pasional de los trabajadores y de la ciudadanía. Sólo entonces intervendrían los políticos reaccionarios, que habrían así liquidado a todos los sectores de la nación interesados en modernizar las instituciones y erradicar los grupos oligárquicos que siempre se beneficiaron con las riquezas nacionales. Los militares que sienten atracción por la aventura deben pensar en la responsabilidad que asumirán al desacreditar a un ejército cuya tradición democrática y profesional le ha dado prestigio en el exterior y afecto en el interior, ya que no es posible «echar por la borda» como material en desuso, la doctrina Schneider-Prats, de prescindencia política y de respeto a las autoridades legítimamente constituidas. En estos asuntos se sabe cómo se comienza, pero jamás como se termina, tanto más cuanto que el pueblo no está dispuesto a tolerar una dictadura gorila que humille la conciencia y violente la paciencia de los trabajadores. Allanamientos provocadores A este respecto no podemos dejar de referirnos a los allanamientos en búsqueda de inexistentes armas que sólo sirven para provocar a una masa obrera que siempre ha respetado y querido a sus Fuerzas Armadas, pero a la que se hace víctima de un trato brutal y vejatorio. Este trato se ha extendido a los periodistas que acuden a cubrir el frente de la noticia, todo lo cual parece maquiavélicamente calculado para empujar a grupos militares a hechos imprevisibles. Las armas están, justamente, en manos de los que denuncian a los trabajadores y, sin embargo, a ellos no se les allana ni se les veja. En Chile no hay clases privilegiadas, por mandato de la Constitución, por lo que estas discriminaciones resultan particularmente odiosas. No se ha sabido de que se haya allanado con la bayoneta calada ninguna mansión del barrio alto ni que se haya obligado a alguna señorona a tenderse de bruces sobre el pasto mojado de los jardines, como se hace con las obreras sobre el barro inmundo de las calles suburbanas. Los jefes castrenses deben impedir que se deteriore el afecto popular por las Instituciones Armadas, pues de ello depende también la «seguridad nacional».57 57 L’articolo fu pubblicato dal diario «Clarín» il 7 settembre 1973. Le notizie sul ritorno della marina a Valparaiso, alle prime ore della mattina del giorno undici, furono simultanee alle prime informazioni sul golpe. LO SCENARIO DEL GOLPE 10 SETTEMBRE 1973 Per la preparazione del golpe ci furono vari movimenti anormali di truppe. Il reggimento Buin, di Santiago che i cospiratori supponevano che avrebbe fatto resistenza, poco prima del golpe fu inviato nel sud del paese con vari pretesti. Aerei civili DC-8 furono trasferiti alla base aerea di Los Cerrillos, in previsione di dover trasportare truppe. Parte dello squadrone di jet da combattimento Hawker Hunter fu trasferito da Santiago a Conception. Secondo le dichiarazioni del generale Leigh dopo il golpe, questo fu fatto per timore di sabotaggi da parte di “elementi di estrema sinistra”. Durante la notte del 10 settembre, Allende fu informato del ritorno della flotta a Valparaiso e che da San Felipe, 100 kilometri dalla capitale, si muovevano truppe verso Santiago. Quando cercò conferma di quello che stava succedendo, non ebbe nessuna risposta dai suoi comandanti in capo. Solamente il comando superiore dei carabineros rispose alla sua domanda iniziale e rimase alla Moneda tutta la mattina dell’undici, durante l’attacco. Forze dei carabineros difesero il perimetro del palazzo con carri blindati e armi corte fino a quando il suo centro di controllo delle comunicazioni fu preso dall’esercito e ricevette l’ordine di ritirarsi. Molti politici e consiglieri della coalizione di UP si trovarono il giorno 11 nel palazzo presidenziale. Allende rifiutò l’offerta, fatta dal generale dell’aviazione Gabriel Van Schowen, di uscire dal Cile sano e salvo, e aggiunse: Dite al generale Van Schowen che il Presidente del Cile non prenderà un aereo per scappare, saprà comportarsi come un soldato, come Presidente della Repubblica.58 Durante la mattinata del giorno 11 Allende parlò per radio al popolo varie volte, rivolgendosi alla classe operaia nel suo insieme,tra il rumore delle mitragliatrici e dei razzi lanciati dagli Hawker Hunters contro il palazzo della Moneda. «Estas son mis ultimas palabras» dijo Allende a las 9.20 de hoy El Rancagüino, que es el único diario que salió a la calle el mediodía del 11, informa sobre las palabras de Salvador Allende a través de Radio Magallanes, en la cual se despide de la ciudadanía, en los mismos instantes en que se desarrolla el golpe militar. A las 9.20 de la mañana el Dr. Allende se dirigió al país por cadena de radios de la Unidad Popular, expresando que ésta era la última oportunidad que tenia para dirigirse al pueblo y que estas serían sus últimas palabras: «Pagaré con mi vida la lealtad al pueblo», dijo, agregando que la semilla sembrada en miles y miles de chilenos no podrá ser cegada. Ellos tienen la fuerza y podrán avasallarnos, dijo, pero no se detienen los procesos con el crimen ni con la fuerza. La victoria es nuestra. 58 Joan Garcés, Allende y la experiencia chilena las armas de la critica, cit., p. 381. 75 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 Enseguida comenzó a expresar agradecimientos en primer lugar a los trabajadores de su Patria, por la lealtad y la confianza que depositaron en un hombre que empeñó su palabra de respetar la Constitución y las leyes. Agregó que por ser esta la última oportunidad en que se dirigía a los trabajadores, les pedía que aprovecharan la lección y acusó al capital foráneo, al imperialismo y la reacción de haber creado el clima que hizo que las Fuerzas Armadas rompieran su tradición. Se dirigió después a las mujeres y a la juventud, a los campesinos y a los intelectuales, advirtiendo que el fascismo ya está presente. Expresó que estaba hablando por medio de Radio Magallanes, que seguramente seria acallada. Dijo que el pueblo debía defenderse pero no sacrificarse. «Tengo fe en Chile y su destino que superará con otros hombres este momento amargo de la traición», expresó. Sus últimas palabras fueron: «Viva Chile, viva el pueblo, vivan los trabajadores. Tengo la certeza de que mi sacrificio no será en vano y que se castigará la felonía y la cobardía».59 L’11 settembre, il popolo e i cittadini del Cile ricevettero una pioggia di volantini lanciati da aerei ed elicotteri. Dicevano: Disciplina civile Le azioni portate a termine dalle Forze Armate e carabineros sono unicamente per il bene del Cile e dei cileni e contano sull’appoggio civile. Non si avrà compassione per gli estremisti stranieri che sono venuti a uccidere cileni. Cittadino, rimani all’erta per scoprire chi sono e denunciali alle autorità militari più vicine.61 CONCLUSIONI Le forze dell’esercito, che attaccavano il palazzo, esigevano la sua resa ma egli continuo a rifiutarla fino alla morte. Nel suo ultimo messaggio dalla radio Magellano disse: Il capitale straniero e l’imperialismo uniti alla reazione, hanno creato un clima per cui le Forze Armate hanno spezzato la loro tradizione, quella segnalata da Schneider e riaffermata dal comandante Araya. Le Forze Armate sono vittime dello stesso settore sociale che oggi è chiuso nelle case, sperando che altre mani conquistino il potere per continuare a difendere i loro privilegi.60 59 Articolo pubblicato sul diario «El Rancagüino» l’11 settembre 1973. 60 Joan Garcés, Allende y la experiencia chilena las armas de la critica, cit., p. 394. L’ultimo discorso di Allende prima di morire: «Seguramente esta es la última oportunidad en que me pueda dirigir a ustedes. La Fuerza Aérea ha bombardeado las torres de Radio Portales y Radio Corporación. Mis palabras no tienen amargura, sino decepción, y serán ellas el castigo moral para los que han traicionado el juramento que hicieron... soldados de Chile, comandantes en jefe titulares, el almirante Merino que se ha auto designado, más el señor Mendoza, general rastrero... que sólo ayer manifestara su fidelidad y lealtad al gobierno, también se ha nominado director general de Carabineros. Ante estos hechos, sólo me cabe decirle a los trabajadores: ¡Yo no voy a renunciar! Colocado en un tránsito histórico, pagaré con mi vida la lealtad del pueblo. Y les digo que tengo la certeza de que la semilla que entregáramos a la conciencia digna de miles y miles de chilenos, no podrá ser segada definitivamente. Tienen la fuerza, podrán avasallarnos, pero no se detienen los procesos sociales ni con el crimen... ni con la fuerza. La historia es nuestra y la hacen los pueblos. Trabajadores de mi patria: Quiero agradecerles la lealtad que siempre tuvieron, la confianza que depositaron en un hombre que sólo fue intérprete de grandes anhelos de justicia, que empeñó su palabra en que respetaría la Constitución y la ley y así lo hizo. En este momento definitivo, el último en que yo pueda dirigirme a ustedes, quiero que aprovechen la lección. El capital foráneo, el imperialismo, unido a la reacción, creó el clima para que las Fuerzas Armadas rompieran su tradición, la que les enseñara Schneider y que reafirmara el comandante Araya, víctimas del mismo sector social que hoy estará en sus casas, esperando con mano ajena reconquistar el poder para seguir defendiendo sus granjerías y sus privilegios. Me dirijo sobre todo, a la modesta mujer de nuestra tierra, a la campesina que creyó en nosotros; a la obrera que trabajó más, a la madre que supo de nuestra preocupación por los niños. Me dirijo a los profesionales de la patria, a los profesionales patriotas, a los que hace días estuvieron trabajando contra la sedición auspiciada por los Colegios profesionales, colegios de clase para defender también las ventajas que una sociedad capitalista da a unos pocos. Me dirijo a la juventud, a aquellos que cantaron, entregaron su alegría y su espíritu de lucha. Me dirijo al hombre de Chile, al obrero, al campesino, al intelectual, a aquellos que serán perseguidos... porque en nuestro país el fascismo ya estuvo hace muchas horas presente en los atentados terroristas, volando los puentes, cortando la línea férrea, destruyendo los oleoductos y los gasoductos, frente al silencio de los que tenían la obligación de proceder: estaban comprometidos. La historia los juzgará. Seguramente Radio Magallanes será acallada y el metal tranquilo de mi voz no llegará a ustedes. No importa, lo seguirán oyendo. Siempre estaré junto a ustedes. Por lo menos, mi recuerdo será el de un hombre digno 76 L’instaurazione di un governo militare fu solo possibile grazie all’uso della Forza Armata. ACTA DE CONSTITUCION DE LA JUNTA DE GOBIERNO Decreto ley N. 1.- Santiago de Chile, a 11 de Septiembre de 1973. El Comandante en Jefe del Ejército, General de Ejército don Augusto Pinochet Urgarte; el Comandante en Jefe de la Armada, Almirante don José Toribio Merino Castro; el Comandante en Jefe de la Fuerza Aérea, General del Aire don Gustavo Leigh Guzmán y el Director General de Carabineros, General don César Mendoza Durán, reunidos en esta fecha, y Considerando: 1.- Que la Fuerza Pública, formada constitucionalmente por el Ejército, la Armada, la Fuerza Aérea y el Cuerpo de Carabineros, representa la organización que el Estado se ha dado para el resguardo y defensa de su integridad física y moral y de su identidad histórico-cultural; 2.- Que, por consiguiente, su misión suprema es la de asegurar por sobre toda otra consideración, la supervivencia de dichas realidades y valores, que son los superiores y permanentes de la nacionalidad chilena, y 3.- Que Chile se encuentra en un proceso de destrucción sistemática e integral de estos elementos constitutivos de su ser, por efecto de la intromisión de una ideología dogmática y excluyente, inspirada en los principios foráneos del marxismo-leninismo; Han acordado, en cumplimiento del impostergable deber que tal misión impone a los organismos defensores del Estado, dictar el siguiente, Decreto-ley: 1.- Con esta fecha se constituyen en Junta de Gobierno y asumen el Mando Supremo de la Nación, con el patriótico compromiso de restaurar la chilenidad, la justicia y la institucionalidad quebrantadas, conscientes de que ésta es la única forma de ser fieles a las tradiciones nacionales, al legado de los Padres de la Patria y a la Historia de Chile, y de permitir que la evolución y el progreso del país se encaucen vigorosamente por los caminos que la dinámica de los tiempos actuales exigen a Chile en el concierto de la comunidad internacional de que forma parte. 2.- Designan al General de Ejército don Augusto Pinochet Ugarte como Presidente de la Junta, quien asume con esta fecha dicho cargo. 3.- Declaran que la Junta, en el ejército de su misión, garantizará la que fue leal a la lealtad de los trabajadores. El pueblo debe defenderse, pero no sacrificarse. El pueblo no debe dejarse arrasar ni acribillar, pero tampoco puede humillarse. Trabajadores de mi patria: Tengo fe en Chile y su destino. Superarán otros hombres este momento gris y amargo, donde la traición, pretende imponerse. Sigan ustedes, sabiendo, que mucho más temprano que tarde, de nuevo, abrirán las grandes alamedas por donde pase el hombre libre, para construir una sociedad mejor. ¡Viva Chile! ¡Viva el pueblo! ¡Vivan los trabajadores! Estas son mis últimas palabras y tengo la certeza, de que mi sacrificio no será en vano. Tengo la certeza de que, por lo menos, habrá una lección moral que castigará la felonía, la cobardía y la traición». Cfr., http://www.salvador-allende.cl/Discursos/1973/despedida. pdf. 61 I volantini sono depositati in originale presso l’archivio Fernando Murillo – Sezione B- Riviste, bollettini, periodici. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA plena eficacia de las atribuciones del Poder Judicial y respetará la Constitución y las leyes de la República, en la medida en que la actual situación del país lo permitan para el mejor cumplimiento de los postulados que ella se propone. Regístrese en la Contraloría General de la República, publíquese en el Diario Oficial e insértese en los Boletines Oficiales del Ejército, Armada, Fuerza Aérea, Carabineros e Investigaciones y en la Recopilación Oficial de dicha Contraloría. JUNTA DE GOBIERNO DE LA REPUBLICA DE CHILE.- AUGUSTO PINOCHET UGARTE, General de Ejército, Comandante en Jefe del Ejército.- JOSE T. MERINO CASTRO, Almirante, Comandante en Jefe de la Armada.- GUSTAVO LEIGH GUZMAN, General del Aire, Comandante en Jefe de la Fuerza Aérea.- CESAR MENDOZA DURAN, General, Director General de Carabineros. Lo que se transcribe para su conocimiento.- René C. Vidal Basauri, Teniente Coronel, Jefe Depto. Asuntos Especiales, Subsecretario de Guerra subrogante.62 L’eliminazione della resistenza si è ottenuta mediante assassinii, torture, carcerazioni arbitrarie e persecuzioni indiscriminate. Gli organi rappresentativi popolari politici, sindacali, sociali e la stampa furono smantellati e i servizi pubblici posti sotto il controllo militare: scuole, ospedali, università. La cultura popolare fu inquinata da valori militari e “patriottici”. In poche parole, l’eliminazione di quello che la giunta militare di Pinochet chiamava “il cancro marxista”, portò tutta la società cilena dell’epoca verso un processo di “militarizzazione”. Le Forze Armate erano diventate l’unico partito legale. Ancora prima del golpe, le Forze Armate avevano assunto un ruolo sempre più importante nella vita nazionale cilena. Per salvaguardare gli interessi dell’imperialismo, i partiti politici dell’opposizione alla coalizione di UP si erano convertiti in guardiani inadeguati della situazione nazionale. Quando aumentò la crisi di dominazione, le Forze Armate erano strettamente legate ai settori della destra. Il loro ruolo tradizionale come istituzione professionale, con l’incarico della difesa nazionale, fu compromesso dal processo generale di politicizzazione. Mentre la destra organizzava i suoi gruppi paramilitari, aiutata da importanti ufficiali e da ex membri delle Forze Armate, la facciata tradizionale andò decadendo, e i militari furono chiamati a “deliberare” nella politica nazionale. I fatti dal 1970-73, hanno mostrato che quando il regime civile diventa incapace di controllare efficacemente la situazione nazionale in virtù di operazioni destabilizzanti, la risposta della classe dominante è di servirsi delle Forze Armate per riaffermare il suo dominio sulla società. In questo modo si determina un dominio sociale con la violenza armata o “all’eliminazione chirurgica dell’opposizione”, usando una definizione della giunta di Pinochet. Questo è quello che si chiama “Dittatura della Sicurezza Nazionale”. dei militari nella crisi di un regime (1970-1973), Arona, Editore XY.IT, 2015. Inoltre: AA.VV., El caso Schneider, Santiago, Editora Nacional Quimantú, 1972. AA.VV., Il Cile. Saggi-Documenti-Interviste, Roma, Edizioni «Il Manifesto», 1973. Salvador Allende, Nuestro camino hacia el socialismo: la vía chilena, Buenos Aires, Ed. Papiro, 1971. Raul Ampuero, El poder político e las Fuerzas Armada, Santiago, Ed. Punto Final, 1973. Raul Ampuero, El pueblo en la defensa nacional, Santiago, Documento del USP, 1971. Alain Joxe, Las Fuerzas Armadas en el sistema político de Chile, Santiago, Ediciones Universitaria, 1970. Alain Joxe, I militari cileni dal legalismo alla violenza istituzionale, Politica Internazionale, n. 11, novembre 1973. Alberto Polloni, Las Fuerzas Armadas de Chile en la vida nacional, Santiago, Editorial Andrés Bello, 1972. Carlos Prats, Memorias. Testimonio de un soldado, Santiago, Edición Pehuén, 1985. Carlos Prats, Una vida por la legalidad, México, Fondo de Cultura Económica, 1976. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Gaetano Oliva, La costituzione cilena del 1925. Il ruolo 62 Cfr., Biblioteca del Congreso Nacional de Chile - www.leychile.cl. 77 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 Il “monachus miles”. La legittimità della guerra nell’ideologia degli Ordini religioso-militari: il caso dei Templari LUCIANA PETRACCA Università del Salento L a predicazione della prima Crociata aveva radunato in difesa della cristianità e della Chiesa di Roma una nuova cavalleria, composta da milites che anelavano alla salvezza dell’anima e alla remissione dei peccati mediante l’esercizio della funzione bellica. Ciò era divenuto possibile grazie alla valorizzazione ideologica del mestiere delle armi e alla conseguente cristianizzazione della cavalleria, non più milizia secolare, ma comunità guerriera e religiosa al servizio della fede, della Chiesa e dell’intera società cristiana. Nel corso dell’XI secolo, le vicende orientali e l’occupazione dei Luoghi Santi da parte degli infedeli avevano indotto la cultura occidentale ad interrogarsi sulla necessitas di brandire la spada a tutela della fede cristiana. Il ricorso alla tradizione veterotestamentaria e l’identificazione col “popolo eletto”, unico custode dal dogma della Rivelazione, resero possibile il processo di legittimazione della guerra condotta dai cristiani. Essa divenne “guerra santa”, fondata su uno ius iustum o ius belli, in grado di cancellare anche la colpa di omicidio a quanti avessero ucciso in battaglia degli infedeli1. Fu così che l’Europa cristiana, rispondendo all’appello di Urbano II che chiamava alla liberazione del santo sepolcro, risolse, legittimandola, il problema della guerra all’infedele. In realtà, come è stato osservato già diversi anni addietro da Claudio Leonardi, non bastava solo rendere cristiana la guerra o rifiutarla in toto in nome degli stessi valori cristiani, era necessario accettarla, sebbene carica di ogni violenza, quale unica soluzione per il trionfo della giustizia e della fede in Cristo2. 1 O. Capitani, Sondaggio sulla terminologia militare di Urbano II, in “Militia Christi” e Crociata nei secoli XI-XIII, Atti della undicesima settimana internazionale di studio (Mendola, 28 agosto-1 settembre 1989), Milano 1992, pp. 167-192: 183; V. Sibilio, Le parole della prima Crociata, Galatina 2004. 2 C. Leonardi, La tradizione cavalleresca e San Bernardo, in I Templari. Una vita tra riti cavallereschi e fedeltà alla chiesa, Atti del I Convegno 78 Alla luce di queste considerazioni, il presente contributo, ripercorrendo i momenti salienti di tale processo di legittimazione, esito di una profonda e difficile riflessione maturata in seno alla cristianità a partire, soprattutto, dalla riforma gregoriana, prenderà in esame la figura di quei monachi e milites3, membri dell’Ordine Templare, atipica istituzione monastica, fondata sull’inedito connubio di professione religiosa e attività militare, per cui «impavidus profecto miles, et omni ex parte securus, qui ut corpus ferri, sic animum fidei lorica induitur»4. L’argomento, oggetto di attenzione da oltre un trentennio da parte della più autorevole storiografia italiana ed internazionale (Cardini, Fleckenstein, Florì, Fonseca, Laclercq, Leonardi, Luttrell, Vetere, Zerbi5 - solo per citarne alcuni -), “I Templari e San Bernardo di Chiaravalle” (Certosa di Firenze, 23-24 ottobre 1992), a cura di G. Viti, Certosa di Firenze 1995, pp. 11-18: 15. 3 Bernardi Claraevallensis, Liber ad milites Templi. De laude novae militiae, ed. C. D. Fonseca, in Opere di san Bernardo, (d’ora in poi: Liber ad milites Templi), I, Milano 1984, p. 452. 4 Liber ad milites Templi cit., p. 440. 5 F. Cardini, Le crociate tra il mito e la storia, Roma 1971; Cardini, Il movimento crociato, Firenze 1972; Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, Firenze 1987; Cardini, I poveri cavalieri del Cristo. Bernardo di Clairvaux e la fondazione dell’Ordine templare, Rimini 1992; Cardini, Studi sulla storia e sull’idea di crociata, Roma 1993; Cardini, I primi tempi dell’Ordine del Tempio, in I Templari. Una vita tra riti cavallereschi cit., pp. 31-124; Cardini, La nascita dei templari. San Bernardo di Chiaravalle e la cavalleria mistica, Rimini 1999; J. Fleckenstein, Die Rechtfertigung der geistlichen Ritterorden nach der Schrift “De laude novae militiae” Bernhards von Clairvaux, in Die geistlichen Ritterorder Europas, herausgegeben von J. Fleckenstein - M. Hellmann (Vorträge und Forschungen, 26), Sigmaringen 1980, pp. 9-22; J. Florì, L’essor de la chevalerie. XIe - XIIe siècles, Genève 1986; Florì, Croisade et chevalerie, Louvain-La Neuve 1998; Florì, Cavalieri e cavalleria nel Medioevo, Torino1999; Florì, La guerra santa. La formazione dell’idea di Crociata nell’Occidente cristiano, Bologna 2009; C. D. Fonseca, Introduzione al Liber ad milites Templi. De Laude novae militiae, in Opere di San Bernardo cit., pp. 427-437; J. Leclercq, Attitude spirituelle de S. Bernard devant la guerre, in «Collectanea cisterciensia», 36 (74), pp. 195-225; Leclercq, Bernard de Clairvaux (Bibliothèque d’Histoire du Christianisme, 19), Paris 1989; Leclercq, L’ordine del Tempio: monachesimo guerriero SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA continua, tuttavia, ad affascinare e a suscitare l’interesse degli storici e della grande divulgazione, non fosse altro che per i risvolti, spesso alquanto cruenti, che ancora oggi, purtroppo, producono le guerre di religione6. Tornando all’Ordine Templare, ricordiamo che con l’istituzione della nova militia Christi, il miles, l’uomo d’armi, vestiva i panni del monachus; la guerra si trasformava in impegno religioso: un nuovo stile di vita contemplativa e belligerante insieme, la cui missione, passando anche attraverso l’eliPapa Urbano II minazione fisica del nemico, ossia dell’infedele, garantiva la difesa della cristianità, dei pellegrini, dei Luoghi Santi e della fede. I Templari, nati come gruppo penitenziale laico composto da poveri cavalieri votati a proteggere i pellegrini occidentali lungo le strade per Gerusalemme, si organizzarono ben presto, col consenso di sovrani e di pontefici, e con la sistematica elaborazione di specifiche Regole, in complesse ed organizzate strutture religiose, in Ordini capaci di gestire notevoli risorse e di controllare vaste aree territoriali, sia in Oriente sia in Occidente. Si trattava di “monaci-cavalieri”, tenuti al rispetto dei voti di obbedienza, povertà e castità in quanto religiosi, e dediti all’esercizio delle armi in quanto soldati. In realtà, sebbene l’accesso all’Ordine fosse subordinato al pronunciamento dei e spiritualità medievale, in I Templari: mito e storia, Atti del convegno internazionale di studi alla magione di Poggibonsi-Siena (29-31 maggio 1987), a cura di G. Minnucci e F. Sardi, Sinalunga-Siena 1987, pp. 1-8; Leonardi, La tradizione cavalleresca e San Bernardo cit., pp. 11-18; A. Luttrell, Templari e Ospitaliari in Italia, in Templari e Ospitalieri in Italia. La chiesa di San Bevignate a Perugia, a cura di M. Roncetti, P. Scalpellini e F. Tommasi, Milano 1987, pp. 19-26; B. Vetere, Il “monacus miles” nell’epoca crociata, in Verso Gerusalemme, II Convegno internazionale del IX centenario della I Crociata (1099-1999) (Bari, 11-13 gennaio 1999), a cura di F. Cardini, M. Belloli e B. Vetere, Galatina 1999, pp. 201-244; Vetere, Obbedienza monastica e disciplina cavalleresca, in Il cammino di Gerusalemme, a cura di M. S. Calò Mariani, Bari 2002, pp. 485-512; P. Zerbi, La “Militia Christi” per i Cistercensi, in “Militia Christi” e Crociata cit., pp. 273-294. 6 In anni più recenti, il dibattito internazionale sull’origine della spiritualità militare ha visto il coinvolgimento di vari studiosi, come: L. Garcìa-Guijarro Ramos, Ecclesiastical Reform and the Origins of the Military Orders: New Prospectives on Hugh of Pyns’ Letter, in The Military Orders. Volume 4. On Land and by Sea, ed. J. Upton-Ward, Ashgate 2008, pp. 77-83; W. J. Purkis, Crusading Spirituality in the Holy Land and Iberia, c. 1095-c.1187, Woodbridge 2008, in particolare pp. 100111; J. Riley-Smith, Templars and Hospitallers as Professed Religious in the Holy Land, Paris 2010; C. De Ayala Martinez, Espiritualidad y prática religiosa entre las Órdenes Militares. Los orígenes de la espiritualidad militar, in As Ordens Militares. Freires, guerreiros, cavaleiros, Actas do VI encontro sobre Ordens Militares (10 a 14 de Março de 2010), ed. I. C. F. Fernandes, Palmela 2012, I, pp. 139-172. voti monastici7, e diversi studiosi siano concordi nell’accogliere per i Templari la definizione di “monaci-cavalieri” o di “monaci-soldati”8, ci sono a riguardo anche pareri discordi. Secondo Anthony Luttrell, ad esempio, sarebbe forse meglio parlare di religiosi o di semi-religiosi piuttosto che di veri e propri monaci9. Lo stesso studioso, infatti, in un passaggio alquanto convincente, sottolinea, che «The military-religius orders were corporations of religious within the Roman Church whose special function was to oppose the infidel or the pagan. There were many variations in their constitutions, but in general their members, male and female, had to be fully professed religious who were bound by their vows of poverty, chastity and obedience, and who supposedly lived a communal liturgical life according to a rule approved by the papacy, to which they were subject. They were not monks in the narrower sense of the term; many were not knightly or noble; and they could not take the vows which would make them crusaders»10. Osservazioni accolte, più di recente, anche da Carlos de Ayala Martinez11. Ma, sia che si voglia guardare ai Templari come ad un ordo monastico tout court, sia che li si voglia assimilare ad una comunità di religiosi laici12, obbiettivo nella nostra riflessione è quello di cogliere il percorso ideologico che ha 7 La Règle du Temple, publiée par H. de Curzon, Société de l’Histoire de France, Paris 1886, 9, p. 21. Sui problemi riguardanti le due tradizioni del testo (la francese e la latina), e sui problemi posti dall’edizione del de Curzon, vedi S. Cerrini, A New Edition of the Latin and French Rule of the Temple, in The Military Orders, 2, Welfare and Warfare, ed. H. Nicholson, Aldershot 1998, pp. 207-215. 8 Cardini, I primi tempi dell’Ordine del Tempio cit., 105-113; Leonardi, La tradizione cavalleresca cit., pp. 16-17; Vetere, Il “monacus miles” nell’epoca crociata cit. 9 Luttrell, Templari e Ospitaliari in Italia cit., p. 19: «Ma sarebbe stato più preciso parlare di religiosi che non di monaci, perché l’ordine militare fu piuttosto una religio o ordo di laici religiosi con l’obbligo di combattere per la fede contro gli infedeli». 10 Luttrell, The Military Orders: Some Definitions, in Militia Sancti Sepulcri. Idea e istruzioni, ed. K. Elm and C. D. Fonseca (Vatican City 1998, pp. 77-88: 88. 11 de Ayala Martinez, Espiritualidad y prática religiosa cit., p. 166. 12 A riguardo, si veda ancora quanto precisato da Anthony Luttrell, The Military Orders: Further Definitios, in Sacra Militia. Rivista di storia degli Ordini Militari, 1 (2000), pp. 7-12: 7: «These were bodies of laici religiosi and their priests, whose institution did indeed lack clear canonical definition. Their brethren took the religious vows of poverty, chastity and obedience, and they followed a rule approved by teh papacy. That their professed members were religious but were, strictly speaking, neither monks or canons, nor crusaders, nor in the secular sense milites, was not always appreciated». 79 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 permesso di coniugare entusiasmo religioso e spirito cavalleresco, obbedienza monastica e disciplina militare. Per Benedetto da Norcia, padre del monachesimo occidentale, l’“obbedienza” rappresentava certo una delle prerogative più importanti al conseguimento della perfectio monastica. Una condizione che, in periodi di disordini e di smarrimento, come quelli vissuti dall’Europa al tempo della Regula Benedicti, avrebbe potuto rappresentare un modello di vita non solo per la comunità monastica ma anche per l’intera società allo sbando. Altrettanto importante nel dettato benedettino era poi la “disciplina”, requisito indispensabile che consentiva al discepolo di adempiere al comando impartito dal maestro. In altri termini, la “disciplina” rendeva possibile l’“obbedienza”13. Nel VI secolo, però, il modello di monachesimo cenobitico proposto da Benedetto si riconosceva esclusivamente nell’esigenza di una stabilitas loci, principio che sanciva un profondo e duraturo legame tra il monaco e il monastero di appartenenza. Le trasformazioni cui andò incontro la civiltà occidentale nel corso dell’XI secolo, congiunte ad una percezione sempre più minacciosa dell’infedele, che occupava la Terrasanta, fecero indubbiamente vacillare anche le più solide certezze. La cristianità prese ad interrogarsi sull’utilità della guerra, sulla mobilità dei monaci, sulla liceità o meno per un cristiano «pro dogmate armis decertare», o, ancora - sempre dagli scritti di Bonizone da Sutri, canonista patarino e acceso gregoriano -, «si licet christiano armis pro veritate certare»14. Le necessità del momento esigevano una risposta affermativa, che trovava le sue ragioni nella giusta causa (bellum iustum) e nella totale identificazione dell’Occidente e della cristianità con la gens iusta, la sola che, in quanto custode della verità del Cristo fatto uomo e risolto, poteva adempiere, secondo le parole di Bernardo di Chiaravalle, monaco cistercense vissuto nella prima metà del XII secolo, al delicato compito di custodies veritatem15. Il diritto alla guerra, dibattuto in più occasioni, scaturiva così dal peculiare momento storico, dall’esigenza di affrontare una situazione che non consentiva soluzioni alternative, sebbene figure dal calibro di Pier Damiani continuassero a respingere qualsiasi uso della forza, promuovendo una militia Christi di tipo tradizionale, votata a Dio attraverso l’esperienza contemplativa16. Di diverso avviso fu invece Gregorio VII, al quale si riconduce il proposito di trasformare il monachesimo in una forza attiva nella predicazione ai fini della Riforma, in difesa della quale avrebbero poi combattuto i milites, parte integrante 13 Vetere, Obbedienza monastica e disciplina cavalleresca cit., p. 485. 14 Boninzoni Episcopi Sutrini, Liber ad amicum, ed. E. Dümmler, in Monumenta Germania Historica, Libelli de lite, I, Hannover 1891, 1, p. 571; e 9, p. 618. 15 Liber ad milites Templi cit., III, 5, p. 446. 16 Petri Damiani, Epistolae, IV, 9, Ad Oldericum episcopum Firmanum, in PL, 144, coll. 311-320; Petri Damiani, Opusculum XL. De frenanda ira, 5, in PL, 145, col. 656; Petri Damiani, Sermones, LXVI, in PL, 144, coll. 883-884. 80 dello stesso disegno riformista17. Anche il già citato Bonizone da Sutri, pronunciandosi sul ruolo del clero e dei vescovi nella difesa della Chiesa e della fede (in auxilium Petri) mediante il coinvolgimento delle armi, riconosceva loro una parte attiva. Per Bonizone, infatti, i vescovi, sia pur astenendosi dal compiere materialmente azioni di guerra, avrebbero comunque dovuto contribuire a promuoverla. Era compito del clero, dunque, indirizzare la mano armata dei laici contro i nemici della Chiesa18. Il dibattitto sul primato della Chiesa romana e sulla legittimità dell’uso di mezzi anche cruenti per la difesa della Chiesa stessa e dell’ortodossia vide anche il coinvolgimento di Anselmo, vescovo di Lucca, al quale si suole attribuire il testo De vindicta et de persecutione iusta, già dal titolo alquanto esemplificativo19. La Chiesa era dunque chiamata a riflettere e a pronunciarsi su come giustificare l’uccisione del nemico, come legittimare l’azione di inferre mortem - espressione usata da Bernardo di Chiaravalle - per Cristo e in nome di Cristo. La ricerca di una giustificazione, prendendo spunto da ragioni di ordine culturale, fece della necessitas la prima e legittima motivazione. Essere fedeli a Cristo implicava partecipare attivamente alla difesa della fede, prendere atto della presenza del “diverso”, dell’infedele, e, conseguentemente, se necessario, ricorrere alle armi per sconfiggerlo. Una scelta, quella di uccidere (hostem deprimere), che diventa doverosa ed inevitabile proprio perché imposta da necessitas e non da voluntas, come ebbe modo di dibattere Anselmo da Lucca nei canoni allo stesso attribuiti20. Insigni presuli, dunque, nel delicato momento storico, quanto l’intera Europa si mobilitava per liberare dall’infedele i luoghi della vita, della passione e della morte di Cristo, si pronunciarono positivamente sulla liceità dell’uso delle armi in nome della fede. Essi formularono paradigmi ideologici maturati dalla tradizione biblica - illuminanti in merito soprattutto le riflessioni di Réginard Grégoire21 - dalla patristica, dalla Iurisdictio Aquisgranentis e dalla Regula Benedicti22, offrendo così le basi teoriche all’azione, che sarebbe seguita all’invito di Urbano II. Si trattava di speculazioni, che, sebbene non sia questa la sede opportuna per l’approfondimento, richiamavano prece17 Leonardi, La tradizione cavalleresca cit., p. 15; Sibilio, Le parole della prima Crociata cit., pp. 208-225. 18 Boninzonis Episcopi Sutrini, Liber de vita cristiana, ed. E. Perels, Berlin 1930, II, 43, p. 56; Capitani, Sondaggio sulla terminologia militare cit., pp. 167-192: 172. 19 Anselmi Lucensis, Collectio canonum, in Patrologia Latina 149, ed. J. P. Migne (d’ora in poi: PL), coll. 483-536, Capitula libri decimi terti, Qui est de vindicta et de persecutione iusta; E. Pasztor, Lotta per le investiture e “ius belli”: la posizione di Anselmo di Lucca, in Sant’Anselmo, Mantova e la lotta per le investiture, a cura di P. Golinelli, Bologna 1987, pp. 406408. 20 Capitani, Sondaggio sulla terminologia militare cit., p. 181. 21 R. Grégoire, Esegesi biblica e “militia Christi”, in “Militia Christi” e Crociata cit., pp. 21-45. 22 C. D. Fonseca, “Militia Deo” e “militia Christi” nella tradizione canonicale, in “Militia Christi” cit., pp. 343-354: 350. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA denti autorevoli, come Agostino, Gregorio Magno, Gelasio, Girolamo e Ambrogio23. La guerra diveniva lecita, anzi giusta e necessaria, perché consentiva, come, in realtà, avvenne a seguito della prima Crociata, il recupero dai Luoghi Santi da parte dei cristiani, la liberazione del santo sepolcro, la difesa della fede. Il conseguimento di tali fini esentava il combattente dalla colpa di omicidio, poiché lo stesso agiva per «zelo matris ecclesiae»24. Una eccezione richiamata anche nei testi trasmessi da Ivo di Chartes (Decretum)25 e nel Decretum Gratiani, dove si legge «Non sunt homicidae qui adversus excommunicatos zelo matris ecclesiae armantur»26. Una giustificazione che diventa ancora più esplicita nelle parole di Bernardo di Chiaravalle, primo sostenitore dei Templari, fautore della «cristianizzazione integrale degli ideali cavallereschi»27 e, in buona parte, autore della Regola dell’Ordine28, il quale, nel Liber ad milites Templi, manifesto della nova militia, scriveva: «mors pro Christo vel ferenda, vel inferenda, et nihil habeat criminis»29. Ed è proprio in questo contesto storico e culturale che prende forma la figura del “monachus miles”, che nasce una nova militia, incarnata dai Templari e dagli altri Ordini religioso-militari (Giovanniti e, in seguito, Teutonici). L’Ordine dei Templari, non a caso, sorgerà, su iniziativa di Ugo di Payns, cavaliere originario della Champagne, appena un ventennio dopo la morte di Urbano II (1088-1099). Ebbene, nel 1119/20, anno di nascita dell’Ordine, che al momento contava poco meno di dieci adepti, i tempi erano ormai maturi per considerare indispensabile l’istituzione di una militia Christi. Nel Sermo ad milites Templi, attribuito da alcuni studiosi ad Ugo di Payns30 e da altri ad Ugo di San Vittore31, ma verosimilmente precedente il Concilio di Troyes (1129), circostanza in cui sarà ufficialmente riconosciuta l’istituzione dell’Ordine Templare e approvata la Regola, appare già evidente la consapevolezza dei limiti di una vita monastica esclusivamente contemplativa, ma anche quella della inevitabilità della guerra32. 23 O. Capitani, Sondaggio sulla terminologia militare cit., pp. 180-181. 24 O. Capitani, Sondaggio sulla terminologia militare cit., p. 183. 25 Ivonis Carnotensis, Decretum, in Patrologia Latina cit., 161, col. 706: «Quod non sint homicidae existimandi qui excommunicatos zelo ecclesiae occiderint». 26 Decretum Gratiani, ed. E. Friedberg, Corpus Iuris Canonici, I, Graz 1959, col. 945. 27 F. Cardini, Il movimento crociato, Firenze 1972, p. 29. 28 Sulla collaborazione di Bernardo alla redazione della Regola templare, vedi Fleckenstein, Die Rechtfertigung der geistlichen cit., p. 22. 29 Liber ad milites Templi cit., cap. IV. 30 Leclercq, Un document sur le débuts des Templiers, in Recucil d’Études sur Saint Bernard et ses ècrits, Roma 1966, pp. 87-99. 31 S. Sclafert, Lettre inédite de Hugues de Saint-Victor aux chevaliers de Temple, in «Revue d’ascétique et de mystique», 34 (1958), pp. 275-299; Cardini, I primi tempi dell’Ordine del Tempio cit., pp. 94-97. 32 Leclercq, Un document sur le débuts cit., p. 95: «Ipsi habitatores heremi ita omnino occupationem fugere non possunt, ut pro victu et vestitu et ceteris mortalis vite necessariis non laborent: si non essent arrantes et seminantes, congregantes et preparantes, quid facerent contemplantes?»; «Videte, frates: si hoc modo, ut vos dicitis, requies et pax querenda esset, nullus in Ecclesia Dei ordo subsisteret». Certamente non fu facile per i fratres della prima comunità templare accogliere senza perplessità o esitazione l’invito all’azione armata proposto dall’autore del Sermo, come rivelano proprio alcuni passi del testo33. Tuttavia, il conseguimento di un bene superiore (requies, pax e ordo in Ecclesia Dei) fu in grado di fugare ogni dubbio. L’uso delle armi e lo spargimento di sangue nemico, ovvero infedele, divenivano atti indispensabili per la salvezza della Chiesa, erano il sacrificio necessario per chi combatteva in nome di Cristo. Le incertezze degli esordi, protrattesi verosimilmente anche all’indomani del concilio di Troyes (1128), furono efficacemente superate dall’intervento di Bernardo di Chiaravalle, che tra il 1129 e il 1136, anno di morte di Ugo di Payns, dedicatario dell’opera, scrisse il celebre Liber ad milites Templi. De laude novae militiae. Contrariamente a quanto prescritto dalla legislazione canonica, che impediva a clerici e monaci l’uso della spada, Bernardo proponeva alla nuova fraternitas dei «pauperes milites Christi» un programma spirituale in grado di giustificare una professione di vita monastica, che fosse, al tempo stesso, anche militare; sebbene, per Bernardo, come per la migliore tradizione benedettina, il monachesimo tradizionale, quello dedito alla sola vita contemplativa nello spazio chiuso e solitario del chiostro, continuasse ancora a rappresentare la militia Chisti per eccellenza. Convinzione che traspare chiaramente in una lettera indirizzata dall’abate ad Ugo di Champagne, che aveva scelto di abbandonare Chiaravalle per unirsi ai Templari34. L’ideologo dell’Ordine Templare, però, a coloro i quali continuassero a preferire il mestiere delle armi piuttosto che il monastero, ideale di vita perfetta, proponeva nel suo trattato un novum militiae genus, una nova militia, “alternativa” - espressione usata da Leclercq35 - alla tradizionale militia secularis, nei confronti della quale Bernardo sferza una dura critica. Quest’ultima, infatti, dedita alla più sfrenata mondanità, si presentava agli occhi dell’abate di Clairvaux come uno stupendus error36. Definita non militia, ma malitia, essa era preda di almeno tre degli otto vizi capitali, ovvero l’ira, la vanagloria e la cupidigia («Non sane inter vos aliud bella movet, litesque suscitat, nisi aut irrationabilis iracundiae motus, aut inanis gloriae appetitus, aut terrenae qualiscunque possessionis cupiditas»)37. La vecchia cavalleria era accusata ancora di combattere per scopi frivoli, di sprecare tempo e denaro al fine di impreziosire sino all’eccesso armature, vesti e acconciature, che sfioravano spesso il gusto muliebre. La nuova cavalleria, invece, si distingue dalla precedente perché combatte in nome di Dio, motivo per cui i milites Christi non incorrono nel peccatum quanto uccidono, né sono in periculum quando periscono in combattimento. La guerra per Cristo, che è guerra santa, «nihil habeat criminis», ma è degna di altissima gloria. Il guerriero di Cristo usa la fede e la spada, egli è, al tempo stesso, sia monaco sia soldato. 33 Leclercq, Un document sur le débuts cit., p. 95. 34 Fonseca, Introduzione al Liber ad milites Templi cit., I, p. 430. 35 Leclercq, Bernard de Clairvaux cit., 49. 36 Liber ad milites Templi cit., p. 442. 37 Liber ad milites Templi cit., p. 444. 81 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 Miniatura da Histoire d’Outre-Mer di Guglielmo di Tiro, XIII secolo Ed è proprio quest’ultimo aspetto a differenziare maggiormente la nova militia dalla vecchia malitia. Il nuovo modello di cavalleria, conseguito attraverso la conversio dall’uno all’altro stile di vita, impone necessariamente al miles l’abito del monachus. Il miles Christi, che combatte da valoroso soldato con prudenza e decisione, è infatti un monaco, e in quanto tale, vive in comunità con altri monaci («cor unum et anima una») nel rispetto dei voti di obbedienza, povertà e castità. Più miti degli agnelli e più feroci dei leoni, i Templari, che lo stesso Bernardo definisce sia monachi sia milites - contribuendo alla definitiva affermazione di un ordine religiosomilitare del tutto nuovo ed originale -, adempiono alla propria missione attraverso la monachi mansuetudo e la militi fortitudo38. Essi devono saper coniugare la spada e la croce, la vita attiva (militare) e quella contemplativa (monastica), essendo al tempo stesso bellatores e oratores39. Questa nova militia, però, è votata a combattere non solo la guerra - diciamo esteriore - del cavaliere, ma anche quella, tutta interiore, del monaco, vale a dire la quotidiana battaglia contro le tentazioni del demonio e le inquietudini dell’animo, pertanto, essa segue necessariamente un percorso di peniten38 Liber ad milites Templi cit., p. 452. 39 Di diverso avviso, come già accennato, è invece Carlos de Ayala Martinez, il quale, commentando il passo di Bernardo, esclude che l’abate abbia voluto identificare i Templari con dei monaci. Cfr. de Ayala Martinez, Espiritualidad y prática religiosa cit., p. 166: «no resulta convincente aducir en contrario que quando retóricamente se pregunta en su tratado apoloético [….] cómo habrían de ser llamados los templarios, si caballeros o monjes, y acaba optando por ambos títulos, pues lo hace en un contesto de pura analogía». 82 zialità, che impone, oltre ai voti monastici, anche l’eventualità del martirio attraverso la morte per Cristo. Il “monachus miles”, infatti, non teme la morte. Per il guerriero cristiano essa è sempre portatrice di un premio: sia in caso di vittoria, quando la morte dell’infedele procura gloria a Dio; sia in caso di sconfitta, quando il martirio del miles Christi assicura allo stesso l’eterna ricompensa40. È soprattutto nella prima parte del De Laude che Bernardo di Chiaravalle celebra la dignità e la legittimità dell’Ordine Templare, promuovendo, in pari tempo, l’ideale di una guerra giusta e santa. Nella seconda parte del trattato, invece, dove è proposto un itinerario spirituale attraverso i Luoghi Santi, si dà spazio ad una serie di riflessioni sulla vita di Cristo41. Travestendo il miles da monaco, Bernardo compie un’operazione culturale e spirituale alquanto audace e complessa, poiché trasforma l’esperienza della guerra in missione di fede, in missione monastica, sia pur atipica, che si arricchisce di nuovi contenuti spirituali. Ovviamente, la guerra condotta dai Templari, lungi dal perseguire la violenza fine a se stessa, caratterizzante la militia saecularis, sarà soltanto una guerra difensiva, votata a ridurre al minimo l’uso della forza e far emergere essenzialmente intenti caritativi42. Un processo di maturazione spirituale e di ascesi in grado di condurre il miles cristiano verso la grazia, verso Cristo, unico modello 40 F. Cardini, I primi tempi dell’Ordine del Tempio, in I Templari. Una vita tra riti cit., pp. 31-122: 108-109. 41 Fonseca, Introduzione al Liber ad milites Templi cit., pp. 430-432. 42 Leclercq, Attitude spirituelle de S. Bernard cit., pp. 212-215; Leclercq, Bernard de Clairvaux cit., p. 52. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA di vita, che con la sua morte ha redendo il mondo43. La guerra santa del miles Christi contro l’infedele trova comunque la sua giustificazione nelle problematicità affrontate dai cristiani in Terra Santa tra XI-XII secolo. Pertanto, l’esercito cristiano di cui parla Bernardo ha soprattutto una funzione difensiva. Deve proteggere i cristiani residenti in Oriente e soccorrere i pellegrini diretti a Gerusalemme, dal momento che gli infedeli intendono profanare «christiani populi inaestimabiles divitias» e «possidere sanctuarium Dei»44. Sebbene necessaria e combattuta per scopi difensivi, la guerra produce, tuttavia, spargimento di sangue, impone al soldato, sia pur cristiano, di uccidere il proprio nemico. Questo aspetto, peculiare di ogni guerra, creò certo non poco imbarazzo alla cultura cristiana del tempo, la quale, nato l’Ordine Templare, si trovò nella condizione di dover accettare e giustificare l’operato di quei monaci guerrieri che combattevano e uccidevano. L’argomento, alquanto delicato e persino scandaloso, fu affrontato e risolto da Bernardo di Chiaravalle che ricorse ad un efficace gioco di parole, tratto caratteristico del suo stile. Per l’abate, infatti, il miles Christi che procura la morte del nemico in battaglia non è «homicida, sed, ut ita dixerim, malicida»45. In altri termini, non senza un certo imbarazzo, Bernardo introduce il concetto di “malicidio”, che consente di distinguere l’uccisione di un uomo (omicidio) dall’uccisione del male (malicidio). La battaglia combattuta dal templare incarna dunque - secondo l’interpretazione dualistica, e quasi manichea, proposta da Franco Cardini - l’eterna lotta delle forze del Bene contro le forze del Male46. Pertanto, trova legittimazione anche la soppressione fisica dell’infedele in quanto essa non dovrà essere intesa come l’eliminazione dell’uomo, bensì come quella del male. Attraverso la morte degli infedeli è infatti possibile estirpare il male dal mondo. Il ragionamento di Bernardo, la conversione dell’homicidium dell’empio in malicidium, rappresenta il punto di arrivo di una riflessione, quella sul rapporto cristiano-guerra, particolarmente vivace nel corso dell’XI secolo, sebbene già avviata dalla definizione agostiniana del bellum iustum, di natura essenzialmente difensiva47, come pure dalla dottrina di Anselmo da Aosta sulla guerra che diviene legittima quanto risulta inevitabile48. L’elogio della cavalleria cristiana, che infligge la morte per glorificare Cristo («In morte pagani christianus gloriatur, quia Christus glorificatur») e che riceve la morte quale proprio vantaggio («in morte christiani, Regis liberalitas ape43 Liber ad milites Templi cit., pp. 466-467. 44 Liber ad milites Templi cit., III, 5, p. 446. 45 Liber ad milites Templi cit., III, 4, p. 446. 46 Cardini, Le crociate tra il mito e la storia cit., p. 9. 47 A. Morisi, La guerra nel pensiero cristiano dalle origini alle crociate, Firenze 1963 (Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Milano, 29), pp. 97-120; F. H. Russel, The juste war in the Middle Ages, Cambrige-London-New York-Melbourne 1975 (Cambridge Studies in medieval life and though, third series, 8), pp. 1639; Florì, La guerra santa cit. 48 Lequercq, Attitude spirituelle cit., pp. 200-202. ritur, cum miles remunerandus educitur»), non esime però Bernardo dal provare amarezza e un certo imbarazzo, evidenti, soprattutto, nel passo in cui si giustifica il malicidium. Per l’ideologo della militia Christi sarebbe certo miglior cosa non uccidere nessuno («Non quidem vel Pagani necandi essent»), se solo vi fosse altro modo per impedire agli infedeli di esercitare violenza a danno dei cristiani («quo modo aliter possent a nimia infestatione seu oppressione fidelium cohiberi»)49. La difesa della Terrasanta e dei valori cristiani rende dunque opportuna e necessaria la morte dell’infedele. Solo attraverso l’eliminazione fisica di quest’ultimo, i cristiani potranno professare liberamente la loro fede ed evitare il rischio di allontanarsi da essa perché indotti a farlo con la forza50. In conclusione, Bernardo di Chiaravalle, padre spirituale dei Templari e guida morale per tutto l’Occidente cristiano, ebbe certo un ruolo determinante nel portare a compimento la rivoluzione dottrinale della Chiesa di fronte alla guerra. La nascita e la conseguente promozione di un Ordine religioso a vocazione cavalleresca e guerriera sanciva ormai l’ingresso dei bellatores tra gli oratores, legittimava l’uso delle armi anche per coloro i quali, prendendo i voti monastici, consacravano la propria vita a Cristo. Attraverso la sacralizzazione del guerriero cristiano, il “monachus miles”, eroe e martire della fede, la dottrina della Chiesa di Roma accoglieva la nozione di guerra santa, indirizzando gli ideali cavallereschi al proprio servizio nella lotta agli infedeli. 49 Liber ad milites Templi cit., III, 4, p. 446. 50 Liber ad milites Templi cit., III, 4, p. 446: «Nunc autem melius est ut occidantur, quam certe relinquatur virga peccatorum super sortem iustorum, ne forte extendant iusti ad iniquitatem munus suas». 83 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 Gli alberi lungo le strade: una questione storica e ambientale ROSSANO PAZZAGLI Università degli Studi del Molise L ’aumento del traffico automobilistico, conseguenza anche del mancato potenziamento dei trasporti pubblici che anzi stanno subendo politiche di tagli e ridimensionamenti, sta riproponendo in misura crescente il problema della sicurezza stradale. Spesso sotto la spinta emotiva di gravi incidenti, dimenticando la responsabilità di errate strategie gestionali della mobilità, come quella delle numerose privatizzazioni e della progressiva introduzione dei pedaggi sulle strade a scorrimento veloce, sono le tradizionali alberature lungo le strade d’Italia a finire sotto accusa. Qualcuno arriva così a proporre l’abbattimento indiscriminato di interi filari di piante, ignorando le funzioni che questi hanno a lungo svolto e che almeno in parte potrebbero ancora svolgere. Lo stesso codice della strada, approvato nel 1992, prevede nei successivi regolamenti di attuazione il divieto della presenza di alberi entro una distanza minima di sei metri dal bordo stradale1. Si tratta di un tema molto ampio e ricco di significati, che inevitabilmente tocca diversi ambiti – dalla storia dell’architettura all’agronomia, dalle scienze forestali all’ingegneria e che ci consegna non pochi interrogativi sul nostro modo di intendere il rapporto tra società, infrastrutture e paesaggio. La prospettiva storica può aiutare a porre correttamente il problema, al di fuori di scorciatoie o soluzioni irrazionali. LE ALBERATURE STRADALI DALLE CARROZZE ALL’AUTOMOBILE In gran parte d’Europa i viali alberati sono la più antica forma d’inverdimento ai bordi delle strade, marcando in modo quasi indelebile i tragitti viari. Originariamente le alberature servivano a consolidare e a rendere permanenti e riconoscibili le vie di comunicazione: le radici degli alberi impedivano che la superficie stradale non pavimentata si ero1 Decreto Legislativo 30 aprile 1992, n. 285, Nuovo codice della strada. 84 desse, le chiome creavano una piacevole zona d’ombra attutendo il caldo estivo e proteggevano da pioggia e neve nella stagione invernale; quando si impiegavano alberi da frutto, questi davano nutrimento ai viandanti; inoltre fornivano legname da costruzione e legna da ardere, fascine, alimenti per animali, miele ecc. Gli alberi più frequentemente usati per le alberature stradali sono il tiglio, l’acero, la quercia, il platano e l’ippocastano, ma anche il noce, il carpino, il faggio, come pure varie specie di alberi da frutto, e in certe regioni gelsi e cipressi, fino all’impiego di piante esotiche – come le palme - talvolta legate alle avventure coloniali. Per lungo tempo si è usato soprattutto l’olmo, prima che una aggressiva malattia fungina (Ophiostoma ulmi) falcidiasse nel secolo scorso gli olmi europei. Infine, a livello ambientale, i viali alberati offrono con i loro rami, le foglie e i tronchi un habitat adatto molte specie animali e costituiscono elementi di collegamento tra ecosistemi, configurandosi a volte come veri e propri corridoi ecologici. Nell’age of oil, o età dell’automobile, molte di queste funzioni non risultano più compatibili con gli stili di vita e le modalità degli spostamenti, ma non è fuori luogo domandarsi quante e quali di esse possono essere attualizzate o addirittura rilanciate nell’ottica di una nuova mobilità sostenibile. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Le alberature stradali, simili per certi aspetti alle alberature che segnano i confini dei campi, hanno rivestito dunque, nel corso del tempo, ruoli funzionali e funzioni produttive: legname, foglie, frutti, difesa dal sole, dal vento e dalla pioggia, consolidamento del suolo e creazione di un microclima più adatto agli spostamenti degli animali e delle persone. L’ESTETICA DELLA STRADA Dal punto di vista visivo queste formazioni hanno sempre teso a disegnare delle linee e delle interruzioni, in special modo nelle zone di pianura dove prevaleva il paesaggio semplice dei seminativi o dei pascoli, inserendo elementi diversificatori che contribuito ad arricchire paesaggio rendendolo meno omogeneo ed uniforme. Per tutti questi motivi le alberature stradali hanno rappresentato un segno quasi indelebile, un elemento di resistenza al processo di banalizzazione del paesaggio che ha preso piede soprattutto nell’età contemporanea. Sotto questo aspetto si può dire che la tecnica di costruzione stradale è stata sostanzialmente mutuata dalla più complessiva organizzazione dello spazio rurale, che soprattutto nell’Italia centro-settentrionale assegnava agli alberi un ruolo importante, sia nella forma della piantata padana che in quella dell’alberata toscana e umbro-marchigiana, per riprendere le classiche espressioni coniate da Emilio Sereni . Nelle campagne le strade sterrate, che sono anche alberate, sono generalmente piccole, strette, di costruzione e concezione talvolta molto antica, attraversano i campi, costeggiano colline, evitando salite che non si potevano percorrere con la trazione animale; ai lati di queste strade, gli alberi venivano messi quasi a distanza di chioma l’uno dall’altro. Quando le strade costeggiavano dei corsi d’acqua, il terreno doveva essere più rialzato e le piante ancora più fitte per consolidare il piede della strada e proteggerla da esondazioni o erosioni del fiume o del torrente. Sono assai note le vicende delle alberature in ambito urbano dove, soprattutto nei giardini e nei parchi storici, i viali alberati venivano usati per creare effetti ottici ad arte o per riqualificare la città e migliorare la vivibilità urbana, come avverrà a Parigi nella seconda metà dell’Ottocento con lo straordinario piano di George Eugène Haussmann e l’opera di Jean Charles Adolphe Alphand che arricchirà le vie principali della città di oltre 80.000 piante in modo da ricreare anche sulle grandi arterie l’ambiente della passeggiata3. Meno nota appare ancora la storia delle alberature in spazi aperti, fuori delle città, sebbene non manchino importanti lavori di storia delle strade e della viabilità . Quella degli alberi lungo le strade è una storia molto lunga, che potremmo seguire a partire almeno dagli scrittori latini. D’altra parte fu proprio l’età romana, con la rete delle grandi stradi consolari, a porre le basi delle più importanti direttrici infrastrutturali italiane. Con la fine dell’impero anche le strade, come le città, andarono incontro ad un periodo di decadenza, ma il medioevo si configura comunque come un mondo di uomini in cammino5. Nei secoli centrali del medioevo e fino al Rinascimento sulle strade italiane viaggiavano numerose persone: mercanti, soldati, corrieri, studenti, ma soprattutto i pellegrini che si recavano a Roma lungo itinerari che collegavano la città del papa al nord Europa, alla Francia e all’importante meta cristiana di Santiago de Compostela; da Roma verso sud tali itinerari proseguivano verso le Puglie da dove si poteva salpare per Gerusalemme6. Dal Quattro-Cinquecento il viaggio verso Roma tende a perdere la prevalenza dei motivi religiosi, ma continua come viaggio culturale, trasformandosi in “viaggio in Italia”, alla ricerca delle città d’arte, delle antichità classiche e infine – nell’età dell’illuminismo e del romanticismo - delle bellezze naturali e del paesaggio7. Sono i secoli del gran tour, cioè del prolungato viaggio attraverso il continente europeo, avente come meta privilegiata l’Italia, finalizzato al completamento della formazione culturale dei giovani aristocratici inglesi, ma che finì per interessare anche molti esponenti della cultura europea e della borghesia in ascesa. La descrizione delle strade fatta da numerosi grandtouristi europei dedica una frequente attenzione alla condizione delle strade e alla presenza di alberature lungo il percorso, generalmente fatto in carrozza, ma anche a piedi e a cavallo. Nel corso dell’età moderna in vari stati regionali anche le leggi italiane favoriscono il diffondersi e il mantenimento degli alberi lungo le strade. A Roma i primi viali accompagnati da filari verdi nascono alla fine del Cinquecento, quando Sisto V fece piantare gli alberi lungo le ampie vie che collegavano tra di loro le chiese principali, in modo che i pellegrini trovassero po’ d’ombra lungo il percorso. Altre piantumazioni seguirono nel corso del 600. Si trattava prevalentemente olmi, tanti da formare le olmate che divennero perfino un simbolo della città8. Tuttavia prima del ‘700 la costruzione di strade secondo tracciati nuovi è del tutto eccezionale, se non si risale all’epoca delle grandi colonizzazioni medievali o addirittura a Roma antica, mentre è proprio nel secolo dei Lumi che si verifica una profonda trasformazione delle funzioni e delle 2 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1979, p. 177 ss. 3 F. Panzini, Per i piaceri del popolo. L’evoluzione del giardino pubblico in Europa dalle origini al XX secolo, Zanichelli, Bologna, 1993. 4 Per l’Italia cfr. tra gli altri la sintesi di J. Day, Strade e vie di comunicazione, in Storia d’Italia, vol. 5, I documenti, t. I, Torino, Einaudi, 1973, pp. 87-120; L. Bortolotti, Viabilità e sistemi infrastrutturali, in Storia d’Italia, Annali 8, Insediamenti e territorio, a cura di C. De Seta, Torino, Einaudi, 1985, pp. 287-366. 5 H. C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo. Dall’ospitalità alla locanda, Bari, Laterza, 2009. 6 F. Cardini, Il pellegrinaggio. Una dimensione della vita medievale , Roma, Vecchierelli, 1996. 7 A. Brilli, Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale, Bologna, il Mulino, 2008. 8 Cfr. la sintesi di C. Redina, Poveri viali alberati, due secoli di distruzioni, “La Repubblica”, Roma, 7 giugno 2001. PAESAGGIO AGRARIO E PAESAGGIO STRADALE 2 4 85 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 tecniche stradali: si apre definitivamente l’epoca delle carrozzabili, il passaggio dal trasporto someggiato a quello con i carri e le carrozze – dal mulo alla diligenza, come è stato efficacemente sintetizzato9 - che comporta a sua volta il passaggio dai lastricati e acciottolati ai fondi inghiaiati o gettati. Inoltre, coerentemente con il pensiero razionale dell’illuminismo, si cominciano ad adottare i moderni sistemi di classificazione delle strade. Il ‘700 fu – come è stato detto – il secolo del risveglio stradale10. Ed è in questo periodo che si afferma anche quella che possiamo definire una estetica della strada, in aggiunta all’idea del viale alberato rinascimentale, prevalentemente urbano o collegato alle ville o ai parchi e giardini. L’attenzione si sposta anche sul paesaggio rurale, nel quale le strade grandi e piccole assumono un ruolo di spicco. Ciò vale sia per le regioni dove prevale la coltura estensiva cerealicola e pastorale, sia per quelle dove invece predomina il sistema della coltura promiscua, come è nelle aree mezzadrili dell’Italia centrale e della Toscana in particolare. Poco dopo la metà del ‘700 l’inglese Joseph Spence percorrendo il Valdarno dalla parte di Pisa lo trova “una delle più belle valli del mondo”; una delle ragioni di questa bellezza era che “il margine della strada è pieno di viti, e i grappoli pendono da gelsi e olmi, e, a volte, si vedono un albero di uva rossa e uno di uva bianca insieme per un lungo tratto.”11 Le testimonianze in tal senso da parte dei viaggiatori stranieri non riguardano solo la Toscana, ma sono rintracciabili un po’ per tutta la penisola. A proposito di Napoli – siamo intorno al 1780 - Joseph-Jerome de Lalande, collaboratore dell’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert, scriveva che “si giunge in questa bella capitale per una strada affascinante (charmante), larga, diritta, bordata di alberi alti che fanno un’ombra piacevole, e che sono legati da ghirlande di viti”12. Negli stessi anni il marchese De Sade, in fuga dalla Francia per i guai giudiziari connessi ai suoi costumi libertini, confermava che a Napoli si arriva per “una strada superba, fiancheggiata su entrambi i lati da alti pioppi e ornata di pampini. Tutto, insomma, dà l’impressione di una festa”13. DALLA FRANCIA ALLA TOSCANA Un ruolo di primo piano nello sviluppo di questa nuova sensibilità e nella realizzazione di grandi strade alberate spetta alla Francia, che proprio a partire dal ‘700, grazie all’impegno e alla preparazione del corpo degli ingegneri di ponti e strade, vede la creazione di un vero e proprio sistema stradale. La stessa legislazione in materia si fa più sempre più fitta 9 J. Day, Strade e vie di comunicazione, cit., p. 98. 10 L. Bortolotti, Viabilità e sistemi infrastrutturali, cit., p. 302. 11 M. Meini, Paesaggio e territorio nella Toscana di ieri: in viaggio con il Grand Tour, in Itinerari in Toscana. Paesaggi e culture locali, risorse per un turismo sostenibile, a cura di M. Azzari, L. Cassi e M. Meini, Firenze, Edizioni PLAN, 2004, pp. 31-78. 12 I. Agostini, Il Paesaggio antico. Res rustica e classicità tra XVIII e XIX secolo, Firenze, Aiòn, 2009, p. 92. 13 Ivi, p. 93. 86 e in età rivoluzionaria e napoleonica vari decreti affinano e aggiornano continuamente la normativa stradale, comprese le disposizioni relativamente agli alberi piantati sulle strade: si susseguono infatti vari decreti, fino alla legge del 1812 secondo cui anche le strade dipartimentali, oltre a quelle imperiali, dovevano essere alberate e si incaricavano a tale scopo prefetti, ingegneri e maires14. Secondo questo decreto, tutti gli alberi piantati fino ad allora sulle strade regie appartenevano allo Stato, mentre veniva prevista la redazione di un piano generale delle strade “non piantate e suscettibili di piantagione”. Durante la realizzazione dell’imponente sistema stradale francese l’aspetto estetico non viene tralasciato e le alberature sono attentamente scelte in base al loro portamento e allo sviluppo della chioma, mentre la loro disposizione è stabilita in relazione al paesaggio attraversato ed al significato che esse devono sottintendere: “Queste grandi architetture vegetali testimoniano l’aspirazione degli ingegneri ad abbellire il paese...gli alberi fastigiati come il pioppo italico segnalavano i punti rimarcabili del percorso, i ponti, l’incontro con un’opera d’arte; gli alberi più monumentali, dalle chiome dense e arrotondate o coniche, come i castagni, annunciavano gli ingressi nei paesi…, mentre si riserveranno i tigli, potati, alla scala degli edifici circostanti, all’attraversamento dei paesi e della città, e gli alberi da frutto per gli edifici pubblici”15. In Italia la presenza degli alberi sembra più timida, a dispetto del clima più caldo e soleggiato, come farà notare di lì a qualche anno Stendhal che in occasione della sua promenade a Roma del 1829 annotava: « Dès qu’on voit une promenade plantée d’arbres en Italie, on peut être assuré qu’elle est l’ouvrage de quelque préfet français. ... Les Italiens modernes abhorrent les arbres; les peuples du Nord, qui n’ont pas besoin d’ombre [que] vingt fois par an, les aiment beaucoup»16. Aveva certamente ragione a sottolineare l’influsso francese, e in particolare dei prefetti napoleonici, nella costruzione di questo tipo di paesaggio e anche nell’affermarsi di una tradizione che si consoliderà nel periodo della Restaurazione e ancor più nel secondo ‘800. Nel 1827 viene pubblicato in Toscana il Ragionamento sui boschi di Gaetano Savi, professore di botanica Università di Pisa, direttore dell’Orto botanico e autore anche di un Trattato degli alberi della Toscana (1801). Uscito sul “Giornale agrario toscano”, questo corposo articolo fu ripreso anche sulle pagine di altri periodici italiano, come il “Giornale di scienze lettere e arti per la Sicilia”17. Quello proposto da Savi era un saggio sull’utilità degli alberi e delle alberature. In 14 M. Ambrosoli, Alberate imperiali per le strade d’Italia : la politica dei vegetali di Napoleone, « Quaderni storici », 99, a. XXXIII, n. 3, 1998, pp. 707-738. 15 E. Morelli, Disegnare linee nel paesaggi. Metodologie di progettazione paesistica delle grandi infrastrutture viarie, Firenze, Firenze University Press, 2005. 16 Stendhal, Promenades dans Rome, Paris, Calmann Lévy, 1883, pp. 172-173. 17 G. Savi, Ragionamento sui boschi, “Giornale agrario toscano”, I, 1827, pp. 43-70; anche in “Giornale di scienze lettere e arti per la Sicilia”, XXI, 1828, pp. 113-138. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Toscana – scriveva - “Ci è sempre da piantarne un’ infinità lungo le strade, tanto maestre che comunali, e questi tutti, adulti che fossero, colle potature annue darebbero molte legna minute… e tagliati poi regolarmente ne’ tempi debiti legname grosso, buono per molti usi.” Faceva poi riferimento a un provvedimento legislativo del 1750, “la quale ordina una piantata di alberi, e a preferenza di gelsi, nei margini delle strade del territorio pisano , invita a farla i possessori dei terreni confinanti, dichiarando che il frutto dell’albero apparterrà per metà al padrone del terreno, e per metà al lavoratore, e quando i possessori ricusino di farla, ne addossa la cura all’Ufizio dei Fossi cui per intiero n’è rilasciato il profitto.” La stessa normativa prescriveva la pena di 40 lire per chi tagliasse un gelso e di 20 lire per le altre piante, stabilendo “che l’Ufizio dei Fossi faccia fare una visita annua generale, per prender nota delle piante deperite, e farle ripiantare a chi spetta”. Una legge simile era stata emanata per il pistoiese nel 1752 e nello stesso anno un altro provvedimento “ordinò la piantagione di alberi lungo le strade del territorio aretino, che affidata fu all’Ufizio dei viari”. “È da desiderarsi – scriveva Savi - che tali leggi siano tenute in esatta esecuzione, e che siano estese a tutte le altre strade della Toscana: e qualora il bisogno per l’educazione dei bachi da seta non prescrivesse il piantar gelsi, meglio sarebbe scegliere alberi di crescimento più sollecito, come l’acacia, l’ailanto e le diverse specie di pioppi, fralle quali è raccomandabile il pioppo angolato che cresce con una rapidità sorprendente”. Gli alberi, a partire dal gelso che in certi territori veniva definito l’albero d’oro per la sua fondamentale importanza nella sericoltura, avevano una funzione produttiva, ma non solo: “l’ombra e la traspirazione degli alberi spargono nell’estate una frescura e un’ umidità favorevole , e l’irradiazione da essi dipendente ci diminuisce il freddo dell’ inverno. Cosi un albero dev’esser considerato come un centro vivente, che emana e diffonde per tutte le parti influssi benefici per la vita vegetabile…” Lo scritto del Savi fu subito commentato da un altro naturalista, Ottaviano Targioni Tozzetti, che stigmatizzava “l’atterramento di laute rigogliose querci ed altri alberi coltivati lungo le pubbliche strade del Mugello e dei monti contigui”; così – continuava - si privano di pastura i maiali, e si abolisce il legname da costruzione e da fuoco, del quale è tanto cresciuto il consumo modernamente” 18. Per lui “Buonissimo [era] il progetto del sig. Savi, di piantare alberi di ogni sorte lungo le strade maestre. Nella Romagna papale, nel Bolognese, e Ferrarese, sono bellissime strade con file d’alberi da una parte e dall’altra, e talvolta a due file per parte, di pioppi 18 O. Targioni Tozzetti, Intorno al Ragionamento sui boschi del prof. Savi, “ Giornale Agrario Toscano”, I, 1827, pp. 295-304. Anche questo scritto fu ripreso dal “Giornale di scienze lettere e arti per la Sicilia”, XXII, 1828, pp. 20-28. 87 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 I cipressi di Bolgheri cipressini , di salcio arboreo e altri alberi, i quali rendono delizioso il viaggio, e non troppo ombroso. Molte sono le strade in Toscana, specialmente del Pisano , del Valdarno e del Pratese e di altri piani, le quali sono assai larghe, e dove si potrebbero piantare utilmente tali alberi, dandone cura e responsabilità, e parte del profitto ai possessori dei campi contigui alle strade”. Poiché gli alberi a grande chioma trattenevano l’umidità e con la loro ombra mantenevano fangose le strade rotabili, Targioni Tozzetti sponsorizzava il cipresso e altre piante che tendono a svilupparsi in altezza: i pioppi cipressini, che si alzano diritti e non allargano i rami, come pure i comuni pioppi, conosciuti col nome di albaro o albero, che si puliscono da’ rami ogn’anno … che fanno ombra non folta , e lasciano passare sufficiente luce e vento fra l’uno e l’altro”. L’ 800, in effetti, è il secolo in cui si moltiplicarono i filari di cipressi lunghe le strade toscane, da quelle poderali a quelle di collegamento tra borghi e città. Non solo Toscana, come abbiamo visto. Anche a Napoli si riprende l’esperienza amministrativa francese: un decreto del 25 gennaio 1842 , relativo proprio alla piantagione e conservazione degli alberi lungo le vie .provinciali e comunali, affermava all’articolo 1 che “Le piantagioni lungo le pubbliche strade sono sotto la particolare cura e protezione del Governo” e che alla loro custodia e manutenzione provvederanno, oltre agli appaltatori delle piantagioni, tutte le istituzioni locali e i “proprietari ed i coloni dei fondi limitrofi alle strade”19. 19 P. Petitti, Repertorio amministrativo, ossia collezione di leggi, de88 I CIPRESSI DI BOLGHERI I viali alberati non nascevano all’improvviso, né secondo progetti chiaramente predefiniti. La creazione del Viale dei Cipressi di Bolgheri, ad esempio, durò parecchio tempo. Si trattava di una lunga strada che si diramava dalla via Emilia (Aurelia) verso l’entroterra dell’Alta Maremma toscana. L’antica via Aurelia, ricostruita fra il 1828 e il 1841, fu bordata di filari di pioppo, che era considerato una pianta in grado di sopportare l’umidità delle zone pianeggianti e acquitrinose. I giovani alberi erano protetti da palizzate in legno che ne impedivano il danneggiamento da parte del bestiame brado (in particolare dei bufali vaganti, i cosiddetti “malandroni”). Nel 1831 il conte Guido Alberto Della Gherardesca, il più grande proprietario dell’area, decise di piantumare con i pioppi anche una parte dello stradone che collegava San Guido, piccola località lungo la via principale, all’abitato di Bolgheri; ma non avendo realizzato la staccionata di protezione le giovani piante furono distrutte dai bufali, ripiantate e ancora mangiate e divelte dai malandroni, finché un tecnico agrario della tenuta, Casimirro Giusteschi, suggerì di sostituire i pioppi con i cipressi, non appetibili per le bestie. Il completamento del viale alberato, con la piantagione di cipressi fino a Bolgheri, avverrà comunque nei primi anni del ‘900, quando ormai era già stato celebrato e reso noto dai versi di creti, reali manoscritti, ministeriali di massima, regolamenti ed istruzioni sull’amministrazione civile del Regno delle Due Sicilie, Napoli, Migliaccio, 1851, Volume 3, p. 590. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Giosuè Carducci (Davanti a San Guido, 1874).20 Le strade di pianura assumono un significativo rilievo nel paesaggio proprio quando sono alberate: l’Aurelia di metà ‘800 presentava per lunghi tratti doppi filari di platani, che si intensificavano in prossimità dei nuclei insediativi. Finché erano giovani, queste piante erano per certi tratti protette da staccionate perché gli animali bradi non potessero danneggiarli. Il territorio della Toscana, costruito sulla base di un peculiare rapporto città/campagna che si concretizzava nell’organizzazione mezzadrile dell’agricoltura, si presenta molto ricco di alberi. Colture arboree nei campi e alberi lungo le strade. Si mettevano gli alberi per ragioni pratiche, ma anche per rendere certo il tracciato stradale, per fissarlo come una linea nel paesaggio e nel tempo. DALL’UNITÀ D’ITALIA ALLE AUTOSTRADE A livello italiano, nell’ambito della “Legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia”, emanata il 20 marzo 1865, furono stabilite le norme sulla competenza, la costruzione, la manutenzione e conservazione delle strade, che vennero suddivise in quattro grandi categorie: nazionali, di competenza dello Stato; provinciali; comunali; vicinali, di competenza dei consorzi formati dagli utenti privati, con o senza la partecipazione degli enti locali21. Questa classificazione rimarrà immutata fino al ‘900, almeno fino al periodo fascista quando, nel 1923, il Regio Decreto n. 2506 ripartì le strade in cinque classi oltre a quelle vicinali: strade di prima classe, di competenza dello Stato (circa 20.000 km di strade importanti, molte delle quali, nel Mezzogiorno, finivano per costituire la sola risorsa viaria); strade di seconda classe, cogestite dallo Stato e dalle province, che collegavano tra loro i capoluoghi di provincia e questi con i capoluoghi di circondario e con le città portuali; strade di terza classe, che collegavano i capoluoghi comunali con i capoluoghi provinciali, di competenza delle province; strade di quarta classe, che collegavano i vari centri comunali, di competenza dei comuni; strade di quinta classe22. Negli anni ’20 inizia anche la storia delle autostrade, con l’inaugurazione nel 1924 del primo tratto della MilanoLaghi, la prima autostrada italiana seguita dalla MilanoBergamo (1927), Napoli-Pompei (1929), Bergamo-Brescia (1931), Torino-Milano (1932) e Firenze-Mare (1933). Anche le prime autostrade sono spesso costeggiate da lunghe e imponenti file di piante. Proprio lungo la Firenze-Mare, ad esempio, nel tratto compreso tra Prato e Pistoia e poi dopo Montecatini fino alla Pineta del Parco di Migliarino, si trovavano filari di pini disposti ad una distanza di quindici metri. L’impianto arboreo è rimasto per lo più immutato fino agli adeguamenti, causati dall’aumento di traffico, degli anni 20 M. Agnoletti, Il paesaggio come risorsa. Castagneto negli ultimi due secoli, Pisa, ETS, 2009, pp. 68-71 21 Legge n. 2248/1865, art. 9: “Le strade ordinarie d’uso pubblico sono distinte in nazionali, provinciali, comunali e vicinali”. 22 R.D. 15 novembre 1923, n. 2506, Norme per la classifica e la manutenzione delle strade pubbliche. Sessanta. Successivamente a causa dei vari danni all’apparato radicale e ad altre problematiche legate alla sicurezza, la Società Autostrade ha progressivamente eliminato queste alberature. Oggi rimangono solo pochi individui sparsi, mentre un tratto a galleria è riscontrabile ancora nell’accesso alla città di Prato, strada declassata ma un tempo facente parte del tratto autostradale. Il principio di realizzare piantagioni di alberi a fianco delle autostrade era in parte mutuato anche dall’esperienza della Germania, dove le alberature non erano però disposte in fila, ma con l’intento di valorizzare le aperture visive sul paesaggio, rispettando così la tradizione della paesaggistica romantica tedesca. In Italia, invece, i grandi filari che seguivano le autostrade erano costituiti principalmente da una unica specie arborea, che tende ad esaltare il segno stradale nel paesaggio23. Le file di alberi sono diventate un elemento ambientale di pregio e un tratto paesaggistico dell’Italia. Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia (1953-56) richiamava “le file dei pini che rigano le campagne” della Maremma, nel paesaggio della bonifica e della riforma agraria, mentre giudicava come “il più bel viale d’Italia… quello di platani tra Pisa e Bocca d’Arno costeggiante il fiume: nelle giornate calde le fronde sembrano soffiare, come geni animati, un venticello su chi passa”24. È una delle tante testimonianze dell’alberatura stradale come benessere, prima che cominciassero gli atti di accusa verso gli alberi ai bordi delle strade. LA STRAGE DEGLI ALBERI Come abbiamo visto, storicamente il viale alberato era nato per delimitare meglio la strada, talvolta per dare ombra agli uomini e alle bestie, par favorire la tenuta idrogeologica della carreggiata, per assicurare materiali vegetali. Ad un certo punto, tra la seconda metà del ‘700 e il primo ‘900, questa pratica si intensificò anche per dare alla strada, con alberi di maestosa grandezza, un’architettura monumentale, per disegnare sul paesaggio segni caratterizzanti. Dove sono finiti i grandi viali alberati? Perché sono soffocati dall’incuria e dall’ invasione delle macchine? Se lo chiedeva qualche anno fa lo scrittore Pietro Citati, che lanciava il suo j’ accuse per le fronde messe a repentaglio dallo smog e dalle malattie. Ma si deve pensare soprattutto alle battaglie di Antonio Cederna, uno dei padri dell’ambientalismo, ispiratore delle principali battaglie di Italia Nostra: egli inserì un apposito capitolo, intitolato “La guerra agli alberi”, nella sua opera su La distruzione della natura in Italia, pubblicata da Einaudi alla metà degli anni ‘7025. Si tratta di un libro fondamentale, e sostanzialmente inascoltato, nella genealo23 E. Morelli, Strade e paesaggi della Toscana. Il paesaggio dalla strada, la strada come paesaggio, Firenze, Alinea, 2007. 24 G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Baldini&Castoldi, 2003, pp. 401 e 414. 25 A. Cederna, La distruzione della natura in Italia, Einaudi, Torino, 1975, pp. 57-58. Tema poi ripreso e ampliato dallo stesso Cederna in Brandelli d’Italia. Come distruggere il bel paese: sventramento di centri storici, lottizzazioni di foreste, cementificazione , Roma, Newton Compton, 1991, pp. 182-185. 89 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 90 gia della cultura ambientale italiana. Cederna denuncia qui il malgoverno del territorio, il disfacimento delle città, l’abrogazione del paesaggio, la distruzione della natura, l’eliminazione dello spazio fisico necessario alla salute pubblica, lo smantellamento di un’immensa e insostituibile eredità di cultura, la privatizzazione sistematica del suolo nazionale in nome della rendita parassitaria. Un altro capitolo del libro era significativamente intitolato “Perché l’Italia frana quando piove”… tutti i temi ancora oggi, a distanza oltre trent’anni, di stringente attualità e che sembrano anzi essersi aggravati nel tempo, con la sostanziale sconfitta dell’urbanistica pubblica26. Tra tutti questi problemi, allora già ampiamente visibili, inseriva appunto la denuncia dei tagli avvenuti tra gli anni ‘50 e ‘60, dei filari di alberi che “senza colpa né peccato” ombreggiavano le strade statali della disgraziata penisola. L’attacco alle alberature stradali ebbe un’impennata tra il 1962 e l’inizio del 1964, quando furono abbattuti più di 100.000 alberi, mentre nel ’64 l’Anas decise di eliminare quelli che sorgevano a meno di 150 metri dalle curve e ameno di 80 centimetri dal ciglio della carreggiata, per il resto risparmiando un albero ogni trenta metri. In un magistrale articolo uscito su “L’Espresso” nel 1966 era lo stesso Cederna a stigmatizzare l’arretratezza tecnica dell’Anas che “da un lato pretendeva di adeguare la rete stradale italiana al traffico crescente rubacchiando qualche centimetro a destra e a sinistra a spese degli alberi; dall’altro mostrava di ignorare completamente sia i dati sulla minima responsabilità degli alberi negli incidenti, sia il parere di paesaggisti, naturalisti ed esperti in comportamento stradale circa l’utile funzione degli alberi proprio agli effetti della sicurezza di guida”27. L’abbattimento delle alberate sopravvissute fuori dai centri urbani venne fermato nel 1966 da una circolare del Ministero dei Trasporti che prevedeva anche il reimpianto nei filari esistenti. Ma il nuovo Codice della Strada del 1992 ha trascurato la problematica, relegandola ad una presunta ed esclusiva questione di sicurezza automobilistica e ad un approssimativa quanto burocratico calcolo della cosiddetta “fascia di rispetto”: con il successivo regolamento di attuazione, infatti, la distanza da rispettare per l’impianto di alberi lateralmente alle strade extraurbane “non può essere inferiore alla massima altezza raggiungibile per ciascun tipo 26 V. De Lucia, Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia, Parma, Diabasis, 2010. 27 L’articolo è ripreso in A. Cederna, Brandelli d’Italia. Come distruggere il bel paese, Roma, Newton Compton editori, 1991, pp. 183-85 SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA di essenza a completamento del ciclo vegetativo e comunque non inferiore a 6 metri”28. Ciò ha posto evidenti problemi interpretativi, sia in ordine alla determinazione della distanza (a seconda del tipo di albero, l’altezza può raggiungere 20, 30 o 40 metri), sia in merito alla retroattività o meno della normativa, che nel 2011 hanno portato a una sentenza della Corte di Cassazione del 2011 che ha fatto addirittura ripartire gli abbattimenti, ritenendo tale norma applicabile anche alle alberature già esistenti prima dell’emanazione del nuovo codice. Un correttivo a questa determinazione è rappresentato dalla circolare 3224 del Ministero dei Trasporti, che consente di mantenere gli alberi piantati prima del 1992, pur rimanendo il divieto di reimpianto. Fin dai primi anni ‘60 la demolizione delle alberature stradali era stata motivata dalla necessità di aumentare la sicurezza della circolazione e di prevenire gli incidenti automobilistici, ma secondo un documentato dossier di Legambiente “non esiste alcuno studio che abbia messo in evidenza come la sola presenza di alberi lungo le strade provochi un aumento degli incidenti stradali e, contrariamente all’Italia, le norme di altre nazioni europee permettono di mantenere e ripristinare le alberate.”29 DALLE ALBERATE ALLE ROTONDE: USO E ABUSO Il paesaggio stradale è molto cambiato e sempre più, al posto degli alberi sono stati inseriti altri elementi. La strada contemporanea ha visto affermarsi in modo sempre più massiccio i tunnel a ogni minimo rilievo del terreno, le palizzate fitte dei lampioni e dei tabelloni pubblicitari, le barriere antirumore, le scarpate cementificate e soprattutto le abusate rotonde. Sono questi ormai i principali ma improbabili strumenti di inserimento delle infrastrutture nel paesaggio circostante. Le rotonde, in particolare, si sono moltiplicate in modo quasi selvaggio negli ultimi decenni, mutando il paesaggio sotto i nostri occhi in modo tanto profondo e in tempi tanto rapidi che non ce ne siamo nemmeno accorti. Se in molti casi esse hanno effettivamente svolto, al posto dei tradizionali semafori, una funzione utile nella fluidificazione del traffico e nel rallentamento della velocità, in tante altre situazioni si è assistito a un abuso del loro impiego e anche a un aumento della pericolosità nella misura in cui costituiscono una improvvisa interruzione di carreggiate rettilinee, un ostacolo che di notte o in particolari condizioni di traffico può essere “dimenticato” dagli automobilisti: “Da qualche tempo – ha scritto pochi anni fa Ilvo Diamanti – la rotonda si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti. Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde “alla francese”, le chiamano. Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. E continuano a riprodursi. Organi- 28 Regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada D.P.R. 16.12.1992 n° 495. 29 A. Porta – M. De Vecchi, Salviamo gli alberi lungo le strade italiane, Legambiente, 2013, http://www.legambientevaltriversa.it/wp-content/ uploads/2013/03/Salviamo-gli-alberi-v1.1.pdf smi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola”30. All’interno delle rotonde sono spesso sorti prati, giardini, alberi tropicali o sculture ardite: un non luogo con presunzioni paesaggistiche, uno spazio interdetto e inibito a ogni uso, uno dei tanti emblemi del consumo di suolo in Italia. Le rotonde hanno cambiato in poco tempo non solo la circolazione, ma anche il modo stesso di guardare e di pensare il territorio, divenendo metafora della stessa nostra società: “Pochi oggetti – conclude lucidamente Diamanti - sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo”. Forse è giunto il momento di ripensare a una estetica delle strade che parta dalla lettura del territorio e non dalla priorità dell’automobile, dalla qualità del viaggio e non dall’ansia della meta. In questo senso lo studio delle alberature tradizionali, dei ruoli e delle funzioni che esse hanno svolto nel tempo, può rappresentare un aspetto per ricostruire un rapporto equilibrato tra infrastrutture e paesaggio, nel quale esse costituiscono certamente una utile mediazione. Per questo le alberate e gli alberi isolati sopravvissuti ai bordi delle strade italiane sono da salvaguardare come parte significativa del patrimonio arboreo del Paese, considerando tutte le possibili soluzioni alternative all’abbattimento. Dobbiamo ritrovargli un senso, una dignità e un’utilità, senza trascurare – come indica chiaramente l’esperienza storica – che la strada è anche un segno culturale impresso sul territorio. 30 I. Diamanti, Società rotonda, anzi rotatoria, “La Repubblica”, 23 gennaio 2009. 91 COMUNICAZIONE | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 Al via l’edizione 2015 del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica dell’Associazione Italiana del Libro L ’Associazione Italiana del Libro, con il patrocinio del CNR e dell’AIRI-Associazione Italiana per la Ricerca Industriale, bandisce l’edizione 2015 del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica (III edizione) Presidente del Comitato Scientifico: Umberto Guidoni. Media partner: Almanacco della Scienza e CNR Web Tv. Le finalità del Premio: • affermare la centralità della ricerca e dell’informazione scientifica per il progresso della società, • valorizzare il capitale di conoscenze scientifiche che l’Italia possiede, • dare visibilità al talento di docenti, scienziati, ricercatori e professionisti della comunicazione e dell’informazione nel campo della divulgazione scientifica, • ampliare il dialogo del mondo della ricerca e dell’Università con la società, contribuendo a creare una cultura diffusa dell’innovazione e del sapere, • favorire nei giovani l’interesse per la cultura scientifica. Possono partecipare al Premio ricercatori, docenti, giornalisti e autori italiani con libri e articoli di divulgazione scientifica pubblicati nel 2014 o nel 2015. La partecipazione è gratuita. Verranno premiati gli autori di libri a articoli che si sono meglio contraddistinti per il carattere innovativo degli argomenti affrontati, l’efficacia e la chiarezza dell’esposizione 92 e la capacità complessiva di comunicazione al pubblico dei temi trattati. Gli interessati possono presentare le proprie opere a concorso entro il 2 agosto 2015. Nel caso di opere scritte da più autori la presentazione da parte di uno degli autori è sufficiente ad ammettere l’opera al Premio. Per le opere collettive la presentazione può essere effettuata dal curatore o da uno dei curatori. Anche gli editori possono presentare le opere dei propri autori. Verranno assegnati 9 premi così distribuiti: - nella Sezione Libri: • Un premio al 1° classificato in assoluto; • Un premio al miglior libro in ciascuna delle 5 aree scientifiche previste; • Un premio al 1° classificato in assoluto tra gli autori under 35 anni di età. - nella Sezione Articoli: • Un premio al 1° classificato in assoluto; • Un premio al 1° classificato in assoluto tra gli autori under 35 anni di età. La premiazione si svolgerà a Roma giovedì 17 dicembre 2015 nell’Aula Convegni del CNR. Il Comitato Scientifico e la Giuria del Premio sono costituiti da esponenti del mondo accademico, della ricerca, della cultura, del giornalismo e della comunicazione, chiamati dall’Associazione Italiana del Libro ad esprimere, a titolo gratuito, il loro giudizio sulle opere presentate, in armonia con le finalità del Premio. Informazioni: [email protected] SUPPL. 1 - N. 7 - MAGGIO 2015 RICERCHE Le ricerche e gli articoli scientifici sono sottoposti prima della pubblicazione alle procedure di peer review adottate dalla rivista, che prevedono il giudizio in forma anonima di almeno due “blind referees”. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA La spedizione di Sapri nelle carte dell’Archivio Segreto Vaticano CHIARA D’AURIA Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Salerno L’ indagine storica sull’Impresa di Sapri tra le carte dell’Archivio Segreto Vatica1 no trae origine dall’intenzione di verificare quanto e come fosse stata avvertita e percepita la Spedizione di Carlo Pisacane negli ambienti diplomatici pontifici nella penisola italiana. Pur provenendo da una fonte “periferica”, certamente marginale rispetto a quella costituita dai rapporti tra la segreteria di Stato pontificia e le rappresentanze diplomatiche 1 ASV, nel testo. italiane ed europee2, i documenti storici 2 Cfr. P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, Roma, Miscellanae Historiae pontificiae, 1941-1961; Commissione Reale Editrice (a cura di), La questione romana negli anni 1860-1861: il Carteggio del conte di Cavour con D. Pantaleoni, C. Passaglia,O. Vimercati, Bologna, Zanichelli, 1929, voll. 1 e 2; M. Gabriele (a cura di), Il carteggio Antonelli-Sacconi (1858-1860), Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 1962 C. Verducci, Il carteggio Antonelli-Barili, 19591861, in C. Rostagni, Roma, 1973, Rassegna Storica del Risorgimento, 66 (1973) 467-468; R. Ballerini, Pio IX e Napoleone III, in “Civiltà cattolica”, 1889, vol. VIII, 257-269, pp. 402417; N. Bianchi, Storia della diplomazia europea in Italia dall’anno 1814 al 1861 (n. 8 voll.), Unione tipografico-editrice torinese, Torino-Roma-Napoli, 1869-1872; A. Lumbroso, delle nunziature apostoliche consentono la ricostruzione di un contesto ricco di dettagli e notizie, offrendo un’ulteriore conferma circa la propria capillare e meticolosa capacità di informazione alle autorità centrali pontificie, soprattutto relativamente agli eventi considerati pericolosi e rivoluzionari3. Nel loro insieme queste fonti presentano un carattere talvolta molto specifiVittorio Emanuele e Pio IX. Il loro carteggio inedito, in “La tribuna”, Roma, 5 e 11 settembre 1911, nn. 248-253. 3 Così dalla titolazione dei rapporti riservati ufficiali dalle nunziature apostoliche alla segreteria di Stato pontificia in cui sono raccolti i fascicoli sulla Spedizione di Sapri. 95 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 co, legato alla funzione principale delle nunziature e al loro ruolo di rappresentanza diplomatica. Sono citati rapporti personali dei delegati apostolici con personalità politiche locali. Numerose sono le descrizioni circa le condizioni, i problemi, le necessità e gli interessi della comunità religiosa, delle congregazioni religiose e degli ordini monastici. Sono trattate questioni di carattere legale e finanziario attinenti le diocesi locali e la sede apostolica centrale. Ma è anche descritto, in un quadro vivace e ricco di riferimenti, il contesto diplomatico della sede della nunziatura: visite, partenze e arrivi di ambasciatori, ministri, alti ufficiali; talvolta, ancora, sono contenute le personali considerazioni sul quadro politico, sull’attività dei movimenti rivoluzionari, della stampa ufficiale e clandestina. Nell’ambito dei rapporti tra nunziature e consolati da una parte e Stato Pontificio dall’altra, spesso si istauravano relazioni caratterizzate da una costante diatriba, a causa dei numerosi contrasti tra Roma e le rappresentanze pontificie in merito alla definizione delle regole cui dovevano attenersi i consoli e i nunzi apostolici. Le loro figure e i loro compiti, infatti, sono oggetto di un’ulteriore indagine storica, poiché gli argomenti trattati nei rapporti riservati ufficiali così come nelle altre missive alla Segreteria di Stato consentono solo ex post di stabilire quali fossero le funzioni, i margini operativi e i privilegi assicurati al personale delle nunziature e dei consolati generali4. In genere queste sedi erano deputate all’organizzazione di una rete di informazioni e di monitoraggio costante sulle attività politiche e diplomatiche del regno presso cui erano accreditate; erano altresì incaricate di dare notizia a Roma circa la diffusione di stampa tendenziosa; infine erano istruite per informare la Segreteria di Stato su eventuali movimenti politici contrari al governo dello Stato presso cui erano accreditate. Lo Stato Pontificio solo nella seconda metà dell’Ottocento aveva stabilito, attraverso una cospicua produzione normativa, gli scopi e le funzioni dei consolati e delle nunziature apostoliche5. In merito ai primi, i consoli generali ed il personale da questi dipendente non erano rappresentanti della Sua Maestà Pontificia. Non godevano perciò di alcuna immunità, ma erano soggetti alla giustizia della nazione in cui operavano. Erano altresì patrocinatori di cittadini stranieri che potevano aver bisogno di assistenza nello svolgimento delle attività connesse al commercio ed all’espatrio; potevano, infine, essere chiamati a svolgere le funzioni di consoli in territorio 4 Cfr. A. Silvestro, Nota sul traffico mercantile tra lo Stato Pontificio e la costa istriano-dalmata e sui consolati pontifici in Istria e Dalmazia nel’800 , in “Grada i prilozi za povijest Dal macie” 15, Split 1999, pp. 221246; Notizie sulle sedi consolari nelle Marche pontificie nel secolo 19, in “Quaderni dell’Archivio storico arcivescovile di Fermo”, 1993, n. 13, suppl., parte I e II. 5 Cfr. G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, Venezia, Tipografia emiliana, vol. XVII, voce “consoli pontifici”, pp. 42-51; vol. XLVIII, voce “nunzi apostolici”, pp. 151-155. 96 romano sia sudditi pontifici sia cittadini esteri6. Nel caso delle nunziature, invece, il personale intero era considerato a tutti gli effetti in qualità di corpo diplomatico pontificio, con tutti i privilegi e le immunità concernenti tale incarico. Nelle sedi italiane i consolati generali pontifici (soprattutto quelli sull’Adriatico, il Tirreno ed, in generale, in prossimità dei porti) erano incaricati soprattutto del disbrigo di pratiche concernenti il commercio e le persone e i mezzi con cui esse venivano svolte. Già prima della sosta di Pisacane presso l’isola di Ponza (con il vapore Cagliari che imbarcava il Pisacane stesso e i suoi compagni), le nunziature apostoliche italiane svolsero una consistente attività di informazione alla Segreteria di Stato pontificia e le sedi di Genova e Napoli costituiscono una fonte interessante. Secondo gli indici dell’ASV tutta la documentazione della nunziatura di Napoli era separata da quella della Segreteria di Stato fino all’anno 1860. Poiché la Spedizione di Pisacane si svolse nel 1857, sono stati consultati tutti gli indici tra il 1760 e il 1860, come da catalogazione dell’Archivio, provnienti da Napoli. Infatti l’Archivio della Nunziatura di Napoli è ordinato non secondo la data ma secondo la provenienza dei documenti (quindi secondo i nomi delle città) o l’argomento7. L’attenzione si è concentrata anzitutto sui rapporti riservati ufficiali, cioè sulle informative urgenti e private che personalmente il nunzio apostolico napoletano, che nell’anno della Spedizione era l’Arcivescovo di Seleucia monsignor Salvatore Nobili Vitelleschi (che rivestì questa carica dal 19 giugno 1856 al 6 giugno 1858 e il cui uditore era il sig. Abate Aloisi) scriveva di suo pungo al Segretario di Stato, il cardinale Giacomo Antonelli. Nel fascicolo 267, posizione 2, indice 33, dal titolo: Tentativi di Rivoluzione nel Regno di Napoli fatto da alcuni 6 G. Moroni, cit. 7 Cfr. G. Gualdo, Sussidi per la consultazione dell’ASV. Lo schedario Garampi, registri vaticani e lateranensi, in “Rationes Camerae”, Archivio Concistoriale Nuova riveduta e ampliata, CdV, 1989, Collectanea Archivi Vaticani; P. P. Piergentili, I consolati pontifici e le nunziature apostoliche in Italia dalla pace di Zurigo alla presa di Roma (1859-1870). Note di storia degli archivi, acquisizioni, dispersioni archivistiche, in Dall’Archivio Segreto Vaticano. Miscellanea di testi, saggi e inventari, I, Collectanea Archivi Vaticani, n. 6,1Città del Vaticano, 2006; G. Gualdo, Sussidi per la consultazione dell’Archivio Vaticano, Collectanea Archivi Vaticani, n. 17, Città del Vaticano, 1989; A. Mercati, La Biblioteca Apostolica e l’Archivio Vaticano Segreto, in Vaticano, a cura di G. Fallani e M. Escobar, Firenze, 1996; Bibliografia dell’Archivio Vaticano, a cura della Commissione Internazionale per la Bibliografia dell’Archivio Vaticano, I-VIII, Città del Vaticano, 1962-2001; Il Libro del Centenario. L’Archivio Vaticano Segreto a un secolo dalla sua apertura, 1880/1-1980/1, Città del Vaticano, 1981; L’Archivio Segreto Vaticano e le ricerche storiche, a cura di P. Vian, Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell’Arte in Roma, Roma, 1981; G: Gualdo, L’ASV da Paolo V a Leone XIII. Caratteri e limiti degli strumenti di ricerca messi a disposizione tra il 1880 e il 1903, cfr. i 5 appendici a cura di G. Rosselli, in Archivi e archivistica a Roma dopo l’Unità. Genesi storica, ordinamenti, interrelazioni. Atti del convegno, Roma, 12-14 marzo 1990, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi, n. 30, Roma 1994; Bibliografia dell’AVS, Nuova Versione, IX (1997-1999), sotto la direzione di S. Pagano, Città del vaticano, 2003. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA emigrati politici sbarcati prima a Ponza e poi a Sapri sono conservati i rapporti che dal 1 luglio 1857 al 7 luglio 1858 monsignor Nobili Vitelleschi prima e il suo successore poi (il mons. Pietro Giannelli, arcivescovo di Sardia, Nunzio Apostolico dal 6 giugno 1858), informarono costantemente la Segreteria di Stato pontificia circa tutto quello che accadde in merito agli riassunto nella formula politica libertà e associazione. Le argomentazioni degli storici hanno consentito di sottolineare una differenza sostanziale tra il pensiero di Pisacane e quello di Mazzini8. Mentre il primo sosteneva che fosse necessario risolvere anzitutto il problema dell’unità d’Italia e in un secondo momento sarebbe stato possibile affrontare la questione sociale, per la quale Mazzini proponeva una soluzione interclassista, Pisacane riteneva che per giungere ad una rivoluzione patriottica unitaria e nazionale occorresse in primis risolvere il problema sociale, in particolare quello contadino, attraverso un’efficace riforma agraria. La storiografia più recente ha tuttavia evidenziato l’adesione di Carlo Pisacane agli ideali mazziniani soprattutto per il significato che egli attribuiva alla lotta rivoluzioevennaria e all’esito ti citati. del movimento inSi parte surrezionale. Qualora il dalla descrizione dei fatti di sacrificio di Pisacane e dei suoi CARLO PISACANE compagni si fosse rivelato vano, la gloria sarebPonza e Sapri, alla sorte dei passeggeri, alla be stata la migliore ricompensa, come sostenuto questione circa la preda del Cagliari da parte della Regia Flotta napoletana, al processo contro i fuoriu- dal patriota genovese9. Inoltre è stato sottolineato che, nonostante il fallimento sciti arrestati, alla provenienza delle armi di questi ultimi, alle questioni diplomatiche sorte tra il Regno di Sardegna e della Spedizione, l’impresa di Sapri presentò all’opinione quello delle Due Sicilie circa il vapore Cagliari e tra quello delle Due Sicilie e quello britannico circa la sorte dei due 8 G. Racioppi, La Spedizione di Carlo Pisacane a Sapri: con documenti inediti, Moliterno, Waltergrafkart, 2010; F. Fusco, Carlo Pisacane e macchinisti inglesi. la Spedizione di Sapri: lotte risorgimentali nel Cilento meridionale I rapporti del nunzio, dunque, risultano particolarmente e nel Vallo di Diano dalla Repubblica napoletana all’Unità d’Italia, interessanti alla luce del dibattito storiografico sull’impresa Casalvelino, Galzerano, 2007; S. Fumich ( a cura di), La rivoluzione. di Sapri, che si è essenzialmente concentrato sul significato Carlo Pisacane:con l’aggiunta dei cenni storici di Luigi Fabbri sulla vita, le opere e l’azione rivoluzionaria, Brembio, Andreano, 2013; E. della Spedizione. Nonostante questa fosse stata concepita Sarogni, Carlo Pisacane. L’amore, l’Italia, il socialismo, Spartaco, S. M. come una delle attività insurrezionali di stampo tipicamente Capua Vetere, 2012; E. Montali (a cura di), Cattaneo e Pisacane: gli eroi mazziniano, condotta secondo il pensiero e l’azione e quindi dimenticati, Roma , Ediesse, 2012. 9 N. Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, Torino, con la speranza di suscitare un focolaio insurrezionale contro Einaudi, 1977; L. Russi, Studi su Carlo Pisacane: realtà e utopia di un il Regno borbonico, la storiografia ha evidenziato che il suo rivoluzionario, a cura di A. Noto, Roma, Rubettino, 2012; L. Fabbri ideatore, Carlo Pisacane, si era allontanato dal credo politico ( a cura di), Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane, Camerano, mazziniano, giungendo a promuovere un’ideale libertario, Gwynplaine, 2011; M. Cancogni, Gli angeli neri. Storia degli anarchici italiani da Pisacane ai circoli di Carrara, Mursia, 2011. 97 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 pubblica italiana la questione napoletana, cioè la liberazione del Mezzogiorno italiano dal lungo e pesante malgoverno borbonico. Infine alcuni studi hanno evidenziato che il tentativo insurrezionale di Carlo Pisacane aveva profilato un’alternativa alla soluzione del problema unitario: quella democratico-popolare. I fatti di Sapri, quindi, avrebbero rappresentato un chiaro segno del rafforzamento di questa corrente agli occhi del governo sabaudo e della monarchia, a tal punto da indurre il Regno di Sardegna ad organizzare con maggiore celerità ed efficacia la via diplomatico-militare per affrontare la questione unitaria10. In base a queste considerazioni, la testimonianza storica di Nobili Vitelleschi sui fatti di Sapri risulta significativa poiché, svolgendo il duplice ruolo di nunzio apostolico e di rappresentante dello Stato pontificio presso il Regno delle Due Sicilie, essa si articola attraverso le numerose e minuziose informazioni di cui il delegato apostolico entrava in possesso, direttamente o indirettamente, tramite il comandante della Regia Marina napoletana Carafa o gli agenti diplomatici accreditati presso il Regno delle Due Sicilie. Allegati al fascicolo ci sono alcuni opuscoli a stampa, realizzati dalla Tipografia del Giornale Ufficiale di Napoli nel 1858 e cioè: i documenti ufficiali della corrispondenza del governo di S.M. Siciliana con quello di S.M. Britannica riguardante i due macchinisti del Cagliari, Watt e Park; i documenti ufficiali per la vertenza del governo di S. M. Siciliana con quella di S.M. Sarda sulla cattura del Cagliari e sulla detenzione di quelli che vi erano imbarcati. Un’ulteriore documentazione è quella della Segreteria di Stato, presso cui risultano vari fascicoli collegati ai fatti di Sapri e Ponza. Si tratta dei rapporti scritti dal Nobili Vitelleschi in bella copia ed esaminati in minuta tra le carte della nunziatura apostolica napoletana ma anche delle risposte e di tutte le altre relazioni della Segreteria di Stato, comprese le missive degli ambasciatori o di uomini politici stranieri, sia in copia originale sia in versione (cioè tradotti in lingua italiana). Inoltre sono catalogati i rapporti del Console pontificio a Genova e di tutti i nunzi apostolici e consoli vaticani delle maggiori città italiane, europee e del Mediterraneo. In molti di questi compare un esplicito riferimento alla Spedizione di Pisacane. Per ciò che riguarda il contenuto dei rapporti riservati ufficiali tra Nobili Vitelleschi e Segretario di Stato pontificio Antonelli, in primo luogo il nunzio descrive minuziosamente in una missiva del 1 luglio 1857 lo svolgimento della Spedizione e nei rapporti successivi fornisce ulteriori notizie e dettagli, anche se in questa prima lettera è abbastanza esauriente circa lo svolgimento dei fatti. Il nunzio non omette di comunicare ad Antonelli che «c’era voce di un moto popolare in cui vi avrebbe preso parte anche la truppa». Vi è anche una nota informativa sulla provenienza del10 C. D. Pascarelli, Il risorgimento incompiuto : la tensione rivoluzionaria e l’iniziativa di Carlo Pisacane nell’Italia meridionale, Pavia, Iuculano, 2009; L. Russi, Carlo Pisacane. Vita e pensiero di un rivoluzionario senza rivoluzione, Napoli, ESI, 2007. 98 le armi. Alla richiesta, rivolta dal Regno delle Due Sicilie a quello sardo, di spiegazioni sulla provenienza dei fucili a bordo del Cagliari, il Regno sabaudo aveva chiarito che in tre spedizioni, a breve intervallo, erano state trasportate da Genova numerose casse di fucili fabbricate a Liegi. Dopo uno scalo a Cagliari, erano giunte a Tunisi, nella speranza che il Bay tunisino le acquistasse per il suo esercito. Il governo borbonico non aveva considerato soddisfacente questa risposta11. Nobili Vitelleschi comunica immediatamente che la Spedizione di Pisacane poteva essere avvenuta con la connivenza del Regno sabaudo, segretamente appoggiato da quello inglese12. Si sofferma anche sulla figura del protagonista, Carlo Pisacane. In tutta la documentazione esaminata se ne da notizia due volte, limitandosi unicamente a citarne il nome. Come primo esempio, dalla lettera del 3 luglio 1857 di Vitelleschi ad Antonelli: Il numero dei morti dei fuorusciti ammonta ora a non più di duecento tra i quali un tal Pisacane capo del complotto e quello dei prigionieri e dei feriti giunge a 7013. Inoltre le generalità di Pisacane compaiono nella copia delle lista dei passeggeri del Cagliari, compilata direttamente dagli stessi, in cui egli si dichiarava essere possidente napoletano diretto a Tunisi. La questione che più preme al nunzio Nobili Vitelleschi circa i fatti di Ponza e Sapri non è tanto relativo alla Spedizione in se o alla provenienza e alla sorte dei briganti che vi parteciparono quanto alle conseguenze che tale evento determina nel quadro politico e diplomatico14. 11 ASV, Arch. Nunz. Napoli, fasc. 267, fogli 220-3. 12 ASV, cit. 13 ASV, cit., fogli 217-8. 14 Cfr. R. Abrecht-Carrie, Storia diplomatica d’Europa (1815-1968), Laterza, Roma-Bari, 1978; W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Einaudi, Torino, 1962. A. Scirocco, L’Italia del Risorgimento, Il Mulino, Bologna, 1984. D. McSmith, Il Risorgimento italiano, Bari, Laterza, luglio 1999; A. M. Banti, Il Risorgimento Italiano, Bari, Laterza, 2008; R. Molteleone, Cospiratori, Guerriglieri, Briganti. Storie dell’altro Risorgimento, Einaudi Ragazzi Storia, Trieste 1995; L. Salvatorelli, Spiriti e figure del Risorgimento, Le Monnier, Firenze, 1961. J. A. Davis - P. Ginsborg, Society and Politics in the Age of Risorgimento, Essays in Honor of D. MacSmith, Cambridge University Press, Cambridge, 1991; N. Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, Torino, G. Einaudi, 1977; AA. VV., Carlo Pisacane nel Centenario della Spedizione di Sapri, Napoli, Macchiaroli, 1957; P. Iorio, Il Saggio su la rivoluzione di Carlo Pisacane ed il suo contenuto ideologico, Napoli, G. Genovese, 1961; C. Pisacane, Epistolario, a cura di A. Romano (a cura di), Carlo Pisacane. Epistolario, Milano ; Genova ; Roma ; Napoli, Societa Editrice Dante Alighieri, 1937; L. A. Pagano, La Spedizione di Sapri e la prigionia di Giovanni Nicotera nelle carte della polizia borbonica di Sicilia, Rassegna storica del Risorgimento, marzo-aprile 1934; A. Codignola, La Spedizione di Sapri e le sue ripercussioni sulla politica internazionale; A. Depoli, La Spedizione di Sapri e i moti di Genova del 1857; L. L Barberis, Dal moto del 1853 a Milano alla Spedizione di Sapri, in Istituto per la storia del risorgimento italiano, Comitato di Genova, Comitato per le onoranze a Carlo Pisacane nel centenario della sua morte, Modena, STEM, 1957; F. Venosta, Carlo Pisacane e i compagni martiri a Sanza, Milano, Barbini, 1863; G. Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, Milano, Feltrinelli, 1962; P. E. Bilotti, La Spedizione di Sapri: da Genova a SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Infatti gli argomenti principalmente trattati nelle missive sono di tipo informativo: la preda del Cagliari, l’andamento del processo della Gran Corte di Salerno ai prigionieri, la sorte dei due macchinisti inglesi e dei passeggeri coinvolti accidentalmente nel viaggio verso Ponza del vapore sardo. Il nunzio di Napoli poteva disporre di un canale diretto particolarmente attendibile nella figura del Comandante della Regia Flotta napoletana Carafa, con cui Nobili Vitelleschi aveva colloqui ed incontri anche di natura privata e che gli consentivano di aggiornarsi rapidamente e quotidianamente su argomenti quali la responsabilità dell’insurrezione, dell’intervento della flotta sarda e di quella napoletana contro i fuoriusciti o del potenziale delle società mazziniane che l’avevano realizzata, oltre che la riconsegna al Regno Sabaudo da parte del Regno di Napoli di un legno (e dei suoi passeggeri presi in ostaggio) che svolgeva abitualmente il servizio postale tra Cagliari, Genova e Tunisi15. Da una nota del 24 febbraio 1858, il delegato apostolico scrive che era atteso il ritorno del Principe d’Ottajano da Parigi e che in un colloquio privato Carafa aveva confidato al nunzio che la questione diplomatica affrontata sembrava essere ben avviata. Al contrario, aggiunge, l’Inghilterra, su richiesta della Francia, aveva dichiarato che avrebbe acconsentito al ristabilimento delle relazioni diplomatiche con Napoli solo quando il governo borbonico avesse rilasciato i due macchinisti britannici catturati con gli altri passeggeri del Cagliari16. Il 20 maggio 1858 il delegato da notizia a Roma che il governo inglese aveva inviato nel Regno delle Due Sicilie il sig. Lyons, segretario di Legazione a Firenze, per riferire a Londra sugli sviluppi del processo di Salerno, sottolineando l’ottima impressione che Lyons aveva riscosso nell’entourage napoletano17. Sulla questione del Cagliari viene comunicato che il Conte di Cavour aveva inviato una serie di lettere al Re di Napoli e al Carafa esponendo le sue considerazioni circa l’illegittimità della preda del bastimento sardo da parte delle Regie fregate napoletane ed intimandone la riconsegna e chiedendo che l’Incaricato di Affari del Regno di Sardegna presso quello di Napoli potesse visitare, tra i prigionieri, i cittadini sabaudi. Dal rapporto di Vitelleschi del 3 settembre 1857, emerge che il Conte di Cavour si preparava a trattare la questione del vapore con un dispaccio indirizzato al Conte di Grospello18 e che il clima tra i due governi, annota il nunzio, non era affatto sereno19. Sanza, Salerno, Stab. Tip. F.lli Covane, 1907; F. Schlitzer, La «Cronaca» della Spedizione di Sapri e Luigi Dragone: appunti e documenti, Napoli, 1934; L. Cassese, Luci ed ombre nel processo per la Spedizione di Sapri, Conferenza tenuta nel 1958, estr. da L’attivita del Centro culturale, 1958, a. 1; A. Lepre, Nel centenario di Carlo Pisacane, in «Belfagor», fasc. n. 2, 1958, pp. 141-161; A. Capone, Giovanni Nicotera e il “mito” di Sapri, Centro Studi per il Cilento e il Vallo di Diano, vol. IX, Roma, A.G.E.R., 1967. 15 ASV, cit., foglio 194. 16 ASV, cit., fogli 190-1. 17 ASV, cit., fogli 186-7. 18 ASV, cit., fogli 201-2. 19 ASV, cit., foglio 185. La lettera accennata dal nunzio è contenuta tra la documentazione della Segreteria di Stato. Si tratta di una lettera autografa, scritta con grande precisione, in uno stile asciutto e finissimo, dal Conte di Cavour. Torino, 16 gennaio 1858 Al Conte di Grospello Dal Conte di Cavour Appena ricevuta la notizia dei casi di Ponza e Sapri mi son recato a premura di testimoniare per mezzo di V. S., al Gabinetto Napoletano la profonda indignazione provata dal Governo del Re all’annunzio del criminale attentato commesso contro la sicurezza di uno Stato amico. Segue la breve descrizione dei fatti, senza mai citare il nome di alcuno dei rivoltosi e le richieste del governo piemontese, esprimendo la costernazione per il divieto rivolto al corpo diplomatico accreditato presso il Regno borbonico di svolgere alcun colloquio con i prigionieri del Regno sardo. L’essersi a bordo del medesimo compiuto un atto di rivolta per parte di passeggeri, l’essere stato alcun tempo in loro potestà e l’essere, durante questo tempo, divenuto strumento d’una colpevole aggressione, non poteva costituirlo in quello Stato di guerra che esiste solamente tra Governi riconosciuti o di fatto. La forsennata scorreria di Ponza e di Sapri fu l’opera di pochi cospiratori moventi a disperata impresa, e sarebbe un abusare del significato giuridico delle parole il paragonare e il confondere quei tentativi in cui ben si distingue se maggiore sia la colpa o la demenza, con uno stato legale di guerra pubblica, e il radicarvi quindi il conseguente diritto di preda. Sarebbe questa la prima volta che una masnada di fazioso e di facinorosi vedrebbesi investita delle prerogative di una Potenza guerreggiante. L’attentato di Ponza e di Sapri fu un atto di ribellione e di ladroneccio; fu un reato comune e per giudicarne debbonsi applicare le norme del diritto penale ordinario, né si possono invocare i principi del diritto pubblico, perché vi manca il fondamento. Del resto nel capo nostro la stessa azione criminosa più non esisteva, il legno era affatto sgombro dai ribelli; ubbidiva al legittimo suo Capitano; la bandiera Nazionale doveva assicurargli la protezione, le immunità e i privilegi marittimi20. Copia della relazione del Comandante Carafa, scritta il 30 gennaio del 1858 al Cavalier Canofari, Ministro della Segreteria di Stato degli Affari Esteri del Regno di Sardegna, fu evidentemente inviata alla Segreteria di Stato da parte del nunzio napoletano: Questo Incaricato di Affari del Regno di Sardegna Sig. Conte di Grospello mi ha dato lettura e rilasciato copia per ordine ricevuto dal suo Governo di un dispaccio direttogli da S. E. il Conte di Cavour, che verte sulla preda del vapore il Cagliari e sulla processura dei Sudditi Sardi che ne disbarcarono. Si contesta il Cavour dicendo che «vorrà anzitutto il Signor Conte medesimo convenire anzitutto che le circostanze di un fatto 20 ASV, Segr. Stato, anno 1858, rubrica 165, fasc. 3, fogli 196-99. 99 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 puramente contenzioso non possono essere chiarite in via Diplomatica. 1858 allega un foglio redatto da un “informatore anonimo” dello Stato Pontificio. Vi si aggiunge che vi era anche motto a sospettare che eseguito Eminenza Rev.ma, dal Cagliari il primo sbarco a Sapri, si avesse il proponimento di ricevo in questo punto l’annesso foglio di Gaeta che le rimetto tal ritornare a dirigersi sulla stessa Isola di Ponza, o sulla prossima quale, perché l’Em. Vostra Rev.ma possa prender tempo comu- di Ventotene, ove eravi altri individui che avrebbero potuto es- nicare le risoluzioni dal Re, mio Augusto Signore, sugli affari eguire il movimento dei primi imbarcati. È poi notevole che il del Cagliari. Cagliari stesso rimanga alquanto nelle acque di Sapri, fino a che [Segue il foglio] i rivoltosi sbarcati fossero entrati in Città e poi prese la rotta per Dopo il discorso tenuto nel Porto d’Anzio come conoscete, il la stessa direzione per la quale era venuto, senza prendere quella Ministro d’Austria presentò un dispaccio del Conte Buol offren- di accostarsi a Napoli, o ad altro punto del Regno, per avvertire do arbitraggio o mediazione di potenza a “Svezia Olanda” si di- dello accaduto, come sarebbe stato di suo dovere, e qualora fosse spone con memorandum che malgrado essere sicuri del proprio stato vero che il Vapore non agiva spontaneamente ma forzato dai diritto per amor della pace non disgiunta dal decoro e dignità del rivoltosi che erano a bordo. paese, si accettava arbitraggio, non mediazione, e che l’arbitro Siffatte idee sono state implicitamente riconosciute dallo stesso fosse una potenza di I ordine, essendo desiderio vivo del re che Sig. Conte di Cavour…». la condotta del Governo Napoletano fosse stata giudicata con imparzialità e nei stretti termini di giustizia dè principi e del diritto Carafa sosteneva che fosse necessario un «giudizio sollecito, regolare, pubblico» (come sosteneva la diplomazia inglese). In merito alla restituzione del vapore già si era espressa «la Commissione delle Prede per il carico ai proprietari a cui appartiene». Il carattere delle fonti rappresentato dalle nunziature apostoliche è indubbiamente più circoscritto rispetto ad altre. Ma si evince che, all’indomani della Spedizione, per il Regno delle Due Sicilie le questioni di maggior interesse fossero la presa del vapore Cagliari, la sorte dei prigionieri e le accuse rivolte dal Conte di Cavour alle autorità borboniche per il sequestro della nave e per l’imprigionamento dei passeggeri. Nella relazione inviata a Roma del 10 maggio 1858 Vitelleschi allega la copia di un Trattato di Commercio e Navigazione concluso tra il Regno di Napoli ed il Gran Ducato di Mecklemburg Schwevin, concluso per tentare una conciliazione tra il governo borbonico e la Gran Bretagna in materia doganale, come aveva suggerito lo stesso nunzio ad Antonelli21. Segue, il 25 maggio 1858, una lettera autografa dello stesso Duca di Mecklemburg, inviata al Com. Carafa in cui si dichiara senza mezzi termini che se il governo napoletano avesse respinto le richieste britanniche, Londra sarebbe stata pienamente giustificata a replicare esercitando altri mezzi di pressione; tuttavia, per evitare un intervento più deciso, si poteva ricorrere alla mediazione della Corte di Svezia, data l’evidente sproporzione nei rapporti di forza tra Gran Bretagna e Regno delle Due Sicilie22. Da un rapporto pervenuto al cardinale Antonelli dal nunzio apostolico dei Paesi Bassi il 26 aprile 1858, si chiarisce che, nonostante le notizie diffuse circa il coinvolgimento del Regno dei Paesi Bassi nell’arbitrato per il Cagliari, nessuna richiesta di partecipazione ufficiale era stata rivolta a quello Stato23. Il nunzio Nobili Vitelleschi in un rapporto dell’11 giugno internazionale. A voce si espressero al Ministro Martini tutte le ragioni che non permettevano la mediazione ma solo arbitraggio. Esso convenne nell’opinione che la sola Russia avrebbe potuto essere nella circostanza dell’arbitra. Pochi giorni dopo disse non essere possibile potenza di I ordine ma doversi contentare di una di II ordine. Essere opinione dell’Incaricato di Russia non potere accettare la Russia essere mediatrice, per non essere giudice verso il Governo di Napoli pel quale aveva tutta l’amicizia. Queste previsioni di Martini e dell’Incaricato di Russia sono state confermate con le ulteriori mozioni avute da questi Governi. Verso la Francia non vi è bisogno rammentare ciò che si è fatto, essendo passate per mezzo vostro. Arrivato il Dispaccio telegrafico annunciando che l’Imperatore non poteva essere arbitro per la frivola ragione che le relazioni con Napoli erano interrotte, non rimaneva altra che attendere con pazienza la Nota annunciata da Bernstorff da presentarsi da Lyons e da Grospello. Non vi è bisogno dire l’impressione fatta in tutti dalle ragioni per non essere arbitro addotte dalla Francia e dalla Russia. Ognuno con calma ne giudicherà. Finalmente e fortunatamente è giunta l’attesa nota che si acclude, a cui non si è esitata a rispondere, risposta, che anche si acclude, avendo con inaudito modo di minaccia esalto l’Inghilterra non solo pe’ Macchinisti ma anche fatta causa propria quella del Cagliari, e la nota essendo stata fortunatamente presentata dal solo Lyons e non da Grospello, si è creduto alla Forza Inglese, e il cedere alla forza non è vergogna. Si vedrà nella circostanza dalla Civili Potenze dell’Europa un triste esempio del dritto del [chi sia il più] forte ed il fatto ed i principi che debbonsi stabilire dal fatto successo, anche in ciò che riguarda il dritto marittimo, stabilirà un precedente che non può non esser preso in seria considerazione da tutte le Potenze. Renderete di tutto ciò al più presto avvisandovi Sua Santità ed il Cardinale Antonelli24. La posizione ufficiale del Regno delle Due Sicilie sulla 21 ASV, Arch. Nunz. Napoli, fasc. 267, foglio 184. 22 ASV, Segr. Stato, anno 1858, rubrica 165, fasc. 3, foglio 173. 23 ASV, cit. foglio 203. 100 24 ASV, cit., fogli 216-7. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA questione internazionale determinatasi dalla Spedizione è riportata in uno degli allegati ad un rapporto del Carafa al nunzio, poi inviato da questi al Segretario Antonelli. La data è dell’8 giugno 1858 e in essa Carafa dichiara che il Re di Napoli non poteva immaginare di possedere i mezzi necessari per opporsi alle forze di cui poteva disporre il governo britannico e che, sostanzialmente, erano accettate le richieste inglesi25. Il carteggio diplomatico tra il Conte di Cavour e il Com. Carafa, il Sig. Lyons e il Duca di Mecklemburg è conservato, in copia, presso l’Archivio della nunziatura napoletana. Quando la Gran Corte Criminale di Salerno ordina la liberazione dei passeggeri e la restituzione del vapore per mezzo degli Inglesi, che poi avrebbero condotto sia i prigionieri sia il Cagliari a Genova per riconsegnarlo alle autorità sabaude, il nunzio ne dà notizia al Segretario Antonelli, oltre a fornirgli, nel corso dei mesi successivi, tutte le notizie circa l’andamento del processo, con la conclusione finale in una relazione riservata del 16 giugno 1858. È affrontata anche la questione sul ruolo rivestito dalla flotta francese per il Regno di Napoli e per lo Stato pontificio, soprattutto grazie ai colloqui privati tra il Carafa e il nunzio di Napoli. È noto che nel luglio del 1857 alcune navi della flotta francese erano giunte nel Porto di Civitavecchia con la funzione ufficiale di ‘intimidire’ le possibili, ulteriori insurrezioni nel Sud Italia e come sostegno alla Corona borbonica. Sempre dalla relazione del 1 luglio 1857 scrive il nunzio apostolico: […] il Com. Carafa mi ha confidato che forse è già arrivata nel Porto di Civitavecchia una Flotta dei Francesi dalla quale l’apparente scopo è di sorvegliare la flotta inglese ancorata a Livorno. Però giunta la notizia a lui pervenuta il vero motivo sarebbe una dimostrazione contro il Governo Suo, ad oggetto che questo fecondi le domande fatte dai Bolognesi al S. Padre le quali furono dapprima esaminate e approvate dalla Francia. Si teme che il S. Padre possa accoglierle freddamente ed anche non curarle influenzato come si suppone dall’Austria. L’apparato della Francia servirebbe a controbilanciare questa temuta influenza26. Nel fascicolo classificato pos. 2/in 32, intitolato Viaggio del Papa a Bologna, Modena e Toscana, sono raccolti i rapporti riservati ufficiali su questo evento indirizzati alla Segreteria di Stato presso la nunziatura apostolica di Napoli. La sede apostolica nel Regno delle Due Sicilie era, a sua volta, aggiornata quotidianamente delle attività del Pontefice per le sue relazioni con le autorità borboniche, oltre che per essere al corrente delle questioni a Roma. Dalle lettere tra il nunzio Nobili Vitelleschi e il Segretario Antonelli e tra il primo e il nunzio apostolico di Ravenna emerge che i cittadini di Bologna avevano richiesto al S. Padre una maggiore autonomia amministrativa ed ulterio25 ASV, Arch. Nunz. Napoli, fasc. 267, foglio 178. 26 ASV, cit., fogli 220-1. ri contributi finanziari. È noto27 come dalla seconda metà dell’Ottocento la Francia fosse interessata alla parte centrale dell’Italia per estendervi la propria influenza, sostituendosi a quella austriaca (come confermeranno i successivi accordi di Plombiéres). Il successore di Vitelleschi, il nunzio Giannelli, il 31 luglio 1858 riporta al Segretario Antonelli i dettagli della sentenza emanata dalla Gran Corte di Salerno per gli avvenimenti di Ponza e Sapri. Il fascicolo 165 raccoglie tre incartamenti, il 3, il 4 e il 5, nei quali viene fatto riferimento alla Spedizione dalle sedi apostoliche (nunziature e consolati) di tutto la penisola e dall’estero alla Segreteria di Stato pontificia. Ad esempio la descrizione dell’insurrezione della città di Genova nella notte tra il 29 e 30 giugno 1857 è svolta dal Delegato Apostolico di Civitavecchia presso il Consolato Generale pontificio nei Regi Stati Sardi. Il 17 marzo del 1857 l’arcivescovo di Pessalonica, nunzio apostolico di Firenze, avvisa il Segretario Antonelli che il Ministro degli Interni Landucci di Genova lo aveva informato che da Genova era stato inviato a Livorno uno dei capi rivoluzionari per prelevare un’ingente somma di denaro dal banchiere Adami di Pisa per finanziare la setta mazziniana. Secondo l’arcivescovo circolava la notizia che sarebbe presto scoppiata una rivoluzione nel Regno di Napoli, la quale si sarebbe propagata altrove e sarebbe stata diretta da Mazzini, il quale doveva giungere a Genova. A Livorno e a Civitavecchia era giunto il vapore Medea con a bordo alcuni emissari mazziniani che avevano contattato molti personaggi considerati sospetti28. Il 14 maggio 1857 il Consolato Generale Pontificio di Livorno avvisa la Segreteria di Stato che, sulla base di alcuni sospetti delle autorità del governo Granducale, erano state confiscate due casse di armi da fuoco, giunte clandestinamente a Pisa per mezzo di un’imbarcazione proveniente da Genova e che, probabilmente, altre navi con munizioni nascoste erano dirette a Napoli o in Sicilia29. Le prime notizie dalle altre nunziature apostoliche italiane, esclusa quella di Napoli, giungono alla Segreteria di Stato dal Delegato Apostolico di Civitavecchia il I luglio, che fornisce, inoltre, una chiara descrizione dei moti avvenuti in Genova tra il 29 e il 30 giugno, quando salpò il Cagliari alla volta di Ponza, senza tralasciare, nella dinamica degli avvenimenti, la presa di bastioni del porto. Il moto è d’ideale mazziniano. Ciò è provato dal carteggio trovato 27 Cfr. anche A. Saitta, Le relazioni diplomatiche tra Francia e Regno di Sardegna, Roma, Ist. Storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma, 1961-71; dello stesso Autore, La questione italiana dalle annessioni al regno d’Italia nei rapporti tra la Francia e l’Europa, Roma, Ist. Storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1961-71; D. Cena, L’Imperatore Napoleone III e l’Italia, Louis-Etienne-Arthur DubreuilHelion de La Gueronniere, Torino, 1859; P. Silva, La Politica di Napoleone III in Italia, Roma, Albrighi, Segati e C., 1927 (Citta di Castello, S. Lapi); M. Mazziotti, Napoleone III e l’Italia, Milano, Unitas, 1925. 28 ASV, Segr. Stato, anno 1858, rubrica 165, fasc. 3, foglio 29. 29 ASV, cit., foglio 32. 101 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 indosso agli arrestati. Le autorità locali ne avevano già sentore. Le truppe della Guarnigione da giorni erano consegnate per maggior sicurezza. […] il Cagliari, vapore della compagnia Rubattino, partito la sera del 26 giugno per Tunisi è stato costretto, dicesi, dal sedicente colonnello Pisacane, che ne aveva preso passaggio con una turba di persone di cui accludo la nota, a cambiar direzione e rivolgersi sulle Coste, vuolsi, di Sicilia per tentarvi uno sbarco. Certo è che dispacci qui giunti assicurano che suddetto vapore non ha toccato il porto di Cagliari e che il Governo ha mandato il vapore da guerra Inchinusa. Il Cagliari portava in puro contante 60.000 franchi30. Il vapore preso in ostaggio da Pisacane trasportava con sé una notevole somma di denaro, trattandosi il vapore su cui viaggiava un’imbarcazione che svolgeva servizio postale tra il Regno Sabaudo e Tunisi. Segue la lista dei passeggeri, compilata direttamente da questi ultimi al momento dell’imbarco, tra cui sono riportate le generalità di Pisacane, che si dichiarava essere un possidente napoletano diretto a Tunisi. Il Console Generale Pontificio di Livorno 16 maggio 1857 scrive ad Antonelli che la polizia livornese conosceva tutti i movimenti degli affiliati della setta mazziniana e che quindi non si correva alcun pericolo, essendo la situazione nel granducato di Toscana sotto il controllo delle autorità di pubblica sicurezza31. Dal Console Generale pontificio di Genova ad Antonelli, 20 maggio 1857: guria34. Nella nota del Console di Livorno del I luglio 1857 si descrivono i moti poi sedati nella cittadina toscana e si dichiara che, secondo alcune voci diffuse tra gli ambienti granducali, pare che la flotta Inglese dell’ammiraglio Lyons aveva incoraggiato gli sbarchi mentre secondo altre fonti si sarebbe trattato di un piano prestabilito35. Nei giorni successivi allo sbarco a Sapri la Delegazione apostolica di Civitavecchia dalla Direzione di Polizia rassicura Roma che la situazione era sotto controllo ma che l’arrivo continuo di navi da Livorno e di individui sospetti necessitava una maggiore sorveglianza in quel porto36. Il 4 luglio 1857 il nunzio apostolico di Ascoli scrive ad Antonelli che la sera del 3 luglio era stato precipitosamente informato dal Regio Intendente di Teramo che dalla Direzione della Polizia di Napoli per telegrafo era stato comunicato che: «la masnada rivoltosa sbarcata a Sapri è stata completamente distrutta» e che il nunzio scrisse immediatamente a quello di Macerata perché avvisasse Roma37. Il 4 e l’8 luglio dalle sedi apostoliche di Ascoli e Benevento giungono ulteriori rassicurazioni circa la sorveglianza contro probabili tentativi rivoluzionari. Altri rapporti provengono dalle nunziature estere e da Genova. Dal nunzio apostolico di Parigi al Cardinale Antonelli, 11 luglio 1857: I moti italiani pare fossero progetto dei rivoluzionari che dovevano aver luogo a Parigi dopo essersi attentato alla vita dell’Imperatore. La Polizia aveva già avuto qualche sentore di ciò per aver intercettato la lettera di Mazzini ai capi del complotto e per aver Si informa che è alloggiata all’Albergo Italia una signora inglese, intercettato una valigia con pistole. Arrestati alcuni italiani (Rib- certa Miss White che in Inghilterra soleva tenere meeting e adu- aldi e Bertolotti). La Polizia francese ne diede notizia al Governo nanze per la causa italiana. La sera del 17 alle 11 la Società degli Piemontese. I fatti poi avvenuti a Genova, Livorno e nel Regno Operai la onorò della sua Banda con una serenata in omaggio. Ol- Napoletano hanno destato l’indignazione di tutti quelli che non tre alle grida ‘Viva Miss White’ si udirono ‘Guerra all’Austria’, sono venduti al partito rivoluzionario ed anarchico. Il modo, però, ‘Morte al Papa’ e ‘Viva l’indipendenza italiana’ [Molti poliziotti con cui gli agitatori furono respinti dalla truppa in Toscana e nel tra la folla ne hanno riportato notizia]32. Regni di Napoli ha aperto gli occhi a molti illusi che giudicano lo stato di d’Italia da quello che leggono e credono che bastasse una La Miss White citata è Jessie Mario White, amica di Carlo Pisacane e di Giuseppe Mazzini, che parteciperà ai moti di Genova del 29 e 30 giugno 185733. Il 4 giugno 1857 il Console Generale dei Regi Stati Sardi comunica a Roma che il partito mazziniano stava meditando uno sbraco armato nel Mediterraneo ma che non era ancora certo se ciò fosse avvenuto in Romagna, in Toscana o in Li- 30 ASV, cit., fogli 34-5. 31 ASV, cit., fogli 37-8 32 ASV, cit., foglio 29, così le virgolette, nel testo. 33 Jessie Mario White, dopo aver conosciuto nel 1854 Giuseppe Garibaldi di cui divenne subito amica e seguace, giunse in Italia come corrispondente del Daily News e strinse forti legami di amicizia, oltre che con Carlo Pisacane, anche con Agostino Bertani (e Marco Monnier, che la ritrasse nella novella Miss Uragan). Cfr. R. Certini, Jessie White Mario una giornalista educatrice: tra liberalismo inglese e democrazia italiana, Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 1998; M. Prisco, “Adorabile uragano. Dalle lotte risorgimentali alla Miseria in Napoli. La straordinaria avventura di Jessie White Mario”, Napoli, Stamperia del Valentino, 2011. 102 scintilla per destarvi un incendio generale38. Il 7 luglio 1857 il console di Genova scrive ad Antonelli che pareva certo che Mazzini, nativo di Genova, nella notte tra il 29 e il 30 giugno fosse in città; una volta appreso che l’insurrezione non poteva scoppiare, era fuggito frettolosamente nella notte stessa39. Anche dal lontano Consolato Generale del Regno Ellenico al Segretario di Stato pontificio, 23 luglio 1857, si comunica che è giunta notizia della insurrezione nel Regno di Napoli e viene fornita una lunga informativa sulle attività dei mazziniani in Grecia, allegando un lasciapassare ottenuto da alcuni 34 ASV, cit., fogli 55-56. 35 ASV, cit., fogli 71-74. 36 ASV, cit., fogli 81-84. 37 ASV, cit., fogli 93-94. 38 ASV, cit., fogli 118-119. 39 ASV, cit., fogli 122-123. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA sospetti esuli mazziniani italiani dal Sultano della Sublime Porta. Inoltre si riporta che tra il 25 e il 26 giugno (qualche giorno prima della Spedizione) a Costantinopoli un marinaio inglese fu udito riferire a altri marinai nei pressi del porto che un’insurrezione era scoppiata nel Regno di Napoli e che le truppe regie erano state sconfitte e il Re Ferdinando si era ritirato a Gaeta. Essendo stata smentita la notizia qualche giorno dopo, ma poi improvvisamente diffusa l’informativa circa lo sbarco di Pisacane a Sapri e gli scontri con le truppe borboniche, il Console del Regno Ellenico si dichiara sorpreso per la strana coincidenza. La questione dell’unità nazionale italiana non era considerata negativamente da Londra, che riteneva un regno d’Italia unito (possibilmente sotto la dinastia Savoia) non incompatibile con l’assetto post-1815 e come elemento di stabilità in un “punto caldo” del Mediterraneo, area di tradizionale egemonia inglese. Secondo il governo di S.M. britannica il governo sardo poteva creare un casus belli quando se ne fosse presentata l’occasione40. Nell’incartamento n. 4 del suddetto fascicolo 165 non risultava esserci alcun riferimento ai fatti di Ponza e Sapri, a parte una relazione del Delegato di Ravenna al Segretario di Stato Antonelli, datata 28 gennaio 1858, in cui si parla del Pieri (che con Orsini partecipò all’attentato a Napoleone III)41. Alla relazione segue un foglio, scritto dal delegato medesimo, con scritto «Notizie». E di seguito: Il Duca di San Donato, siciliano, fu colui che combinò la Spedizione di Sapri, a 3000 ascendevano gli emigrati che dovevano prendervi parte. Il piano era concepito così. Assalto di due fortini di Genova onde di là proteggere la presa di due legni da guerra ed insieme l’imbarcazione che con bandiera tricolore italiana salpa per Sapri. Mazzini però sconvolse tutto dicendo che il colpo doveva essere in senso repubblicano. Allora i primi concerti svanivano, che se avessero avuto effetto, non erano ignorati dal Ministero Sardo ma esso fingendo di ignorarlo di pari dichiarò non essere stato in 40 Cfr. The Cambridge History of English Foreign Policy, 17871919, Cambridge, 1923; M. de Leonardis, L’Inghilterra e la Questione Romana, Pubblicazioni dell’Università Cattolica di Milano, 1980; D. M. Scheruder, Gladstone and the Italian Unification, 1848-1870: the Making of a Liberal?, in «English Historical Review», vol. 85, 1970, n. 336, pp. 475-501; N. Blakiston, Inglesi e Italiani nel Risorgimento, Catania, Bonanno, 1973; F. Curato – G. Giarrizzo, Le relazioni diplomatiche tra la Gran Bretagna e il Regno di Sardegna, voll. I-VIII, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1961-71; AA. VV., Italia e Inghilterra nel Risorgimento, Pubblicazioni dell’Istituto Italiano di Cultura di Londra, 1954; A. Colombo, L’Inghilterra nel Risorgimento Italiano, Milano, Casa Editrice Risorgimento, 1917; O. Barriè, L’Inghilterra e il problema italiano: la missione di Lord Minto (ott. 1847apr. 1848), Milano, C.U.E.M., 1955; dello stesso Autore, L’Inghilterra e il problema italiano: dalle rivoluzioni alla seconda restaurazione, Milano, Giuffrè, 1965; A. Signoretti, Italia e Inghilterra durante il Risorgimento, Milano, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 1940; N. Rosselli, Inghilterra e Regno di Sardegna, Einaudi, Torino, 1954. 41 ASV, Segr. Stato, anno 1858, rubrica 165, fasc. 4, fogli 72-73. tempo d’impedirlo. Allora il Pisacane con 180 di più arditi si offrì all’impresa di Sapri, e sebbene tutto fosse ivi disposto per ricevere la Spedizione, il cambiato scopo e la stessa bandiera fecero abortire il tentativo! E la polizia francese nel prevenire quella di Torino intese sempre parlare della prima e non della seconda cospirazione42. Le informazioni reperibili dai documenti delle nunziature apostoliche restano d’interesse strettamente connesso alle sedi di origine; tuttavia, come nel caso della Spedizione di Pisacane, oltre a trattarsi di documenti inediti e poco noti, la loro conoscenza e la loro analisi può contribuire non solo ad arricchire il patrimonio degli archivi minori locali e delle conoscenze sull’argomento, ma anche a costituire un nuovo stimolo ed un potenziale ampliamento a ricerche già intraprese. Scarso è il riferimento esplicito ai rivoltosi mentre estremamente dettagliate sono le notizie relativamente agli scontri con l’esercito borbonico, agli effetti dell’avvenimento nel Regno delle Due Sicilie, alle reazioni della comunità diplomatica, alle condizioni dei prigionieri e alla presa del vapore sardo Cagliari. Ciononostante il riferimento a Pisacane e alla sua impresa appare anche successivamente nella documentazione delle nunziature. In un memorandum del 9 maggio 1860 che il nunzio napoletano scrive al Segretario Antonelli in occasione dello sbarco di Giuseppe Garibaldi in Sicilia, si descrive l’avvio della Spedizione dei Mille e si cita che i due legni a vapore erano della «compagnia Rubattino, la stessa cioè a cui appartiene il ‘Cagliari’»43. Da quando nel 1881, per munifica iniziativa di Leone XIII, l’Archivio Segreto Vaticano è stato aperto alla libera consultazione degli studiosi è divenuto uno tra i più noti centri di ricerche storiche. Come osserva Cummings, a proposito degli archivi della nunziatura di Napoli per il periodo compreso tra lo sbarco garibaldino in Calabria e la conquista della capitale borbonica, nonostante nel loro insieme tali carteggi presentino un carattere talvolta molto specifico, legato alla funzione informativa e di rappresentanza diplomatica delle nunziature, si tratta comunque di fonti che consentono di determinare «il senso di immediatezza, tensione, paura ed eccitazione» e che quindi, indipendentemente dal tipo di ricerca svolto, riportano i momenti di storia di quei giorni nell’estate del 1857 nel Sud dell’Italia preunitaria44. Le carte conservate presso l’Archivio Segreto Vaticano possono fornire dunque ulteriori dettagli, spesso di carattere prevalentemente inedito su Carlo Pisacane e la sua Spedizione, che, fino ad oggi, possono contribuire ad alimentare il suo “mito”. 42 ASV, cit., fogli 74-75. 43 ASV, Arch. Nunz. Napoli, anno 1860, fasc. 268, fogli 473-7. 44 R. L. Cummings, “The nunciature of Naples, it archives and the national Revolution”, in Archivium Historiae Pontificiae, ago.-sett. 1860, 17 (1979). 103 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 Lingua e identità nazionale in Bosnia-Erzegovina. Dal multiculturalismo all’esclusivismo linguistico ANIDA SOKOL Università degli Studi di Roma, La Sapienza La storia della lingua serbo-croata, dal XIX secolo ai nostri giorni, segue le turbolente vicende storiche della regione jugoslava.1 Durante i diversi momenti storici, gli aspetti linguistici sono spesso serviti a consolidare obiettivi politici, rappresentando sia uno strumento fondamentale per l’unificazione delle nazionalità slave del sud, sia un riflesso dell’affermazione delle identità nazionali specifiche delle diverse componenti jugoslave. L’importanza della lingua nella regione è evidente se si considera il fatto che essa è stata sia una delle principali basi per l’unificazione dei popoli jugoslavi nel Regno dei Serbi, Croati, Sloveni (Kraljevina Srba, Hrvata i Slovenaca, SHS) nel 1918, sia, durante la disintegrazione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija, SFRJ) negli anni Novanta del XX secolo, uno dei primi obiettivi delle diverse componenti nazionali e delle entità statali subentranti per affermare la propria specificità nazionale. Il serbo-croato, codificato nel XIX secolo come un’unica lingua sulla base della variante più diffusa, quella del dialetto štokavski, oggi per ragioni politiche e nazionaliste è stato invece “disintegrato” in quattro lingue nazionali: serbo, croato, bosniaco e montenegrino, nonostante dal punto di vista sociolinguistico non esistessero i concreti presupposti per la 1 Nell’elaborato la definizione “lingua serbo-croata” continua ad essere utilizzata nonostante negli ultimi due decenni sia divenuta desueta nell’area ex jugoslava. A livello internazionale, invece, il termine è ancora usato da alcuni linguisti come Snježana Kordić con un’accezione strettamente geografica, che non esclude quindi bosniaci musulmani e montenegrini – come affermano al contrario i linguisti “nazionalisti” – poiché denota i margini di una vasta area linguistica che ha vissuto tradizionalmente una prevalenza numerica e di conseguenza politica e culturale di serbi e croati. Si veda S. Kordić, Jezik i nacionalizam, Durieux, Zagreb, 2000, p. 267. Il termine oggi più utilizzato per denominare la lingua comune in BosniaErzegovina è “lingua bosniaca/croata/serba” (BHS jezik). 104 loro definizione come singole entità separate.2 Tale processo, come del resto la dissoluzione stessa dello Stato jugoslavo, ha avuto le conseguenze più clamorose in Bosnia-Erzegovina, la repubblica jugoslava (insieme a quella macedone) con la più complessa struttura etnica, dove le questioni linguistiche riflettono le controverse relazioni sociali e politiche cor- renti tra le nazionalità serba, croata e bosniaco-musulmana (bošnjaci).3 In tal senso, la Bosnia-Erzegovina, una “picco2 La lingua serbo-croata è riconosciuta nella sociolinguistica internazionale come lingua pluricentrica con varianti nazionali (serbo, croato, bosniaco e montenegrino) mutuamente intelligibili. La definizione si riferisce a quelle lingue che hanno diversi centri interattivi ognuno con una propria variante nazionale e proprie norme codificate. Anche se esistono differenze tra le varianti nazionali, soprattutto lessicali e fonologiche, come nel caso dell’inglese americano e britannico, queste risultano essere così poche da non influenzare la comunicazione fra interlocutori e quindi da non essere considerate lingue distinte. Si veda in generale M. Clyne, Pluricentric Languages, Differing Norms in Different Nations, York Mouton de Gruyter, Berlin and New York, 1992. 3 Dal 1993 il termine bošnjaci (“bosgnacchi”) è usato per indicare i bosniaci musulmani, mentre il più generico termine bosanci (“bosniaci”) indica i cittadini della Bosnia-Erzegovina senza specificare l’appartenenza SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA la” Jugoslavia che vive profonde contraddizioni, con la convivenza in una regione relativamente ristretta di tre “lingue” – serbo, croato e bosniaco – varianti di uno stesso idioma pluricentrico, rappresenta quindi un caso sociolinguistico unico. LINGUA COME STRUMENTO POLITICO Nell’area ex jugoslava la questione linguistica riflette la complessa questione nazionale slavo-meridionale, l’identità di popoli – serbi, croati, bosniaci e montenegrini – che parlano la stessa lingua ma hanno spesso perseguito finalità politiche divergenti e in contrasto tra loro. Con le dovute differenze, soprattutto lessicali, sviluppate nel corso del tempo e all’interno di differenti contesti politico-culturali, la lingua serbo-croata si è rivelata un ottimo strumento per il conseguimento di obiettivi politici e l’affermazione dell’identità nazionale, ovvero un ottimo strumento di Nation-building.4 I diversi regimi politici della Bosnia-Erzegovina hanno tentato di imporre, con più o meno successo, determinate soluzioni politiche e relative scelte linguistiche, nella maggior parte dei casi per ridurre le tensioni tra le nazionalità slave del sud, ma spesso anche per esasperarle. Se durante il periodo ottomano non esisteva da parte della Sublime Porta un reale interesse politico per le questioni linguistiche, e lingua e scrittura si sviluppavano separatamente nelle diverse comunità confessionali cristiane e musulmana, il dominio austro-ungarico (1878-1918) è il primo a imporre una politica linguistica volta alla creazione di un’unica nazione bosniaca con la finalità di neutralizzare le influenze nazionaliste provenienti dal vicino Regno di Serbia e dagli stessi territori croati all’interno dell’Impero.5 Il disinteresse dell’Impero ottomano per le questioni linguistiche nasceva soprattutto dal fondamento nazionale. Sui musulmani di Bosnia-Erzegovina si veda: F. Friedman, The Bosnian Muslims, Denial of a Nation, Westview Press, Boulder-Oxford, 1996; G. Motta, From One Dynasty to Another: The Muslims of Bosnia from Habsburg to Karađorđević, in G. Motta, Less than nations. Central-Eastern European Minorities after WWI, vol. II, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle, 2013, pp. 153-187. 4 Lo studioso norvegese P. Kolstø definisce il concetto di Nation-building come “strategies of identity consolidation within states and distinguish it from ‘state-building’. The latter term, as we use it, pertains to the administrative, economic and military groundwork of functional states – the ‘hard’ aspects of state construction. Nation-building, in contrast, concerns only the ‘softer’ aspects of state consolidation, such as the construction of a shared identity and a sense of unity among the population”. Cfr. P. Kolstø (a cura di), Strategies of Symbolic Nation-building in South Eastern Europe, Ashgate, Farnham, 2014, p. 3. 5 In generale sulla storia della Bosnia-Erzegovina si veda N. Malcolm, Storia della Bosnia. Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 2000. Per quanto riguarda l’area slavo-meridionale nel XIX secolo si rimanda, nella vasta produzione storiografica esistente, a S. Clissold (a cura di), Storia della Jugoslavia. Gli slavi del sud dalle origini a oggi, Einaudi, Torino, 1969; A. Tamborra, L’Europa centro-orientale nei secoli XIX-XX (1800-1920), Vallardi, Milano, 1971. In merito agli aspetti linguistici in questione si rimanda a S. Mønnesland (a cura di), Jezik u Bosni i Hercegovini, Institut za jezik u Sarajevu, Institut za istočnoevropske i orijentalne studije, Oslo, 2005, e in particolare per la politica linguistica austro-ungarica in Bosnia-Erzegovina M. Šator, Bosanski/Hrvatski/Srpski jezik u BiH do 1914, Univerzitet Džemal Bijedić, Fakultet humanističkih nauka, Mostar, 2004. autocratico e metastorico della sua sovranità politica, dove non erano le nazioni, tanto meno le lingue, a legittimare il sovrano; solamente sul finire dell’epoca ottomana, l’amministrazione imperiale in Bosnia-Erzegovina cerca d’intervenire nelle questioni nazionali a causa dell’influenza esercitata dai vicini territori serbi e croati. Al tempo stesso, quando ottiene l’amministrazione della Bosnia-Erzegovina al Congresso di Berlino del 1878, l’Austria-Ungheria per sopravvivere all’epoca della nazionalizzazione delle masse è già stata costretta a rimodellarsi come monarchia dualistica e pertanto è pronta a contrastare le crescenti identità nazionali con l’introduzione di strategie adeguate comprendenti anche specifiche politiche linguistiche. Successivamente, nella “prima” Jugoslavia, quella monarchica (1918-1941), Belgrado impone con risultati discutibili un’uniformità linguistica finalizzata a rafforzare l’unità nazionale e politica del Paese: la sopravvivenza delle tensioni nazionaliste porta infatti alla prima disgregazione jugoslava, sotto i colpi delle potenze dell’Asse, e alla breve e tragica parentesi dello Stato Indipendente Croato (1941-1945), che comprendeva anche la Bosnia-Erzegovina, durante il quale il croato è proclamato lingua ufficiale e l’alfabeto cirillico, caratteristico della scrittura serba, viene proibito.6 Nella “seconda” Jugoslavia, quella socialista (1945-1991), invece, la lingua serbo-croata ritorna a essere un mezzo di unificazione nazionale: un primo momento di comune standardizzazione linguistica del serbo-croato (fino al 1965), tuttavia, lascia il passo a una progressiva separazione in varianti nazionali definitivamente condotta alle estreme conseguenze dai primi anni Novanta in poi.7 Durante il regime di Tito, infatti, il serbo-croato è la “lingua franca” dello Stato comune socialista, comprensibile anche alle altre nazionalità e minoranze jugoslave. In linea con la politica di Bratstvo i jedinstvo (“Fratellanza e unità”), diretta derivazione della propaganda partigiana jugoslava della Seconda guerra mondiale, due centri culturali e linguistici, Zagabria e Belgrado, sin dagli anni Cinquanta lavorano di comune accordo alla codificazione del serbo-croato finalizzata alla pubblicazione di un dizionario e di un’ortografia della lingua comune. L’esistenza di un’unica lingua è riaffermata dall’Accordo di Novi Sad (Novosadski dogovor)8 del 1954, che riconosce pari dignità all’alfabeto latino utilizzato dai croati e a quello cirillico utilizzato dai serbi, così come alle due pronunce dello štokavski, quella ekavski orientale (ovvero con epicentro Belgrado) e ijekavski occidentale 6 Sulla persistenza delle tensioni nazionali all’interno del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, con una serie di riferimenti anche agli aspetti linguistici, si veda I. Banac, The National Question in Yugoslavia. Origins, History, Politics, Cornell University Press, Ithaca-London, 1984. Sulle politiche linguistiche nello Stato Indipendente Croato si veda invece M. Samardžija (a cura di), Hrvatski jezik, pravopis i jezična politika u NDH, Hrvatska sveučilišna naklada, Zagreb, 2008. 7 Sulle politiche linguistiche nel periodo della Jugoslavia socialista si veda R. Bugarski, C. Hawkesworth, Language Planning in Yugoslavia, Slavica Publishers, Columbus, 1992. 8 Zaključci novosadskog sastanka o hrvatskom ili srpskom jeziku i pravopisu, in Jezik, god. 3, br. 3, veljača 1955, p. 65. 105 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 106 (con epicentro Zagabria). L’accordo stabilisce l’obbligo di usare entrambi i nomi nazionali (srpski-hrvatski) per la denominazione dell’idioma comune. Qualsiasi espressione di nazionalismo linguistico è in tal modo emarginata, anche se tensioni emergeranno già nel 1966 con la pubblicazione del controverso dizionario di lingua serbo-croata del serbo Miloš Moskovljević – immediatamente ritirato dal commercio – 9 e con la “Dichiarazione sul nome e la posizione della lingua letteraria croata” (Deklaracija o nazivu i položaju hrvatskoga književnog jezika) del 1967, prodromo della “primavera croata” del 1971, che rivendica, a nome delle più importanti istituzioni culturali e linguistiche croate, la distinzione a livello costituzionale della lingua croata da quella serba (quindi non più srpskohrvatski ma srpski e hrvatski) e il suo uso nel sistema educativo e nei media della Repubblica federale di Croazia.10 Progressivamente, dunque, il risveglio delle tensioni nazionaliste in Jugoslavia contribuisce allo sviluppo di politiche linguistiche separate per le diverse entità nazionali di lingua serbo-croata, che portano, insieme alle rivendicazioni politiche per una maggiore autonomia regionale, alla formulazione della riforma costituzionale del 1974, che prevede una nuova definizione del serbo-croato e lascia un più ampio margine di interpretazione della questione linguistica alle singole repubbliche federali e alle due regioni autonome della Serbia, quelle del Kosovo e della Vojvodina.11 In risposta all’ascesa del nazionalismo politico e culturale nello Stato jugoslavo, nel 1967 una politica linguistica specifica è inoltre adottata per la prima volta in Bosnia-Erzegovina. Due anni prima, infatti, durante il Congresso linguistico di Sarajevo (Peti kongres jugoslavenskih slavista), un primo importante conflitto tra linguisti serbi e croati era emerso in merito alla questione dell’unità linguistica, delle sue varianti e delle sue differenze, conflitto che negli anni successivi avrebbe provocato come reazione il proliferare di numerosi documenti e proclamazioni volte a tutelare il multiculturalismo bosniacoerzegovese. L’esistenza di due varianti del serbo-croato e la risoluzione della questione linguistica jugoslava secondo linee nazionali minacciava il carattere multinazionale della Repubblica della Bosnia-Erzegovina, che non aveva al suo interno zone etnicamente omogenee. Qualora si fosse sostenuta la polarizzazione linguistica in due varianti, serba e croata, i bosniaci musulmani sarebbero stati costretti a scegliere tra le due versioni – il che rappresentava un aspetto di assimilazione nazionale a livello linguistico e culturale – o a crearne una terza. Ciò rischiava di contribuire alla disintegrazione della tradizionale cultura bosniaco-erzegovese, attraverso un’istruzione separata con due o tre programmi, terminologie e libri di testo nell’ambito educativo, realtà che effettivamente si concretizzerà negli anni Novanta durante e in seguito al conflitto jugoslavo.12 Al fine di scongiurare tale ipotesi negli anni Settanta si sviluppa un’intensa attività di ricerca filologica presso l’Istituto linguistico di Sarajevo (Institut za jezik i književnost u Sarajevu), fondato nel 1973. L’Istituto diventerà il più importante centro linguistico della Bosnia-Erzegovina coinvolgendo i principali linguisti dell’intera Jugoslavia nella formulazione della politica linguistica specifica bosniaca. A tal fine, Milan Šipka, primo direttore dell’Istituto, nell’ottobre del 1973 organizzerà una conferenza a Mostar, nota come Mostarsko savjetovanje, dove interverranno più di trecento tra linguisti, insegnanti e rappresentanti delle associazioni culturali jugoslave.13 Più in generale, i progetti dell’Istituto per la lingua includeranno l’analisi del linguaggio utilizzato dai media, lo studio degli scrittori della Bosnia-Erzegovina del XIX e XX secolo, della lingua della letteratura alhamijado e della terminologia pedagogica. Oggi l’Istituto, a causa delle politiche nazionaliste che dominano le tre nazionalità costituenti l’attuale Bosnia-Erzegovina e nonostante la prolifica attività di ricerca scientifica sviluppata anche negli anni successivi alla guerra del 1992-1995, è rimasto ai margini della società e della vita accademica del Paese proprio in virtù delle sue posizioni multiculturali ereditate dell’epoca jugoslava. L’Istituto, infatti, privato del supporto statale, decurtato del proprio personale e soprattutto improntato a un programma di ricerca “a-nazionale”, non è riuscito ad adeguarsi alle nuove correnti politiche che condizionano anche le questioni linguistiche. L’Istituto non solo è stato abbandonato dai suoi collaboratori serbi e croati, ma ha visto venire meno il sostegno della stessa popolazione bošnjak. Nel nuovo contesto politico e sociale, non è stato capace di assumere il ruolo guida nell’analisi della codificazione linguistica: i suoi tentativi di mantenere divisa la scienza filologica dalle politiche nazionali sono puntualmente falliti. Per tale ragione negli ultimi anni ha intrapreso una serie d’iniziative scientifiche volte a riconquistare il terreno perduto affermando il sostanziale riconoscimento di tre standard linguistici per la BosniaErzegovina, seppure con la distinzione delle peculiari forme di lingua serba e croata del Paese da quelle propriamente parlate in Serbia e Croazia.14 9 In particolare, Rečnik srpskohrvatskog jezika di Miloš Moskovljević viene proibito per la presenza di una serie di definizioni controverse quali quelle relative ai termini četnik e partizan. Si veda T.F. Magner, Language and Nationalism in Yugoslavia, in Canadian Slavic Studies, vol. 1, n. 3, 1967, p. 340. 10 Cfr. J. Hekman (a cura di), Deklaracija o nazivu i položaju hrvatskog književnog jezika, Građa za povijest Deklaracije, Matica hrvatska, Zagreb, 1997. 11 Jezičke odredbe u ustavima od 1974. godine, Ustav Socijalističke Federativne Republike Jugoslavije, in B. Petranović, M. Zečević (a cura di), Jugoslovenski Federalizam, ideje i stvarnost. Tematska zbirka dokumenata, II, 1943-1986, Prosveta, Beograd, 1986, p. 747. 12 I numerosi documenti, articoli e proclamazioni prodotti in quel periodo in difesa del multiculturalismo bosniaco-erzegovese sono raccolti in: M. Šipka (a cura di), Mostarsko savjetovanje o književnom jeziku, Institut za jezik i književnost, Sarajevo, 1974; Id. (a cura di), Standardni jezici i nacionalni odnosi u Bosni i Hercegovini (1850-2000), dokumenti, Institut za jezik, Sarajevo, 2001. 13 Zaključci o sprovođenju književnojezičke politike u Bosni i Hercegovini, in Mostarsko savjetovanje..., pp. 197-199. 14 N. Veljevac, Standardna novoštokavština i jezička situacija u Bosni i Hercegovini, in N. Valjevac et al., Standardna novoštokavština i bosanskohercegovačka jezička situacija, Institut za jezik, Sarajevo, 2005, pp. 12-14. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA SECESSIONISMO NAZIONALE E “BALCANIZZAZIONE” LINGUISTICA Nonostante i numerosi tentativi rivolti a mantenere un approccio tollerante e di apertura nei confronti delle politiche linguistiche in Jugoslavia e nello specifico nella BosniaErzegovina, le tensioni nazionaliste che hanno portato alla violenta dissoluzione del Paese hanno inevitabilmente coinvolto anche la questione della lingua. All’inizio degli anni Novanta il consolidamento politico dei partiti nazionalisti ha portato con sé politiche linguistiche “nazionaliste” finalizzate a differenziare le varianti linguistiche serbo-croate ed elevarle a idiomi nazionali, per ottenere, usando la definizione di Joshua Fishman, il contrastive self-identification, il consolidamento dell’identità nazionale attraverso un sentimento di comunità che unisce e identifica coloro che parlano la stessa lingua, separandoli da coloro che non la parlano.15 Secessionismo nazionale e regionale hanno incluso anche le naturali tendenze a completare l’indipendenza politica con il “separatismo linguistico” (linguistic separatism), processo definito da Eric Hobsbawm “Balcanizzazione linguistica” (linguistic Balkanization).16 I linguisti “nazionali” e il testo costituzionale della BosniaErzegovina oggi considerano il serbo, il croato e il bosniaco tre lingue separate, che contribuiscono a stabilire diversi modelli educativi e formativi. Negli Stati eredi della Jugoslavia i “pianificatori” della lingua sono ricorsi a esperimenti di vera e propria ingegneria linguistica, riscoprendo a fini politici le tradizioni passate, ovvero l’usable past, per dirla con le parole di Anthony Smith relative al Nation-building.17 Il “separatismo linguistico” è oggi sostenuto dalle teorie di linguisti, intellettuali, scrittori e storici dell’area ex-jugoslava, come ad esempio Dalibor Brozović e Stjepan Babić in Croazia, Dževad Jahić e Senahid Halilović in Bosnia-Erzegovina, o Adnan Čirgić in Montenegro, che hanno avuto un ruolo fondamentale nella “lotta” per l’elevazione delle varianti nazionali a veri e propri idiomi, ponendo le basi per lo sviluppo delle politiche linguistiche “nazionaliste” delle repubbliche post-jugoslave. Le principali argomentazioni sostenute da questi linguisti sono: che ogni nazione ha diritto alla propria lingua; che le varianti del serbo-croato di oggi risultano diverse rispetto a quelle del passato; che la “lingua comune” della Jugoslavia è stata una creazione artificiale imposta e il serbo-croato, in realtà, non è mai realmente esistito.18 15 J. Fishman, Language and nationalism, New Berry House Publishers, Rowley, 1972, pp. 44-52. 16 “In the area of national and regional secessionism there is a natural tendency to complement political independence by linguistic separatism”. Cfr. E. Hobsbawm, Language, Culture and National Identity, in Social Research, vol. 63, n. 4, winter 1996, pp. 1065-1080. 17 A. Smith, The “Golden Age” and National Renewal, in G. Hosking, G. Schopflin (a cura di), Myths and Nationhood, Hurst & Co., London, 1997, pp. 36-59. 18 In generale, negli ultimi anni rari sono stati gli studi che hanno dimostrato un’analisi critica del fenomeno della “disintegrazione” del serbo-croato. Tra questi sicuramente la già menzionata pubblicazione Jezik i nacionalizam di Snježana Kordić, decisamente critica nei confronti del “purismo croato”, e il lavoro di Robert D. Greenberg Language and Iden- A sostegno delle loro argomentazioni, i linguisti “nazionali” rafforzano differenze e peculiarità delle proprie varianti, fino ad arrivare alla formulazione di nuove parole (neologismi) come avviene soprattutto in Croazia.19 Tale discrepanza tra la sociolinguistica e le politiche linguistiche nell’area ex jugoslava è il risultato della violenta disintegrazione dello Stato comune e della creazione dei nuovi Stati nazionali. In tal senso, la lingua ha avuto dunque un ruolo più simbolico che comunicativo, finalizzato al superamento del messaggio jugoslavo di Bratstvo i jedinstvo, che aveva avuto come obiettivo – anche attraverso la lingua comune – il mantenimento dell’unità dello Stato federale. Le politiche linguistiche nazionaliste degli Stati eredi della vecchia Jugoslavia, così come il lavoro alla base dell’unione linguistica jugoslava avviata dai “padri” del serbo-croato Vuk Stefanović Karadžić (1787-1864) e Ljudevit Gaj (18091872) a partire dal XIX secolo, hanno alla loro origine l’approccio “primordialista” alla questione della lingua e della nazione sviluppato durante il romanticismo tedesco della fine del XVIII secolo da Johann Gottfried Herder. Secondo Herder la lingua ha un ruolo sacro per la definizione di un’identità nazionale e, come conseguenza, fondamentale per la preservazione di quest’ultima si rivela la tutela del purismo linguistico, ovvero la pratica di definire o riconoscere una varietà linguistica come più pura e di qualità intrinsecamente superiore rispetto ad altre varianti.20 È ben noto come il protezionismo linguistico assuma spesso la forma di una purificazione della lingua dalle contaminazioni linguistiche straniere.21 È altrettanto noto come tale dinamica in Europa abbia raggiunto le sue espressioni più estreme durante i regimi totalitari, come ad esempio quelli nazista in Germania e fascista in Italia, o per quanto riguarda più specificamente il tema in oggetto, il regime ustaša dello Stato Indipendente Croato, durante il quale il purismo linguistico divenne parte integrante delle politiche di annientamento della minoranza serba rimasta all’interno dei suoi confini.22 Secondo l’approccio “primordialista”, l’esistenza delle natity in the Balkans, Serbo-Croatian and its Disintegration, Oxford University Press, New York, 2004, che offre un quadro generale della questione linguistica nella regione negli ultimi venti anni. Si vedano inoltre le pubblicazioni di D. Škiljan, Jezična politika, Naprijed, Zagreb, 1988; Id., Javni jezik, Biblioteka XX vek, Beograd, 1998; Id., Govor nacij: Jezik, nacija, Hrvati, Golden Marketing, Zagreb, 2008; e di R. Bugarski, Jezik od rata do mira, Slavograf, Beograd, 1995; Id., Lica jezika, Biblioteka XX vek, Beograd, 2002; Id., Nova lica jezika, Biblioteka XX vek, Beograd, 2002. In lingua italiana si segnalano i seguenti contributi: S. Pelussi, Voci dalle periferie dell’Europa. Lingua e identità: la moltiplicazione degli idiomi nella ex-Jugoslavia, in Cives, 2008, pp. 126-140; G. Manzelli, Dall’aggregazione alla disgregazione: frammenti di storia della lingua e della letteratura serbocroata (bosniaca, croata, monetenegrina e serba), in I. Putzu, G. Mazzon, Lingue, letterature, nazioni, Centri e periferie tra Europa e Mediterraneo, FrancoAngeli, 2012, Milano, pp. 371-420. 19 S. Mønnesland, Od zajedničkog standarda do trostandardne situacije, in S. Mønnesland (a cura di), op. cit., p. 481. 20 Su Herder si veda H. Alder, W. Koepke, A Companion to the Works of Johann Gottfried Herder, Campen House, New York, 2006. 21 Si veda in generale: T. George, Lingustic purism, Longman, LondonNew York, 1992; B.H. Jemudd, M.J. Sharipo, The politics of languge purism, Walter de Gruyer & Co., Berlin-New York, 1989. 22 Si veda S. Kordić. op.cit., pp. 10-68. 107 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 zionalità serba, croata, bosniaca e montenegrina, comporta necessariamente l’esistenza di quattro idiomi separati. La convinzione che una nazione corrisponda a una determinata area linguistica, tuttavia, ha incontrato le confutazioni di numerosi studiosi. L’area ex jugoslava e in generale i Balcani rappresentano tra l’altro un esempio appropriato di come in molte aree d’Europa, le frontiere linguistiche e i confini nazionali difficilmente corrispondano. Già nel 1882 nel suo famoso articolo Che cos’è la nazione? (Qu’est-ce qu’une nation?), Ernest Renan aveva sottolineato il pericolo e l’inconveniente di far coincidere a ogni costo lingua e nazione. Secondo Renan, le origini di una nazione andavano ricercate invece in un passato e una volontà comune, ovvero “la volontà comune di ricordare e dimenticare”.23 Come Renan, anche gli etnosimbolisti considerano passato, miti e simboli, concetti fondamentali per la formazione di una nazione. Secondo Anthony Smith, infatti, la nazione è una popolazione umana che condivide territorio, miti e memorie storiche, una massa con una comune cultura pubblica, un’economia comune e comuni diritti e doveri per i suoi membri.24 La nazione troverebbe dunque le proprie origini nell’ethnie, ovvero in forme pre-moderne di identità culturali collettive con miti, storie e culture comuni, associati a un territorio specifico e a un forte senso di solidarietà.25 I modernisti come Benedict Anderson, Ernest Gellner e Eric Hobsbawm, infine, tendono invece a sottolineare la natura artefatta delle nazioni e del nazionalismo, intesi come vere e proprie invenzioni, prodotti del modernismo con scopi politici ed economici. In tal senso le nazioni non avrebbero dunque le loro origini negli elementi culturali o sociali, ma rappresenterebbero quasi esclusivamente una forma di strategia politica.26 Se la lingua non corrisponde a una sola nazione, anche questa diventa dunque un elemento importante per definire l’identità nazionale, etnica e sociale, rappresentando uno 23 E. Renan, Qu’est-ce qu’une nation?, Presses-Pocket, Paris, 1992. 24 “A named human population sharing an historic territory, common myths and historical memories, a mass, public culture, a common economy and common legal rights and duties for all members”. Cfr. A.D. Smith, National Identity, Penguin, London, 1991, p. 14. 25 “Pre-modern forms of collective cultural identities, human populations with shared ancestry myths, histories and cultures, having an association with a specific territory and a sense of solidarity”. Cfr. A.D. Smith, The Ethnic Origins of Nations, Blackwell, Oxford, 1986, p. 32. Kolstø raccomanda cautela nell’applicazione agli Stati balcanici della distinzione occidentale fra i termini “nazione” ed “etnia”. Il significato del termine serbo-croato narod non corrisponde né a “gruppo etnico” né a “nazione”, o almeno alle definizioni che di questi concetti si hanno nella cultura occidentale. In questa, infatti, “gruppo etnico” è un concetto non-politico, che esula dall’appartenenza o meno di una popolazione a uno Stato, mentre la “nazione” è intesa come un concetto politico e prevede l’inclusione di una determinata popolazione all’interno di uno Stato. Narod, invece, nel senso tradizionale della parola, rappresenta simultaneamente un concetto culturale e politico, denotando un gruppo culturale che possiede un’identità politica legata a un determinato Stato ma non coincide esclusivamente con la popolazione di quello Stato. P. Kolstø (a cura di), op.cit..., p. 5. 26 Si vedano: B. Anderson, Imagined Communities Reflections on the Origins and Spread of Nationalism, Verso, London, 1983; E. Gellner, Nations and Nationalism, Basil Blackwell, Oxford, 1983; E. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), The Invention of Tradition, University Press, Cambridge, 1983. 108 strumento di Nation-building.27 In tal modo, la lingua trasmette soprattutto un forte senso di appartenenza a un gruppo, diventando così uno strumento per il consolidamento dell’identità nazionale. Dopo la caduta della Jugoslavia, che secondo Kølsto rappresenta insieme alla dissoluzione sovietica la terza ondata di Nation-building, dopo quelle avvenute in epoca moderna nell’Europa occidentale e la decolonizzazione in Africa e Asia nel XX secolo, i nuovi Stati post-jugoslavi hanno avuto bisogno di una nuova identità. Al contrario delle prime due “ondate”, la terza ha avuto periodi di tempo molto più breve, e metodi diretti e indiretti di consolidamento dell’identità sono stati più forti lì dove simboli e rituali hanno svolto un ruolo cruciale. In tal senso, anche le politiche linguistiche sono state mirate ad affermare le proprie specificità nazionali. Strumentale alla dimostrazione di tale presupposto, durante e dopo la guerra degli anni Novanta, nell’area ex jugoslava si è assistito al proliferare di una serie di pubblicazioni che reinterpretavano l’evoluzione storica delle singole varianti del serbo-croato – il linguista americano Ralph Fasold sottolinea che la lingua funziona come collegamento con il “glorioso passato” dei popoli –28 come ad esempio il testo di Milan Moguš del 1993 sulla storia della lingua croata o quello di Mushin Rizvić sulla lingua bosniaca.29 Secondo il linguista australiano Michael Clyne, le lingue pluricentriche unificano e dividono i popoli al tempo stesso: si unificano le persone attraverso l’uso della lingua e si separano attraverso lo sviluppo di norme nazionali, come nel caso del serbo-croato.30 LA LINGUA NELLA BOSNIA-ERZEGOVINA DEGLI ACCORDI DI DAYTON In Croazia, dove la definizione “lingua letteraria croata” era riconosciuta già dalla Costituzione jugoslava del 1974, nel 1990 la nuova costituzione decreta il croato lingua nazionale ufficiale e lo stesso avviene in Serbia per la lingua serba con la “Legge sull’uso ufficiale della lingua e della scrittura” (Zakon o službenoj upotrebi jezika i pisama). Nel 1992 la lingua serba con la pronuncia ekavski o ijekavski e l’alfabeto cirillico – salvo l’uso di quello latino in casi particolari – è inoltre proclamata lingua ufficiale nella Repubblica Federale di Jugoslava (Serbia e Montenegro). Parallelamente anche in Bosnia-Erzegovina c’è chi sostiene la necessità di riconoscere una lingua peculiare per i bosniaci musulmani. In quel periodo in Bosnia-Erzegovina la politica linguistica del 1970 era ancora in uso e le denominazioni ufficiali vigenti erano ancora srpskohrvatski e hrvatskosrpski. Nei media, e in particolar modo nel quotidiano Oslobođenje, sarebbe seguito un acceso dibattito sulla questione linguistica. Autori come 27 Cfr: Kolstø, op.cit, p. 4. 28 Cfr. R. Fasold, The Sociolinguistics of Society, Oxford, Blackwell, 1984, p. 77. 29 M. Moguš, Povijest hrvatskoga književnog jezika, Globus, Zagreb, 1993; M. Rizvić, Bosna i Bošnjaci: jezik i pismo, Preporod, Sarajevo, 1996. 30 M. Clyne, op. cit., p. 1. SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA Alija Isaković,31 Amira Idrizbegović e Senahid Halilović32 sostengono il diritto dei bosniaci musulmani ad avere una propria lingua e nel 1991 due pubblicazioni fondamentali, Jezik bosanskih muslimana di Dževad Jahić e Bosanski jezik dello stesso Halilović, che riconoscono la peculiarità della lingua dei musulmani soprattutto per la presenza di parole d’origine orientale (orijentalizmi) – ovvero prestiti linguistici dalla lingua turca e araba affermatisi durante il periodo ottomano –, vengono pubblicati.33 Il riconoscimento della lingua bosniaca, al pari di quella serba e croata, in tale contesto viene considerato un passaggio fondamentale per la conferma dell’esistenza della nazionalità bosniaco-musulmana, riconosciuta solamente negli anni Sessanta durante il periodo socialista ma seriamente minacciata nel corso della violenta dissoluzione jugoslava dei primi anni Novanta. Alla fine del 1992, dopo la dichiarazione d’indipendenza della Bosnia-Erzegovina che rigettata dai serbi sarà causa della deflagrazione della guerra, centocinque intellettuali bosniaci firmano una lettera indirizzata al governo bosniaco-erzegovese dal titolo “Per l’uguaglianza dei musulmani bosniaci nella lingua” (Za ravnopravnost Bosanskih Muslimana u jeziku) con la richiesta che nella Costituzione della Bosnia-Erzegovina sia specificato che le lingue ufficiali della Repubblica sono la bosniaca, la croata e la serba con il dialetto ijekavski.34 Nel 1993 il governo introduce un nuovo regolamento costituzionale che afferma: “Nella Repubblica della Bosnia-Erzegovina la lingua ufficiale in uso è quella standard letteraria con la pronuncia ijekavica dei suoi popoli costitutivi, chiamata con uno dei tre nomi: bosniaca, serba, croata”.35 Il regolamento emanato dal Ministero della Pubblica Istruzione sostiene che i tre nomi (lingua bosniaca, serba e croata) saranno adottati dagli insegnanti nell’ambito del sistema educativo nazionale, mentre gli studenti avranno facoltà di scegliere il termine preferito.36 L’obiettivo è quello di conservare l’immagine multiculturale e multinazionale della Bosnia-Erzegovina, preservandone l’unità e l’indipendenza. Il termine che già allora va affermandosi e riscontra un maggiore utilizzo, comunque, è “lingua bosniaca”, definizione consolidata dalla pubblicazione nel 1994 – durante la guerra – della prima grammatica della lingua bosniaca per le scuole superiori di Hanka Vajzović e Husein Zvrko.37 A questa se31 Alija Isaković è stato uno dei più noti sostenitori del riconoscimento della lingua bosniaca come idioma nazionale. Nel 1992 ha pubblicato Rječnik karakteristične leksike u bosanskom jeziku, Svjetlost, Sarajevo. 32 A. Idrizbegović, U Prilog bosanskom jeziku, in Oslobođenje, Sarajevo 23. 2. 1991; S. Halilović, Govorim i pišem bosanski, in Oslobođenje, 16. 2. 1991. 33 Si veda Dž. Jahić, Jezik bosanskih muslimana, Bibiloteka Ključanin, Sarajevo, 1991; S. Halilović, Bosanski jezik, Biblioteka Ključanin, Sarajevo, 1991. 34 Pismo Predsjedništvu BiH, Za ravnopravnost bosanskog jezika, in Oslobođenje, 13. 7. 1992. 35 Uredba sa zakonskom snagom o nazivu jezika u službenoj upotrebi u Republici Bosni i Hercegovini za vrijeme ratnog stanja, in Službeni list Republike Bosne i Hercegovine, 1. septembar 1993. 36 I bosanski, i srpski jezik, Saopćenje Ministarstva za obrazovanje, kulturu, nauku i sport RBiH, in Oslobođenje, 7. 4. 1995. 37 H. Vajzović, H. Zvrko, Gramatika Bosanskog jezika, I-IV razrad gimnazije, Ministarstvo obrazovanja i nauke, Sarajevo, 1994. guiranno altre pubblicazioni finalizzate alla codificazione e all’affermazione dell’originalità della lingua bosniaca come idioma dei musulmani di Bosnia-Erzegovina in contrapposizione a quella dei serbi e dei croati: l’ortografia Pravopis bosanskog jezika di Halilović (1996), la Gramatika bosanskog jezika di Halilović, Jahić e Palić, e ancora le pubblicazioni di Jahić Bošnjački narod i njegov jezik (1999) e Bosanski jezik u 100 pitanja i odgovora (1999).38 Nel 1998 si tiene inoltre a Bihać il “Simposio sulla lingua bosniaca” (Simpozij o bosanskom jeziku),39 cui partecipano quasi esclusivamente linguisti bosniaco-musulmani che ribadiscono esplicitamente la peculiarità della lingua bosniaca.40 Oltre a ciò, infine, un altro importante documento, la “Carta della lingua bosniaca” (Povelja o bosanskom jeziku), è firmato nel 2002 da sessanta intellettuali bosniaci musulmani per il diritto a chiamare la propria lingua “bosniaca” (bosanski), nome non riconosciuto da serbi e croati in quanto collegato al Paese comune e non alla singola nazionalità bošnjak.41 In seguito agli Accordi di Dayton che hanno posto fine al conflitto del 1992-1995, la Bosnia-Erzegovina è oggi composta di due entità amministrative, la Federazione della Bosnia-Erzegovina (51% del territorio) e la Republika Srpska (49%), cui si aggiunge il distretto autonomo di Brčko. Nella Costituzione della Federazione, entità in cui vivono prevalentemente bosniaci musulmani e croati, era inizialmente scritto (1994): “Le lingue ufficiali della Federazione sono il bosniaco e il croato. L’alfabeto ufficiale è il latino”.42 Il 38 S. Halilović, Pravopis bosanskog jezika, Preporod, Kulturno društvo Bošnjaka, Sarajevo, 1996; S. Halilović, D. Jahić, I. Palić, Gramatika bosanskog jezika, Dom štampe, Zenica, 2000; Dž. Jahić, Bošnjački narod i njegov jezik, Dom štampe, Zenica, 1999; Id., Bosanski jezik u 100 pitanja i odgovora, Ljiljan, Sarajevo, 1999. 39 Nel contributo presentato al Simposio, Jahić elenca le sedici ragioni che testimonierebbero l’esistenza di una lingua bosniaca diversa dalla serba e dalla croata: l’esistenza di un etnos che ha creato e conservato la lingua; la discendenza dei bosniaci musulmani dagli eretici medievali bogumili; l’esistenza di un regno medioevale bosniaco; l’islamizzazione avvenuta nel periodo ottomano; il nome “lingua bosniaca” risalente al medioevo; l’esistenza in passato della particolare letteratura alhamijado; la particolare scrittura bosančica; la pubblicazione del dizionario della lingua bosniaca di Muhamed Hevaija Uskufi nel 1631; le riforme linguistiche arabe; la politica linguistica di Benjamin Von Kállay durante il periodo austro-ungarico; la ricca tradizione orale bosniaca; la letteratura dei bosniaci musulmani del XIX secolo; e infine il diritto di ogni nazione ad avere la propria lingua. Cfr. Dž. Jahić, Lingvistički i kulturno-historijski izvori bosanskog jezika, in I. Čedić (a cura di), Simpozij o bosanskom jeziku, zbornik radova, Institut za jezik i književnost, Sarajevo, 1997, pp. 28-29. 40 Il linguista americano Curtis Ford ha analizzato il congresso nel contesto di First Congress Phenomenon e Status planning. Si veda C. Ford, Language Planning in Bosnia and Herzegovina, the 1998 Bihać Syposium, in The Slavic and East European Journal, vol. 46, no. 2, summer 2002, pp. 349-361. La sociolinguistica moderna attribuisce un importante significato ai primi congressi per la codificazione delle lingue nazionali. Fishman lo definisce il “fenomeno del primo congresso”: “early efforts at both corpus planning and status planning, i.e., efforts to purify, enrich and/or standardize the language itself, on the one hand, and efforts to protect, foster, and require the language, on the other hand”. Cfr. J.A. Fishman (a cura di), The Earliest Stage of Language Planning, The “First Congress” Phenomenon, Mouton du Gruyter, Berlin, 1993, p. 2. 41 Povelja o bosanskom jeziku, http://bichamilton.com/web/wpcontent/ themes/calvary/docs/Povelja%20o%20Bosanskom%20jeziku.pdf 42 Odluka o proglašenju Federacije Bosne i Hercegovina, Službene novine Federacije Bosne i Hercegovina, 21 juli/srpanj 1994. 109 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 tribunale costitutivo (ustavni sud) ha tuttavia dichiarato l’affermazione non del tutto corretta e in disaccordo con i principi espressi nella carta costituzionale; per tale motivo la definizione è stata modificata in: “Le lingue ufficiali della Federazione della Bosnia-Erzegovina sono la lingua bosniaca, la lingua croata e la lingua serba. Gli alfabeti ufficiali sono il latino e il cirillico”.43 Sull’altro versante, nella Republika Srpska, l’entità dove vivono prevalentemente i serbi di Bosnia-Erzegovina, la lingua serba è stata introdotta come ufficiale nel 1992. La Costituzione dell’entità serba inizialmente recitava: “Nella Repubblica la lingua serba con pronuncia ijekavica e ekavica e l’alfabeto cirillico è quella d’uso ufficiale, mentre l’alfabeto latino potrà essere utilizzato solo nel modo determinato dalla legge”. Nella prime tre classi scolastiche sarebbero stati insegnati entrambi gli alfabeti, mentre per il diploma e altra documentazione doveva essere utilizzato il cirillico. Tuttavia, poiché anche tale definizione e prassi non erano in linea con l’Accordo di Dayton, anche queste sono state rapidamente cambiate. Oggi sulla Costituzione della Republika Srpska è scritto che le lingue ufficiali sono quelle dei serbi, dei bošnjaci e dei croati. Gli alfabeti ufficiali sono il cirillico e il latino. In questo modo, ovvero usando un riferimento ai tre popoli costituenti e non alle loro lingue, è stato evitato di usare il termine “lingua bosniaca”, non riconosciuto dai serbi.44 Già durante la guerra, il governo serbo di Pale aveva compiuto dei tentativi di proclamare l’ekavica pronuncia ufficiale della Republika Srpska, nonostante questa fosse del tutto estranea ai serbi della Bosnia-Erzegovina. Il tentativo era stato sostenuto da linguisti quali Branislav Brborić e Pavle Ivić e dal ministro della Cultura Đoko Stojičić, che aveva sostenuto ci si trovasse dinanzi all’ultima opportunità di unificare definitivamente il popolo serbo attraverso l’omologazione linguistica. La proposta, comunque, aveva anche incontrato il disappunto di tanti altri linguisti serbi, come nel caso del belgradese Ranko Bugarski, che l’aveva considerata un vero e proprio tentativo di “pulizia etnica linguistica”, assurda dal punto di vista linguistico e politicamente pericolosa.45 Il governo della Republika Srpska aveva poi continuato su tale linea anche dopo la guerra, quando nel 1996 con la “Legge sull’uso ufficiale della lingua e della scrittura” (Zakon o službenoj upotrebi jezika i pisma), aveva stabilito che nelle scuole primarie gli insegnanti dovessero utilizzare la pronuncia ekavica, mentre gli insegnanti e gli studenti nelle scuole superiori e nelle università potevano usare anche la ijekavica. La pronuncia ekavica era proclamata obbligatoria anche nei media, nelle pubblicazioni e per gli organi governativi, insieme all’uso del cirillico. Venivano stabilite multe dai duemila ai diecimila dinari per chi avesse infranto la legge, che tuttavia era presto proclamata incostituzionale in seguito a un’azione legale intrapresa dall’associazione degli 43 Ustav Federacije Bosne i Hercegovine, http://skupstinabd.ba/ustavi/f/ ustav_federacije_bosne_i_hercegovine.pdf 44 Ustav Republike Srpske, http://www.narodnaskupstinars.net/upload/ documents/lat/ustav_republike_srpske.pdf. 45 S. Mønessland, op.cit., pp. 490-491. 110 insegnanti della Republika Srpska.46 Per i croati della Bosnia-Erzegovina, infine, la politica linguistica è strettamente collegata a quella vigente nella vicina Croazia, dove negli anni Novanta è tornato in auge un purismo linguistico estremista che Snježena Kordić collega direttamente alle politiche linguistiche adottate durante la Seconda guerra mondiale nello Stato Indipendente Croato e più in generale tipica dei regimi totalitari quali sono stati quelli nazista e fascista. Al tempo stesso, vi sono intellettuali croati come Ivan Lovrenović e Mile Stojić che rifiutano l’adozione della variante di Zagabria in quanto tradizionalmente estranea alla popolazione croata della Bosnia-Erzegovina. 47 L’esistenza di tre varianti linguistiche mutualmente intellegibili ora elevate alla dignità di veri e propri idiomi crea non pochi problemi nell’ambito educativo e pedagogico. L’affermazione di politiche linguistiche di natura nazionalista ha visto un progressivo allontanamento delle diverse varianti del serbo-croato dal punto di vista lessicale e fonologico che avrà come conseguenza l’impossibilità per le future generazioni serbe, croate, bosniache o montenegrine di comunicare e comprendersi reciprocamente, cosa che ancora oggi avviene con grande facilità essendo ancora le loro lingue quasi del tutto identiche. Nell’area ex jugoslava come in Bosnia-Erzegovina non esistevano i presupposti sociolinguistici per la proclamazione di lingue standard separate dal comune serbo-croato. Tale situazione rappresenta anche un problema economico, se si considera che nelle istituzioni bosniaco-erzegovesi tutti i documenti devono essere “tradotti” in tre lingue, nonostante non si vada oltre alcune minime differenze di carattere lessicale. Per aggirare le controversie relative al nome della lingua comune, oggi, dopo la dissoluzione della Jugoslavia, nell’area ex jugoslava ci si riferisce ad essa – soprattutto negli ambienti multiculturali che rifiutano le logiche nazionaliste – con il termine naš jezik, “la nostra lingua”. 46 Zakon o službenoj upotrebi jezika i pisma, in Službeni glasnik Republike Srpske, 8.6.1996. 47 Sulla kroatizacija (“croatizzazione”) della lingua in Bosnia-Erzegovina si veda H. Vajzović, Jezik i politika: Kroatizacija jezika na prostoru Bosne i Hercegovine – agresija ili ustavno pravo?, in B. Tošović, A. Wonisch (a cura di), Bošnjački pogledi na odnose između bosanskog, hrvatskog i srpskog jezika, Institut für Slawistik der Karl-Franzens-Universität Graz-Institut za jezik, 2009, pp. 143-156.