ISSN 2283-5873
Scienze e Ricerche
SR
MENSILE - SUPPLEMENTO 1 AL N. 7 - MAGGIO 2015
STORIA. 1
Storia. 1
5
10
36
CONTRIBUTI E INTERVENTI
ROBERTO SCIARRONE
Reportage e giornalismo italiano nel corso della Grande Guerra
ROBERTO SCIARRONE
Lo scoppio della Grande Guerra attreverso “La Voce” di Prezzolini STEFANO OSSICINI
Marie Curie, Hertha Ayrton e le altre. Donne e scienziate
pag. 5
pag. 10
pag. 19
AGNESE VISCONTI
Da Londra 1851 a Milano 2015. Riflessioni sulle grandi esposizioni
universali
CHIARA D’AURIA
La donna cinese nel Nuovo Millennio
GAETANO OLIVA
Il ruolo dei militari nella crisi di un regime. Cile 1970-1973
pag. 31
pag. 36
pag. 44
LUCIANA PETRACCA
95
44
Il “monachus miles”. La legittimità della guerra nell’ideologia degli
ordini religioso-militari: il caso dei Templari
ROSSANO PAZZAGLI
Gli alberi lungo le strade. Una questione storica e ambientale
pag. 78
pag. 84
COMUNICAZIONI
Al via l’edizione 2015 del Premio Nazionale di Divulgazione
Scientifica bandito dall’Associazione Italiana del Libro pag. 92
RICERCHE
CHIARA D’AURIA
La spedizione di Sapri nelle carte dell’Archivio Segreto Vaticano
pag. 95
ANIDA SOKOL
Lingua e identità nazionale in Bosnia-Erzegovina. Dal
multiculturalismo all’esclusivismo linguistico
pag. 104
supplemento 1 al n. 7, maggio 2015
3
SUPPL. 1 - N. 7 - MAGGIO 2015
ISSN 2283-5873
Scienze e Ricerche
suppl. 2 - n. 7, maggio 2015
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Festi, Maurizio Giuliani, Caterina La Porta, Alessandra Mazzeo, Antonio
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Vergura
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SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Reportage e giornalismo italiano nel
corso della Grande Guerra
ROBERTO SCIARRONE
Assegnista di ricerca, Dipartimento di Storia Culture Religioni, Sapienza Università di Roma
D
opo William H. Russel, reporter irlandese del Times di Londra
e Ferdinando Petruccelli della
Gattina, anticipatore del reportage all’americana e corrispondente per La Presse - definito da Indro Montanelli il
«più brillante giornalista italiano dell’Ottocento» - il
XX secolo vede protagonisti Luigi Barzini e Arnaldo
Fraccaroli, entrambi inviati di guerra per il Corriere
della Sera. Proprio dei due corrispondenti si occupa
questo studio che cerca di tracciare il percorso professionale, lo stile e l’accuratezza descrittiva dei più importanti reporter italiani in quella terribile occasione.
Barzini, già testimone di alcuni conflitti dal 1899 per il
giornale di via Solferino - e che proseguirà a raccontare le
guerre sino al 1921 - è dotato di una grande capacità lavorativa che gli consente di scrivere di notte, dopo un’intera
giornata trascorsa al fronte, i suoi articoli. I reportage, ricchi di particolari e ammantati da un aurea descrittiva senza
paragoni, ne fanno un giornalista d’eccezione, il cui valore
viene confermato dalle principali potenze europee dell’epoca attraverso riconoscimenti e titoli onorifici.
Nel corso della guerra Barzini pubblica diversi saggi e
memoriali fra i quali Scene della grande guerra (1915), Al
Fronte (1915) e La guerra d’Italia. Dal Trentino al Carso
(1917).
L’intenzione di questo contributo è quella di fornire, attraverso i racconti di Barzini e Fraccaroli, l’intensità dell’impegno dei giornalisti italiani presenti, riconosciuto tra i più
puntuali e brillanti.
Luigi Barzini è considerato il più grande inviato di guerra
italiano, uno dei pochi la cui fama superò i confini nazionali,
“Nuovo articolo di Barzini!” era l’urlo con cui gli strilloni del
Corriere della Sera richiamavano l’attenzione nella Milano
dei primi anni del Novecento. La sua copertura della guerra
russo-giapponese (1904-1905) suscitò ammirazione in tutto
il mondo, fu il primo ad arrivare nelle terre dove si svolse
il conflitto e
l’unico a seguirlo fino
alla fine.1 Ad una prima lettura i suoi articoli potrebbero apparire simili a quelli di William Russel,
ma un esame più approfondito dimostra differenze profonde.
Il giornalismo era entrato in una nuova era, mentre il Times
di Russel apparteneva ancora all’orizzonte culturale del giornalismo ottocentesco, il Corriere della Sera di Barzini era
ormai proiettato nel nuovo secolo, nel pieno dispiegarsi della
rivoluzione industriale e il diffondersi di innovazioni tecnologiche cruciali nel settore editoriale. La più importante era
la rotativa, nuova macchina a stampa che aveva centuplicato
le tirature giornaliere dei quotidiani, l’uso di una carta più
economica e la composizione a caldo tramite la Linotype favorì la stampa di massa e giornali a basso prezzo rivolti a un
vasto pubblico appartenente non più all’élite, ma alle classi
1 A. Biagini, La guerra russo-giapponese, Nuova Cultura, Roma, 2011,
pp. 7-27.
5
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
medie, medio-basse e anche popolari. Tale fenomeno si inseriva nella più ampia e graduale trasformazione delle strutture
sociali, economiche, culturali e politiche dei paesi occidentali, distinti dalla diffusione dell’istruzione elementare, dalla
crescita di istituzioni più democratiche e da nuove dinamiche politiche. Con l’inizio delle pubblicazioni del Daily Mail
(1896) in Gran Bretagna era comparsa una stampa apertamente “popular” che si differenziava dalla stampa “di qualità” rappresentata dal Times e dal Guardian. L’ascesa della
“popular press”, detta anche tabloid, caratterizzò soprattutto
la Gran Bretagna, ma in tutta Europa e negli Stati Uniti il periodo tra il 1870 e il 1914 vide la nascita della stampa di massa. A inizio Novecento il Daily Mail raggiungeva il milione
di copie, a Parigi i quattro quotidiani più venduti superavano
i quattro milioni di stampe giornaliere. Negli Stati Uniti si
ebbe l’ascesa della “yellow press”, guidata dai quotidiani
sensazionalistici di Joseph Pulitzer e William Randolph Hearst, in Italia nel 1913 il Corriere della Sera giunse a oltre
350mila copie. In questo periodo i giornali raggiunsero i
massimi livelli di diffusione e monopolizzarono la formazione dell’opinione pubblica, un ruolo importante, in questo
senso, fu interpretato dalle tecnologie della comunicazione
e dalle ripercussioni che le loro trasformazioni ebbero sulle
modalità di raccolta e distribuzione delle informazioni. La
diffusione delle ferrovie e della navigazione a vapore facilitò l’accesso ad aree prima difficili da raggiungere e ridusse
i tempi di viaggio. L’innovazione più importante fu quella
del telegrafo che introdusse la possibilità di trasmettere una
notizia in tempi brevi, ciò provocò l’esigenza di velocizzare
il lavoro del reporter. È in questo periodo che nacque la frenesia dello scoop, che assicurava un’immediata impennata
alle vendite del giornale, la nota regola delle “cinque W” –
le cinque domande a cui si deve rispondere già nel primo
paragrafo di ogni servizio: What, Where, When, Who, Why
– e l’affermazione delle agenzie di stampa. Nel 1848 cinque
quotidiani newyorchesi fondarono la Associated Press proprio per condividere le spese telegrafiche, successivamente
nacquero l’inglese Reuters, la tedesca Wolff e la francese
Havas. I nuovi giornali di massa erano imprese solide con
enormi giri d’affari e in tutte le metropoli occidentali, da
Fleet Street a Londra a Via Solferino a Milano, nuovi palazzi vennero costruiti per ospitarle. Si legittimò il principio
dell’obiettività, dell’imparzialità, della separazione tra fatti
e opinioni, in realtà la forte competizione per l’interesse del
pubblico stimolò anche il “sensazionalismo”, forzando sovente le notizie per attirare l’attenzione del lettore. Nell’età
dell’oro dei quotidiani il giornalismo di guerra ebbe una posizione di primo piano, la figura principe era quella dell’inviato speciale che rischiava la vita per testimoniare combattimenti e operazioni militari. Furono numerosi gli inviati di
guerra che affrontarono gravi pericoli e disagi per produrre
brillanti corrispondenze su conflitti sparsi nel mondo. Del resto in occasione dei conflitti le tirature aumentavano, in particolar modo se il giornale poteva offrire ai lettori resoconti
“esclusivi” dei propri corrispondenti. Il giornalismo di guerra
conobbe l’apice della sua importanza proprio nel trentennio
6
a cavallo del Novecento, momento
in cui la carriera di Luigi Barzini
vedeva la consacrazione internazionale. La guerra era ormai cambiata
rispetto all’epoca napoleonica, e
anche rispetto ai tempi della guerra
di Crimea, la rivoluzione industriale
aveva assorbito il mondo militare.
Ferrovie, navi a vapore e telegrafo rendevano possibile trasportare
truppe molto più numerose, su distanze molto più lunghe e in tempi
molto più brevi. Le armi divennero
distruttive e micidiali, attorno alla
metà del secolo, a partire dai modelli messi a punto dal francese Minié,
si diffuse il fucile a canna rigata a
retrocarica e con proiettile ogivale.
Un’arma di cui tutti gli eserciti occidentali si dotarono in pochi anni,
che poteva sparare con precisione e
uccidere a diverse centinaia di metri
di distanza.
Luigi Barzini nacque a Orvieto
nel 1874, poco più che ventenne
iniziò a collaborare con il giornale
satirico Fanfulla di Roma e qui lo
conobbe Luigi Albertini il direttore
che stava trasformando il Corriere
delle Sera in un quotidiano di levatura europea. Albertini rimase
esterrefatto dalle doti di quel giovane e, nonostante l’inesperienza, lo
assunse inviandolo prima a Londra
e poco dopo in Cina per seguire la
repressione dei “Boxer”. Barzini
si dimostrò subito un grandissimo
cronista, dotato di senso della notizia, energia, tenacia, uno stile di scrittura asciutto e incisivo,
lontano dalla retorica che dominava il giornalismo italiano.
Le corrispondenze da Pechino sull’intervento dei contingenti
internazionali che schiacciarono i Boxer ebbero grande successo. Il giovane inviato rivelò una eccezionale capacità di
racconto, unita a serietà e rigore nella raccolta e verifica delle
informazioni. Diventato una delle firme più conosciute del
Corriere della Sera, Barzini contribuì al sorpasso del quotidiano concorrente Il Secolo.
Ma l’impresa giornalistica che lo rese famoso a livello internazionale arrivò nel 1904 allorché, in maniera del tutto
fortuita, si trovò a seguire alcune manovre militari in Italia, a
cui partecipava come osservatore un alto ufficiale dell’esercito giapponese. Anche se questi non gli fornì alcuna informazione diretta, alcuni discorsi bellicosi nei confronti della
Russia persuasero Barzini che la crescente tensione tra Tokyo e Mosca stava per toccare l’apice. Il giornalista italiano
partì quindi per la remota regione all’estremo est del territo-
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Una pagina del Calendario Storico dei Carabinieri, 2013
rio russo (Manchuria, Yellow Sea, Korean Peninsula), dove
i due imperi si sarebbero potuti scontrare. Con un viaggio
lungo e avventuroso vi giunse prima di qualsiasi altro reporter, seguendo le operazioni militari dalla parte giapponese.
Le capacità del grande inviato possono quindi essere riassunte dall’esperienza di Barzini in quegli anni: resistenza fisica
per sopportare condizioni di vita e fatiche a volte durissime,
determinazione e lungimiranza per venire a conoscenza dei
luoghi in cui si svolgono gli eventi salienti e riuscire a raggiungerli, coraggio per esserne testimone fino in fondo. Il
più noto reporter italiano dell’epoca le possedeva tutte. Con
ostinata determinazione rimase per mesi nella zona dei combattimenti, muovendosi su tutto il fronte a piedi, a cavallo e
con mezzi di fortuna, resistendo a condizioni ambientali terribili (gelo, tormente, disagi, mancanza di cibo), intervistando soldati e ufficiali, esaminando ogni cosa in prima persona,
esponendosi durante gli scontri a fuoco, sfuggendo a ripetuti
tentativi di limitare la sua testimonianza giornalistica. Finì
con l’essere il reporter che di quel grande conflitto traman-
dò il resoconto più completo, organico e brillante. Le sue
corrispondenze, lette e ammirate in tutto il mondo, vennero
raccolte in un volume così ricco di informazioni, commenti,
cartine e fotografie, da lui disegnate e scattate, da diventare
testo di studio nelle accademie militari.
Barzini possedeva una caratteristica innata di comprendere il significato storico degli eventi di cui era testimone e il
loro spessore epocale, forte di questa esperienza affrontò il
conflitto più imponente e sanguinoso della storia: la Prima
guerra mondiale. “Questa non è guerra”, esclamò terrorizzato un generale inglese di fronte ai massacri della gigantesca battaglia di Verdun (France, 21 february – 20 december
1916). La prima guerra mondiale superò e stravolse qualsiasi
idea di guerra esistita fino a quel momento, Eric Hobsbawm
lo ha preso come punto di inizio del “The Short Twentieth
Century” del Novecento2 e dell’età contemporanea, per quat2 E. Hobsbawm , The Age of Extremes: The Short Twentieth Century,
1914–1991, Michael Joseph, London, 1994, pp. 32-47.
7
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
tro anni (1914-1918) la guerra coinvolse tutti i paesi europei, dalla Francia all’Impero asburgico, dall’Italia alla Gran
Bretagna, dal Reich tedesco alla Russia e dal 1917 anche gli
Stati Uniti, su fronti di migliaia di chilometri e sulle trincee.
Complessivamente vi parteciparono circa 65 milioni di soldati, i morti furono 15 milioni e i feriti 21 milioni. La guerra
costrinse le nazioni partecipanti a mobilitare intere generazioni di cittadini per riempire i ranghi degli eserciti di massa
attraverso la coscrizione obbligatoria. Di fronte a questo terribile evento il giornalismo diede prova assolutamente deludente, gli storici infatti sono concordi nel condividere il duro
giudizio espresso nel 1928 da Arthur Ponsonby: “When war
is declared, Truth is the first casualty.”.3 Le cause di questa
débâcle furono diverse, ma una spicca su ogni altra: tutti i paesi, per la prima volta, crearono strutture capillari ed efficienti per controllare e manipolare i mezzi di informazione, cercando di “addomesticare” i resoconti giornalistici e produrre
una poderosa ondata di propaganda patriottico-bellicistica
che alimentasse la volontà di combattere delle popolazioni.
L’evoluzione degli stati nazionali e il loro sviluppo in senso
democratico (suffragio) si era tradotta in quello che Georg
Mosse ha definito la “nazionalizzazione delle masse”.4 Le
sorti dei governi dipendevano molto di più che in passato
dal voto dei cittadini e dal favore dell’opinione pubblica; la
coscrizione obbligatoria trascinava direttamente nell’esperienza bellica milioni di cittadini. In tutti i paesi vi era una
stampa a grande diffusione capace d’influenzare l’opinione
pubblica e un problema tipico delle società democratiche era
quello di giustificare la guerra, di spiegare ai cittadini il motivo per cui essi avrebbero dovuto sopportare sacrifici così
gravi. Emblematico è l’esempio dell’Italia, dove tra il 1914
e il 1915 si sviluppò un intenso dibattito sull’intervento del
conflitto già in corso, gli storici affermano che la popolazione del paese fosse in maggioranza favorevole alla neutralità, il governo, comunque, finì con l’allearsi con la Francia e
Gran Bretagna ed entrare nel più sanguinoso conflitto della
sua storia che costò circa 600mila morti. Questo orientamento fu dovuto, in parte, all’atteggiamento della stampa, il
Corriere della Sera ad esempio amplificò le manifestazioni
degli interventisti, contribuendo a creare la sensazione che
esse rappresentassero i sentimenti della maggior parte della
popolazione. Questa linea, a prescindere dalla straordinaria testimonianza di reporter alla Barzini, rispecchiava gli
interessi della borghesia industriale di cui la testata era l’espressione. Un caso ancora più evidente fu quello del Popolo
d’Italia, il nuovo giornale fondato da Benito Mussolini che
aveva diretto in precedenza il giornale del Partito Socialista
l’Avanti!. Il Popolo d’Italia nacque con l’intenzione di perorare l’intervento italiano nella guerra, a finanziarlo infatti
furono alcuni gruppi di industriali italiani che fiutarono affari
3 A. Ponsonby, Falsehood in Wartime: Containing an Assortment of Lies
Circulated Throughout the Nations During the Great War, George Allen
& Unwin, London, 1928, p. 7.
4 G.L. Mosse, The Nationalization of the Masses: Political Symbolism
and Mass Movements in Germany from the Napoleonic Wars through the
Third Reich, Howard Fertig, New York, 2001, p. 25.
8
economici ed esponenti del governo francese che da tempo
si adoperavano perché l’Italia scendesse in campo contro
Austria e Germania. Dopo lo scoppio delle ostilità i giornali
italiani stabilirono una linea “patriottica” e di sostegno allo
sforzo bellico, ma fu determinante la censura e la propaganda
prodotta dalle autorità civili e militari, già il 23 maggio 1915,
poche ore prima dell’entrata in guerra, un decreto vietò ai
giornali di diffondere notizie che andassero al di là dei comunicati ufficiali su materie quali l’andamento delle operazioni
militari, le nomine di comando, il numero di morti e feriti. Il
giorno dopo venne attivato un Ufficio Stampa del Comando
militare supremo, con sezioni distaccate in diverse città. Con
poche eccezioni l’accesso ai cronisti al fronte venne vietato e
in tutti i paesi si costituirono apparati di censura e propaganda. Uno dei più organizzati fu allestito dalla Gran Bretagna
che istituì presso il governo un Press Bureau, poi un War
Propaganda Bureau e quindi il Ministry of Information, cui
vennero chiamati a collaborare alcuni dei maggiori scrittori
dell’epoca come Rudyard Kipling, Herbert G. Wells e Arthur
Conan Doyle. I giornali si riempirono di racconti delle atrocities compiute dalle truppe del Reich che avevano invaso
il Belgio. Quasi tutte queste notizie erano in realtà forzate,
distorte e alle volte inventate, tra i casi più clamorosi ci fu
la storia – falsa - dei soldati tedeschi che mozzavano le mani
ai bambini belgi. In Francia i cronisti che si avventuravano
tra le linee venivano arrestati – accadde anche a Barzini – e
quando il quotidiano Homme Libre di Georges Clemenceau
osò denunciare l’inefficienza del servizio sanitario militare le
autorità di Parigi ne bloccarono subito le pubblicazioni. In un
primo momento anche i generali inglesi impedirono l’accesso ai giornalisti alle zone di combattimento, questa politica
fu poi modificata – in parte – perché i tedeschi offrivano ai
reporter stranieri un’ospitalità generosa. Un’eccezione parziale fu offerta solo dalla stampa statunitense anche se non
mancarono alcuni esempi di giornalismo brillante e a tratti
straordinario come le opere di Barzini lo testimoniano, pubblicazioni come Scene della grande guerra (1915), Al Fronte
(1915) e La guerra d’Italia, Dal Trentino al Carso (1917)
rimangono tra i racconti più fulgidi della Grande Guerra.
“Morale altissimo” – dicono i bollettini ufficiali. Lo Stato Maggiore,
laconico e pacato, non dedica che una parola all’anima dell’esercito.
Il Paese deve averne avuto un’impressione di baldanza. Ma nulla può
conferire il senso della realtà quale si è rivelata a noi, subitamente, già
nel primo giorno della guerra nel quale sentimmo passare sulle nostre
schiere un magico soffio di esultanza, la folata di vento d’un colpo di
ala immane, invisibile, favolosa. […] E’ per la strada maestra che questa volta mi avvicino alla guerra. Nelle regioni della frontiera la ferrovia, tutta intenta a trasportare soldati e munizioni, lascia i viaggiatori
sui binari morti. La vera, la grande arteria della guerra è la ferrovia.5
Barzini, nei suoi resoconti, descrive il continuo passaggio
dei treni e le truppe, ferme in stazione, che aspettavano l’ora
della partenza, durante lunghe soste al sole. Si combatteva
5 Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea (BSMC, Roma), L.
Barzini, Al Fronte (maggio-ottobre 1915), Fratelli Treves Editori, Milano,
1915, pp. 24-54.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
per la conquista di picchi sassosi, sui quali non si potevano
scavare trincee. La parola Carso, per lui, significava roccia.
La montagna con le sue stratificazioni calcaree, con le sue
vallette verdi, con i suoi crepacci ricordava un po’ la montagna di Derna. La natura offriva alla difesa delle formidabili
posizioni naturali, complete e fortificate. Il nemico si nascondeva dietro queste formazioni naturali. Se l’opinione pubblica austriaca si mostrò sorpresa dall’entrata in guerra dell’Italia, sul campo di battaglia tutto fa pensare che in realtà essa
avesse già organizzato una strategia da tempo preparata.
Dalle parole di Lugi Barzini, tratte dai suoi resoconti pubblicati nel 1915, emergono lo stile unico e la cura dei dettagli
che il reporter italiano amava regalare ai propri lettori. Egli
non si soffermava solamente alla cronaca dei fatti ma, con
grande acutezza, interpretava le azioni dei contendenti alla
luce degli eventi di politica estera, come nel caso dell’Austria. Inoltre, la grande capacità descrittiva della natura e del
territorio, in cui si trovarono i soldati italiani, catapultavano
il lettore sul teatro di guerra, eccitando l’immaginazione di
milioni di lettori.
Ma al di là di questi articoli di grande pregio, nel complesso i resoconti giornalistici sulle operazioni militari della Prima guerra mondiale risultarono reticenti e fuorvianti, lo stile
spesso era fortemente retorico, gli articoli generici e poco
documentati. I contenuti finivano così col ridursi alle scarne
notizie fornite dai comunicati ufficiali, alternate a descrizioni
generiche o a racconti di episodi astratti.
La battaglia vastissima procede con titanica potenza. Non è una battaglia d’impeto, con pronti risultati brillanti e limitati: è una battaglia
colossale, di costanza, di saldezza, di ostinazione, di tenacia. […] Le
speranze più radiose illuminano gli occhi del gigante che la scrolla.6
Pur considerando importante l’opera di un altro protagonista del giornalismo di guerra italiano, Arnaldo Fraccaroli,
non si può non ravvisare l’influsso dell’estetica nazionalistafuturista nei suoi resoconti. La guerra, infatti, giungeva ad
essere rappresentata come una successione di eventi quasi
fantasmagorici, onirici, descritti con uno stile quasi espressionistico. E come spesso accade nel giornalismo spesso si
omettevano fatti importanti, come ad esempio la vita nelle
trincee, le carneficine, la sofferenza fisica dovuta al freddo,
alla fame, ai parassiti, alla pioggia e al fango. Non solo. Fu
passato sotto silenzio l’uso generalizzato dei gas, nuovo strumento di morte, poco fu detto degli errori degli ufficiali, della
logistica e della sanità militare, nulla sui favoritismi e le ingiustizie che si consumarono all’interno delle forze armate
in materia di rifornimenti, distribuzione dei compiti e licenze. La tragica disfatta di Caporetto (Kobarid – Slovenia) del
novembre 1917, sul fronte italiano, fu riportata dai giornali
della penisola in modo generico, frammentato e dilatato. I
giornali nascosero anche le manifestazioni di dissenso che
si moltiplicarono sia tra le truppe sia tra la popolazione civile, i numerosi casi di diserzione e insubordinazione, con
le conseguenti repressioni sanguinose; i non rari episodi di
fraternizzazione con il nemico – ad esempio tra i soldati in
trincea – e gli scioperi e le proteste che scoppiarono in molte
città contro le dure condizioni di vita imposte dalla guerra.
Specialmente tra le truppe al fronte si sviluppò la diffusione
di “false notizie” e, parallelamente, la comparsa dei “giornali
di trincea”, fogli pubblicati per iniziativa delle autorità militari che dovevano servire a tenere alto il morale delle truppe
come La Tradotta, La Ghirba, La Trincea e Il Piave. Questi
giornali furono un interessante esempio di “para-giornalismo
popolare”, scritto con linguaggio elementare, ricco di illustrazioni, cui collaborarono i migliori artisti italiani dell’epoca. La propaganda fu il fenomeno nuovo più evidente della Prima guerra mondiale, i mezzi di comunicazione erano
ormai rivolti a grandi masse di cittadini, chiamati in prima
persona a partecipare al conflitto, e divennero quindi una
nuova arma a disposizione degli Stati Maggiori. Non a caso
il giornalista Walter Lipmann scrisse dopo la fine del conflitto il suo celebre saggio Public Opinion (1922), prendendo
spunto dalle manipolazioni delle verità cui egli stesso aveva
assistito lavorando presso il Committee on public Information. Il suo testo offrì un analisi estesa del rapporto tra potere
politico, mass media e opinione pubblica. La conclusione di
Lippmann era pessimista poiché credeva che indeformabili
limiti di tempo, di energie psicologiche e di cultura portavano le persone comuni a ragionare per stereotipi semplificati,
e la massa non era quindi consapevole della verità.
BIBLIOGRAFIA
L. Barzini, Al Fronte (maggio-ottobre 1915), Milano,
1915;
L. Barzini, Scene della grande guerra, Milano, 1915;
L. Barzini, La guerra d’Italia. Sui monti, nel cielo e nel
mare, Milano, 1916;
L. Barzini, La guerra d’Italia. Dal Trentino al Carso, Milano, 1917;
A. Ponsonby, Falsehood in Wartime: Containing an Assortment of Lies Circulated Throughout the Nations During
the Great War, London, 1928;
E. Hobsbawm, The Age of Extremes: The Short Twentieth
Century, 1914–1991, Michael Joseph, London, 1994;
D. Corucci, Luigi Barzini. Un inviato speciale, Perugia,
1994;
G.L. Mosse, The Nationalization of the Masses: Political
Symbolism and Mass Movements in Germany from the Napoleonic Wars through the Third Reich, New York, 2001;
E. Magrì, Luigi Barzini. Una vita da inviato, Firenze,
2008;
O. Bergamini, Specchi di Guerra. Giornalismo e conflitti
armati da Napoleone ad oggi, Bari-Roma, 2009;
A. Biagini, La guerra russo-giapponese, Roma, 2011.
6 Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (BNCR), Arnaldo Fraccaroli,
Corriere della Sera, 23 agosto 1917.
9
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
Lo scoppio della Grande Guerra
attraverso “La Voce” di Prezzolini
ROBERTO SCIARRONE
Dipartimento di Storia, Culture, Religioni, Università degli Studi di Roma La Sapienza
L
a guerra del 1914-18 fu la prima guerra ghilterra furono vicine allo scontro a Fascioda, in Sudan
“mondiale” e di “massa” nella storia dell’u- (1898), mentre la stessa Repubblica francese e l’Italia svilupmanità, per la prima volta coinvolse una po- parono aspre tensioni in conseguenza dell’occupazione frantenza non europea, gli Stati Uniti
d’America, che nel 1917 col suo intervento decisero il conflitto a vantaggio dell’Intesa,
riducendone successivamente l’autonomia dei Paesi
europei, mutandone gli equilibri continentali sedimentati nel corso del “Lungo XIX secolo”.1 Dilagarono su ogni fronte e in ogni esercito gli ammutinamenti, le diserzioni e ogni forma di fuga, collettiva o
individuale, dall’obbligo di uccidere o essere uccisi,
sino alla soluzione di porre fine alla guerra dandosi
prigionieri al nemico o, nella peggiore delle ipotesi,
procurandosi provvidenziali ferite e automutilazioni.
La guerra arrivò al termine di un processo apertosi
nella seconda parte dell’Ottocento e risoltosi in pochi
decenni con la spartizione del pianeta da parte delle
potenze europee.2 La Russia e l’Inghilterra erano
contrapposte nel “grande gioco” asiatico, tra India,
Prezzolini in un disegno di Luciano Guarnieri
Persia e Afghanistan, oltre a cercare di dirimere la
strisciante crisi dell’Impero ottomano.3 Francia e Incese della Tunisia. Sempre a causa della corsa “imperialista”
Francia, Inghilterra e Germania sfiorarono la guerra in Ma1 Il termine fu coniato dallo storico britannico di origine ebraica e di forrocco (1905 e 1911), la corsa tedesca al riarmo navale rapmazione marxista Eric Hobsbawm. Lo studioso indicò l’Ottocento come
presentò, sul finire del secolo XIX, il più forte motivo di friun secolo che si estese, almeno dal punto di vista storiografico, tra il 1789 e
il 1914. Sviluppò la sua teoria in tre saggi distinti: Le rivoluzioni borghesi
zione con l’Impero britannico.4 Parallelamente Stati Uniti e
(1789-1848), Il trionfo della borghesia (1848-1875) e L’età degli imperi
Giappone seguirono la logica imperialistica europea: così la
(1875-1914). Nel corso del primo conflitto mondiale molti degli accordi
politici internazionali furono sospesi fino a disegnare uno scenario nuovo
nel secolo XX che, secondo lo storico britannico, si sarebbe rivelato tanto
“breve” quanto denso di mutamenti, sia sul piano politico e sociale sia
su quello economico e delle scoperte scientifiche. Cfr. E. Hobsbawm, Il
Secolo breve, Rizzoli, Milano, 2006.
2 Per una sintesi storiografica accurata sull’imperialismo europeo ottocentesco vedi R.F. Betts, L’alba illusoria, L’imperialismo europeo
nell’Ottocento, Il Mulino, Bologna, 2008.
3 “Grande gioco” è la definizione attribuita tradizionalmente dagli storici alla competizione scatenatasi, nel XIX secolo, tra Impero britannico e
Impero russo per il controllo della regione centro-asiatica e del subcontinente indiano. Successivamente, nell’ambito del contesto regionale post-
10
bipolare, un numero crescente di analisti ha ripreso la denominazione di
“Grande gioco” per indicare la competizione tra Russia e Stati Uniti per
l’influenza sullo spazio meridionale della ex Unione Sovietica - dal Caucaso sino all’Asia centrale.
4 L’ammiraglio, e Segretario di Stato per il ministero della Marina imperiale tedesca, Alfred von Tirpitz aumentò nel 1900 la forza navale tedesca
tramite un progetto di legge che mise in allarme l’ammiragliato inglese.
Nelle motivazioni della legge suddetta si specificò che la flotta tedesca
avrebbe dovuto essere tanto forte “da rivaleggiare alla pari con le più grandi potenze”. Cit. in R. Sciarrone, Strategie militari franco-tedesche a confronto (1905-1913), Nuova Cultura, Roma, 2013, p. 25.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
competizione in Manciuria portò alla guerra russo-giapponese (1905), che vide l’inaspettata vittoria degli asiatici, e la
White House mosse guerra alla Spagna a Cuba (1898). L’odierna storiografia è d’accordo però nell’asserire che la causa
principale del conflitto non vada ricercata nella competizione
coloniale in sé. Lo studio dello storico tedesco Fritz Fischer
sugli obiettivi di guerra dell’Impero tedesco mostra come
questo, frustrato nelle sue aspirazioni coloniali, abbia trasferito la sua pressione imperialistica sull’Europa orientale.5
Fischer dopo avere analizzato nelle linee essenziali lo sviluppo economico-sociale della Germania dagli anni ‘90 al 1914,
mostrò senza pregiudizi le precise responsabilità dei maggiori capi politici e militari tedeschi per spingere l’Austria-Ungheria a un conflitto dal quale si ripromettevano il coronamento dei loro sogni imperialistici. Il progressivo sistema di
dominazione politica ed economica del Reich era regolato in
forma diretta e indiretta: dalle limitate annessioni ai confini
occidentali e orientali (province polacche e lituane, francesi,
belghe e olandesi), attraverso la creazione di Stati-cuscinetto
vassalli (Belgio e Romania, Polonia, Finlandia, Ucraina), si
doveva giungere a una Mitteleuropa sotto direzione tedesca,
che avrebbe dovuto allargare la sua sfera d’influenza a gran
parte d’Europa, Asia e Africa. Fischer dimostrò la coerenza
e la praticità di questo programma, rincorso dagli uomini di
governo con l’appoggio di industriali, finanzieri e personalità
legate alla cultura tedesca: le varie fasi del conflitto, le principali operazioni belliche, le stesse trattative segrete e i sondaggi per la pace fanno da sfondo a quest’importante ricostruzione del più ambizioso piano di conquista elaborato
prima della tragica avventura hitleriana. Un altro studio, dello statunitense Richard Webster, individuò nei Balcani del
primo quindicennio del XX secolo un’area di crescente conflittualità tra le potenze per il controllo, ancora una volta, di
spazi e risorse, di influenze e affari, nella crisi sempre più
forte dell’Impero ottomano da cui sorsero nuovi Stati nazione come la Bulgaria, la Romania, la Serbia e la stessa Turchia rinnovata dalla rivoluzione dei “giovani turchi” (1908).6
Quali ragioni possono aver spinto un Paese dalle tradizioni
non imperialiste e non capitalistiche come l’Italia, a esporsi
in due guerre mondiali e in tre campagne coloniali? Webster,
nel suo studio, cercò di ipotizzare le cause di tale fenomeno
nel “decollo economico” del periodo giolittiano, analizzando
la realtà politico-economica italiana dagli inizi del secolo
alla crisi del 1915. Ad ogni modo le “guerre balcaniche”, che
opposero gli Stati dell’area tra loro, coinvolgendo anche la
Grecia, tra il 1912 e il 1913, evidenziarono la difficoltà di
raggiungere un equilibrio, seppur approssimativo, nell’area.
Uno degli ultimi lavori dello storico italiano Antonello Biagini né tratteggia le fasi più salienti attraverso i documenti
prodotti dagli ufficiali italiani impegnati, a vario titolo,
nell’area balcanica.7 L’Italia rappresentò per le élites politi5 Cfr. F. Fischer, Assalto al potere mondiale, La Germania nella guerra
1914-1918, Einaudi Editore, Milano, 1965.
6 Cfr. R. Webster, L’imperialismo industriale italiano 1908-1915, Einaudi Editore, Milano, 1974.
7 Cfr. A. Biagini, L’Italia e le guerre balcaniche, Edizioni Nuova Cul-
che balcaniche un modello per la realizzazione dell’unità nazionale, un esempio da imitare e da seguire per gli emergenti
Stati nazionali. Nel periodo compreso tra il Congresso di
Berlino (1878) alla Prima guerra mondiale, gli ufficiali italiani – addetti militari, membri delle commissioni per la delimitazione dei confini, esperti e delegati ai convegni internazionali, personale in servizio presso gli eserciti stranieri – furono infatti attivi nella regione, offrendo la loro esperienza
tecnica e organizzativa nel processo di ridefinizione politica
dell’area, resa problematica dagli accesi contrasti fra nazionalità. La Grande guerra non deflagrò così sui lontani confini
tra gli imperi coloniali, ma a Sarajevo, in una delle tante periferie del continente europeo, dove le spinte espansioniste
ed egemoniche di tutte le potenze continentali si sovrapposero alle micce innescate dai micro-nazionalismi, nuovi popoli
desiderosi di emanciparsi non solo dall’Impero ottomano ma
anche da quello austro-ungarico. Tornado a occidente non
può essere sottovalutata la querelle franco-tedesca, risalente
al 1870 (conflitto franco-prussiano), che esasperò i rapporti
tra le due potenze vicine e produsse il sistema di blocchi d’alleanze contrapposti, Triplice Alleanza e Intesa, che si confrontarono poi nel corso della Prima guerra mondiale. L’Italia entrò in guerra nel maggio del 1915, allorché il conflitto
era già iniziato da dieci mesi, schierandosi a fianco dell’Intesa contro l’Impero austro-ungarico fin allora suo alleato. La
scelta di interrompere l’alleanza con gli imperi centrali fu
certamente sofferta da parte dell’Italia, classe politica e opinione pubblica si spaccarono in due fronti contrapposti. Il 2
agosto 1914, a guerra appena scoppiata, il governo di Antonio Salandra dichiarò la ferma neutralità italiana, la decisone,
giustificata dal carattere difensivo della Triplice (l’AustriaUngheria non era stata attaccata, né aveva consultato l’Italia
prima d’intraprendere l’azione offensiva contro la Serbia),
trovò unanimi tutte le principali forze politiche. Ma, una volta scartata l’ipotesi di un intervento a fianco degli imperi centrali iniziò a paventarsi l’eventualità opposta: quella di una
guerra contro l’Austria che, qualora fosse stata vinta, avrebbe potuto completare il processo risorgimentale (Trento e
Trieste) apertosi e mai chiusosi mezzo secolo prima. Portavoce di questa linea “interventista” furono in primis gruppi e
partiti della sinistra democratica: i repubblicani, guardiani
della tradizione garibaldina; i radicali e i socialriformisti di
Leonida Bissolati, molto legati alla politica transalpina; e naturalmente le associazioni irredentiste, ricche di fuoriusciti
dall’Impero austro-ungarico come Cesare Battisti leader dei
socialisti trentini. Ad essi si unirono esponenti delle frange
estremiste ed “eretiche” del movimento operaio, come ad
esempio i capi del sindacalismo rivoluzionario Alceste De
Ambris e Filippo Corridoni, convertitisi alla causa della
guerra “preventiva”. Sull’opposto versante dello schieramento politico, promotori attivi dell’intervento erano i nazionalisti mentre più prudente e graduale fu l’adesione alla causa dell’intervento dei gruppi liberal-conservatori, rappresentati maggiormente dal «Corriere della Sera» di Luigi Albertitura, Roma, 2012.
11
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
ni e i loro riferimenti politici in Antonio Salandra e Sidney
Sonnino, allora ministro degli Esteri. L’ala più forte dello
schieramento liberale, con a capo Giovanni Giolitti, si schierò su una linea più neutralista, poiché si pensò che l’Italia
non sarebbe stata preparata ad affrontare una guerra lunga e
logorante. Giolitti era certo che Roma avrebbe potuto ottenere dagli imperi centrali, come compenso per la sua neutralità,
buona parte dei territori rivendicati.8 Avverso e ostile in maniera alquanto decisa
all’intervento era il mondo cattolico italiano, il nuovo papa Benedetto XV, salito al soglio pontificio nel settembre
1914, si fece portavoce dell’atteggiamento pacifista tormentato dall’ipotesi
di una guerra dell’Italia accanto la Francia anticlericale contro la cattolica Austria-Ungheria. Netta infine fu la condanna alla guerra da parte del Partito
Socialista Italiano (Psi) e dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro
(Cgl), in aperto contrasto con la scelta
patriottica dei maggiori partiti socialisti
europei. L’unica, fragorosa, defezione
importante fu quella del direttore dell’«Avanti!» Benito Mussolini il quale,
dopo aver orchestrato dalle prime pagine
del suo giornale una forte campagna per
la “neutralità assoluta”, si schierò improvvisamente a favore dell’intervento.9
Destituito ed espulso dal partito Mussolini fondò un nuovo quotidiano «Il Popolo d’Italia» (novembre 1914), principale tribuna dell’interventismo italiano. In termini di forza parlamentare e di peso
nella società i neutralisti erano dunque in netta prevalenza,
ma non costituivano uno schieramento omogeneo, capace di
trasformarsi in alleanza politica, il “partito della guerra” poteva contare sui settori più dinamici della società, quelli che
sostanzialmente contribuivano a formare l’opinione pubblica. Erano infatti interventisti gli studenti, gli insegnanti, i
professionisti, la piccola e media borghesia colta, probabilmente più sensibile ai valori patriottici. Gli intellettuali di
maggior prestigio, a parte Benedetto Croce, scelsero la linea
interventista: Giovanni Gentile, Giuseppe Prezzolini, Lugi
Einaudi e Gaetano Salvemini. Il caso più tipico fu quello dello scrittore Gabriele D’Annunzio che s’improvvisò per l’occasione capopopolo ricoprendo un ruolo di rilievo nelle manifestazioni di piazza a favore dell’intervento. Ma ciò che in
definitiva decise l’esito dello scontro fra neutralisti e interventisti fu l’atteggiamento del capo del governo, del ministro
degli Esteri e del re. Salandra e Sonnino strinsero rapporti
segreti con le potenze dell’Intesa infine decisero, di comune
accordo con il re Vittorio Emanuele III, senza informare il
8 Vedi l’esaustiva opera di M. Isneghi, G. Rochat, La grande guerra
1914-1918, La Nuova Italia, Firenze, 1999.
9 Si veda R. De Felice, Mussolini: il rivoluzionario, 1883-1920, Einaudi
Editore, Milano, 2005.
12
parlamento di accettare le proposte anglo-russo-francesi firmando il Patto di Londra il 26 aprile 1915. Le clausole principali definivano che l’Italia avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, il Sud Tirolo fino al confine naturale del
Brennero, la Venezia Giulia e l’intera penisola istriana, a
parte la città di Fiume, una parte della Dalmazia e numerose
isole adriatiche. Isolati e disorientati i socialisti non riuscirono ad organizzare una efficace opposizione e ribadirono la loro ostilità alla
guerra e la loro fedeltà all’internazionalismo proletario. La crisi dell’intervento
lasciò un segno tangibile nella vita politica e sociale italiana, mostrando tra l’altro che larga parte delle masse popolari
rimaneva estranea ai valori patriottici. In
questo contesto s’innestano gli articoli e
le opinioni pubblicate da «La Voce» di
Giuseppe Prezzolini nel 1914, che di seguito analizzo alla luce degli eventi dei
primi sei mesi di guerra. La rivista culturale, fondata a Firenze nel 1908, fu pubblicata dapprima con periodicità settimanale, poi dal 1914 la cadenza fu quindicinale e la direzione passò esclusivamente a Prezzolini, a parte un breve periodo tra l’aprile e l’ottobre 1912 in cui
la direzione passò a Giovanni Papini.
Alla rivista si affiancò la Libreria della
Voce che pubblicò volumi e “quaderni”
di natura critico-storica. Nata durante il
fervore culturale all’inizio del Novecento prese posizione contro il tardo positivismo, bersaglio del
cristianesimo e dell’idealismo in genere. I nomi che contribuirono a rendere importante la rivista testimoniano la varietà e le correnti di diversa origine presenti: Benedetto Croce,
Giovanni Gentile, Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola,
per citarne alcuni. Allo scoppio della Prima guerra mondiale,
Prezzolini schieratosi apertamente per l’intervento dell’Italia
lasciò «La Voce» che, sotto la direzione di Giuseppe De Robertis (dicembre 1914-dicembre 1916) si trasformò in rivista
esclusivamente letteraria, infine per otto mesi, dal maggio al
dicembre 1915, apparve in 14 numeri una seconda Voce,
edizione politica edita a Roma e detta “gialla” per il colore
della copertina, diretta dallo stesso Prezzolini. I primi sei
mesi di guerra coincidono però con la presenza di numerosi
articoli ed editoriali sul conflitto, da cui traspare la netta tendenza della rivista a commentare circa le scelte di politica
estera dell’Italia. Ripercorriamo il lungo dibattito, tra interventisti e neutralisti, che si svolse sulle pagine de «La Voce»
nei mesi precedenti e, soprattutto, all’indomani dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, ucciso a
Sarajevo il 28 giugno 1914 dal nazionalista serbo Gavrilo
Princip.
L’editoriale del 13 gennaio aprì la rivista soffermandosi
sul concetto di “libertà”:
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Io credo che noi italiani abbiam bisogno, più che i tedeschi e gli inglesi, di libertà interiore, morale, religiosa, scientifica, filosofica, per poter essere liberi politicamente, all’aria aperta. Ne abbiam bisogno, perché andiamo in casa, come casa o persona nostra, il nostro più grande
nemico, il nemico dello spirito libero, l’autorità spirituale, infallibile
(Papa Pio, Papa Mazzini)! Quando si pensa a quest’originale di spirito
umano, che per esaltare se stesso (per celebrare la sua natura, diceva
il nostro Don Giambattista) arriva fino a farsi il tiranno di se stesso,
ci è da diventar matti davvero! E quando si pensa che nell’occidente
l’Italia fu destinata a fare da portatrice per sé e per altri, ed educare
eunuchi per tutti i serragli del vecchio e del nuovo mondo, ci è da
diventar due volte matti!10
Ben più “calzante” con gli eventi di natura militare, che
di lì a poco avrebbero occupato le prime pagine della stampa
europea, l’articolo di Prezzolini su «La Voce» del 28 gennaio 1914. Il direttore si scaglia contro i “nuovi barbari”, percorrendo il dibattito, tutto italiano, in auge negli ambienti
eruditi:
Una civiltà che minaccia di stancarsi ha bisogno d’una guerra o d’una
rivolta per riprender vigore, vi muore o si rialza, perché ciò che distingue un fuoco da una candela è che il primo, sotto il vento, cresce, la
seconda si spenge. L’Italia in questi ultimi anni godeva di troppa pace
e civiltà intellettuali. Positivismo, misticismo, modernismo, metodo
storico, dannunzianismo erano stati seppelliti […]. L’idealismo militante era finito per far posto all’idealismo trionfante: c’era ora l’idealismo riposante. La Critica diventava più storica, recensiva e riempiva
di fonti e imitazioni quel che dava un tempo a scomposizioni di idee
e a polemiche. Ci voleva qualche minaccia, una guerra o una rivolta,
per restituirci l’energia combattiva; una provincia ancora barbara da
incivilire, il nemico alle porte, che so io? Ci vengono sotto il naso i
nuovi barbari a ricordarci che si deve ancora combattere. Fan prudere
le mani. Li abbiamo lasciati scorrazzare sul nostro territorio per un
anno quand’era più facile ricacciarli. Ma ora basta. Bisogna difendere
l’intelligenza dalla nuova barbarie.11
Gli eventi che portano alla primo conflitto mondiale ci
aiutano, inoltre, a definire quali furono i problemi e le prospettive che l’apparato militare italiano dovette affrontare
nel corso del suo faticoso processo di riforme. Le alleanze
militari, le trame diplomatiche, le convenzioni e i trattati
s’inserirono pienamente nell’intricato dedalo di provvedimenti che lo Stato Maggiore italiano produsse dal 1871 al
1914. Le influenze, degli uni e degli altri, mutarono il volto
dell’esercito italiano che da anello debole dell’alleanza con
gli Imperi centrali divenne quanto mai l’ago della bilancia
nello scontro che si andava a profilare tra i due blocchi di
potenze contrapposti. Alla vigilia dello scoppio del primo
conflitto mondiale l’Italia aveva migliorato il proprio apparato militare e dato una fisionomia più dinamica e “vicina”
agli eserciti delle maggiori potenze continentali dell’epoca.
Il modello di esercito prussiano fu preso quale punto di riferimento iniziale e successivamente adattato alle possibilità
di bilancio dei vari governi a cavallo del XIX e XX secolo.
Diversi eventi, come la sconfitta patita in Etiopia (1895) e
la guerra in Libia (1911-12), modificarono le priorità dei
vari ministri della Guerra e dei capi di Stato Maggiore in
termini di spesa e chiaramente di rapporti con le altre poten10 Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea (BSMC), R.I. 101/1,
«La Voce», Firenze, 13 gennaio 1914, p. 1.
11 Ivi, 28 gennaio 1914, pp. 1-9.
ze. La necessità di prendere parte al tavolo delle decisioni
continentali spinse i vertici politico-militari ad aggiungere
nel corso degli anni sempre più peso alla diplomazia italiana che, seppur mai considerata alla pari, mostrò tutta la
sua incidenza allorché l’assassinio dell’arciduca Francesco
Ferdinando palesò l’importanza di averla come alleata. Dal
punto di vista economico, fu fatto il massimo per migliorare le condizioni dell’apparato militare post-unitario, la storiografia italiana ed europea ha poi a lungo dibattuto sulla
necessità o meno dell’alleanza con gli Imperi centrali poi
rovesciata nel 1914. Va riconosciuto il grande merito ai dirigenti politici e militari dell’epoca di aver affrancato il Paese,
seppur tra mille difficoltà, dalle ingerenze delle potenze europee e di aver mantenuto unito uno Stato che subito dopo
il 1861 sembrava avesse tutti i sintomi di una repentina disgregazione. Ma nell’aprile 1914 i possibili scenari di guerra destarono parecchia contraddizione sulla stampa italiana.
Ancora una volta il direttore de «La Voce» Giuseppe Prezzolini entrò nel dibattito con il suo stile pacato ma deciso:
La forza è l’ultimo rifugio dei deboli e degli oppressi. Combattere la
guerra è voler impedire a chi è schiacciato dalla lettera della legge e
della consuetudine, dall’inganno o dalla prepotenza, di potersi almeno
sfogare, di cadere e di subir l’oppressione con la rivolta, di correre l’alea della lotta brutale. Coloro che fanno la propaganda del pacifismo
dimenticano che vi sono ancora ingiustizie legali, e finché queste ingiustizie legali esisteranno, il togliere ai privati e ai popoli l’uso della
forza, la speranza di rendersi forti, è chiudere l’uomo in un mondo più
nero e più orrido di quello che qualsiasi atroce guerra può fare. Io capisco coloro che negano la guerra, assolutamente; e che negano allora
qualunque resistenza al male. Capisco Tolstoj. E’ stupido, infantile,
degno di contadini. Ma è logico chiaro, diritto. Non capisco coloro che
fanno distinzioni fra guerra e guerra, fra guerra e rivoluzione, fra guerra e rivolta. E’ obliquo, insincero, falso […]. Chi combatte contro la
guerra deve combattere ogni violenza, anche lo sciopero, il boicottaggio, la concorrenza commerciale. Chi è rivoluzionario non dovrebbe
gridare contro la guerra. Chi dice viva la Comune non dovrebbe dire
abbasso Adua. Si dice che la guerra non è civile. Eppure la guerra è
per certe persone l’unica forma possibile di partecipazione alla civiltà
umana. Finché sarà necessario cementare le costituzioni, le leggi, i
confini, le proprietà, i diritti, d’una forza, e di una forza determinata
a difendere quelle costituzioni e quelle leggi, quei confini e quelle
proprietà, quei diritti, con l’estremo, del sangue e della morte, fino
ad allora migliaia di persone che si dicono uomini soltanto in quanto
s’incamminano verso l’umanità, non potranno mostrare questo loro
avviamento che sacrificandosi e morendo. Oh certo che la persona colta e intelligente, l’europeo di cui parla Nietzsche potrebbe benissimo
esser superiore al campo di battaglia; come potrebbe essere superiore
al letto matrimoniale, se crea altre cose che figli, cioè opere immortali. Ma alla grande maggioranza non è data immortalità che quella
concessa da un seme fecondo ed altro eroismo che quello concesso
da una trincea […]. Aboliremo la guerra quando non ci saranno più
vincitori e vinti nella vita. Fino ad allora la guerra sarà una garanzia di
considerazione anche per i vinti tale che nessuno vorrà togliersi questa
prova di valore di fronte al nemico. Chi si è difeso bene si conquista
la stima del vincitore. Chi cade vigliaccamente ha la sconfitta e il disprezzo. Un vinto che si è difeso fa sempre paura, perciò lo si tratta
bene. Il vinto che si è battuto, insomma, riesce a entrare nella nuova
condizione di cose che il vincitore crea […]. Io capisco benissimo
l’internazionalismo. Sento con perfetta sicurezza che si avvia a una
civiltà mondiale, che l’Europa è destinata a europeizzare l’universo.
Ma un vero internazionalista dovrebbe capire che a quel capolavoro di
civiltà mondiale non si può giungere che a traverso la concorrenza e
la lotta fra le civiltà e le nazioni. Niente civiltà mondiale senza lotte e
senza guerre. E il dovere di tutte le nazioni, di tutti i popoli, di tutte le
civiltà è di tener duro, ciascuno nel suo campo, di cercare di vincere,
od essendo vinti di costringere il vincitore ad uno sforzo più grande.
13
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
Non si collabora al mondo coll’abbracciamento ma con la polemica. Il
libero scambio in economia politica, vuol dire guerra in politica internazionale e polemica nella coltura. Gli storici di oggi vedono la causa
delle guerre nei maneggi delle case Krupp, Terni, Schneider ecc. mi
ricordano quegli storici dell’antichità che le vedevano nei capricci
delle cortigiane e mantenute regali. Ma il “naso” di Cleopatra resterà
sempre un’immagine della miopia degli storici e non della vanità della
storia. Le teste son piccole non il mondo.12
L’articolo ci mostra chiaramente l’idea che sulla guerra
aveva Prezzolini. L’edizione del 28 aprile 1914 si chiude
con un annuncio commerciale: “A chiunque comprerà per
LIRE DIECI di nostre edizioni manderemo gratis LA VOCE
fino al 31 dicembre 1914”13. Di li a poco sarebbe scoppiata
la guerra e annunci come questo avrebbero, per molti, perso
ogni importanza. L’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo provocò l’inizio della catena di eventi
che diedero inizio allo scoppio della Prima guerra mondiale (28 giugno 1914). Per il partito interventista austriaco si
presentava quindi l’occasione di vendicare la morte dell’arciduca attaccando la Serbia, come da tempo Conrad professava, i vertici militari della duplice monarchia non avevano
intenzione però di scatenare un conflitto di dimensioni europee. A Vienna si era certi che nel caso di un fermo atteggiamento della Germania la Russia non si sarebbe mossa
come avvenuto nel corso delle due crisi albanesi dell’anno
precedente. Per quanto concerneva l’Italia, dagli eventi del
luglio 1913, gli austriaci credevano che essa non si sarebbe
intromessa nella questione serba. Per ottenere l’appoggio
italiano sarebbe stato di primaria importanza promettere
compensi territoriali, cosa che i politici austriaci non avevano alcuna intenzione di fare, vi era poi il pericolo che l’Italia
si opponesse all’azione mettendo in allarme l’Intesa. L’appoggio italiano fu valutato però come non indispensabile
dall’establishment austro-ungarico, mentre i tedeschi probabilmente non riuscirono a valutare con la necessaria lucidità
la situazione che si venne a creare nell’estate del 1914. Da
parte italiana la morte del generale Pollio privò l’esercito in
un momento alquanto cruciale di una figura estremamente
importante. Luigi Cadorna, nuovo Capo di Stato Maggiore, si trovò a fronteggiare una situazione d’emergenza, del
resto soltanto pronte garanzie austriache circa la questione
dei compensi avrebbero potuto indurre l’Italia a partecipare
a un conflitto causato da un’azione offensiva della duplice
monarchia, diretta a tutelare interessi esclusivamente propri
e non rientrante in alcun modo tra quelle previste per il casus foederis del trattato della Triplice. Se quindi l’Austria
avesse consentito all’Italia la cessione del Trentino e l’autonomia di Trieste e se: «Noi nel contempo avessimo loro dato
affidamenti per Tunisi e Nizza, avremmo avuto l’Italia dalla
nostra», così affermò il principe von Bülow nelle sue Memorie.14 Mentre i dirigenti politici degli Imperi centrali non
capirono l’importanza che siffatte concessioni avrebbero
potuto rappresentare di lì a poco, il Capo di S.M. germanico
von Moltke avviò diversi colloqui con l’Austria-Ungheria
12 Ivi, 28 aprile 1914, pp. 1-6.
13 Ibidem.
14 B. von Bülow, Memorie, Mondadori, Milano, 1931, p. 192.
14
affinché accettasse le condizioni italiane. Fu infatti su pressione di von Moltke che il 26 luglio il cancelliere tedesco
spedì a Vienna un telegramma d’appoggio alle richieste italiane.15 Forse l’atteggiamento del Capo di S.M. imperiale
era dovuto al fatto che a differenza della classe politica di
allora egli non era sicuro che il conflitto austro-serbo potesse restare localizzato. Oltre a ciò la scomparsa del generale
Pollio rendeva la situazione ancora più incerta. Nonostante
ciò dopo aver assunto la sua nuova carica Cadorna indirizzò
due dispacci ai pari grado degli eserciti alleati, ribadendo
l’appoggio e i sentimenti di amicizia che legavano l’Italia
alle altre due potenze della Triplice. E’ proprio il 28 giugno
«La Voce» pubblica il numero 12 aprendo un dibattito sul
delicato tema dell’uso della forza, da parte del governo, influenzata dai fatti di Ancona:
Perché in Italia la polizia è antipatica alla popolazione? Perché In
Italia ciò che rappresenta l’autorità non è simpatico alla popolazione? Perché, in qualunque conflitto la gran maggioranza, soprattutto
la maggioranza dei poveri, è portata a simpatizzare con chi si rivolta
e non appoggia chi difende la legge? Cinquant’anni di storia italiana
son lì per rispondere. Governo oppressivo; gruppi d’interessi particolari prevalenti a danno dell’interesse generale; tasse sproporzionate
alle forze del Paese; deficienza nelle opere di educazione e di istruzione; tradizioni di ostilità al governo; reclutamento pessimo delle
guardie di sicurezza; relazioni della pubblica sicurezza con la camorra
per scopi elettorali; relazioni della pubblica sicurezza con la mala vita
sotto pretesto dei buoni costumi; coscienza pubblica elevantesi a poco
alla volta a cognizione di questo stato di cose. […] Ogni avvenimento
è uno spiraglio che apre la visione di tutta la vita nazionale. Perché
la grande maggioranza fosse convinta che alcuni carabinieri ed una
guardia sparassero senza bisogno il giorno 7 giugno (salvo errore)
uccidendo un cittadino e ferendone altri, erano necessari e sufficienti
tutti i cinquant’anni della nostra unità.16
Lucida fotografia della società italiana, da parte di Prezzolini, che non lesina critiche nei confronti dei partiti liberali. Il malessere economico, che l’Italia stava faticosamente
affrontando, provocarono secondo il direttore de «La Voce»
uno stato di irritazione più grave di quello scaturito dalle
ultime elezioni politiche:
Oggi i partiti liberali scontano il peccato di non essersi opposti in tempo alla infatuazione nazionalista per la conquista libica; scontano il
peccato di non aver esposto al pubblico italiano per mezzo dei loro
organi le difficoltà dell’impresa e soprattutto il peso economico che
avrebbe provocato; scontano il peccato di non avere fatto quello che,
presso che solo nei partiti liberali, l’on. Mosca fece. Il socialismo, il
repubblicanesimo non sono cresciuti in Italia. Coloro che hanno ravvicinato gli avvenimenti recenti a quelli del 1908 hanno perfettamente
ragione. Non manca al paragone neppure la guerra d’Africa che ne
fu la causa: con questa differenza che allora, siccome fummo battuti
e costretti a fare una politica casalinga, restaurar le finanze fu relativamente facile, ora invece che siamo vincitori non possiamo tornare
indietro e il peso finanziario durerà molto più tempo. I responsabili dei
fatti del giugno 1914 sono dunque i responsabili dell’impresa libica:
gli stessi. […] Noi abbiamo un popolo magnifico, e una borghesia
bassa. Le nostre classi dirigenti sono sempre pronte quando si tratta
di godere i piacere del potere, sono sempre lontane quando si tratta di
pagare gli oneri.17
15 Ibidem.
16 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 28 giugno 1914, p. 3.
17 Ivi, 28 giugno 1914, pp. 7-8.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
L’editoriale di Prezzolini,
ben strutturato, faceva riferimento ai fatti accaduti l’8
giugno ad Ancona, definiti
successivamente dalla storiografia “settimana rossa”.
All’alba di lunedì 8 giugno
1914, l’Italia fu attraversata
dalla rivolta: per le strade delle principali città della penisola infuriarono violenti scontri
tra forza pubblica e scioperanti. Il profondo disagio economico e sociale esasperò i
disordini, alla vigilia della
Prima guerra mondiale, dando
vita a una vera e propria insurrezione antimonarchica e antimilitarista, che mise in luce le
debolezze del governo e della corona sabauda. L’episodio
costituì uno dei primi esempi di protesta pacifista che si
susseguiranno nel Novecento, ma anche una preoccupante
esacerbazione dei conflitti sociali che annunciarono le crisi del primo dopoguerra. La scintilla deflagrò ad Ancona,
città portuale già particolarmente “calda” durante altri episodi di sollevazione, dove in occasione del 7 giugno, festa
dello Statuto Albertino, ebbe luogo una manifestazione di
protesta opposta alla parata ufficiale. Dopo la morte di tre
dimostranti, la reazione esplose in un’aperta rivolta generale: dalla città occupata l’insurrezione si estese, attraverso le
Marche, in tutta la Romagna e si accesero focolai in tutti i
più importanti centri italiani. Dopo giorni di combattimenti
e barricate, con l’intervento dell’esercito il 10 giugno 1914,
la Confederazione Generale del Lavoro revocò lo sciopero e
il 13 giugno, di fatto, la rivolta cessò.
Nel frattempo il generale von Moltke ricevette la comunicazione di neutralità, da parte italiana, allorché la situazione stava precipitando, infatti il 25 luglio la Serbia
aveva mobilitato, l’Austria aveva indetto una mobilitazione
parziale e la Russia (26 luglio) aveva iniziato a preparare il
proprio esercito. Il 29 fu inoltre indetta la mobilitazione generale in Montenegro e l’Inghilterra diramò il “telegramma
d’avviso” per l’esercito e per la flotta e la Russia ordinò la
mobilitazione parziale contro l’Austria-Ungheria. Ai primi
di agosto l’imperatore tedesco Guglielmo II si rivolgeva direttamene al re d’Italia Vittorio Emanuele III e von Moltke
affermava al cancelliere Theobald von Bethmann Hollweg:
«Non m’importa se l’Italia non invierà in Germania un notevole contingente di truppe. Mi basta che invii a causa
della situazione politica, poche forze, fosse anche una sola
divisione di cavalleria. L’importante è che l’Italia entri in
guerra a fianco degli alleati. A ciò è sufficiente il minimo
contributo militare».18 L’arrivo della 3ª armata era atteso
18 W. Foerster, Aus der Gedankenwerkstatt des Deutschen Generalstabes, Berlin, 1931, p. 101.
comunque a Strasburgo a partire dal 6 agosto, lo scarico
si sarebbe dovuto concludere
secondo i piani dell’ufficio
trasporti dello Stato Maggiore
germanico entro giorno 15. Il
generale Cadorna, conscio degli oneri della carica che andò
a ricoprire, si era reso perfettamente conto della gravità
della situazione provocata
dagli eventi internazionali di
quei giorni. Il Capo di S.M.
proponeva quindi la cancellazione di Genova dall’elenco
delle fortezze e lo smantellamento delle sue batterie i cui
pezzi, abbastanza antiquati,
avrebbero dovuto essere trasferiti in Appennino per realizzarvi un ridotto, ma non solo.
Disponeva di provvedere subito all’occupazione avanzata e
al presidio delle fortezze sulla frontiera nord-ovest, far rientrare le truppe sospendendo i campi, mettere in preallarme le
grandi unità destinate a operare sulle Alpi o a essere inviate
in Germania, far rientrare dalla Cirenaica quattro battaglioni alpini e rinforzare gli organici, completando il richiamo
della classe 1891. La macchina organizzativa dell’apparato
militare italiano si era quindi messa in moto. Inoltre veniva disposto lo sgombero delle risorse concentrate presso il
porto di Genova, il trasporto dell’artiglieria atta a completare l’armamento delle fortezze dalla frontiera nordorientale
a quella nordoccidentale e bisognava preparare l’opinione
pubblica all’eventualità di una guerra. Ai provvedimenti più
importanti il ministro della Guerra dava esecuzione immediata, il 31 luglio quindi si provvedeva alla difesa avanzata
della frontiera con la Francia, disposto il trasferimento da
fortezza da est a ovest, e ordinato il rimpatrio dalla Libia di
parecchie unità ufficiali e sottufficiali. Lo stesso Cadorna
sollecitò il ministro della Guerra alla messa in stato di difesa delle piazze di Messina e della Maddalena, inviando
al re una memoria sintetica sulla radunata nord-ovest e sul
trasporto in Germania della maggior forza possibile. Il nuovo Capo di S.M. illustrava poi a Vittorio Emanuele III la
storia degli accordi italo-tedeschi e chiariva la sua posizione
in merito:
L’intima persuasione mia in proposito è che la vitale questione non
sia suscettibile di diversa soluzione. […] Ma è altresì mio convincimento che la soluzione prospettata non corrisponderà compiutamente
agli interessi della Patria se non quando avrà raggiunta la maggiore
estensione cui essa è capace. […] Ritengo in altri termini che si debba
non soltanto tornare ad assegnare 5 corpi d’Armata (oltre alle divisioni di cavalleria) all’Armata da inviare in Germania, ma che si debba
tendere ad inviare su quello che, nel conflitto, rappresenterà il teatro
principale della guerra. […] L’interesse nostro non può non collimare
con l’interesse generale del gruppo di alleanza al quale partecipiamo.
[…] Il non compiere da parte nostra il massimo sforzo per concorrere
a ridargli stabilità tornerebbe esiziale all’interesse generale ed a quello
nostro in particolare. […] L’interesse strategico consiglia e comanda
15
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
di considerare le forze armate della triplice come se appartenessero ad
un unico esercito e ripartirle con un concetto direttivo unico. E poiché
il teatro principale delle operazioni è quello settentrionale dovranno
convergere le masse preponderanti delle forze dei collegati.19
Nel leggere la memoria si comprende che Cadorna doveva essere stato informato della posizione del re, contraria all’impiego delle truppe italiane in un settore in cui il
Comando Supremo italiano non ne avrebbe avuto il pieno
controllo. Intanto anche la Marina italiana aveva iniziato
le operazioni di mobilitazione con grande rapidità, i vertici
militari francesi stavano iniziando a prendere misure cautelative, infatti l’addetto militare italiano a Parigi, colonnello
di Breganze, confermò che le truppe erano state richiamate
nelle guarnigioni e le piazzeforti erano stato messe in stato
di difesa. Breganze ebbe modo di ravvisare che l’opinione
pubblica francese era ben disposta verso l’Italia e che predominava la convinzione della neutralità italiana. La stampa
si mostrava incline a un atteggiamento conciliante nei confronti dell’Italia e le misure prese al confine con la penisola
erano state, fino a quel momento, pochissime.20 Il 2 agosto
una lettera di Conrad indirizzata a Cadorna esortava il Capo
di Stato Maggiore italiano ad appoggiare l’esercito austroungarico tramite l’invio di alcune truppe, questa lettera sorprese i vertici militari italiani poiché anche durante la direzione di Pollio non vi era stata alcuna trattativa al riguardo.
Questo atteggiamento rappresentava la situazione che si era
venuta a creare a Vienna, la classe politica austriaca infatti
aveva visto svanire negli anni precedenti ogni speranza di
espansione nella penisola balcanica, avevano inoltre sopportato le azioni provocatorie serbe e montenegrine e cercato di evitare il precipitare della situazione. Dopo l’assassinio
dell’arciduca tutto mutò, l’Austria-Ungheria mise in preventivo un’azione offensiva contro la Serbia poiché era comune convinzione che l’appoggio tedesco avrebbe frenato
l’attivismo russo e il conflitto sarebbe rimasto circoscritto.
Allorché questi piani si rivelarono errati, e le pressioni francesi provocarono l’intervento russo, il governo viennese fu
sorpreso e sopraffatto dall’incedere degli eventi. La duplice
19 M. Mazzetti, L’esercito italiano nella triplice alleanza, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli, 1974, p. 433.
20 Ivi, p. 434.
16
monarchia non si rese conto né dell’importanza dell’intervento italiano né del fatto
che sarebbero state necessarie importanti
concessioni all’Italia per averla dalla propria parte. Si credette probabilmente che
l’Italia non avrebbe osato abbandonare la
Germania, i calcoli austriaci si rivelarono
del tutto errati. Il 3 agosto Cadorna consegnava all’addetto militare austriaco la
sua personale risposta a Conrad, senza entrare nel merito della richiesta, il Capo di
S.M. italiano fece valere la dichiarazione
di neutralità del Regno d’Italia chiudendo
la scambio di note. Secondo parte della
storiografia il mancato intervento italiano
sarebbe da attribuirsi a ragioni militari, secondo l’addetto
militare austriaco a Roma la vera ragione della neutralità
italiana era da ricercarsi nell’impreparazione dell’esercito
regio oltre a forti carenze di ordine finanziario, queste debolezze sarebbero state mascherate motivando la neutralità col pretesto di una guerra offensiva. Nel 1914 l’Italia,
seppur tra varie difficoltà, aveva sotto le armi le due classi
1892 e 1893, quasi 235mila uomini, oltre 41mila tra raffermati e carabinieri, inoltre furono richiamati per esigenza
di pubblica sicurezza 76mila uomini della classe 1891 da
poco congedati, in totale 352mila uomini di truppa perfettamente istruiti, 50mila dei quali in Libia. Numeri importanti.
Vi erano poi sotto le armi 33mila reclute della 2ª categoria
del 1893. Le carenze non mancavano, come ad esempio le
200mila serie di vestiario, ma queste erano più contenute
rispetto le previsioni di parte della stampa neutralista dell’epoca. Escluse in parte le ragioni militari, non rimasero che
quelle politiche e in primis la questione dei compensi. Anche dopo la proclamazione della neutralità, per la quale si
adottò una formula che lasciava aperta ogni possibilità, fu
più volte avanzata l’ipotesi di un intervento italiano a fianco
degli Imperi centrali.
Del resto dopo la proclamazione della neutralità (1 agosto) fu ordinato il richiamo degli ufficiali dall’estero, fu disposto l’armamento con materiale a deformazione per tutte
le batterie dell’artiglieria da campagna ordinandole su 4
pezzi, fu ordinata la formazione di un altro battaglione per
ogni reggimento formato da uno e istruito che i richiamati
esuberanti ai centri di cavalleria fossero spostati all’artiglieria. Tutte queste misure furono adottate dai vertici militari
in completa sintonia con il governo. Salandra optò per la
neutralità già sul finire di luglio, data la mobilitazione della
Marina e quella occulta dell’esercito si era pronti a ogni soluzione, ma quella prevista era che l’Italia prendesse parte al
conflitto assieme ai suoi alleati. L’annuncio dell’intervento
inglese, poi, fece svanire del tutto la possibilità di un’azione
italiana a breve termine (5 agosto), ma influì parallelamente
l’atteggiamento di Vienna teso a non aprire alcuna trattativa
riguardante il Trentino. In siffatta situazione in cui, è bene
ricordarlo, mancava il casus foederis previsto dalla Triplice, la neutralità italiana prendeva consistenza sempre più.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Questa decisione non mancò di scatenare la sorpresa degli
Imperi centrali che con il passare del tempo si trasformò in
aperta indignazione. La Triplice era arrivata alla sua naturale fine. La durezza dell’atteggiamento tedesco, dopo l’annuncio della neutralità italiana, fu una diretta conseguenza
della totale convinzione circa l’intervento sicuro italiano
a fianco degli alleati. Se all’inizio dell’alleanza i rapporti
non si erano mai ammantati di incondizionata fiducia, nel
corso degli anni, soprattutto l’ultimo anno e mezzo, si verificò un cambiamento d’opinione in quanto la personalità
del generale Pollio e i suoi sforzi per raggiungere accordi
sicuri suscitarono una giustificata fiducia nella sua fedeltà
all’alleanza e una seria predisposizione ad aiutare gli alleati.
Von Moltke cercò di indirizzare questi buoni rapporti per
consolidare i trattati militari e le convenzioni, tuttavia senza
mai pienamente contare sulla cooperazione italiana, stretta
com’era tra problemi di ordine finanziario e carenze di livello logistico, derivanti, in parte, dalla logorante guerra in Libia. La realtà dei fatti, una volta conosciuta la neutralità italiana, mostrava come per il Capo di Stato Maggiore tedesco
contasse molto l’aiuto dell’esercito italiano. D’altra parte se
von Moltke non avesse creduto all’invio della 3ª armata non
avrebbe manifestato tutta la sua incredulità allorché Salandra affermava la neutralità dell’Italia. Nel novembre 1914 il
generale tedesco scrisse:
Da anni l’intesa prendeva una posizione contraria alla Triplice. Solo
un anno prima della guerra furono rivisti e rinnovati gli accordi tra
Italia e Germania, nella primavera del 1914 questi accordi furono
stabiliti in modo impegnativo. L’Italia si era impegnata a mettere a
disposizione, in caso di guerra tra la Germania e la Francia, due divisioni di cavalleria e tre corpi d’armata. […] Nello stesso modo fu
concluso un accordo navale tra Germania, Italia e Austria secondo il
quale doveva avere luogo un’azione comune della marina austriaca e
italiana, a cui avrebbero preso parte le navi tedesche che si trovassero
nel Mediterraneo allo scoppio della guerra. Tutti questi accordi furono
presi in maniera così chiara e impegnativa da non lasciare dubbi sulla
fedeltà dell’Italia alla Triplice. Ciò nonostante l’Italia ha mancato alla
sua parola. Dichiarò la sua neutralità passando sopra, con indifferenza, a tutti gli accordi. Un tradimento più oltraggioso forse non si trova
nella storia.21
A due mesi dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, Prezzolini aprì l’edizione del 28 agosto inserendosi nell’acceso dibattito tra “neutralisti e interventisti” con
queste parole:
Il mistero della generazione di un nuovo mondo europeo si compie.
Forze oscure scaturite dalla profondità dell’essere sono al travaglio ed
il parto avviene tra rivi mostruosi di sangue e gemiti che fanno fremere. Noi non guardiamo soltanto al dolore. Salute al mondo nuovo! Ci
darà la guerra quello che molti delle nostre generazioni hanno atteso
da una rivoluzione? L’animo è calmo di fronte alla totalità del fatto
che si compie e non possiamo dubitar di domani. La civiltà non muore! Indietreggia per prendere un nuovo slancio. Si tuffa nella barbarie
per rinvigorirsi. Vincesse per quella che ci sembra barbarie, non sarà
mai che l’albero selvatico sul quale s’annesta il ramo dolce, domestico
e tenero. Non esiste un monopolio della civiltà. Nessun popolo ha il
possesso esclusivo dell’ideale. Tutti i popoli hanno una sola missione,
alla quale più o meno ritrarsi agli occhi di chi domina. […] L’Italia ha
21 H. von Moltke, Erinnerungen, Briefe, Dockumente, 1877-1916,
Stuttgart, 1922, pp. 8-9.
scelto la parte più grande e più bella. Ma troppo difficile. Non siamo
abbastanza alti per essere neutrali. Il nostro pensiero si arresta davanti
alla carezzevole visione di un’Italia abbastanza superiore, abbastanza
riconosciuta, abbastanza imparziale, per giudicare; così forte da far
rispettare il proprio giudizio; tanto rispettata ed amata, da non avere
bisogno di forza. E la visione si annebbia di fronte all’indiscutibile fatto che non possiamo essere neutrali, non siamo abbastanza forti, non
ci amano. Ma intanto la neutralità è stata un bene perché ha affermato
una cosa: l’autonomia dell’Italia, che in questo conflitto l’Italia ha degli interessi propri, degli interessi che non sono quelli delle nazioni
alla coda delle quali ci vorrebbero portare. Il primo dovere di un paese è l’autonomia. Il miglior modo di collaborare alla civiltà umana è
quello di portarvi intatta la propria libertà e la propria natura. Noi non
siamo né la Francia, né la Germania. Sia pure uno di questi paesi più
civile dell’altro noi tradiremmo la civiltà ponendoci al suo servizio.
Noi renderemo il massimo servizio alla sua civiltà mostrando la nostra
autonomia. E dal punto di vista politico noi non vediamo per l’Italia
alcuna ragione di decidere fra la Francia e la Germania ma piuttosto parecchie di decidere fra l’Inghilterra e l’Austria. La neutralità è
stata dunque un bene, in quanto ha dichiarato la nostra indipendenza
dalle altre nazioni ma in modo attivo. La neutralità è stata eccellente
ma come transizione e preparazione alla guerra. Non possiamo essere
imparziali quando tutti i nostri interessi sono in gioco. E il principale
interesse è questo che l’Italia è fatta ma non è compiuta. E soprattutto
che l’Italia non essendosi fatta da sola aspetta finalmente l’atto che la
dimostrerà capace di fare da sé. Il ’59 fu con la l’aiuto della Francia, il
’60 con la protezione dell’Inghilterra, il ’66 con le forze della Prussia,
il ’70 per l’assenza dei francesi. Il 1914 sarà una data di più o una data
nuova? La Libia ha cancellato Adua. Quale nome cancellerà quelli di
Lissa e Custoza? Il primo interesse dell’Italia è di dimostrare al mondo
che essa ha dei propri interessi.22
Prezzolini descrive con lucida chiarezza gli eventi di politica estera più importanti, per l’Italia, degli ultimi sessant’anni, chiedendosi quale fosse la scelta migliore da compire per il Paese in quel delicato momento.
Non ha dubbi. La neutralità, almeno all’inizio delle ostilità, gli sembrò la soluzione più saggia. Neutralità, però,
vista in chiave di preparazione alla guerra, resa necessaria, secondo il direttore de «La Voce», dagli innumerevoli interessi in gioco per cui inevitabile. Nei passi successivi Prezzolini specifica quali fossero gli elementi da
prendere in considerazione nel caso si dovesse abbandonare l’iniziale neutralità dichiarata dal governo italiano:
Come per la guerra di Libia noi volemmo, contro il facilismo e la
leggerezza nazionalista, presentare quegli elementi di previsione che
dal lato economico, strategico, internazionale purtroppo la realtà si è
incaricata di dichiarare fondati così anche per questa guerra vogliamo
opporci al facinolismo ed alla letteratura che già han gettato i loro
rami parassitari allo sfruttamento dell’intuizione popolare, riconfermando i nostri convincimenti. La guerra non sarà e, specialmente non
augurabile sia, troppo facile; non deve essere fatta per aiutare nessuno, ma per nostri fini autonomi, soprattutto per poterci presentare, il
giorno della pace, con il possesso effettivo, l’unico che oggi conti,
di quanto sta a cuore agli italiani. Una delle maggiori disgrazie della
guerra libica fu la convinzione che essa sarebbe stata facilissima e
breve. Anche per la nostra non occorrono illusioni: non può, non è
augurabile sia facile; difficilmente sarà breve. Ma gli italiani danno
oggi maggiori speranze. Si sente nel paese un accordo più serio perché
non v’è cupidigia di terre da fruttare di pingui raccolti da mietere, di
oro zolfo diamanti da raccogliere. Si tratta di passare il nostro esame.
Fummo, finora, una nazione aspirante al grado di grande. Oggi non
si tratta neppur di questo ma di ben altro. Si tratta di sapere se siamo
una nazione.23
22 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 28 agosto 1914, p. 3.
23 Ivi, 28 agosto 1914, pp. 5-8.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
L’edizione di settembre vede protagonista la «La Voce»
del dibattito che interessò partiti politici e associazioni culturali italiane di fronte alla guerra. Il partito liberale, secondo Prezzolini, si mostrò quello più sfuggente e obbediente
in maniera passiva alle decisioni imposte dal governo.24 Il
giornalismo borghese: “Ha almeno un pensiero. Pensa per la
borghesia che non saprebbe altrimenti che cosa pensare”.25
In grave imbarazzo, secondo il direttore, si trovavano i nazionalisti, dopo le feroci campagne contro la Francia, la
democrazia, l’anticlericalismo e le pubbliche dichiarazioni:
“Perché si marciasse assieme ai tirolesi e agli ulani”.26 I clericali temevano invece il seme anti clericale che una vittoria
della Francia avrebbe potuto seminare, mentre i repubblicani avrebbero voluto attaccare sin da subito l’Austria, rappresentando in pieno le ideologie irredentiste.
I pacifisti – responsabili in parte della debolezza delle nazioni che
alle loro lusinghe hanno dato più retta, come la Francia, la quale, se si
salverà dal militarismo tedesco lo dovrà al militarismo russo - cercano
di riparare al disastro delle loro idee, dicendo che da questa guerra così
immane nascerà un salutare amore per la pace. E’ certo che, per risollevarsi dalla catastrofe economica, parecchie nazioni vorranno godere
lunghi anni di pace, e che, se questa guerra darà soluzione a molte
questioni si avrà la probabilità di un periodo di riposo assai lungo. Ma
basta guardare la carta del mondo per capire che nessuna nazione vorrà rinunziare a prevedere i più aspri conflitti venturi, ai quali saranno
chiamati mezzi di distruzione più potenti, leghe di stati più vaste, eserciti più numerosi. Basti pensare all’inevitabile conflitto dell’occidente
con gli slavi, a quello tra Stati Uniti e Giappone, alle risoluzioni delle
questioni dell’Asia Minore e della Cina, per capire che, quanto spetta
ad occhio umano guardare, vi saranno ancora guerre e più micidiali.
Invece di propaganda pacifista credo che le nazioni si prepareranno
a guerre più grandiose, per le quali, poiché oggi la massa è tutt’altro
che resa indifferente dall’impiego di mezzi distruttivi efficacissimi,
occorrerà che il tutto il popolo sia preparato, in modo da offrire con
uno sforzo organico e ordinato, il massimo della potenza.27
L’edizione del 28 settembre si aprì con il consueto editoriale del direttore Prezzolini, dal titolo La guerra tradita,
che torna sul tema della neutralità:
Nel momento in cui scrivo è opinione diffusa che ogni possibilità di
azione immediata sia scomparsa. Il governo evidentemente, si riserva
di tutelare i nostri interessi appena siano compromessi e forse vuole
aspettare l’autorevole esempio e la spinta della Rumenia, che ha dato
prove certo non comuni di destrezza e di tempismo. Agli uomini che
sono al governo è già parso un atto eroico dichiarare la neutralità […],
comunque sia mi pare ormai certo, che il tempo di un atto eroico è
passato. Ormai la fortuna ha ceduto la sua chioma e volto la sua ruota.
Non v’è chi ragioni che non sappia a chi, presto o tardi, arriderà la vittoria. E anche se noi agiremo con la massima buona fede del mondo,
saremo sempre veduti come gente che s’è volta alla forza, alla fortuna, alla opportunità, al ricatto. […] Il nostro paese ne risente sempre,
rivoluzionario in principio, conservatore in fine, ma né l’una cosa né
l’altra nettamente. Lo stato, che doveva realizzare l’antitesi del cattolicismo, complotta, mercanteggia, tratta, tollera i cattolici. La chiesa
vive a spese e con tolleranza di un regime che dovrebbe condannare
come empio. Il socialismo patteggia con i borghesi per averne favori
di riforme. I borghesi si assicurano contro la rivoluzione cedendo i
posti grassi ai socialisti. L’Italia soffre di questa perpetua finzione, in
cui nessuno è al suo posto. La guerra sarà abolita nel mondo il giorno
24 25 26 27 18
BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 13 settembre 1914, p. 4.
Ivi, 13 settembre, p. 5.
Ibidem.
Ivi, 13 settembre, p. 8.
in cui nel mondo ci sarà giustizia: non prima!28
Il 13 novembre Prezzolini firmò il consueto editoriale
che annunciava le novità della rivista per il 1915, ma anche
la sua uscita di scena da direttore de «La Voce», lasciando a
Giuseppe De Robertis la direzione, quest’ultimo nominato
dallo stesso Prezzolini. Ecco le sue ultime parole: “Sarebbe
stato un mio vivo desiderio dedicarmi tutto a la Voce, lasciando ogni altra collaborazione ma questo non è possibile.
Del resto ho sempre sperato ed atteso in questi anni, fin dal
primo anno de La Voce, qualcuno, un giovane, che mi sostituisse. La Voce è fatta per i giovani!”.29
NOTA BIBLIOGRAFICA
B. von Bülow, Memorie, Mondadori, Milano, 1931;
F. Fischer, Assalto al potere mondiale, La Germania nella
guerra 1914-1918, Einaudi Editore, Milano, 1965;
M. Mazzetti, L’esercito italiano nella triplice alleanza,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1974;
R. Webster, L’imperialismo industriale italiano 19081915, Einaudi Editore, Milano, 1974;
M. Isneghi, G. Rochat, La grande guerra 1914-1918, La
Nuova Italia, Firenze, 1999;
R. De Felice, Mussolini: il rivoluzionario, 1883-1920, Einaudi Editore, Milano, 2005;
E. Hobsbawm, Il Secolo breve, Rizzoli, Milano, 2006;
R.F. Betts, L’alba illusoria, L’imperialismo europeo
nell’Ottocento, Il Mulino, Bologna, 2008;
A. Biagini, L’Italia e le guerre balcaniche, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2012;
R. Sciarrone, Strategie militari franco-tedesche a confronto (1905-1913), Nuova Cultura, Roma, 2013.
FONTI
Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea (BSMC),
R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 13 gennaio 1914; 28 gennaio
1914; 28 aprile 1914; 28 giugno 1914; 28 agosto 1914; 13
settembre 1914; 28 settembre 1914; 13 novembre 1914.
28 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 28 settembre 1914, pp. 2-4.
29 BSMC, R.I. 101/1, «La Voce», Firenze, 13 novembre 1914, p. 2.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Marie Curie, Hertha Ayrton e le altre.
Donne e scienziate
STEFANO OSSICINI
Dipartimento di Scienze e Metodi dell’Ingegneria e Centro Interdipartimentale En&Tech, Università degli Studi di Modena e Reggio
Emilia
È
il 7 novembre 1911, le agenzie di stam- Institution di Londra. Prima donna a ottenere il premio Nopa di tutto il mondo rilanciano l’annuncio bel, nel 1903. Prima donna docente alla Sorbona nel 1906.
dell’Accademia delle Scienze di Svezia: Prima donna a essere accolta nell’ Accademia Francese di
Marie Sklodowska-Curie (1867-1934)
è stata insignita del suo secondo premio
Nobel, questa volta per la chimica. Premio Nobel che
segue quello del 1903, per la fisica, ottenuto assieme al
marito Pierre Curie (1859-1906) e a Henri Becquerel
(1852-1908).
Marie è la/il prima/o scienziata/o a ricevere un secondo premio Nobel. A tutt’oggi è l’unica/o ricercatrice/ore
ad aver ottenuto due premi Nobel in due discipline scientifiche diverse, fisica e chimica. Gli altri pluripremiati
sono lo statunitense John Bardeen (1908-1991) due volte
premio Nobel per la fisica, nel 1956 per la scoperta del
transistor e nel 1973 per la spiegazione della superconduttività; l’inglese Frederick Sanger (1918-2013) due
volte premio Nobel per la chimica, nel 1958 per lo studio
della struttura dell’insulina, e, nel 1980 per i suoi studi
sul DNA e lo RNA; infine Linus Pauling (1901-1994),
premio Nobel per la chimica nel 1954 per le sue ricerche sul legame chimico e premio Nobel per la pace, nel
1962, per la sua battaglia contro la proliferazione delle
armi nucleari.
Marie Curie è abituata ad arrivare per prima [1]. Prima
alla laurea in fisica alla Sorbona di Parigi nel 1893, prima al concorso per l’insegnamento della fisica nel 1896,
prima donna a ottenere il dottorato in fisica in Francia nel
1903. Della commissione per la sua tesi di dottorato facevano parte due futuri premi Nobel, Gabriel Lippmann
Marie Curie
(1845-1921), premio per la fisica 1908 per lo sviluppo
della fotografia a colori, e Henri Moissan (1852-1907), pre- Medicina nel 1922. E dopo la morte, prima donna sepolta,
mio per la chimica nel 1906 per aver isolato il fluoro e per per i suoi meriti scientifici, nel Panthéon a Parigi, nel 1995.
l’invenzione del forno a arco elettrico. La commissione concluse i suoi lavori giudicando le scoperte presentate come
Risultati non da poco, basti pensare che ad oggi sono solo
il più grande contributo scientifico mai fatto in una tesi di 47 (di cui 18 a partire dal 2000, e ben 5 nel solo 2009) le
dottorato. Prima donna a essere ricevuta, nel 1903, alla Royal donne che hanno ricevuto il premio Nobel, a fronte di circa
19
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
800 uomini. In fisica le donne premiate, in oltre un secolo,
sono solo 2 (su un totale di 199 laureati): Marie Curie e la
tedesca Marie Goeppert-Mayer (1906-1972), nel 1963, per
gli studi sulla struttura del nucleo atomico. In chimica 4 (su
169 laureati): di nuovo Marie Curie, sua figlia Irène JoliotCurie (1897-1956), nel 1935, per la scoperta della radioattività artificiale, Dorothy Crowfoot-Hodgkin (1910-1994), nel
1964, per la determinazione attraverso i raggi x della struttura
delle biomolecole, Ada Yonath
(1939-...), nel 2009, per gli
studi sulla struttura e la funzione dei ribosomi. In medicina
in tutto 11 (su 207 laureati) ,
fra cui Rita Levi-Montalcini
(1909-2012), nel 1986, per la
scoperta dei fattori di crescita.
Una sola per l’economia (su 75
laureati), Elinor Ostrom, nel
2009, per gli studi sulla “governance”. 13 per la letteratura (su 111 laureati), compresa
Grazia Deledda (1871-1936),
nel 1926, e 16 (su 127 laureati)
per la pace.
Oltretutto, questa volta, il
premio Nobel del 1911 è solo e
tutto suo, di Marie. Nel 1903 il premio ottenuto per la fisica
era stato condiviso con il marito Pierre Curie e con Henri
Becquerel, per la scoperta e le ricerche sulla radioattività.
E molti, sia in Francia, che all’estero, l’avevano considerata
come una mera appendice del marito, un’assistente e nulla
di più.
In una lettera del 1903, indirizzata a Stoccolma e firmata
da diversi membri dell’Accademia delle scienze di Francia,
solo Henri Becquerel e Pierre Curie erano stati proposti per
il Nobel di quell’anno. Fu Gösta Mittag-Leffler (1846-1927),
famoso matematico e membro dell’Accademia reale svedese, che considerava profondamente ingiusta quella scelta,
ad avvertire Pierre Curie che il nome di Marie non era stato
menzionato per il premio. Nell’agosto 1903 Pierre rispose
evidenziando in dettaglio il contributo di Marie e proponendo un riconoscimento contemporaneo. Mittag-Leffler approfittò del fatto che Marie era stata proposta da altri l’anno prima e così si arrivò al riconoscimento anche per lei [2].
Eppure riguardo al ruolo dei due Curie, la storia era andata
esattamente all’opposto. Henri Becquerel, nel marzo 1896,
aveva osservato l’emissione di radiazione ionizzante da parte
di certi sali di uranio. Raggiunto all’inizio del 1896 dalla notizia della scoperta dei raggi x da parte del tedesco Wilhelm
Röntgen (1845-1923), futuro primo premio Nobel per la fisica nel 1901, Becquerel si mise ad indagare se i materiali
fosforescenti, materiali che, esposti per qualche tempo ad
una sorgente luminosa, emettono una debole luce dopo che la
sorgente è stata eliminata, fossero in grado di produrre oltre
alla luce anche raggi x [3]. Prese allora una scheggia di sol20
fato di uranio e potassio, fosforescente una volta esposta alla
luce solare, e la pose su di una lastra fotografica avvolta in
strati di carta nera. Sviluppata, la lastra mostrò la forma della
scheggia fosforescente. Un effetto paragonabile a quello dei
raggi x. Ma ecco che, il 26 febbraio 1896, il caso intervenne.
Becquerel preparò il sale di uranio e la lastra fotografica, ma
il tempo era incerto e lasciò il tutto in un cassetto. Il sole
non si fece vedere per alcuni
giorni, ed il 1 marzo Becquerel sviluppò lo stesso la lastra
fotografica sicuro di trovare
al più una debole traccia della
scheggia. Con sorpresa, invece, la forma della scheggia era
particolarmente intensa. Era la
scoperta della radioattività.
Ed era stata proprio Marie
a scegliere, nel 1897, come
tema della sua tesi di dottorato
la scoperta di Becquerel. Era
stata lei a intuire l’esistenza
di altri materiali radioattivi,
diversi dall’uranio, intuizione che portò alla scoperta del
polonio e del radio. Era stata
lei a scegliere il nome di radioattività per questi fenomeni. Pierre era intervenuto solo successivamente, quando si
era reso necessario utilizzare un metodo fine, quantitativo,
per la misura dell’intensità della radioattività [4]. La scelta
era caduta sugli strumenti basati sull’effetto piezoelettrico
(quell’effetto per cui alcuni cristalli sono in grado di generare una differenza di potenziale elettrico quando sono soggetti
ad una deformazione meccanica), effetto e strumenti scoperti
e costruiti, a partire dal 1880, da Pierre a da suo fratello Jacques Curie (1856-1941) [5,6].
Per cui il premio Nobel ad entrambi i coniugi Curie fu una
decisione sacrosanta [7-10]. Anche se molti continuavano a
vedere in Pierre il vero artefice e in Marie un semplice aiuto.
Ancora nel 1909, Hertha Ayrton, una fisica inglese di cui
parleremo più a lungo nel seguito, stanca di leggere continuamente sui giornali inglesi il solo nome di Pierre quale
scopritore del radio, mandò una lettera alla Westminster
Gazette: “Si sa che è molto difficile eliminare gli errori, ma
sembra che l’errore che attribuisce ad un uomo i meriti di
una donna abbia più vite di un gatto”.
Nel 1906 Pierre era morto, investito da una carrozza trainata da cavalli. Marie aveva preso il suo posto di professore
alla Sorbona ed era riuscita a isolare per la prima volta, nel
1910, il radio nella sua forma pura, metallica. Un’impresa
ragguardevole, che accanto alla precisa determinazione del
numero atomico del radio stesso, allo studio dei suoi composti, alla scoperta del polonio, al lavoro per la scelta e la
determinazione di un’unità di misura per la radioattività (su
proposta di Marie, nel 1909, a tale unità fu dato il nome di
curie, in onore di Pierre) [11] le era valso questo secondo
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
premio, ora privo di ombre.
Ma neanche questa volta Marie poté godersi il riconoscimento senza angustie. Dopo la morte di Pierre, Marie aveva
passato un periodo terribile di depressione [12]. Tornata a
vivere nella casa natale di Pierre a Sceaux, alle porte di Parigi, le erano state di grande conforto e aiuto per il ritorno al
lavoro e alla normalità la vicinanza e il sostegno del suocero
Eugéne Cuire (1827-1910), medico, che era stato sulle barricate durante la rivoluzione del 1848 e che assieme ai figli
adolescenti aveva trasformato la sua casa in un’infermeria
nelle tragiche giornate della Comune di Parigi del maggio
1871. Nonno Eugéne divenne, anche, una figura fondamentale per la prima figlia di Marie, Irène [13].
In quegli anni Marie, Mé per le figlie, mise in piedi un
interessante esperimento di educazione alternativa organizzando una scuola per le sue figlie e i figli e le figlie dei suoi
amici [14].
I Perrin: Jean Baptiste Perrin (1870-1942) professore alla
Sorbona, futuro premio Nobel per la fisica nel 1926 per i suoi
studi sulla struttura atomica della materia, e sua moglie Henriette Duportal (1869-1938), nota scrittrice e, assieme alle
sue sorelle, una delle prime donne in Francia a raggiungere
la laurea.
I Langevin: Paul Langevin (1872-1946) professore di fisica al Collegio di Francia, allievo di Pierre e suo successore al
Collegio, un’autorità nel campo delle proprietà magnetiche
della materia, e sua moglie Emma Jeanne Desfosses (18741970) .
Henri Mouton (1869-1935) chimico-fisico e biologo
dell’Istituto Pasteur, scopritore insieme a Cotton dell’effetto
Cotton-Mouton sulla doppia rifrazione della luce in un liquido in presenza di un campo magnetico trasverso.
Gli Chavannes, famiglia protestante: Edouard Chavannes
(1865-1918), considerato il più grande sinologo del suo tempo e sua moglie Alice Dor (1866-1927), poetessa.
Il celebre scultore Jean Magrou (1869-1945) e sua moglie
Jeanne Rixens, nipote del pittore André Rixens (1846-1925).
E infine gli Hadamard, famiglia di origine ebraica: Jacques
Salomon Hadamard (1865-1963), presidente della Società
Matematica di Francia, uno dei grandi matematici del secolo
scorso, forte sostenitore della causa sionista, e sua moglie
Louise-Anna Trénel (1858-1960), figlia del Direttore della
Scuola rabbinica di Francia.
In questa scuola, denominata la Società degli Scienziati
per l’Insegnamento Sperimentale, Marie insegnava fisica,
Jean Perrin chimica, Paul Langevin matematica, Henri Mouton scienze, Henriette Duportal storia e francese, Alice Dior
inglese, tedesco e geografia e Jean Magrou disegno e belle
arti. Molto peso veniva dato alle attività pratiche, di laboratorio, alle attività artistiche e a quelle sportive, e soprattutto
all’eguaglianza fra maschi e femmine. Come ricorderà anni
dopo Irène Curie, probabilmente lei è stata la prima cittadina
in Francia a mettere gli sci ai piedi.
Un’altra allieva di quella scuola, l’adolescente, era nata
nel 1894, Isabelle Chavannes, futura ingegnere chimico industriale, di cui rimangono gli appunti, scoperti pochi anni or
sono, relativi proprio alle lezioni, in quella scuola, di Marie
Curie [14], ricorda che una volta Marie pose loro il seguente
quesito “Come fareste per mantener caldo il liquido contenuto in questo recipiente?”. Fra gli studenti Francis Perrin
(1901-1992) futuro fisico, Jean Langevin (1899-1990), anche
lui diventerà un fisico, Pierre (1894-1916) e Etienne (18991916) Hadamard, entrambi moriranno in guerra a Verdun,
Irène Curie, le star della scuola, propongono soluzioni ingegnose: circondare il recipiente di lana, isolarlo con metodi
raffinati, etc.., Marie sorride e dice: “Ebbene, io comincerei
col mettere un coperchio”.
Questa serenità non dura però molto. A fine 1910 Marie viene candidata all’Accademia delle scienze di Francia,
l’Accademia dei cosiddetti Immortali, in sostituzione del
chimico-fisico Dèsiré Gernez (1834-1910), deceduto. E’
vero, sarebbe la prima donna a far parte dell’Accademia, ma
è già premio Nobel e professoressa alla Sorbona. Non sembrano esserci ostacoli. Ma il 16 Novembre 1910 la notizia
della sua candidatura diventa pubblica con un articolo del
quotidiano Le Figaro. E subito si scatena una campagna di
stampa diffamatoria.
Molti amici della cerchia di Marie erano noti per le loro
posizioni progressiste e cosmopolite. Ad esempio Emile Borel (1871-1956), figlio di un pastore protestante, matematico,
specialista di teoria delle funzioni, membro dell’Accademia
delle scienze e sua moglie Marguerite Appel (1883-1969),
scrittrice nota sotto lo pseudonimo di Camille Marbo, e figlia
di Paul Appel (1855-1930) matematico e preside della Facoltà di scienze della Sorbona. In vecchiaia Marguerite pubblicò il libro di memorie “Á travers deux siécles: souvenirs et
rencontres”, una miniera di informazioni sugli anni difficili
della Curie [15]. Assieme i due Borel avevano fondato il periodico mensile “Revue du mois”, che si occupava di letteratura, arte, teatro, scienza e politica. Era su quella rivista che
era apparso il necrologio scritto da Marie per Pierre [12].
Fra le altre amiche di Marie, una figura notevole era quella
di Loïe Fuller (1862-1928), statunitense, pioniera della danza
moderna, apertamente omosessuale, che aveva lavorato con
i fratelli Lumière [16]. La Fuller aveva brevettato numerosi
apparati illuminotecnici che facevano uso di luce elettrica,
anche prodotta mediante particolari gel chimici [17]. Aveva
addirittura pensato di utilizzare per i suoi abiti di scena la
luminescenza prodotta dal radio della Curie. Fra l’altro Loïe
Fuller era membro della Società astronomica di Francia.
Ma gli amici della Curie erano, soprattutto, noti per la loro
attività durante l’affare Dreyfus, e per essere stati, fin dalla
fondazione, membri influenti della Lega per i Diritti dell’Uomo.
Alfred Dreyfus (1859-1935), ufficiale alsaziano di origine
ebraica, ingiustamente accusato di spionaggio a favore della
Germania nel 1895, era stato prima condannato ai lavori forzati, poi graziato nel 1899 dal presidente della repubblica e
infine riabilitato pienamente nel 1906. In suo favore ci fu una
mobilitazione degli intellettuali progressisti culminata nella
famosa lettera di Emile Zola (1840-1902), “J’Accuse”, al
presidente della repubblica, pubblicata sull’Aurore.
21
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
Nonostante la completa dimostrazione dell’innocenza di
Dreyfus, il caso restò per decenni uno spartiacque fra destra
e sinistra in Francia. Ancora nel 1908 durante la cerimonia
della inumazione delle ceneri di Zola al Panthéon, Alfred
Dreyfus subì un attentato in cui rimase ferito.
E’ la stampa di destra francese, con in testa il quotidiano
antisemita e ultranazionalista L’Action Francaise, diretto da
Leon Daudet (1867-1942), figlio dello scrittore Alphonse
Daudet (1840-1897), a menare le danze contro la candidatura di Marie all’Accademia. Non solo vengono ritirate fuori le
accuse a Marie di aver rubato la scena al marito Pierre, ma la
si accusa, lei di famiglia cattolica, che però non aveva voluto far battezzare le figlie, di essere, invece, di origine ebrea.
Su Le Figaro esce un lungo saggio, intitolato “Il travestito
verde” (verde era il colore dell’abito degli accademici) della
scrittrice Marie de Régnier (1875-1963) che accusa la Curie
di tradire l’eterno ideale femminino: le donne sono fatte solo
per l’amore, la devozione e non per l’ambizione [18].
Viene scelto un candidato da opporre alla Curie, il fisico
Edouard Branly (1844-1940), uno dei pionieri delle radiocomunicazioni. I nazionalisti francesi non avevano ancora digerito il fatto che il Nobel del 1909 per la fisica era stato dato
solamente all’italiano Guglielmo Marconi (1874-1937) e al
tedesco Ferdinand Braun (1850-1918). Branly era cattolico e
aveva lasciato la Sorbona per l’Università Cattolica. Divenne, suo malgrado, il campione della destra.
Su L’Action Francaise comparve un articolo di Daudet intitolato “Dreyfus contro Branly” [19]. Notare la finezza, la
Curie non veniva neanche nominata, ma la sua candidatura
veniva tacciata come femminista e eccentrica, frutto di quel
covo di intellettuali, ebrei e ugonotti che era la Sorbona.
La votazione dell’Accademia avvenne il 23 gennaio 1911,
occorreva una maggioranza di 30 voti. Alla prima votazione
Branly ottenne 29 voti, la Curie 28 e il fisico Marcel Brilluoin (1854-1948) uno. Alla seconda Branly ne ottenne 30, la
Curie rimase a 28. Branly aveva vinto.
Marie non entrerà mai a far parte dell’Accademia delle
Scienze, non vorrà neanche più essere candidata e da allora non pubblicherà più i suoi lavori sulle riviste scientifiche
dell’Accademia. Per vedere una donna membro di questo
istituto bisognerà attendere fino al 1962.
Ma questo è solo un piccolo assaggio di quello che la Curie
dovrà affrontare nell’anno del suo secondo Nobel.
A partire dalla cooperativa di insegnamento, organizzata
per le ragazze e i ragazzi dei suoi amici, era nata una forte
amicizia tra Marie e Paul Langevin, amicizia che lentamente
si era trasformata in una storia di amore. Nel 1910 i due avevano affittato un piccolo appartamento vicino alla Sorbona,
dove solevano passare i momenti liberi assieme.
Paul Langevin aveva una difficile situazione familiare;
sposato con quattro figli, il suo matrimonio era stato un
continuo di litigi spesso violenti e di discussioni feroci. La
famiglia della moglie gli rimproverava sia le sue tendenze
progressiste che il suo magro stipendio di professore. Accettando un lavoro nell’industria avrebbe potuto guadagnare
ben di più [20,21].
22
La moglie di Langevin, Jeanne, sospettando qualcosa, era
riuscita con l’aiuto della sorella a intercettare una lettera di
Paul a Marie. Poco dopo, nella primavera del 1911, uno strano furto era avvenuto nell’appartamento dei due a Parigi e
diverse lettere di Paul e Marie erano state trafugate. Ne nacque un complicato scontro fra le varie parti, Jeanne arrivò a
minacciare apertamente di morte Marie [2,22]. Lo scontro
venne mediato da Jean Perrin e dal cognato di Jeanne, Henri
Bourgeois (1864-1946), editore del giornale conservatore Le
Petit Journal. Pare che ci furono anche ingenti versamenti di
denaro. Alla fine si giunse, comunque, ad un accordo: Paul
e Marie non si sarebbero più visti, mentre Jeanne rinunciava
alla pubblicazione delle lettere, che rimanevano però in suo
possesso.
Nei primi giorni di novembre del 1911 si svolse a Bruxelles la prima delle famose conferenze Solvay. Ernest
Solvay (1838-1921), di formazione chimico-fisico, era un
imprenditore di successo. Assieme al fratello Alfred Solvay
(1840-1894) aveva sviluppato un processo industriale per la
produzione di carbonato di sodio. Le sue industrie si espansero rapidamente in tutto il mondo, rendendolo ricchissimo.
Solvay, di ideali socialisti, introdusse, in anticipo sulle legislazioni, un sistema pensionistico per i lavoratori nel 1878,
istituì l’orario lavorativo di 8 ore nel 1897 e nel 1913 concederà le ferie pagate.
La passione per la scienza era rimasta una sua costante e
dopo una discussione con il chimico tedesco Walther Nernst
(1864-1941), che sarà premio Nobel per la chimica nel 1920,
si decise a organizzare una conferenza scientifica sui temi
allora scottanti della nuova fisica e della nuova chimica.
Quella del 1911, dal titolo Radiazioni e Quanti, preseduta da
Hendrik Lorentz (1853-1928), premio Nobel per la fisica del
1902, fu la prima di una serie di prestigiose conferenze che
durano tuttora [23].
Di quella conferenza ci resta una famosa foto che vede
assieme, all’Hotel Metropol di Bruxelles, i 24 partecipanti,
fra cui ben 10 premi Nobel presenti e futuri, tra i quali Max
Planck (1858-1947), Albert Einstein (1879-1955) e Ernest
Rutherford (1871-1937). La delegazione francese era composta da Jean Perrin, Henry Poincarè (1854-1912), Marcel
Brilluoin, Paul Langevin e Marie Curie. Inutile dire che
quest’ultima era la sola donna presente.
Forse Jeanne Langevin avrà visto questa conferenza come
una rottura del patto firmato nei mesi precedenti, fatto sta
che il 4 novembre 1911 un articolo apparve sul quotidiano
dal titolo “Una storia di amore: madame Curie e il professor Langevin”. Nell’articolo si parlava della scomparsa da
Parigi sia di Madame Curie che di Langevin, e quest’ultimo
veniva accusato di aver abbandonato la moglie e i quattro
figli per seguire Marie. La storia venne ripresa e alimentata
da diversi giornali.
La replica di Marie, affidata al periodico Le Temps, fu
immediata. La vicenda della fuga era una pura invenzione,
una vera follia. In quei giorni, lei era stata a Bruxelles per
partecipare ad una conferenza importante assieme ad una
ventina dei migliori scienziati del mondo. Henri Poincarè,
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Emil Borel, Jean Perrin e il fratello di Pierre Curie, Jacques,
intervennero sulla stampa in suo favore. L’interesse sembrò quindi scemare e nel frattempo, come abbiamo visto, il 7
novembre, l’Accademia delle Scienze di Svezia annunciava
il secondo premio Nobel a Marie. Interessante è che l’Accademia svedese stessa, allarmata dal clamore, aveva contattato diverse volte l’ambasciatore di Svezia a Parigi onde
rimanere informata sugli sviluppi della vicenda, venendone
rassicurata.
Questa volta, però, contrariamente al 1903, l’interesse dei
giornali francesi per il premio non fu particolarmente vivo, la
notizia fu spesso relegata nelle pagine interne.
Contemporaneamente si lanciarono sulla affare Curie-Langevin sia il Petit Journal che soprattutto, ancora una volta,
Leon Daudet con il suo famigerato l’Action. Ne nacque, così,
una replica fortemente ampliata della campagna dell’anno
precedente, quella relativa alla nomina di Marie all’Accademia delle Scienze. Gli attacchi alla Curie diventarono feroci,
sia su l’Action che su L’Intransigeant. Marie venne accusata
di essere una sorta di vedova nera, per giunta straniera e probabilmente ebrea, che rubava il marito ad una povera donna
francese e toglieva il padre ai suoi quattro figli. Una donna
fredda e calcolatrice, una intellettuale emancipata, ostile al
culto della famiglia, che aveva fondato la sua fama sul lavoro
del marito morto, di cui ora disonorava la memoria.
Di più, si arrivò ad insinuare che la storia tra Marie e Paul
era nata quando Pierre era ancora in vita e che quest’ultimo,
disperato per il tradimento della moglie e dell’amico, si era
suicidato. Questo era il vero motivo del suo incidente del
1906!
Su l’Excelsior comparve perfino una studio morfologico
di Marie, accompagnato da disegni che la ritraevano in forma
parossistica. Immagini simili fra non molto compariranno
sulle peggiori pubblicazioni razziste, annunciando un triste
futuro. Di nuovo si lanciarono accuse contro la presunta lobby massonico-ebraico-tedesca-ugonotta, attiva nelle Università, pronta a difendere una straniera contro una francese. Il
23 novembre venne raggiunto il culmine. La rivista L’Oeuvre
diretta da Gustave Téry (1870-1928), che era stato in gioventù un libero pensatore estremista e che all’inizio del secolo si
era trasformato in un acceso nazionalista, un fondamentalista
cattolico violentemente antisemita, pubblicò presunte copie
di alcune delle lettere di Marie e Paul, quelle trafugate nello
strano furto della primavera precedente, lettere che dimostravano il legame tra i due. Naturalmente gli estratti venivano
accompagnati dalle solite accuse e dal grido “la Francia siamo noi” e non questa accolita di cosmopoliti senza dio, senza
patria, senza famiglia e dreyfusardi. Quel giorno stesso una
folla rumoreggiante si raccolse attorno alla casa dei Curie a
Sceaux, alle porte di Parigi. Marie Curie e la sua famiglia
erano ormai assediate al grido “Abbasso la straniera, ladra di
mariti! Tornatene in Polonia!” Sassi vennero lanciati contro
le finestre. Occorreva fare qualcosa [2,22].
La pubblicazione delle lettere di Marie aveva prodotto
dei cambiamenti anche in alcuni dei suoi amici e colleghi,
evidentemente non pronti ad accettare la sua storia d’amore.
Altri, i Perrin, i Borel, Jacques Curie, Loïe Fuller rimasero,
invece, al suo fianco. E sono i Borel, questa volta, a prendere
il timone in mano.
Marguerite Borel e Andrè-Louis Debierne (1874-1949),
chimico, da sempre collaboratore dei Curie, che nel 1899
aveva scoperto l’attinio e nel 1910 assieme a Marie aveva
isolato il radio metallico, si precipitano a Sceaux per affrontare la teppaglia e per proteggere Marie e Eve Curie (19042007), la più piccola delle sue due figlie. Lo stesso Debierne
si reca poi alla scuola frequentata dalla figlia maggiore Iréne
per sottrarla al clamore. Emil Borel prepara per tutte loro una
stanza in un suo appartamento alla Scuola Normale, di cui è
il Direttore. Qui Marie trova finalmente riparo.
La situazione diventa complicata e incandescente. Il ministro della pubblica istruzione convoca Borel e gli ingiunge
di far sloggiare la Curie da un appartamento che appartiene
all’Università, un’istituzione che lei, con la sua presenza, sta
screditando. Il ministro minaccia di rimuovere Borel dal suo
incarico, Borel non indietreggia di un passo. Terrà le Curie
a casa sua finché sarà necessario ed è pronto a presentare le
proprie dimissioni e quelle di altri docenti della Sorbona e a
farne un caso pubblico se il ministro insiste. Borel non verrà
rimosso e Marie rimarrà in quella casa alla Sorbona.
Marguerite Borel è convocata da suo padre, Paul Appel,
preside della facoltà di scienze della Sorbona, che aveva sostenuto Marie nella sua battaglia per l’Accademia, ma che
oggi chiede alla figlia di non immischiarsi in questo affare e
le rivela che si sta pensando di chiedere a Marie di lasciare
la Francia e proseguire il suo lavoro in Polonia. Marguerite è
furibonda, e risponde al padre “Se tu giocherai un ruolo qualsiasi in questo idiota movimento nazionalista, se insisterai
con la richiesta che la Curie debba abbandonare la Francia,
giuro che non mi rivedrai mai più”. Del trasferimento forzato
della Curie in Polonia non se ne farà più niente [15]. Per il
momento Marie è salva, grazie al coraggio civile di pochi.
Durante i giorni nei quali Marie rimarrà dai Borel molte
cose succedono. I suoi amici intervengono a più riprese. Jacques Curie manda una lettera aperta ai giornali in sua difesa,
piena di dignità e buon senso. Il matematico Paul Painlevè
trasforma la sua conferenza all’Associazione degli studenti
universitari in una apologia di Marie. Altri, come Loïe Fuller, vanno ostentatamente a visitarla.
Ma, mentre sugli altri periodici la storia sembra perdere
peso, l’Oeuvre continua nella sua campagna, annunciando,
fra l’altro, che Jeanne Langevin ha denunciato per abbandono del tetto coniugale Paul, e che Paul e Marie sono stati
convocati in tribunale per il 9 dicembre. In teoria, il giorno
dopo, il 10 dicembre, Marie dovrebbe essere a Stoccolma per
ricevere il premio Nobel. Gli eventi sembrano precipitare di
nuovo.
Paul Langevin sfida a duello Gustave Téry. Il duello avviene il 26 novembre, al mattino, nel bosco di Vincennes, ma
nessuno dei due spara, ci si limita solo a puntare le armi. Lo
stesso giorno una viva descrizione del mancato duello compare su diversi quotidiani di Parigi. La notizia fa il giro del
23
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
mondo e raggiunge anche la Svezia.
Svante Arrhenius (1859-1923), chimico svedese, premio
Nobel per la chimica nel 1903 e membro del comitato per
il Nobel, scrive a Marie dicendole che per lui e molti colleghi è preferibile che lei non si faccia vedere il 10 dicembre
alla premiazione e che qualora l’Accademia avesse creduto
all’autenticità delle lettere non le avrebbe conferito il premio [2]. Marie Curie è profondamente addolorata e distrutta,
scrive a Gösta Mittag-Leffler, che ancora una volta è dalla
sua parte, e si consiglia con lui sul da farsi. Infine spedisce
una lunga lettera a Arrhenius rivendicando la validità del suo
lavoro scientifico, chiedendo rispetto per la sua vita privata e
annunciando che sarà a Stoccolma, pronta a ricevere il premio. La lettera termina con la frase: “In tutta questa vicenda
penso di non aver nulla da rimproverarmi, se non di aver
trascurato i miei interessi.” [24].
Così Marie sarà a Stoccolma, accompagnata dalla figlia
Irène e dalla sorella Bronia, e riceverà dalle mani del re di
Svezia il suo secondo premio Nobel. Il discorso di accettazione del premio sarà privo di paure e pieno di rivendicazioni
dei suoi meriti.
Ma lo stress è stato troppo, appena tornata in Francia la
Curie avrà un crollo psicofisico e dovrà essere ricoverata in
ospedale [25]. Nel frattempo, il 9 dicembre, Paul Langevin
e Jeanne si separano e nella causa di separazione non viene
fatta alcuna menzione di Marie Curie. Paul e Marie rimarranno buoni amici per il resto della loro vita, ma la loro storia
d’amore è irrimediabilmente finita.
Il 1912 sarà l’anno del recupero e della guarigione, opera
soprattutto di Hertha Ayrton, la fisica inglese amica di Marie,
che la invita a trascorrere con le figlie un lungo periodo in
Inghilterra, in incognito, lontano dai riflettori e dalla stampa
francese. Un lungo soggirono che coinciderà con il punto più
alto del movimento delle suffragette, di cui Hertha Ayrton è
una delle espeonenti più importanti e la sua casa un punto di
riferimento.
Hertha Ayrton ha molti punti in comune con Marie Curie e ha avuto anch’essa una vita piena di difficoltà e scontri affrontate con un piglio molto battagliero [26]. Anche
lei, scienziata sposata con uno scienziato, quando William
Ramsay (1852-1916), chimico scozzese, premio Nobel per la
chimica nel 1904, se ne uscì con la battuta che il merito delle
donne scienziato era dovuto agli uomini coautori dei loro articoli, rispose con grande spirito che, guarda caso, anche Sir
William Ramsay aveva sempre pubblicato lavori assieme a
dei collaboratori maschi.
Hertha Ayrton (1854-1923), alla nascita Phoebe Sarah
Marks, adottò il nome Hertha da adolescente prendendo
spunto da un poema popolare dell’epoca che attaccava le
convenzioni religiose. Rimase per tutta la vita un’agnostica, comunque sempre orgogliosa della sua origine ebraica.
Avendo presto perso il padre, un orologiaio che era dovuto
fuggire dalla Polonia, cominciò giovanissima a lavorare per
potersi mantenere agli studi e per aiutare la madre a mantenere la numerosa famiglia, otto fra fratelli e sorelle.
24
Hertha fu sempre incoraggiata nei suoi intendimenti dalla
madre, dalla scrittrice George Eliot (1819-1880) che la prese
a modello per il personaggio di Mirah nel suo romanzo Daniel Deronda, e da Barbara Leigh-Smith Bodichon (18271891) che l’appoggiarono anche finanziariamente. Barbara
Bodichon era una delle più note militanti del movimento per
il voto alle donne. Nel 1857 aveva scritto il libro Women
and Work e nel 1866 aveva fondato il primo comitato per
il suffragio femminile. La Bodichon contribuì pure alla nascita del primo collegio femminile a Cambridge, il Girton
College, fondato nel 1873, che solo nell’aprile 1948 verrà,
per un numero ristretto di donne, aggregato all’Università di
Cambridge, mentre il suo pieno riconoscimento ci sarà infine
nel 1972 [27].
Hertha riuscì ad essere ammessa al Girton College nel
1876, dove si diplomò in matematica. A quel tempo non era
permesso alle donne conseguire una laurea. La Ayrton lavorò allora come insegnante iscrivendosi in seguito, nel 1884,
al Collegio Tecnico di Finsbury. Qui costruì uno sfigmomanometro e inventò uno strumento per la divisione esatta delle
linee [28].
Nel 1885 sposò William Edward Ayrton (1847-1908),
professore di fisica e ingegnere elettrico, politicamente progressista, vedovo e con una piccola figlia a carico, Edith Ayrton (1879-1945), la quale divenne scrittrice e sposò Israel
Zangwill (1864-1926), anche lui scrittore e noto esponente
del movimento sionista. William e Hertha ebbero una figlia, Barbara Bodichon Ayrton (1886-1950). Entrambe le
ragazze, Barbara e Edith, giocheranno un ruolo importante
nel movimento di emancipazione delle donne, nella battaglia
delle suffragette.
Nel 1893 Hertha riprese i suoi studi e le sue ricerche scrivendo diverse lavori sulla lampada ad arco, che confluirono
in un libro molto diffuso, pubblicato nel 1902 [29]. Nel 1899
ricevette, per le sue pubblicazioni, un premio dall’Istituto degli Ingegneri Elettrici (IEE) e ne divenne nello stesso anno il
primo membro donna. All’epoca l’istituto contava ben 3300
membri. Fu anche la prima donna a tenere un seminario di
fronte alla Royal Society nel 1904. Royal Society che l’insignì, nel 1906, della prestigiosa medaglia Hughes, ma che,
nel 1902, le aveva rifiutato l’affiliazione in quanto donna
maritata. Occorrerà aspettare il 1946 per avere la prima donna membro della Royal Society [27,30].
Nei primi anni del novecento Hertha passò ad occuparsi
di problemi di idrodinamica e dinamica dei materiali discreti
[31]. E’ sua una notevolissima monografia, oggi riscoperta
e apprezzata, sulle ondulazioni, le increspature e il movimento della sabbia, ricca di ingegnosi esperimenti, svolti costruendo appositi strumenti [32]. Fu tale lavoro a portarla a
Parigi per una presentazione dove ebbe modo di riincontrare
Marie Curie, conosciuta a Londra nel 1903, di cui era diventata grande amica. La sua attività scientifica, così come la
sua amicizia con Marie, durò tutta la vita, fino alla sua morte
nel 1923.
Hertha Ayrton si era da sempre impegnata in battaglie sociali, soprattutto in favore dell’emancipazione delle donne e
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
fu sempre pronta ad agire in prima persona. Già nel 1876 si tà, impreparate, per motivi di salute. Fu il primo di una lunera iscritta alla Società centrale per il suffragio alle donne. ga serie di scioperi della fame; negli anni se ne conteranno
Fece poi parte della Unione nazionale delle società per il suf- diverse centinaia. Nel settembre 1909 il governo, temendo
fragio alle donne (NWSS) partecipando a diversi congressi, le conseguenze degli scioperi della fame, varò una nuova
moltissime manifestazioni e comizi, anche come oratrice. legge, che imponeva la nutrizione forzata delle prigioniere
L’11 dicembre del 1906 era presente al famoso banchetto al con mezzi violenti e degradanti, utilizzando imbuti e tubi inSavoy Hotel di Londra organizzato dalla NWSS per festeg- seriti a forza in bocca, nel naso, nel retto delle prigioniere. I
giare la liberazione delle femministe imprigionate per le loro resoconti e le immagini di tali trattamenti crearono ancora
maggiore malcontento ed un’enorme indignazione [35].
proteste.
Nel 1907 la Ayrton passò alla più
radicale WSPU (Unione sociale e
Il 18 novembre del 1910, a 56
politica delle donne), fondata da
anni, Hertha Ayrton era in piazza
Emmeline Pankhurst (1858-1928)
con altre 300 attiviste a circondare
e dalle sue figlie Christabel (1880il parlamento che aveva rifiutato
1958), Sylvia (1882-1960) e Adela
di discutere l’ennesima proposta di
(1885-1961) Pankhurst, divenendare la possibilità del voto ad un
done una importante sostenitrice
certo numero di donne. Quel giorno passerà alla storia come “Black
economica e una militante attiva,
Friday”, il venerdì nero. I poliziotti,
assieme alle figlie Barbara e Edith
assieme ad una vera e propria teppa,
Zangwill. Nel 1909 si espresse,
si scatenarono in numerose violencome molte, in favore del passaggio
ze, anche sessuali, contro le dimoa metodi più radicali, vista l’inutilità
stranti. Molte donne furono picchiadelle proteste portate avanti fino ad
te e brutalizzate, due morirono nei
allora e le sempre maggiori violenze esercitate dalle autorità e dagli
giorni successivi e vi furono più di
cento arresti, e conseguenti scioperi
avversari politici sulle suffragette
[33,34].
della fame.
Le femministe cominciarono a
Allora il governo inglese adottò un’altra strategia. Con una leginterrompere i comizi politici, a gettare sassi contro le finestre del parlage, passata alla storia con il nome
mento, contro Downing Street e poi
di “Disposizione del Gatto e del
Topo” (Cat and Mouse Act), fu decontro le vetrine delle sedi dei quotiHertha Marks Ayrton (portrait by Dalal-N)
ciso che, non appena le condizioni
diani, di grandi magazzini e negozi.
delle scioperanti fossero state gravi,
Venne dato inizio ad una campagna
di disubbidienza civile; manifesti e graffiti cominciarono ad per evitare una morte in carcere e la relativa enorme risonanapparire sui muri delle città, si scrivevano slogan con il gesso za, esse venissero rilasciate, per dover poi rientrare in prisui marciapiedi, le multe non venivano pagate e ci furono gione non appena risanate. Da parte delle suffragette furono
danneggiamenti della corrispondenza, mediante versamento organizzati dei luoghi sicuri, uno di questi era l’appartamendi acidi nelle buche postali. Ne seguì un altissimo numero di to di Hertha Ayrton, dove le prigioniere appena rilasciate venivano curate, adeguatamente rifocillate e rimesse in piedi
arresti, condanne e imprigionamenti.
Il 22 giugno del 1909 Marion Wallace-Dunlop (1864- e fu creata una rete clandestina in patria e all’estero per far
1942), un’artista, attivista della WSPU, stampò con inchio- scappare chi voleva, o doveva, fuori dall’Inghilterra.
stro indelebile (scelse il viola come simbolo di dignità) un
Di fronte alla sordità e alla violenza del potere la lotta delle
manifesto di protesta su una parete della sala di St. Stephen suffragette divenne sempre più dura. Centinaia di militanti fia Westminster, allora l’entrata principale del Parlamento. nirono in carcere, a decine fecero ripetuti scioperi della fame,
Il manifesto riportava l’annuncio di una manifestazione di spesso rovinandosi la salute e pagando enormi prezzi [36].
Una di queste fu proprio Barbara Ayrton, la figlia di Hermassa in Parliament Square per il 29 giugno, durante la quale vennero arrestate 108 suffragette, e riproduceva un pas- tha, che aveva studiato chimica e fisiologia al London Colsaggio, sul diritto alla protesta, del Bill of Rigths del 1689, lege e che nel 1906 si era iscritta alla WSPU di cui era didichiarazione che rappresenta di fatto il fondamento della ventata una delle migliori organizzatrici. Fu fra le ispiratrici
costituzione inglese. Questa dichiarazione era stata ratificata della grande campagna del 1910, durante la quale ci furono
enormi manifestazioni in tutto il paese con decine e decine di
proprio in quella sala.
Imprigionata per quell’atto, Marion iniziò il 5 luglio uno migliaia di persone. Nel marzo 1912 Barbara venne arrestata,
sciopero della fame per chiedere che alle suffragette fosse insieme a varie altre militanti, per aver distrutto, a sassate,
riconosciuto il ruolo di prigioniere politiche. Dopo giorni di delle vetrine in Regent Street, durante un vero e proprio raid
astensione dal cibo, il 9 luglio, venne rilasciata dalle autori- organizzato nel West End londinese, che vide fra l’altro la
25
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
devastazione dei magazzini Harrods. Barbara fu imprigionata ad Holloway, il duro carcere londinese, dove partecipò ad
uno sciopero della fame. Sempre sostenuta dalla madre Hertha, Barbara, nel 1913, fu costretta a fuggire in Francia. Lì
rimase per diversi mesi (chissà? Forse sarà stata ospite della
Curie), nel pieno di una campagna sempre più militante [37].
Le attiviste del movimento, infatti, non solo continuavano a rompere finestre e vetrine, a interrompere cerimonie e
comizi, a pedinare e disturbare gli uomini politici avversi al
suffragio e talvolta a distruggerne le automobili, ma, dopo la
morte di una di loro, Emily Davison (1872-1913), che per
protesta aveva tentato di interrompere il Derby ad Epsom ed
era stata travolta da un cavallo di proprietà del re Giorgio
V (1865-1936), in molte cominciarono una vera e propria
campagna di incendi dolosi. Diverse case, edifici pubblici,
chiese, stazioni, sedi di giornali, uffici postali, club e ritrovi
sportivi vennero dati alle fiamme [38].
Non tutte, fra cui Sylvia e Adela Pankhurst e le Ayrton, furono d’accordo con questo ulteriore inasprimento, e abbandonarono la WSPU. In particolare Hertha, Barbara e Edith
Ayrton, nel 1914, fondarono una nuova organizzazione, le
United Suffragists, movimento teso ad una collaborazione
con il mondo operaio, di cui Barbara Ayrton fu il primo segretario.
Sulle Ayrton, sulle Curie, sul movimento femminista, su
tutti si abbatté nell’agosto del 1914 la stupida e terribile prima guerra mondiale, in cui milioni di europei, intere generazioni, andarono al macello. Nulla più rimase uguale.
Emmeline e Christabel Pankhurst divennero rapidamente
delle scatenate nazionaliste. Christabel tornò in settembre
a Londra da un lungo esilio per impegnarsi a fondo in una
nuova campagna, questa volta in favore della guerra. Il movimento femminista scemò e il giornale The Suffragette vide
il suo nome mutato in Britannia. Sylvia e Adela Pankhurst si
schierarono, invece, con il fronte pacifista.
Hertha e Marie reagirono, da scienziate, a loro modo. La
prima, Hertha, inventando, a partire dalle sue ricerche di fluidodinamica, un sistema di ventilazione per liberare le trincee
dai gas [39]. La seconda, Marie, grazie alle sue grandi capacità organizzative, mettendo in piedi, con la figlia Irène, un
sistema di ambulanze dotate di macchine per i raggi x portatili, alimentate da una dinamo collegata al motore. Il primo
mezzo di questo tipo al mondo. Impararono a guidarle loro
stesse. Queste ambulanze saranno attive su molti fronti, anche su quello italiano, contribuendo così a salvare molte vite.
Oltre 150 donne verranno istruite dalle due Curie all’utilizzo
dei raggi x [12].
Barbara Ayrton-Gould lavorò per mantenere vivi gli ideali femministi e, dopo la guerra, entrò nel partito laburista,
dove fu per più di venti anni membro, poi vicepresidente e
presidente del comitato esecutivo. Più volte candidata al parlamento, sarà deputata dal 1945 al 1950.
Solo alla fine della guerra, nel 1918, un limitato numero di
donne, le nubili con un certo reddito al di sopra dei 30 anni,
poté accedere al voto in Gran Bretagna. Il suffragio univer26
sale per tutti i maggiori e le maggiori di 21 anni fu introdotto
nel 1928. In Francia e in Italia il suffragio per le donne arrivò
solo dopo la resistenza e la fine della seconda guerra mondiale, nel 1945 e 1946. In Svizzera nel 1971. Per ritrovare un
movimento femminista dell’ampiezza e diffusione di quello
dei primi anni del Novecento occorrerà aspettare gli anni ‘60
e ‘70.
Se è pur vero che Marie Curie è sempre stata restia a prendere apertamente posizioni impegnate e che la gran parte dei
suoi interventi pubblici è sempre e solo stata a favore della
scienza e della ricerca, la figlia Irène ci ricorda che in lei
esisteva “un femminismo intransigente, una rivolta contro
lo stato sociale presente, un desiderio passionale di veder
realizzata la pace e la comprensione tra i popoli”. Non a
caso le uniche prese di posizione “politiche” di Marie Curie
sono state quella a favore delle femministe imprigionate in
Inghilterra, apponendo la sua firma ad un appello del 1912
su richiesta di Hertha Ayrton e un intervento, su insistenza di
Irène, in favore di Sacco e Vanzetti, contro la pena di morte
a loro inflitta negli anni ‘20.
Notevole è stata anche l’attività di Marie Curie nell’istituto da lei fondato. Qui, durante la sua direzione, furono attivi
ricercatori di 15 diverse nazionalità, di differenti credi politici e religioni. In particolare un numero non indifferente
di scienziate, oltre cinquanta, a partire dalla figlia Irène, ha
lavorato presso il laboratorio di Marie Curie, sempre disponibile ad assumere ricercatrici di talento. Nel 1931, ad esempio, su 37 ricercatori impegnati presso l’Istitut du Radium,
ben 12 erano donne, una percentuale rimarchevole, non solo
per quell’epoca.
Per molte di queste ricercatrici la permanenza presso l’Istituto Curie fu l’avvio e/o il trampolino di lancio della loro
carriera scientifica. Di seguito alcuni esempi, che mostrano
sia la grande personalità che la forza morale e l’impegno civile di molte delle ricercatrici passate dall’Istituto Curie, e
anche l’insieme dei risultati ottenuti e la rete di collaborazioni e amicizie nate nel lavoro comune [40-44].
Harriet Brooks-Pitcher (1876-1933) fu la prima fisica
nucleare canadese. Prima donna a ricevere un master alla
McGill University di Montreal sotto la supervisione di Ernest Rutherford. Dopo aver passato un periodo al Cavendish
Laboratory di Cambridge, lavorò all’inizio del secolo sotto
la guida di Marie Curie a Parigi. Qui si occupò del rinculo
radioattivo e del decadimento dell’attinio. Nel 1904 ottenne
un posto al Barnard College, affiliato alla Columbia University di New York. Nel 1907 si sposò e fu costretta a lasciare
l’università, condizione allora obbligatoria per le donne maritate.
Ellen Gleditsch (1879-1968), chimica norvegese, lavorò
fra il 1907 e il 1912 all’Istituto di Marie intorno all’ipotesi di William Ramsay sulla trasmutazione del rame in litio.
Riuscì a confutare brillantemente questa tesi in una pubblicazione congiunta con Marie. La Gleditsch, in quanto donna, non aveva potuto frequentare l’università in Norvegia,
riuscendo solo ad ottenere un titolo non accademico in chimica. Lavorando presso la Curie ottenne nel 1911 la laurea
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
in scienze alla Sorbona. Superando altre difficoltà connesse
al suo genere, fu rifiutata per questa ragione da Theodor Lyman (1874-1954) ad Harvard, divenne una ricercatrice molto
nota. Annoverata fra i migliori radiochimici del mondo fu
autrice di diversi libri sulla radioattività, di un libro di testo
di chimica inorganica e di una biografia del fondatore della chimica Antoine Lavoisier (1743-1794). Nel 1917 fu la
seconda donna a essere eletta all’Accademia delle Scienze
di Oslo. Tornò più volte come visitatrice all’Istituto Curie
intessendo una fitta rete di amicizie e collaborazioni internazionali e portando con sé due giovani ricercatrici norvegesi Randi Holwech (1890-1967), nel 1919-1920, e Sonja
Dedichen (1902-1998), nel 1924-1925. Solo nel 1929 riuscì
a ottenere una posizione permanente all’Università di Oslo,
seconda donna professoressa in Norvegia, dove rimase fino
alla pensione. Dopo la presa del potere da parte di Hitler in
Germania e l’annessione dell’Austria agì in prima persona,
organizzando l’espatrio e nuove possibilità di impiego per
diversi ricercatori e ricercatrici ebrei e oppositori del regime.
Durante la seconda guerra mondiale, già oltre i sessanta anni,
fu particolarmente attiva nella resistenza norvegese all’occupazione nazista. Per lungo tempo fu anche leader della Federazione Internazionale delle Donne Universitarie e membro
del comitato di controllo internazionale delle armi nucleari
dell’UNESCO. Nel 1962, a 83 anni, divenne la prima donna
a ricevere un dottorato “ad honorem” dalla Sorbona di Parigi.
Lucie Blanquies (1883-?), francese, lavorò nel laboratorio
di Marie tra il 1908 e il 1910, scrivendo una serie di articoli
sui raggi α prodotti da differenti sostanze radioattive e sui
prodotti di decadimento della serie dell’attinio.
Eva Ramstedt (1879-1974), fisica svedese, studiò e pubblicò diversi lavori insieme alla Curie, fra il 1910 e il 1911,
sul radon, il gas emanazione del radio, e fu successivamente
ricercatrice per molti anni presso l’istituto Nobel di Stoccolma, guidato da Svante Arrhenius. Dopo il suo soggiorno a
Parigi collaborò a lungo con Ellen Gleditsch, assieme alla
quale scrisse diverse pubblicazioni e libri, fra cui il primo libro di testo scandinavo sulla radioattività. Ricoprì dagli anni
’20 fino al pensionamento, nel 1945, il ruolo di professoressa
all’Università e al Teacher Training College di Stoccolma.
Attiva, anche lei, a lungo nella Federazione Internazionale
delle Donne Universitarie, ne divenne vice presidente dal
1922 al 1930 e presidente del comitato internazionale dal
1920 al 1945.
May Sybil Leslie (1887-1937), chimica inglese, nel periodo 1909-1911 lavorò, con una borsa di studio, dalla Curie
allo studio del torio, studio che continuò poi nei laboratori
di Ernest Rutherford a Manchester. Durante la prima guerra
mondiale lavorò in fabbrica, quale responsabile della produzione industriale di acido nitrico. Alla fine della guerra venne
licenziata per far posto ai suoi colleghi maschi tornati dal
fronte. La Leslie scrisse molti articoli e diversi libri di testo e divenne infine, nel 1928, professoressa all’Università
di Leeds. La Leslie, la Gleditsch e la Ramstedt rimasero in
contatto per tutta la loro vita scientifica, pubblicando anche
dei libri assieme e tenendo in vita un’ampia rete di collabo-
razioni.
Margarethe von Wrangell (1877-1932), nata a Mosca,
studiò a Lipsia e ottenne un dottorato a Tübingen nel 1909
in chimica. Lavorò a Londra da William Ramsay e in seguito a Parigi da Marie Curie. Successivamente cambiò il
suo campo di studi dalla radiochimica alla chimica agraria,
interessandosi di fosfati e dirigendo dal 1912 una stazione di
ricerca a Tallin in Estonia. In seguito alla rivoluzione bolscevica emigrò in Germania dove lavorò per un periodo al Kaiser-Wilhem Institut di fisica-chimica a Berlino, collaborando
con Fritz Haber (1868-1934), premio Nobel per la chimica
del 1918 per la sintesi dell’ammoniaca. Nel 1923 la Wrangel
divenne professoressa presso l’Hochschule di Hohenheim,
vicino Stoccarda, dove diresse fino alla morte l’Istituto per
la nutrizione delle piante.
Jadwiga Szmidt (1889-1940), fisica polacca, studiò alla
Sorbona e lavorò nel laboratorio di Marie nel 1911. Collaborò con la Gleditsch e la Leslie, lavorando poi a lungo, anche
lei, presso il laboratorio di Ernest Rutherford a Manchester.
Dopo la prima guerra mondiale e la rivoluzione bolscevica divenne ricercatrice dell’Istituto Radiologico del nuovo
Politecnico di San Petersburg/Leningrado collaborando con
Abram Joffe (1880-1960), dove rimase fino alla morte.
Irèn Götz (1889-1941), ungherese, attiva a Parigi dal 1911
al 1913, dove si occupò di studi sul radon, ottenne un dottorato “ad honorem” dall’Università di Budapest nel 1912.
Nel 1919 fu nominata dal governo rivoluzionario ungherese
professoressa di chimica teorica all’Università di Budapest,
la prima donna ordinario in Ungheria. Costretta a fuggire,
pochi mesi dopo, dal nuovo governo controrivoluzionario di
destra, la Götz lavorò dal 1922 al 1928 all’Università di Cluj
in Romania, per poi trasferirsi in Germania a Berlino fino
al 1931. Infine emigrò definitivamente in Unione Sovietica
dove divenne Direttrice dell’Istituto per le Ricerche sull’Azoto di Mosca. Qui morì di tifo nel 1941, allo scoppio della
seconda guerra mondiale.
Suzanne Veil (1886-1956) , francese, entrò nel laboratorio
di Curie nel 1912 per ottenere il dottorato in chimica. Nel
1924 ottenne il premio Cahours dell’Accademia di scienze.
Nel 1930 divenne capo laboratorio alla Scuola pratica di alti
studi di Parigi. Nel 1940, dopo l’occupazione del nord della
Francia, si trasferì a Grenoble alla Facoltà di scienze, per poi
tornare a Parigi alla fine della guerra.
Madeline Monin-Molinier (1898-1976), fisica francese, ricercatrice all’Istitut du Radium dal 1917 al 1921. Titolare di
una borsa di studio della Carnegie Foundation.
Elizabeth Rona (1891-1981) nata a Budapest, qui ottenne
il dottorato in chimica e fisica nel 1912 , per poi lavorare
nel laboratorio di Kasimir Fajans (1887-1975) all’Università Tecnica di Karlsruhe. Tornata in Ungheria fu costretta
a fuggire dopo la controrivoluzione del 1919. Passò prima
un periodo a Berlino da Lise Meitner (1878-1968) e Otto
Hahn (1879-1968), premio Nobel per la chimica 1944, e poi
fu attiva nell’istituto di Marie Curie, collaborando con lei e
Irène. Lavorò poi a lungo all’Istituto del Radio di Vienna con
Stefan Mayer (1872-1949) fino al 1938, quando l’Austria fu
27
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
annessa alla Germania. Meyer fu costretto a dimettersi ed
Elizabeth dovette emigrare e per un certo tempo fu ricercatrice all’Università di Oslo nel gruppo di Ellen Gleditsch, che
aveva conosciuto a Parigi. Rona emigrò poi, nel 1941, negli
Stati Uniti dove lavorò, fra l’altro, nei Laboratori nazionali
di Oak Ridge. Attiva in numerosissime collaborazioni internazionali, fu una grande esperta nella separazione delle
sostanze radioattive, in particolare del polonio, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “Polonium Woman”. Dopo essersi
cominciata ad occupare di oceanografia, nel 1965 si trasferì
all’Istituto di Scienze Marine dell’Università di Miami dove
rimase fino al pensionamento nel 1972.
Marthe Klein (1885-1953) , francese, fu collaboratrice di
Marie Curie dal 1919 al 1921 negli studi relativi all’utilizzo
dei raggi x nella diagnostica clinica. Si occupò durante la
prima guerra mondiale della formazione delle infermiere al
fronte all’utilizzo dei raggi x. In seguito sposò Pierre-Ernest
Weiss (1865-1940) fisico, esperto di magnetismo, seguendolo a Strasburgo.
Renée Galabert (1884-1956), francese, cominciò a lavorare presso l’Istituto di Marie Curie nel 1919. Nel 1923 assunse
la direzione del Servizio di Misure dell’Istituto, dove rimase
fino al 1934.
Sonia Slobodkine-Cotelle (1897-1945), chimica di origine polacca, si laureò alla Sorbona e lavorò per parecchi
anni nell’Istituto Curie, a partire dal 1919. Di lei rimangono
molte pubblicazioni, la maggior parte dedicate alla determinazione delle vite medie delle sostanze radioattive. Fu per
diversi anni attiva nel Servizio misure dell’istituto. Nel 1927
si ammalò gravemente dopo aver inavvertitamente ingerito
del polonio. Il suo caso fu uno dei primi a sollevare un forte
interesse per le conseguenze sanitarie dell’uso delle sostanze
radioattive. La gran parte dei collaboratori di Marie Curie,
compresa Marie stessa, la figlia Irène e il genero Frédéric
Joliot (1900-1958), moriranno a causa dell’esposizione alle
radiazioni.
Alicjia Dorabialska (1897-1975), polacca, nata nella zona
allora occupata dal regime zarista, si laureò a Mosca in fisica-chimica e, nel 1918, ottenne una posizione al Dipartimento di Chimica Fisica dell’Università di Varsavia, dove
completò nel 1922 il dottorato. Alicjia incontrò Marie Curie
durante un soggiorno di quest’ultima in Polonia nella primavera del 1925. Marie la invitò a passare un periodo nel suo
Istituto. Qui lavorò nel 1925-1926, e poi nel 1929, interessandosi soprattutto del determinazione accurata delle variazioni di calore che avvengono nelle trasmutazioni radioattive, un problema che rimase al centro della sua attenzione
negli anni seguenti. Nel 1934 divenne professoressa di chimica fisica presso la Università di Leopoli. La sua nomina,
in quanto donna, sollevò un’accesa discussione. Qui scelse
come sua assistente Ruth Bakken, che aveva studiato con
Ellen Gleditsch a Oslo. Nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, entrò a far parte attiva della resistenza,
organizzando fra l’altro diverse università clandestine. Gli
studi superiori erano stati proibiti dall’autorità tedesca occupante. Nel 1945, terminata la guerra, divenne professoressa
28
di chimica al Politecnico di Varsavia e infine Direttrice del
Dipartimento di Chimica Fisica del Politecnico di Lodz, fino
alla sua pensione nel 1968. Morì a Varsavia nel 1975.
Jeanne Samuel-Lattes (1888-1979), chimica francese, attiva all’Istituto Curie dal 1921 al 1928, si interessò particolarmente degli effetti biologici delle radiazioni inventando una
tecnica per individuare le sostanze radioattive iniettate. Nel
1927 ottenne il dottorato alla Sorbona per le sue ricerche per
lavorare poi presso l’Istituto Henri Poincaré di Parigi.
Stefania Maracineanu (1882-1944), fisica rumena; negli
anni ‘20 studiò, presso l’Istitut du Radium della Curie, la
vita media del polonio e sviluppò un metodo per la determinazione dell’intensità delle particelle alfa. Qui ottenne, nel
1924, il dottorato. Dal 1925 al 1930 fu ricercatrice presso
l’Osservatorio Astronomico di Parigi. Fu poi attiva in patria
con posizioni dirigenziali, occupandosi anche di tematiche
legate all’ambiente e al clima.
Eliane Montel (1898-1992), chimica francese, che lavorò
nell’Istituto di Marie nel biennio 1928-1929 pubblicando ricerche sulla penetrazione del polonio nel piombo. La Montel
riuscì nell’impresa di citare in una sua pubblicazione lavori
di sole donne. Divenne professoressa alla Scuola Normale
di Sevres.
Mathilde Wertenstein, polacca, attiva nel campo delle proprietà elettrochimiche degli elementi radioattivi; lavorò negli
anni ‘10 e poi ebbe una borsa di studio negli anni ‘20 presso l’Istituto della Curie. Divenne infine ricercatrice presso il
Laboratorio radiologico della società scientifica di Varsavia.
Catherine Chamiè (1888-1950) nata a Odessa in Russia,
per studiare all’Università fu costretta a emigrare a Ginevra
dove ottenne un dottorato in fisica nel 1913, occupandosi
delle proprietà magnetiche della materia. Tornata a lavorare ad Odessa, un pogrom contro la comunità francese della
città, nel 1919, la costrinse a fuggire con tutta la famiglia in
occidente. Dopo un breve periodo passato in Svizzera, arrivò
a Parigi dove lavorò come insegnante per sostenere la famiglia. Nel 1921 fece domanda per entrare nell’Istituto Curie,
Marie l’assunse il 15 aprile del 1921. Catherine finì per rimanerci fino al suo pensionamento nel 1949, diventandone
una figura particolarmente importante, anche dal punto di vista amministrativo. Scoprì, fra l’altro, l’effetto Chamiè, una
particolare tecnica di esposizione fotografica delle sostanze
radioattive che permetteva di discriminare fra quelle solubili
e quelle insolubili. Si occupò della classificazione di materiali radioattivi e scrisse diversi lavori in collaborazione con
Marie Curie, con Irène Curie e Ellen Gleditsch. La Chamiè
pubblicò anche due libri di psicologia nel 1937 e nel 1950.
Antonia Eliszabeth Korvezee (1899-1978), chimica olandese, ottenne il dottorato in chimica nel 1930 all’Università
di Delft, in Olanda, e lavorò per diversi anni, a partire dal
1929, nell’Institut du Radium dando importanti contributi
in chimica teorica e fisica nucleare. Dopo grandi difficoltà,
dovute al fatto di essere donna, riuscì infine a divenire, nel
1953, ordinario di chimica teorica presso l’Università Tecnica di Delft, la prima donna professoressa in questa Università. Per ricordarla dal 1989 è nato il premio “Antonia
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Korvezee Equal Opportunities”
Branca Edmée Marques (1899-1976), chimica portoghese,
partì per Parigi nel 1931 rimanendovi vari anni, lavorando
alla separazione dell’attinio dai minerali di terre rare e ottenendo il dottorato alla Sorbona sotto la direzione delle due
Curie. Tornata in Portogallo divenne direttrice del primo
Centro di Ricerche in Radiochimica della Università di Lisbona, dove ottenne una cattedra nel 1966.
Marietta Blau (1894-1970), fisica austriaca, ottenne il dottorato nel 1919 e lavorò per molti anni, non pagata, all’Istituto
per la Ricerca sul Radio di Vienna. Una borsa di studio della
Federazione delle Donne Universitarie le permise di lavorare
a Göttingen e nel 1932-1933 e poi nel 1938 presso l’istituto
di Marie Curie. La Blau inventò un metodo fotografico per
la determinazione della traiettoria delle particelle, in seguito
molto utilizzato, ottenendo il premio dell’Accademia delle
Scienze di Austria nel 1937, insieme alla sua collaboratrice
Hertha Wambacher. Costretta ad abbandonare l’Austria nel
1938, in quanto ebrea, dopo l’occupazione tedesca, Marietta
Blau prima fu accolta in Norvegia da Ellen Gleditsch e poi
fu aiutata da Einstein a trovare una posizione in Messico e
successivamente negli Stati Uniti prima a Brookhaven e poi
all’Università di Miami. Nel 1960 ritornò in Austria, lavorando di nuovo, ancora non pagata, all’Istituto per la Ricerca
sul Radio di Vienna collaborando agli esperimenti al CERN
di Ginevra. La Blau è stata proposta diverse volte per il premio Nobel per la fisica, in particolare da Erwin Schrödinger
(1887-1961), uno dei padri della moderna meccanica quantistica, premio Nobel per la fisica nel 1933.
Alice Prebil (1907-1987), nata a Karlovac in Jugoslavia,
fu attiva nel laboratorio di Marie Curie fra il 1932 e il 1934,
collaborando in particolare con Iréne Curie sulla radioattività
artificiale. Lavorò anche presso il Radium Institute di Berna in Svizzera e l’Istituto Superiore di Sanità di Roma dove
collaborò con il direttore Domenico Marotta (1886-1974).
Sposò negli anni trenta Philip Leigh-Smith (1892-1967),
diplomatico e scrittore, nipote di Benjamin Leigh-Smith
(1828-1913), famoso esploratore artico e fratello di Barbara
Bodichon, la mentore di Hertha Ayrton. Divenuta inglese,
Alice continuò la sua carriera scientifica in Gran Bretagna.
Hélène Emmanuel-Zavizziano, di origine greca. Arrivò
negli anni ‘30 all’istituto di Marie e pubblicò diversi e significativi lavori sul protoattinio.
E infine Marguerite Perey (1909-1975) che lavorò all’Institut du Radium per venti anni. Non avendo mezzi economici per frequentare l’università la Perey era diventata un
tecnico chimico. Marie Curie la prese nel 1929 come sua
assistente e ne curò la formazione. Nel 1939 la Perey scoprì
un nuovo elemento chimico, l’ultimo che mancava nella tabella periodica, a cui diede il nome di francio in onore della
Francia, così come la Curie aveva chiamato polonio, il primo
elemento da lei scoperto, in onore della Polonia. Ottenuto
un dottorato in scienze nel 1946, la Perey, nel 1949, divenne
professoressa di chimica nucleare all’Università di Strasburgo e infine, nel 1962, divenne la prima donna eletta all’Acca-
demia delle Scienze di Francia, quella posizione che era stata
negata sia a Marie nel 1911 che a Irène Curie negli anni ‘50.
A differenza della madre, Irène si era ostentatamente candidata per ben tre volte, facendone ogni volta un caso pubblico.
Non solo la vita di Marie Curie è stata particolare, anche
quella della sua famiglia ha avuto tratti fuori dalla normalità.
Ai premi Nobel di Marie e di suo marito Pierre del 1903 per
la fisica e di Marie nel 1911 per la chimica, vanno aggiunti
quelli della figlia Irène e di suo marito Frédéric Joliot per la
chimica nel 1935. Nel 1936, Irène fu anche sottosegretaria
alla ricerca scientifica per il governo popolare di Leon Blum.
In quella coalizione, per la prima volta in Francia, furono
presenti donne con responsabilità di governo. Lei e soprattutto il marito, assieme a Paul Langevin, furono poi fra le figure più significative della resistenza francese nei lunghi anni
della occupazione nazista, durante i quali l’Istituto Curie fu
posto sotto controllo.
Nel 1946 quando fu fondata la CEA (Commissione per
l’Energia Atomica) Frédéric ne sarà il direttore e Irène uno
dei commissari. Sotto la guida di Frédéric Joliot-Curie, nel
1948, fu costruito il primo reattore nucleare francese. Nei
primi anni 50 entrambi i Curie-Joliot furono fatti dimettere
dalle loro posizioni nella CEA per le loro simpatie di sinistra.
In una sorta di specchiamento della vicenda Marie-Pierre, fu
Frédéric, questa volta, a succedere, alla morte di Irène nel
1956, a sua moglie alla cattedra di fisica nucleare.
L’altra figlia di Marie, Eve Curie, ha attraversato tutto il
secolo, diventando un’apprezzata concertista e scrittrice.
Fuggita dalla Francia dopo l’occupazione tedesca del 1940 si
impegnò da Londra nella guerra al nazifascismo. Coeditrice
del quotidiano Paris Presse dal 1945 al 1949, fu nominata nel
1952 consigliere speciale del segretario generale dell’ONU.
Nel 1954 sposò Henry Richardson-Labouisse (1904-1987),
diplomatico degli Stati Uniti, che fu per 15 anni direttore
dell’UNICEF, ritirando, così, di persona il premio Nobel per
la pace conferito all’UNICEF nel 1965. Eve Curie fu anche
la prima biografa di Marie. Il suo libro, Madame Curie, pubblicato nel 1937, contribuì fortemente alla creazione del mito
di Marie, angelo del laboratorio, musa della ricerca e genio
ossessivo. Il libro, più volte trasposto in film e sceneggiati,
rappresentò la canonizzazione della figura pubblica di Marie.
Nulla in questa biografia veniva detto sulla storia d’amore fra
Marie e Paul Langevin e sullo scandalo conseguente.
Ma, ironia e, talvolta, tenerezza della Storia, una nipote
di Marie, Hélène Langevin-Joliot (1927-), figlia di Irène e
Frèdèric Joliot, anche lei fisica nucleare, fra le prime donne a
dirigere un laboratorio del CNRS francese e particolarmente
attiva nella battaglia per un sempre maggior riconoscimento del ruolo delle donne nell’attività scientifica, conobbe sui
banchi dell’università e poi sposò Michel Langevin (19261985), anche lui fisico e nipote di Paul Langevin, chiudendo
in qualche modo il cerchio dolce e maledetto, esploso nel
1911.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
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SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Da Londra 1851 a Milano 2015.
Riflessioni sulle grandi esposizioni universali
*
AGNESE VISCONTI
È
da tener presente anzitutto che le expo sono
nella storia una novità che ha inizio nel 1851
e che continua ancor oggi. Esse si distinguono dalle fiere precedenti che erano perlopiù
fenomeni locali, e anche dalle manifestazioni finalizzate a far conoscere gli oggetti esposti. Mentre le
expo ebbero fin da subito lo scopo di far progredire: inizialmente si trattò dell’idea di progresso dell’industria e delle
manifatture, e in breve anche di altre questioni: il lavoro, il
benessere, la cultura, fino ai grandi tempi globali che caratterizzano le expo degli ultimi anni. Agli oggetti esposti si
accompagnarono fin dalle prime expo congressi e dibattiti su
temi importanti: temi che in parte rispecchiavano il mondo in
cui si svolgevano, in parte lo anticipavano, in parte si trovavano invece a non comprenderlo: temi sul lavoro, la salute,
la Dichiarazione dell’indipendenza americana, la presa della
Bastiglia, la costruzione del Canale di Panama, le colonie. E
molto presto, già a Vienna nel 1873, vennero inclusi i divertimenti e in seguito oggetti non industriali.
Un tratto comune a tutte le esposizioni fu quello di sottolineare l’immagine nazionale: di qui l’apporto finanziario
pubblico.
Ancora possiamo dire, scorrendo l’elenco delle expo, che
inizialmente si trattò di un fatto europeo, poi nella prima
metà del Novecento, molte sono le expo negli Stati Uniti, e
infine dopo la Seconda Guerra Mondiale il ventaglio si allarga all’Oriente.
Infine per quanto riguarda delle strutture per ospitare le
expo, esse furono inizialmente temporanee: l’effimero è un
elemento comunicativo efficace e persuasivo. Realizzazioni
effimere si accompagnavano al potere: archi, drappi, panneggi, ecc. Effimero implica spesso l’uso di strutture smontabili, e perciò di grande libertà espressiva. Anche la Tour
* Il presente articolo riprende, in forma ridotta e modificata, il saggio Dalla
grande Esposizione di Londra del 1851 all’Expo di Milano del 2015, pubblicato in http://www.semidicultura.beniculturali.it/
Eiffel (Expo di Parigi 1889) era nata per essere effimera e
poi è rimasta ed è diventata l’emblema di Parigi; effimero
il padiglione della Germania di Ludwig Mies van der Rohe,
tra i maestri del Movimento Moderno, per l’Expo di Barcellona del 1929: fu demolito, ma poi ricostruito nel 1986
da un gruppo di architetti spagnoli. In altri casi all’effimero
si sostituisce un’architettura stabile: tale all’Expo di Genova
del 1992 la soluzione di Renzo Piano che prevedeva un nuovo assetto della città, rimasto anche dopo l’expo. Passiamo
ora a illustrare alcune delle principali expo e a mostrarne le
caratteristiche, cercando di collegarle sia tra loro sia con il
contesto storico all’interno del quale si svolsero.
La prima expo è a Londra nel 1851. Era stato il principe
consorte Alberto che nel 1849 nel suo ruolo di presidente
della Royal Society of Arts aveva deciso di promuovere l’organizzazione di una grande esposizione universale dell’industria. L’area sarebbe stata quella del prato di Hyde Park
in Kensington Street. Le difficoltà iniziarono subito: fu indetto un concorso, nessun progetto fu giudicato adatto, tanto che l’idea del principe Alberto di attirare a Londra tutte
le ricchezze e le industrie del mondo e soprattutto mostrare
la ricchezza e la grandezza delle industrie britanniche sembrava fallire. La soluzione venne infine dal progetto di un
giardiniere, John Paxton, che progettò molto rapidamente un
edificio provvisorio come sede dell’esposizione, il Crystal
Palace che riprendeva la forma di una serra. Nel giro di pochi
mesi fu montato un edificio di tre livelli: l’intelaiatura era in
ferro, la copertura in vetro. Era l’emblema della vittoria del
ferro, ossia dell’industria, e però nello stesso tempo la forma
della serra ricordava quanto ancora la produzione manifatturiera fosse legata alla natura. Il palazzo fu smontato alla fine
dell’expo.
Ad attirare l’attenzione furono soprattutto i padiglioni esotici: quelli legati agli esploratori e alle colonie, mondi immaginati per i visitatori europei, di cui per la prima volta potevano farsi una visione, ancorché piuttosto approssimativa.
E naturalmente il ristorante, chiamato Gastronomic Sympo31
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
sium of all Nations, dove si potevano gustare cibi provenienti
da tutti i paesi del mondo. Anche questa era una novità per i
visitatori europei.
Diversa l’esposizione di Parigi del 1867 che si tenne nel
Palazzo ovale di vetro e ferro (il vetro era con le manifatture
Saint Gobain la vera gloria francese) del Champ de Mars.
A fianco dello scopo industriale, vi era quello di decretare
il trionfo di Napoleone III. E inoltre il tema della pace e
dell’armonia universale per il genere umano. Si noti il termine universale che ci rimanda agli enciclopedisti. I più eminenti scrittori francesi, tra i quali Victor Hugo che scrisse
l’introduzione alla Guida, contribuirono con le loro penne a
inneggiare alla gloria di Francia. Intorno al palazzo era stato
allestito un parco per i divertimenti illuminato fino a mezzanotte, i concerti, un pallone che permetteva di vedere l’expo dall’alto e naturalmente ristoranti internazionali di ogni
genere. Parigi era prospera e l’imperatore vittorioso. Ma le
nubi si addensavano su questa expo trionfale che non seppe
né rispecchiare né prevedere i tempi: erano in arrivo la guerra
prussiana. l’esilio di Napoleone III, i massacri della Comune.
La presenza dei regnanti fu molto alta: i visitatori furono
circa 15 milioni L’expo ebbe un grandissimo successo, pari
a quello di Londra.
Napoleone III si dimostrò interessato al bene del suo popolo con due padiglioni sulle condizioni di igiene e di benessere, presentando anche un progetto di abitazioni operaie.
Dal punto di vista produttivo, l’elemento che regnò incontrastato fu il vetro, come si è visto la vera gloria delle manifatture francesi. E numerose furono le serre che, con le loro
piante esotiche alimentari e non, segnavano l’epopea della
concentrazione in Europa delle ricchezze della natura di tutto
il globo, iniziata dopo la scoperta dell’America
Sull’altro fronte, a contraddire il progetto di armonia e di
pace universale troneggiavano i cannoni di Krupp della Prussia: un monito alla guerra franco-prussiana del 1870.
L’esposizione successiva si tenne a Vienna nel 1873. Essa
ebbe luogo a Prater nell’edificio appositamente costruito,
la Rotunde, e fu inaugurata alla presenza di Francesco Giuseppe con lo scopo di festeggiare il suo venticinquesimo anniversario di regno e anche con quello di ridare splendore
all’immagine indebolita dell’Impero austro-ungarico.
Furono presenti e destarono stupore India e Giappone, più
ancora della Gran Bretagna e della Francia. L’Italia fu presente soprattutto con opere d’arte.
L’expo ebbe un buon successo: i visitatori furono più di 7
milioni anche se l’ingresso e i ristoranti erano carissimi.
Tra i divertimenti vi era un orchestra di Strauss che ininterrottamente intratteneva con musica, operette, walzer. E intorno alla Rotunde un grande parco divertimenti per quando i
visitatori erano stanchi: giostre, caroselli, altalene.
La Germania ripresentò i cannoni di Krupp, che questa
volta non si limitavano a una minaccia, ma che si erano dimostrati arma reale e letale.
L’Italia fu presente con il grande plastico della Galleria
Vittorio Emanuele II, la più imponente del mondo. Sembrava che ormai il ferro avesse sostituito in tutto il legno. In
32
parte era così, soprattutto nei paesi che come Regno Unito,
Francia e Germania erano ricchi di miniere di carbone. E
però non per altri: si pensi all’Italia, che nonostante il plastico della Galleria Vittorio Emanuele II, stentava ad avviare la
propria industrializzazione per l’alto costo del combustibile
che veniva importato via mare dalla Gran Bretagna. La legna
era ancora utilizzata (con tutti i danni legati al diboscamento)
e anche l’acqua che muoveva i mulini, consentendo la possibilità di alcune manifatture.
Passiamo ora a Philadelphia dove nel 1876 si svolse la
prima esposizione statunitense. Essa aveva per tema il Centenario dell’indipendenza americana. Si svolse a Fairmount
Park, ancora oggi il cuore del sistema dei parchi municipali
di Philadelphia che comprende anche uno zoo. È il più grande parco cittadino del mondo.
I lavori tardarono a finire e nelle ultime settimane gli operai lavorarono giorno e notte sotto la pioggia. Ma alla fine
il risultato fu splendido. Il giardino era pieno di piante esotiche. Un grande richiamo alla natura. È l’epoca in cui gli
scritti di Thoreau, Perkins Marsh ed Emerson cominciavano
a penetrare nella cultura americana. Il meraviglioso parco di
Fairmount e la successiva attenzione e cura al suo incremento e abbellimento sono un esempio della sensibilità di un largo settore dell’opinione pubblica verso la natura.
Un altro centenario fu festeggiato a Parigi nel 1889, quello della Presa della Bastiglia, e, nella tradizione delle expo,
anche questa non era pronta per il giorno dell’inaugurazione.
Qui, a differenza che a Philadelphia, non trionfò la natura, ma la costruzione. In primo luogo la Tour Eiffel, eretta dall’ingegnere Alexandre-Gustave Eiffel, specialista in
strutture metalliche, per essere smontata, ma che ebbe un
tale successo (per salire fino in cima si pagava) che non solo
32
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
rimase, ma divenne da allora l’emblema di Parigi.
Di grande rilievo, ma non ancora trionfale, fu la presentazione della prima automobile a benzina: una Benz costruita
dall’ingegnere tedesco Carl Friedrich Benz. L’invenzione
era rivoluzionaria: alla macchina a vapore si sostituiva il motore a scoppio, e cioè al carbone si sostituiva il petrolio. Una
nuova fonte energetica destinata a ridisegnare la vita dell’umanità intera. La Benz, a ben guardare, rappresentava il nuovo, il petrolio, il futuro, mentre la Tour Eiffel il carbone e il
ferro: un presente destinato a passare il testimone. La Tour
Eiffel ebbe successo. La Benz lo avrebbe avuto in seguito,
ancora maggiore.
Altra grande novità fu la presentazione dell’elettricità in
tutti i suoi usi. Edison stesso si presentò con un suo padiglione. Il pubblico ne fu molto attratto.
E arriviamo finalmente in Italia: a Milano nel 1906, quando fu organizzata l’expo per festeggiare il traforo del Sempione che significava commercio, ferrovia, apertura all’Europa. Si era in piena Belle Epoque e il mondo guardava con
fiducia al nuovo secolo.
Caratteristica di Milano fu l’effimero. Tutti i padiglioni furono costruiti per non durare oltre il tempo dell’expo, tranne
l’Acquario realizzato su progetto dell’architetto Sebastiano
Locati e situato accanto all’arena, di cui riproduce l’architettura ellittica. Era allora il padiglione dedicato alla piscicoltura. Oggi è uno dei più significativi edifici liberty di Milano.
L’expo fu sistemata in due luoghi distinti: il primo fu il
Parco situato tra il Castello e l’Arena, il secondo la Piazza
d’Armi, collegati da un treno elettrico. Fu una mostra ferroviaria importantissima, ma il nuovo si era fatto strada rispetto all’expo di Parigi del 1889: apparvero le automobili di
varie case costruttrici con i loro primi modelli e la Daimler
Benz. Dietro al petrolio e al motore a scoppio avanzava anche l’elettricità, la fonte energetica che aveva consentito e
stava consentendo, con le dighe che si stavano realizzando in
Valtellina e nel Bergamasco, il processo di industrializzazione della Lombardia.
Di grande rilievo anche il padiglione dell’industria serica,
importantissima per l’economia lombarda: tutto il processo
manifatturiero della seta diventò spettacolo con la ricostruzione di una filanda e l’esposizione di una grande varietà di
tessuti. Ma non solo: prevalsero le arti grafiche, le industrie
della carta, della ceramica e del vetro.
Dall’Europa torniamo negli Stati Uniti: a San Francisco
che celebra nel 1915 l’apertura del Canale di Panama, la cui
costruzione era stata resa possibile dal medico dell’esercito
statunitense William Crawford Gorgas che era riuscito a prevenire la diffusione della malaria intervenendo sulle acque
stagnanti, affumicando le abitazioni e rendendo obbligatorio
l’uso delle zanzariere. Il suo sistema fu controverso e costoso, ma, una volta messo in atto, portò a un rapido abbassamento, e infine ad un totale annullamento del rischio di contrarre la malaria per le migliaia di operai, ingegneri, tecnici
che lavorarono alla costruzione del canale.
L’expo ebbe molto successo: si contarono 18 milioni di
visitatori.
La maggior attrazione, oltre ai congressi, ai ristoranti e
all’illuminazione, fu il modello funzionante del Canale di
Panama. Oggi sono in corso lavori di ampliamento del canale
per consentire il passaggio di navi di maggior tonnellaggio e
più numerose. Inoltre si discute di un grande progetto sinonicaraguense che prevede l’escavazione di un canale lungo il
confine sud del Nicaragua.
Tornando all’expo, essa mostrò l’importanza ormai assunta dalla California e dal West americano lungo tutta la costa
pacifica.
Intanto il numero di paesi che aspiravano ad essere sede
di un’expo aumentava, al punto che si rese necessario fondare un ente che esaminasse e valutasse le richieste. Così
venne fondato il Bureau International des Expositions, organizzazione intergovernativa istituita tramite la Convenzione
concernente le esposizioni internazionali conchiusa a Parigi
nel 1928.
La prima expo che seguì fu quella di Parigi del 1931. Fu
l’expo delle Colonie. La Prima Guerra Mondiale aveva cambiato la carta geografica del mondo, in particolare dell’Africa
che era stata spartita quasi interamente fra Francia e Regno
Unito. La fiera rappresentò il nuovo ordine coloniale.
Gli inglesi non parteciparono, pertanto l’expo fu mutilata
del grande affresco dell’impero britannico: si temeva che la
manifestazione potesse trasformarsi in terreno di coltura per
i germi anticolonialisti. Le altre potenze coloniali parteciparono tutte. Ma nessuna con un impegno forte come l’Italia.
Al centro del grande padiglione costruito dall’architetto Armando Brasini era stata posta la Venere acefala rinvenuta nel
1913 a Cirene, oggi tornata in Libia. Altre sculture classiche
scandivano il perimetro della sala.
Ogni colonia aveva il suo spazio e i visitatori compivano il
33
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
giro del mondo, dai mari del Sud, ai Caraibi, dall’Africa, al
Madagascar, al Tonchino. E a ricordare il ruolo delle missioni nel programma di civilizzazione del colonialismo furono
costruite due chiese una protestante e una cattolica. Anche
qui, come a Milano per l’acquario, un edificio fu costruito
per durare: il Palais de la Porte Dorée, oggi Cité nationale
della storia dell’immigrazione, situato a est di Parigi e aperto
al pubblico nel 2007.
La sinistra aveva attaccato l’expo su “L’Humanité” con
una dura requisitoria sui suoi significati, invitando a non visitarla e a visitare invece la contro-esposizione organizzata in
una sede del sindacato.
Arriviamo così all’Expo di Chicago del 1933, ideata per
la celebrazione dei cent’anni della creazione della municipalità di Chicago e nello stesso tempo per infondere allegria
e speranza in quegli anni bui della Grande Depressione. Le
difficoltà indotte dalla crisi sconsigliarono a molti governi
di affrontare le spese per presentarsi al Chicago. Non fu così
per l’Italia che decise di impegnare il meglio delle sue forze
per mostrare che gli italiani erano non solo artisti, ma anche
scienziati.
L’aviazione fu il fulcro della fiera: in cielo si svolsero
competizioni ed esibizioni aree di ogni tipo. Molto ammirate
le evoluzioni dell’aereonautica italiana di Italo Balbo
A monito di un futuro tutt’altro che allegro stavano però
il dirigibile tedesco Zeppelin con le svastiche e l’assenza
dell’Unione Sovietica.
Le minacce che si avvicinavano al mondo furono ancora
più tangibili a Parigi nel 1937. Questa expo fu infatti l’ultimo
atto del rituale della pace e del progresso prima del disastro.
I padiglioni dominanti furono quelli della Germania e
dell’Unione Sovietica che si fronteggiavano l’un l’altro. In
una posizione infelice si trovava invece il piccolo padiglione
repubblicano spagnolo, opera dell’architetto Josep Luis Sert,
rifugiatosi a Parigi per sfuggire alla guerra civile, che ospitava il dipinto Guernica di Picasso, eseguito appena dopo i
bombardamenti tedeschi e italiani sulla cittadina. Guernica,
che Picasso non volle andasse in Spagna prima della fine della dittatura di Franco, fu ospitato al Moma di New York dove
rimase fino alla morte di Franco (1975), quando fu portato
in Spagna.
Torniamo ora in Italia, a Roma, per l’expo che non ebbe
luogo. Nel 1935 la delegazione italiana presso il Bureau International des Expositions chiese di poter organizzare l’expo a Roma nel 1941. L’idea era di fare una esposizione fuori
della città, su un terreno da recuperare, tra Roma e il mare, il
polo dell’espansione a sud ovest della città. Si voleva il primato della vastità e un’esposizione non effimera, bensì stabile: ovvero edifici costruiti in materiali durevoli. In proposito
ricordo che il progetto di esposizione durevole verrà ripreso
dopo la Seconda guerra mondiale: a cominciare soprattutto
dalle esposizioni di Genova 1992 e Lisbona 1998.
A Roma i lavori procedettero a ritmo sostenuto. Ma l’expo, venne spostata al 1942, e infine sospesa per la guerra.
L’area interessata prese il nome di EUR e agli edifici costruiti se ne aggiunsero altri dopo la guerra. Attualmente l’EUR
34
è zona residenziale e sede di uffici pubblici e privati, tra cui
il Ministero della Salute, quello delle Comunicazioni, quello
dell’Ambiente, la Confindustria, la sede centrale dell’Eni e
quella delle Poste Italiane.
Situazione incerta, al pari di quella dell’Expo di Roma,
sembrò avere l’Expo di Bruxelles che avrebbe dovuto tenersi
nel 1955, ma che fu spostata al 1958 a causa della Guerra di
Corea e della prima fase della Guerra fredda. Tema dominante dell’Expo fu l’energia atomica, l’energia che, utilizzata contro il Giappone in guerra, avrebbe dovuto diventare
energia di pace. Era un’illusione che durò qualche decennio
(atom for peace, atomo per la produzione, per uso economico, produttivo), illusione che portò alla costruzione di centrali nucleari per la produzione di energia elettrica, soprattutto
negli Stati Uniti, in Unione Sovietica, nel Regno Unito e in
Francia. Una forma energetica molto discussa fin dall’inizio
e ancor più oggi, dopo i gravi incidenti di Cernobyl nel nord
dell’attuale Ucraina e di Fukushima.
E ora vale la pena di soffermarsi su di un’expo di grande
interesse, quella di Spokane, Washington del 1974: la prima che abbia avuto per tema l’ambiente. Era uscito due anni
prima il Rapporto dell’MIT per il Club di Roma, I limiti dello sviluppo, che prevedeva un declino per l’umanità entro
cento anni nel caso in cui non fossero stati ridimensionati
tasso di crescita della popolazione, dell’industrializzazione, dell’inquinamento e delle risorse. E nello stesso 1972 le
Nazioni Unite avevano decretato il 5 giugno giornata mondiale dell’ambiente. Si tenga presente che la decisione della
cittadina di Spokane di tenere l’expo era stata fatta prima
dell’uscita del volume del Club di Roma e che fu il comune
di Spokane a sospingere le Nazioni Unite a decretare il 5
giugno giorno dell’ambiente. L’Expo di Spokane dunque si
pose all’avanguardia per quanto concerne le questioni ambientali. Aggiungo ancora che lo studio del Club di Roma è
stato aggiornato nel 2004 da Donella e Denis Meadows che
ne hanno confermato le previsioni, mettendo in particolare
risalto il degrado ambientale e la finitezza delle risorse.
L’expo si tenne sulle rive del fiume Spokane che era stato
disinquinato allo scopo. Nel corso dei numerosi congressi
sull’ambiente che ebbero luogo fu messa per la prima volta
in discussione la concezione, fino ad allora predominante,
che bigger is better.
I temi ambientali furono ripresi all’Expo di Okinawa nel
1975. L’expo fu organizzata per la difesa del mare e della
fauna marina e nello stesso tempo per ricordare la riconsegna
dell’isola di Okinawa al Giappone da parte degli americani
(1972), restituzione che avrebbe dovuto placare l’inimicizia
tra i due paesi, inimicizia che invece durò ancora a lungo:
un esempio di come le questioni legate alla Seconda guerra
mondiale continuavano ad agitare il mondo, e come intanto si
affacciassero, e non certo timidamente, quelle dell’ambiente e della finitezza delle risorse. Come si può immaginare i
padiglioni dell’expo furono un susseguirsi di fauna marina,
navi, barche, scienza e tecnologia. Il successo maggiore lo
ebbe Aquapolis, la futura città sul mare, la più grande struttura galleggiante del mondo.
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SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
I temi dell’ambiente non furono invece i principali a Genova nel 1992, sebbene ormai fossero questione ampiamente
dibattuta in tutto il mondo: si pensi al Rapporto Brundtland
(dal nome della signora norvegese Gro Brundtland presidente della Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo), pubblicato nel 1987 con il titolo Our common future.
Nel rapporto Brundtland venne per la prima volta formulato
il concetto di sviluppo sostenibile, ossia un concetto relativo
non solo all’ambiente ma anche, meglio soprattutto ai rapporti tra uomini e ambienti. Il concetto di sviluppo sostenibile
metteva in luce un significativo principio etico: la responsabilità delle generazioni di oggi nei confronti di quelle future,
toccando quindi almeno due aspetti delll’ecosostenibilità: il
mantenimento delle risorse e l’equilibrio ambientale. E ancora ricordo che il 1992 fu l’anno del Summit di Rio de Janeiro,
la prima Conferenza mondiale dei capi di stato sull’ambiente. Rio siglò un accordo sui cambiamenti climatici che portò,
a sua volta, alla stesura del Protocollo di Kyoto, sottoscritto
nel 1997 ed entrato in vigore nel 2005.
Genova fu soprattutto la celebrazione del cinquecentenario
della scoperta dell’America, anche se portava un messaggio
ambientale: proteggere le acque del mondo. Tutti i paesi
esposero imbarcazioni o modelli di imbarcazioni, antiche
carte nautiche, sottomarini. L’expo si svolse al Porto antico e
permise la ristrutturazione della zona e della parte retrostante, su progetto dell’architetto genovese Renzo Piano. Le due
principali attrazioni furono l’acquario e il grande bigo che
fu inteso con una duplice funzione: da un lato di immagine
e dall’altro strutturale (sostiene il tendone della piazza delle
feste, situata nelle vicinanze). Il recupero dell’area è poi continuato negli anni seguenti.
Un’altra expo in occasione del cinquecentenario della scoperta dell’America si tenne a Siviglia.
Alle questioni ambientali tornò invece a rivolgersi l’Expo
di Lisbona, 1998 che toccò, al pari di quella di Genova, anche la risistemazione di parte della città e la costruzione di
molte infrastrutture. Il sito fu scelto nella parte orientale di
Lisbona. Rappresentò un passaggio dall’uso del territorio a
scopo industriale a quello residenziale e ricreativo. La concezione di effimero che, come abbiamo visto, aveva dominato
a lungo nelle expo precedenti, veniva ora sostituita da quella
della stabilità. Il tema ufficiale fu: un patrimonio per il futuro, con lo scopo di celebrare gli oceani nel mondo e però
anche il ruolo storico del Portogallo nell’età delle scoperte e
l’arrivo in India di Vasco da Gama.
Molte delle infrastrutture costruite per l’expo sono state
riconvertite. L’area utilizzata da Expo ha assunto il nome di
Parco delle Nazioni, all’interno del quale è stato costruito un
parco fieristico internazionale. Rimasto è l’Oceanario formato da 5 ambienti marini, la Torre di Vasco da Gama e infine
un complesso di reti di trasporto. Queste strutture hanno modificato la città, dotandola di un profilo più internazionale e
avvicinandola al mercato globale, rispecchiando così un nuovo aspetto del mondo moderno: quello della globalizzazione.
Grande successo ebbe anche l’expo di Aichi, 2005, dove si
aspettavano 15 milioni di visitatori, e ne vennero 22 milioni,
tra i quali moltissimi giapponesi. Il tema scelto era formulato in modo semplice e lineare: la saggezza della natura. Fu
un’expo verde, all’insegna del ridurre, riutilizzare, riciclare.
Le attività organizzate furono perlopiù ambientali e globali e
diedero la conferma definitiva dell’importanza del Giappone
in Oriente. Questo da un lato, dall’altro si facevano notare
per la loro mole i due padiglioni del gruppo Toyota e del gas
in netta contraddizione con il tema di expo verde.
Restiamo in Oriente con l’expo di Shangai, 2010. È quello
che precede Milano, 2015. Anche nel caso di Shangai, come
ad Aichi, abbiamo un tema formulato in modo semplice: better city better life, ovvero migliorare la qualità della vita in
ambito urbano. L’intento era di discutere del problema della
pianificazione urbana e dello sviluppo sostenibile nelle nuove aree cittadine, nonché quello del come effettuare le riqualificazioni nel tessuto urbano esistente. La tematica partiva
dal presupposto che dal secolo scorso ad oggi la popolazione
che vive nelle città è aumentata dal 5%a più del 50%. Alcuni padiglioni particolarmente attraenti furono quello degli
Emirati arabi, le cui forme curvilinee riprendevano le dune
del deserto; quello del Regno Unito fatto di migliaia di fili
acrilici trasparenti che di giorno incanalavano la luce verso
l’interno, e di notte verso l’esterno; e il Padiglione italiano
costruito in cemento trasparente.
Sottolineo ancora che a Shangai, come ad Aichi,si è trattato di un tema solo, a differenza di quello di Expo 2015
Milano, che è duplice e molto complesso (nutrire il pianetaenergia per la vita) e che si propone di includere tutto ciò
che riguarda l’alimentazione e l’energia, dal problema della
mancanza di cibo per alcune zone del mondo, a quello dello
sfruttamento delle risorse naturali e dell’inquinamento dei
suoli e dell’acqua, a quello dell’educazione alimentare, fino
alle tematiche legate agli Ogm, nonché quelle legate alla finitezza delle fonti energetiche fossili, alla ricerca nel settore
delle energie rinnovabili. Forse troppo. Si vedrà.
BIBLIOGRAFIA
Aimone Linda e Olmo Carlo, Le esposizioni universali.
1851-1900 il progresso in scena, Torino, Allemandi, [1990]
Allwood John, The Great Exhibitions, London, Studio Vista, 1977
Dall’Osso Riccardo, Expo da Londra 1851 a Shangai
2015, Milano, La Rovere, 2008
Findling John (ed.), Historical Dictionary of World’s Fairs
and Expositions, N. Y, Greenwood Press, 1990
Fusina Sandro, Expo: le esposizioni universali da Londra
1851 a Roma 1942, Milano, Il Foglio, 2011
May Trevor, Great Exhibitions, Oxford, Shire, 2010
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www.expo.rai.it/storia-expo
www.musee-orsay.fr/en/.../universal-exhibitions.ht
www.uzexpocentre.uz/index.php?
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
La donna cinese nel Nuovo Millennio
CHIARA D’AURIA
Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Salerno
L
a condizione femminile nella Cina
contemporanea si colloca all’interno del
più ampio dibattito in corso tra gli studiosi
e nell’opinione pubblica internazionale
sulla modernità della società cinese.
Come evidenziato da Jean Louis Rocca, gli interrogativi
sull’evoluzione del “Paese di mezzo” dalla fine dell’era
di Mao ai nostri giorni talvolta si concentrano
su aspetti precisi e tra questi un ruolo di primo
piano è rivestito dalla situazione della donna e
dalla sua emancipazione1.
Se è vero che la società cinese è diventata
una società di soggetti2 grazie agli effetti delle
politiche di riforme e di apertura promosse da
Deng Xiaoping in poi, all’interno del contesto
storico intercorrente tra la fine degli anni Settanta
e gli anni Duemila emerge con forza l’obiettivo
di realizzazione e di completamento della società
armoniosa (héxié shèhui, 和谐 社会) messo
in atto dalle ultime quattro generazioni della
classe dirigente cinese a partire dalla fine del
periodo maoista. Secondo questo progetto il concetto di
progresso è attivamente costruito dai singoli individui per
il raggiungimento di uno sviluppo economico condiviso da
tutta la società, che è sempre “inclusiva” e mai “esclusiva”,
cioè è diretta alla onnicomprensività di tutti i suoi soggetti3.
Questa duplice spinta verso la modernità presenta
aspetti certamente evidenti anche nel caso dell’analisi
della condizione femminile, poiché se da una parte dal
1. J.-L. Rocca, La società cinese, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 77 e ss.
2. Idem; cfr. anche D. Davis ( a cura di), Urban Spaces in Contemporary
China. The Potential for Autonomy and Community in post-Mao China,
Cambridge, Woodrow Wilson Centre Press, 1995; The Consumer
Revolution in Urban China, Berkeley, University of California Press,
2000.
3. M. Scarpari (a cura di), La Cina, Torino, Einaudi, vol. I, 2011, XVIIXLVII.
36
1949 ad oggi la Cina ha tentato di rafforzare l’uguaglianza
della donna e dell’uomo attraverso politiche sociali
nazionali, dall’altra la liberalizzazione economica si è
accompagnata ad una progressiva liberalizzazione sociale,
negli usi e nei costumi, nella diffusione delle mode, con la
comparsa anche in Cina di una classe di donne emancipate,
economicamente e culturalmente, abituate a viaggiare e
quindi “cittadine del mondo”, esponenti influenti di una
potente gerarchia economica. Si stima, infatti, che in
Cina siano circa 20 milioni le “donne-capo” all’interno
del mondo imprenditoriale e finanziario4. La tecnologia
e l’uso di internet, infine, ha provocato un cambiamento
importante nelle relazioni personali tra uomini e donne,
con una nuova libertà femminile che sembra essere
generalmente condivisa e goduta.
Si tratta di aspetti tuttavia che meritano un
inquadramento più preciso in quanto profondamente
diversa è la percezione della condizione femminile nella
società cinese di oggi e quindi la realtà di vita della donna
nella Repubblica Popolare Cinese dei nostri giorni.
4. M. D’Ascenzo, Fatti più in là. Donne al vertice delle aziende: le
quote rosa nei CDA, Milano, Gruppo 24Ore, 2011, p. 16.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Nonostante tre decenni di socialismo ed altrettanti di
modernizzazione e liberalizzazione economica, la società
cinese si presenta al mondo contemporaneo ancora
fortemente radicata alle sue tradizioni culturali e familiari,
anche se ha mostrato una certa propensione all’adattamento
verso alcuni aspetti della globalizzazione, i cui risultati
sono ancora di difficile interpretazione. Se da una parte,
infatti, si assiste alla continuità di alcune pratiche sociali
che ancora caratterizzano la società cinese odierna,
dall’altra parte è evidente la notevole reattività della società
civile alle nuove opportunità sorte con la trasformazione
economica e a quelle giunte con la penetrazione in Cina del
processo di globalizzazione5.
Questo dualismo, definito da alcuni paradossale6,
in cui vive la società cinese di oggi è particolarmente
evidente in relazione alla condizione della donna, per
cui la comprensione di quest’ultima è possibile solo se
questo “paradosso” è tenuto presente. Per questo motivo
l’analisi del grado di istruzione, del ruolo nel mondo del
lavoro, dell’evoluzione demografica delle donne in Cina
offre l’opportunità non solo di stabilire la reale percezione
della situazione femminile nel Paese ma anche di definire
uno strumento affidabile per descrivere le trasformazioni
sostanziali che la società cinese sta vivendo oggi.
Come sottolineato da Isabelle Attané, a distanza di
trent’anni dall’avvio della modernizzazione in Cina le
donne sono protagoniste di una parziale regressione del
proprio status, costrette a relazionarsi con un ambiente
maschilista che le forza a vivere in una condizione
di precarietà7. In altri Paesi asiatici, come l’India, il
Pakistan, il Bangladesh e l’Indonesia, si è verificato
lo stesso fenomeno, causato, secondo gli studiosi, da
una molteplicità di fattori che, nel caso della Cina,
rischierebbero di sconvolgere seriamente l’equilibrio
sociale e demografico nazionale interessando anche quello
globale8.
Per comprendere la portata reale di questo fenomeno
una chiave di interpretazione è costituita dall’analisi sia
dell’evoluzione storica della condizione femminile in Cina
sia degli effetti generati dalla transizione demografica,
economica e sociale nel mondo femminile cinese. In
tal modo, oltre a emergere la reale condizione sociale
delle donne cinesi, si evidenziano anche le possibili
evoluzioni nelle relazioni di genere in Cina9. L’uso dello
strumento statistico si rivela fondamentale per impostare
uno studio sistematico su questo tema, nonostante alcuni
limiti rappresentati dalle modalità di indagine (scelta dei
campioni, definizione dei questionari, etc.)10. Tuttavia la
descrizione della situazione femminile nella Cina di oggi
è resa possibile grazie all’analisi incrociata della storia di
genere con la socio-demografia di genere.
I risultati di questa indagine, frutto della confluenza
dell’evoluzione storica della condizione femminile con
l’interpretazione di dati statistici ufficiali sull’attuale qualità
della vita delle donne in Cina, evidenziano che, rispetto
ad altri Paesi sviluppati o emergenti, nella Repubblica
Popolare Cinese, nuova potenza mondiale, avviata da
oltre un trentennio verso la modernizzazione economica
e sociale, si assiste attualmente ad un regresso della
condizione della donna che può condurre, nella maggior
parte dei casi, ad una condizione di precarietà sociale.
L’analisi dell’evoluzione storica della condizione
femminile in Cina fornisce gli elementi principali per
verificare questa tesi interpretativa poiché da quest’ultima
emerge il carattere fortemente maschilista che per millenni
ha caratterizzato la tradizione sociale cinese la quale,
nonostante i progressi intercorsi dalla fine dell’Impero
cinese fino alla modernizzazione, attualmente ancora in
atto, mantiene intatti alcuni aspetti di marginalizzazione e
subordinazione della donna.
È opportuno ricordare che le prime informazioni sulla
vita delle donne nell’Impero cinese di cui disponiamo
giunsero in Occidente grazie alla testimonianza del
missionario gesuita Daniello Bartoli nel 1663: prima di
questo momento il mondo occidentale poco conosceva
degli usi, dei costumi e delle tradizioni del popolo cinese11.
Ciò che colpisce maggiormente nella descrizione del
Padre Bartoli è l’assoluta attinenza e uguaglianza a quanto
riportato in opere descrittive e divulgative sulla società
cinese, redatte in epoche successive12; quindi è possibile
affermare che nella testimonianza storica occidentale
tra il XVII secolo e la fine dell’Ottocento la condizione
femminile in Cina non subì alcuna significativa mutazione,
intervenuta solamente quando l’Impero guidato dalla
dinastia Qing, di origine mancese, si avviava al suo
collasso definitivo.
Un ulteriore inquadramento storico sulla vita della donna
5. I. Attané, “Êntre femme en Chine aujourd’hui: une démographie du
genre”, in Perspectives chinoises, n. 4, 2012 p. 1; M. K. White, “Continuity
and Change in Urban Chinese Family”, in The China Journal, n. 53,
genn. 2005, p. 9-33; J.-L. Rocca, Une sociologie de la Chine, Parigi, La
Découverte, 2010.
6. G. Olivier-T. Fang, “Changing Chinese Values: Keeping up with
Paradoxes”, in International Business Review, vol. 17, n. 2, 2008, pp.
194-207.
7. I. Attané, En espérant un fils….La masculinisation de la population
chinoise, Parigi, Institut National d’études démografiques, Parigi, INED,
2010.
8. L. Ballouhey, Entre femme en Chine..., in «Le Monde diplomatique»,
dic. 2010.
9. I. Attané, “Êntre femme en Chine aujourd’hui: une démographie du
genre”, cit., p. 1.
10. I. Attané, cit., p. 1.
11. D. Bartolli, Istoria della Compagnia di Gesù. La Cina, Milano,
Bompiani, 1997, pp. 76 e ss.
12. Le testimonianze di maggior rilievo sono citate in P. Buckley Ebrey,
The Inner Quarters: Marriage and the Lives of Chinese Women in the
Sung Dinasty, Berkeley, University of California Press, 1993; E. Croll,
Changing Identities of Chinese Women, Londra-New Jersey, Hong Kong
University Press, 1994; D. Ko, Cindarella’s Sisters. A Revisionist History
of Footbanding; Berkley, University of California Press, 2005. Molto
interessante è il romanzo di J. Chung, Cigni selvatici: tre figlie della Cina,
Milano, CDE, 1995.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
nella Cina imperiale è fornito dalla lettura dei numerosi
precetti educativi destinati alle giovani di alta estrazione
sociale e alla vasta letteratura composta tra il tardo Seicento
e la fine del XIX secolo in cui leggende, racconti e favole
epiche consentivano la diffusione dei principi educativi
e comportamentali della donna anche tra le classi meno
agiate e più povere13.
L’elemento portante che emerge dalla lettura di questi
testi è l’obbedienza assoluta della donna, indirizzata
principalmente verso tre figure, tutte maschili: il padre,
i fratelli e i figli maschi, nel caso di vedovanza. A questo
principio si univa l’osservanza minuziosa di altri precetti,
definiti “virtuosi”: il mantenimento di un contegno discreto
e mai invasivo sia in famiglia sia in pubblico; la cura del
proprio aspetto fisico per il compiacimento del coniuge;
la limitazione ad interventi spontanei nelle conversazioni
conviviali, a cui la donna doveva partecipare prestando
la massima attenzione ad ogni parola ed espressione;
lo svolgimento costante e completo delle faccende
domestiche.
Queste condizioni di sottomissione erano dovute in
parte alla concezione confuciana della società, per cui
era fondamentale il mantenimento di un equilibrio tra
due elementi: lo yáng (阳) il principio attivo e creatore
dell’Universo, e lo yīn (阴), il principio passivo ed oscuro.
Nel confucianesimo la loro opposizione binaria dava vita
all’evoluzione dell’umanità e di tutto il mondo e costituiva
l’elemento caratterizzante anche della società umana.
L’uomo era quindi identificato con lo yáng e la donna con
lo yīn14. Un esempio concreto e particolarmente rivelatore
della condizione femminile è fornito dalle prescrizioni
rivolte alla donna elaborate durante la dinastia Song,
regnante in Cina tra il 960 e il 127915. In esse è ancora più
evidente la sottomissione all’uomo e la limitazione di ogni
libertà, anche di movimento oltre che di espressione, della
donna. Questa era infatti tenuta ad abitare le stanze più
interne della casa, generalmente anche le più oscure perché
lontane dai giardini o dall’ingresso, poiché, se da una
parte ne garantivano maggiore sicurezza, dall’altra erano i
luoghi meno visibili anche per i membri della stessa casa o
13. Tra i testi di maggior rilievo, Nǚ Jiē ((女誡, Precetti per le donne),
attribuiti alla poetessa Ban Zhao, vissuta nel I secolo d.C.; Nǚ ér jīng
(女儿经, Classico per le fanciulle), elaborato sui precetti confuciani di
sottomissione delle donne, e il Lǐjì (礼记, Libro dei riti), risalente alla
dinastia Zhou, regnanti in Cina tra il XII e III secolo a. C.
14. S. Mann-Y. Cheng, Under Confucian eyes: writings on gender
in Chinese history, Berkeley, University of California Press, 2001; R.
Wang, “Dong Zhongshu’s Transformation of “Yin-Yang” Theory and
Contesting of Gender Identity”, in Philosophy East and West, vol. 55, n.
2, pp. 209-231.
15. Si tratta delle regole elaborate dei filosofi neoconfuciani, cfr. Siu-chi
Huang, Essentials of Neo-Confucianism: Eight Major Philosophers of
the Song and Ming Periods, Westport, Greenwood Press, 1999; P. Ching
Chung, Palace Women in the Northen Sung: 960-1126, Leiden, Brill,
1981; P. Buckley Ebrey, The Inner Quarters. Marriage and the Lives of
Chinese women in the Sung Period, Berkeley, University of California
Press, 1993.
38
famiglia. Talvolta le donne non vedevano mai fisicamente
i propri parenti di sesso maschile fino ad una certa età, e
fin da bambine erano segregate in spazi ad hoc (mentre
era concesso ai bambini di giocare con altri maschietti).
Inoltre era necessario che le piccole fanciulle della casa
adottassero un tono della voce mai troppo alto e che non
corressero o si muovessero al di fuori dei luoghi per loro
prescelti. Per questo motivo, la pratica della fasciatura
dei piedi era effettuata fin dai quattro anni e, nonostante il
piede piccolo fosse generalmente considerato un requisito
fondamentale per definire il grado di bellezza femminile,
in realtà si trattava del risultato di una necessità sociale,
quella, cioè, di immobilizzare fisicamente il più possibile le
donne16.
Al di là del confucianesimo, la realtà quotidiana della
condizione femminile era lo specchio della generale
considerazione sociale della donna: infatti già all’interno
della famiglia la nascita di una figlia femmina determinava
nell’immediato una cornice di emarginazione per lei.
Le bambine non erano considerate membri permanenti
del nucleo familiare poiché erano destinate alla famiglia
del futuro marito, che era spesso scelto dalla famiglia di
provenienza quando queste erano ancora piccolissime. Per
questo motivo il loro nome proprio non era completato
se non al momento delle nozze. Spesso nemmeno la
condizione di moglie migliorava la qualità della vita e
della considerazione sociale delle donne poiché solamente
se avevano partorito figli maschi ed avevano condotto una
vita “virtuosa” (cioè minuziosamente rispettosa delle regole
sociali e familiari) potevano essere a tutti gli effetti presenti
nel registro della famiglia del marito. Il matrimonio
costituiva, quindi, l’unico obiettivo da perseguire per le
figlie femmine che, una volta sposate, erano tenute al
rispetto e alla totale obbedienza verso le suocere, oltre
che verso il marito e gli altri membri maschili della nuova
famiglia, all’interno della quale, a seconda dell’estrazione
sociale, potevano convivere con più mogli o concubine.
Il carico del lavoro domestico era interamente sulle spalle
delle donne degli strati sociali meno abbienti, tanto che,
qualora i genitori della giovane promessa sposa non
disponessero dei mezzi economici necessari per le nozze,
queste erano inviate a vivere nella futura famiglia dello
sposo già da piccole e lavoravano alacremente, quasi in
condizioni di servitù. Infine, sul piano successorio, poiché
solamente i figli maschi potevano ereditare i beni del padre,
le donne erano completamente escluse dall’asse ereditario:
ciò aggravava la loro situazione di marginalizzazione e
sfruttamento a causa della completa dipendenza economica
dalla famiglia (prima quella di origine e in seguito quella
16. Cfr. L. De Giorgi, “Costume o tortura? La fasciatura dei piedi in
Cina”, in DEP, Rivista di studi sulla memoria femminile, n. 16, 2011.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
del coniuge)17.
Altri esempi di estromissione e abuso, tra cui la
prostituzione forzata, la vendita della persona, l’abbandono
e i maltrattamenti e le violenze fisiche e psicologiche, erano
fattori quotidiani nella vita delle donne delle classi sociali
più povere. Queste, a differenza delle giovani degli strati
sociali più ricchi ed abbienti, vivevano nell’ignoranza
e nella mancanza di istruzione, mentre alle donne delle
famiglie più facoltose erano insegnate solamente alcune
discipline, considerate funzionali alla loro gradevolezza
nella famiglia e per il coniuge, come la musica, il canto, il
disegno e talvolta la poesia18.
Questa situazione di degrado personale e di isolamento
sociale iniziò a cambiare con il collasso definitivo
dell’“Impero celeste”: con la Rivolta dei Taiping e quella
dei Boxers le sollevazioni popolari che scossero l’Impero
cinese condussero ad un importante trasformazione della
società cinese, includendo anche la condizione femminile.
Scatenatasi nel 1851, la Rivolta dei Taiping, infatti,
rappresentò una delle più estese e radicali rivolte contadine
nella storia della Cina imperiale, tanto da sconvolgere
profondamente l’assetto della dinastia Qing19, che riuscì
a sopprimerla duramente solo nel 1864, con il sostegno
militare della Gran Bretagna. Questo movimento, di portata
17. P. Buckley Ebrey, cit. Nel volume di K. Bernhardt, Women and
Property in China, 960-1949, Stanford, Stanford University Press, 1999
è esaminato il diritto di proprietà delle donne durante il periodo Song:
l’indagine storica della studiosa ha causato una profonda revisione della
storia della condizione femminile in Cina.
18. S. Stafutti-E. Sabattini (a curai di), La Cina al femminile. Il ruolo della
donna nella cultura cinese, Roma, Aracne, 2013; E. Masi, La condizione
delle donne nella Cina imperiale, Roma, Problemi della pedagogia, 1965;
P. Ching Chung, cit; D. Eliseeff, La donna nella Cina imperiale, Milano,
SugarCo, 1991; P. Buckley Ebrey, “Donne, matrimonio e famiglia nella
storia cinese”, in P. S. Roop (a cura di), L’eredità della Cina, Torino,
Fondazione Giovanni Agnelli, 1994.
19. Le tensioni sociali accumulate nel Paese a causa dello sfruttamento
dei contadini e per l’umiliante sconfitta nella prima guerra dell’oppio
(1839-1842) e la corruzione generale in cui l’Impero versava fecero
scoppiare questa ribellione, capeggiata da Hong Xiuquan che, convertito
al cristianesimo, creò la società degli adoratori di Dio, fomentando
i disordini sociali della provincia meridionale del Guangxi. Qui le
rivendicazioni degli hakka (antichi immigrati del nord della Cina), dei
contadini e dei piccoli artigiani, colpiti dalle conseguenze del trattato di
Nanchino del 1842, scoppiò la rivolta e Hong si affermò come leader
politico e militare tra il 1849 e il 1850. Nel gennaio del 1851 proclamò
la nascita del “Regno celeste della pace universale” (Taiping Tianguo,
太平 天国 da cui il termine taiping) in cui confluivano alcuni fattori
ideologici e filosofici provenienti dal cristianesimo e dalla tradizione
cinese. Lo scopo della rivolta era l’abbattimento dei Qing, l’eliminazione
del confucianesimo e buddhismo e della posizione di potere incontrastato
dei funzionari e dei proprietari terrieri, distribuendo la terra a tutti i
contadini per la creazione di in una società egalitaria. Nel 1853 i Taiping
attuarono una riforma agraria secondo cui era effettuata la ripartizione
delle terre per nucleo familiare, incluse le donne, costituendo così un vero
e proprio Stato indipendente, con un proprio esercito. Nel 1855, fallito
il tentativo di conquistare Pechin, la guerra civile si protrasse altri dieci
anni. La progressiva perdita di consenso, causato dalle rivalità all’interno
del movimento Taiping, favorirono le truppe imperiali che vinsero nel
1864 grazie all’aiuto di britannici e francesi. Cfr. H. Schmidt-Glintzer,
La Cina contemporanea. Dalle guerre dell’oppio a oggi, Roma, Carocci,
2005; J. A. G. Roberts, Storia della Cina, Milano, Il Mulino, 2007.
storica nella Cina della seconda metà dell’Ottocento,
si fece promotore di una notevole emancipazione della
donna, quasi totale: dalla scelta libera del proprio
sposo, all’accesso all’istruzione ed alle tipologie
lavorative maschili (addirittura alla cariche politiche ed
amministrative) con lo stesso livello di retribuzione; fu
inoltre eliminata la pratica del bendaggio dei piedi e del
concubinato e le donne potevano muoversi liberamente in
tutto il Paese, anche da sole20.
La fine della Rivolta non provocò l’immediato ritorno
delle tradizioni, nonostante la società cinese rimanesse nel
suo complesso fortemente influenzata ai secoli di pratiche
discriminatorie e di marginalizzazione verso la donna. La
rivolta dei Boxers nel 1900, infatti, radicalizzò le conquiste
ottenute precedentemente21. Se questo movimento tra i suoi
obiettivi intendeva salvaguardare le tradizioni nazionali
cinesi dalla crescente influenza occidentale, dall’altra
le donne al loro interno si emanciparono a tal punto da
partecipare alle milizie, organizzandosi in reparti divisi per
età e livello sociale (rossi per le nubili e le giovani; bianchi
per le sposate; verdi per le vedove ed infine neri per le
anziane) e distinguendosi per coraggio e determinazione
nelle operazioni di combattimento22. Questa condizione si
rafforzò con la forzata apertura della tradizione imperiale
verso l’Occidente. Un ampio strato di personalità della
cultura e della politica tardo imperiale, infatti, si resero
conto dell’ineluttabile trasformazione, necessaria alla
20. C. Carpinelli, “La lunga marcia delle donne cinesi per la conquista
dei loro diritti”, in Il calendario del popolo, nov. 2008, n. 735; K. Ono,
Chinese Women in a Century of Revolution, 1850-1950, Stanford,
Stanford University Press, 1989.
21. La ribellione scoppiata in Cina nel 1900, nota come Rivolta dei
Boxers, trova le sue radici in diversi avvenimenti del secolo precedente.
Tra questi, il trattato di Nanchino e il Trattato di Tiensin che aprivano i
porti cinesi agli stranieri. Inoltre, tra il 1894 e il 1895, la Cina fu sconfitta
dal Giappone per il dominio sulla Corea: nell’aprile del 1895 fu costretta
a firmare la pace di Shimonoseky che la obbligava a pagare un’ingente
indennità di guerra e a cedere diversi territori al Giappone. Alla fine
dell’Ottocento, in Cina si era formata un’associazione segreta, la Società
dei Pugni e dell’Armonia, i cui membri vennero definiti dagli Occidentali
Boxers poiché si dedicavano alle arti marziali. La penultima imperatrice
cinese, Cixi, fomentò l’odio dei Boxers nei confronti degli occidentali,
con conseguenti massacri di europei e cristiani, senza risparmiare i
bambini. Fu la stessa imperatrice, il 20 giugno 1900, a spingere i Boxers
ad attaccare il quartiere delle ambascerie di Pechino: in quest’occasione
fu ucciso il barone e ministro tedesco Von Kettler. La reazione straniera
non tardò a giungere e Germania, Austria, Francia, Italia, Gran Bretagna,
Russia, Stati Uniti e Giappone risposero inviando un corpo di spedizione
di circa 20.000 uomini, che occupò Tianjin (Tiensin) e, raggiunta Pechino,
riuscì senza incontrare particolari difficoltà a liberare gli assediati.
Tuttavia massacri, saccheggi e violenze furono incessanti fino a che le
navi straniere iniziarono a presidiare le coste settentrionali della Cina
nell’aprile del 1900. Numerosi contingenti internazionali furono spedite
a Pechino e la ribellione fu definitivamente sedata dall’Alleanza delle
otto Paesi: Austria-Ungheria, Francia, Germania, Italia, Giappone,
Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America. Cfr. D. Preston, The
Boxer Rebellion, New York, Berkley Books, 2000; V. Purcell, La rivolta
dei boxer, Milano, Rizzoli, 1972; P. Loti, Gli ultimi giorni di Pechino:
reportage della rivolta dei boxer, Padova, Muzzio, 1997.
22. C. Carpinelli, “Primi passi verso i diritti”, in Noi Donne, 4 dicembre
2007.
39
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modernità del Paese, e tra queste si ricorda l’Imperatrice
Cixi, le cui riforme provocarono effetti straordinari
nella vita delle donne in Cina. Nel 1898 Cixi si rivolse a
Liang Qichao, noto filosofo riformista, per la riordino
del sistema educativo, in modo da creare una nuova
generazione di giovani colti, preparati e istruiti secondo i
modelli occidentali. Liang sostenne con forza l’assoluta
necessità di rottura con il passato e di integrazione della
donna nell’istruzione moderna23. Le conseguenze di questa
trasformazione si manifestarono nelle generazioni delle
giovani più abbienti che, insoddisfatte del proprio ruolo
limitato e richiuso in vincoli tradizionali ormai obsoleti,
chiesero maggiore indipendenza partendo dall’accesso
all’istruzione e alle Università (che furono gradualmente
aperte anche a loro). L’emancipazione dall’ambiente
familiare, il contatto con il sapere scientifico ed umanistico
e l’apprendimento delle lingue e delle culture straniere
segnò il definitivo ingresso della donna cinese nella
modernità del XIX secolo. La fine dell’Impero e la rivolta
di Wuchang nel 191124, che portò alla costituzione della
Repubblica nazionalista, segnarono la nascita del primo
movimento femminile cinese, capeggiato da Qiu Jin, una
delle principali leve del movimento studentesco cinese,
che si dedicò alla diffusione degli ideali nazionalisti e
all’emancipazione della donna, realizzabile, secondo il
suo pensiero, partendo dal nucleo principale della società
cinese, la famiglia, in cui la donna doveva rivendicare la
propria istruzione e il diritto al lavoro e all’indipendenza
economica25. Tramite il suo Giornale delle donne
(Zhongguonü bao中國女 報) Qiu Jin sottolineava che il
contributo delle donne nella società cinese fosse prezioso
ed indispensabile, attraverso il lavoro e lo studio.
La percezione della “nuova donna” nella società tardo
imperiale e repubblicana fu discordante: se da una parte
alcuni ne incoraggiavano la lotta per l’emancipazione,
consapevoli dei cambiamenti ormai in atto, dall’altra spesso
il peso della tradizione familiare non abbandonava le
giovani cinesi, le cui famiglie sottolineavano l’importanza
di un comportamento che tenesse ancora conto degli antichi
precetti tradizionali. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi
del Novecento, dunque, la donna cinese poteva contare su
esempi di totale emancipazione e libertà, come le giovani
che militavano all’interno del movimento nazionalista
di Sun Yan Set e che svolgevano professioni tipicamente
maschili (come, ad esempio, il medico o il soldato), ma
era tuttavia resa “ibrida” dalla cultura tradizionale in cui
quotidianamente viveva. Questa condizione, tuttavia,
non generò confusione negli obiettivi e soprattutto nella
23. J. Levenson, Liang Ch’i-C’ao and the Mind of Modern China, Los
Angeles, University of California Press, 1970; voce “Liang Qichao” in
Dizionario di filosofia, Roma, Istituto Enciclopedico Italiano G. Treccani,
2009.
24. Cfr. G. Samarani, La Cina del Novecento, Torino, Einaudi, 2008, pp.
9 e ss.; J. A. G. Roberts, cit., pp. 263 e ss.
25. K. Ono, cit., pp. 60 e ss.
40
portata dei cambiamenti sociali che le donne intendevano
rivendicare: una chiara dimostrazione di questo fenomeno
è rappresentata dalla nascita di numerose riviste femminili
rivolte a tutte le donne, di ogni estrazione sociale, per
il loro sostegno, il dibattito contro l’emarginazione e il
confronto tra esperienze, esigenze e desideri26.
L’avvento del successore di Sun Yan Set, Chiang Kai
Shek, provocò una battuta d’arresto nel movimento di
emancipazione femminile dato che il governo negò la
possibilità di estensione di voto alle donne. La lotta
delle donne per l’uguaglianza dei diritti politici e civili,
tuttavia, proseguì nel partito nazionalista anche dopo la
e una circostanza storica ne consentì il rafforzamento.
La presenza giapponese in Manciuria, infatti, generò la
nascita del Movimento del 4 maggio27 nel 1919, al quale
aderì anche il movimento femminile, tra le cui principali
esponenti spiccava Deng Yingchao28, (che nel 1925 sposò
Zhou Enlai), che fece della lotta all’indipendenza e alla
parità della donna il suo principale obiettivo politico. La
maggior parte delle donne cinesi dell’epoca rivendicò
il proprio diritto al’uguaglianza grazie al lavoro, nelle
fabbriche e nelle campagne, attraverso le associazioni
sindacali e le numerose leghe di solidarietà che si
costituirono tra il 1919 e il 1949. Ma il principale elemento
attraverso cui si sviluppò il movimento di emancipazione
femminile divenne nel 1922 il Partito Comunista Cinese,
fondato a Shanghai nel 1922, all’interno del quale migliaia
di donne si adoperarono con coraggio assumendo ruoli
tradizionalmente maschili, soprattutto nella propaganda
nelle campagne e nelle fabbriche.
All’interno della Lunga Marcia (長征, Chángzhēng)29
delle armate comuniste, intrapresa tra l’ottobre del
1934 e l’ottobre del 1935, prese parte attiva un numero
crescente di donne, che si dedicò soprattutto all’istruzione
e all’educazione delle contadine nei territori “liberati” dai
comunisti30.
L’avvento dell’era comunista in Cina determinò un
cambiamento fondamentale sia nel movimento femminile
e nei suoi sviluppi sia nella condizione delle donne
26. Lu Meiyi - Zheng Yongfu, Il Movimento delle Donne
Cinesi,1840-1921, Casa editrice del Popolo di Henan, 1990, pp.128 e
ss.; cfr. anche Chen Dongyuan, La Storia della Vita delle Donne Cinesi,
hangwu Yinshuguan 1998, pp. 356 e ss.
27. Cfr. G. Samarani, cit.
28. Ya Chen-Chen, The Many Dimensions of Chinese Feminism,
Londra, Palgrave MacMillan, 2011, p. 227; Zheng Wang, Women in the
Chinese Enlightment: Oral and Textual Histories, Berkeley, University
of California Press, 1999, pp. 160 e ss.; T. E. Barlow, The Question of
Women in Chinese Feminism, Durham, Duke University Press, 2004.
29. La Lunga Marcia fu intrapresa dall’Armata Rossa cinese per ritirarsi
dal Jiangxi allo Shaanxi e per percorrere circa 12.000 km, combattendo,
dalle truppe del Guomindang di Chiang Kai Shek. Cfr. G. Samarani, cit.,
pp. 65 e ss.
30. C. Carpinelli, “Il movimento di liberazione della donna nella Cina di
Mao”, in Noidonne, 21 gennaio 2008; L. Landy, Women in the Chinese
Revolution, New York, International Socialist, 1974; E. Honig, “Socialist
Revolution and Women’s Liberation in China”, in Journal of Asian
Studies, vol. XLIV, n. 2, pp. 329-336.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
cinesi poiché stabilì una cesura netta con il passato e con
la tradizione millenaria della società cinese di stampo
confuciano. Nonostante le numerose conquiste riconosciute
e consolidate durante il maoismo, tuttavia, la tradizionale
base comportamentale e psicologica nei confronti della
figura della donna non fu del tutto eliminata poiché il
maoismo non intendeva garantire una parità assoluta tra
uomo e donna ma un riconoscimento della possibilità
per la donna assumere le posizioni sociali, politiche,
economiche e familiari un tempo riservate unicamente
agli uomini. Il comunismo cinese, quindi, costruì una
società in cui la donna giungeva a diventare come
l’uomo, non una in cui la donna, mantenendo la propria
specificità di genere, fosse considerata pari all’uomo31. Se
da una parte le differenze di genere erano state usate dalla
società tradizionale per sottomettere e marginalizzare il
mondo femminile, e per questo motivo erano osteggiate
dal maoismo, dall’altra la loro eliminazione e negazione
provocò una mascolinizzazione della donna nel periodo tra
il 1949 e il 1976, con notevoli conseguenze sia sul piano
dei comportamenti sociali sia su quello delle relazioni tra
i due sessi. Il comunismo cinese, infatti, chiamò la donna
ad occupare tutti gli spazi sociali tipicamente maschili, in
un processo in cui l’uguaglianza tra i due sessi era garantita
dall’eliminazione di tutte le differenze di genere. La
lingua cinese, ad esempio fu modificata nelle espressioni
considerate “discriminanti” nei confronti delle donne, che
furono cancellate dal linguaggio quotidiano; nella scelta
dell’abbigliamento, l’uniforme da lavoro e l’assenza di ogni
componente ornamentale cambiò profondamente la figura
femminile cinese, da sempre caratterizzatasi per l’eleganza
e la dolcezza del portamento e dell’aspetto esteriore;
infine, sul piano dei rapporti sociali, poiché il lavoro fu
considerato il principale strumento per l’ottenimento
e il consolidamento della propria indipendenza e
dell’“uguaglianza” con l’uomo, il matrimonio e la famiglia
divennero obiettivi trascurabili, se non talvolta “erronei”,
nella mentalità femminile dell’epoca.
Se da una parte l’avvento del maoismo cambiò la
percezione sociale del ruolo della donna, totalmente
scollegato con la tradizione millenaria cinese (una serie
di leggi per garantirono dal 1949 i poi questa condizione,
come quella per il diritto di voto e quella sul matrimonio)32,
dall’altra non è possibile affermare che nella Cina maoista
la condizione femminile fosse realmente egalitaria e
31. E. Honig, cit.; Croll, Chinese Women since Mao, Londra, M. E.
Sharpe, 1983.
32. La legge sul matrimonio fu promulgata il 13 aprile 1950 e dichiarò
aboliti i matrimoni decisi dai genitori, la poligamia e il concubinato;
inoltre proclamò l’uguaglianza dei sessi e legalizzò il divorzio per
mutuo consenso. Tra gli altri provvedimenti, fu severamente proibita la
prostituzione. E. Honig, cit.; Cfr. J.-L. Domenach-H.Chang-Ming, Le
marriage en Chine, Parigi, Presses de l Fondation nationale des sciences
politiques, 1987; D. C. Buxbaum, Chinese Family Law and Social
Change in Historical and Comparative Perspective, Londra, University
of London Press, 1978.
paritaria a quella maschile. Infatti sul piano economico
e professionale le donne, nonostante l’invito costante
svolto dalla retorica di partito a penetrare negli spazi un
tempo unicamente maschili, erano ancora discriminate,
percependo retribuzioni minori e occupando ruoli e
funzioni di livello inferiore nella gerarchia professionale,
burocratica e politica. Le donne cinesi, quindi, vivano
in una dimensione sociale nella quale, pur godendo di
indipendenza e autonomia rispetto a quella di pochi
decenni prima, non avevano a disposizione uno spazio
sociale veramente accogliente delle proprie esigenze di
genere e, pur godendo di pari opportunità, non ricevevano
lo stesso trattamento economico degli uomini né gli
stessi incarichi professionali33. Ad esempio, la gioia della
famiglia, della cura della casa e del proprio partner erano
vissute come una rinuncia che la donna moderna doveva
assolutamente accettare per dare la priorità alla sua
affermazione sociale attraverso il lavoro, potenzialmente
uguale a quello maschile ma mai lo stesso nei ruoli,
nelle funzioni e nel trattamento economico. In tal modo,
quindi, la retorica comunista sradicava le donne dalla loro
specificità di genere privandole della possibilità di gustare
la realtà della propria dimensione femminile, in nome
dell’uguaglianza con l’uomo. Il continuo slancio verso
l’uguaglianza di genere che il comunismo prometteva
non lasciava spazio alle donne cinesi della possibilità di
accorgersi di queste incongruenze e privazioni34. In tal
senso un ruolo determinante fu svolto dalla Federazione
nazionale delle donne cinesi (中华全国妇女联合会,
Zhōnghuá Quánguó Funǚ Liánhéhuì), fondata nel marzo
del 1949 con l’obiettivo di garantire parità dei diritti civili,
politici e sociali delle donne ma che non fornì una reale
voce all’universo femminile di quegli anni, fomentando
l’uguaglianza ma non la parità tra i due sessi.
Con
l’avvento
della
Rivoluzione
Culturale35,
l’eliminazione di ogni forma di borghesismo colpì le donne
(come gli uomini) considerati nemici della Rivoluzione, per
cui soprattutto le personalità più colte e i quadri di partito
furono oggetto di violenze, torture e internamenti nei campi
di lavoro36.
Questa esperienza storica, seppur drammatica e dolorosa,
consente di evidenziare quanto profondamente dualistica
fosse la condizione femminile nella Repubblica Popolare
Cinese di quell’epoca, poiché nelle campagne e nelle zone
più isolate del Paese, dove erano posizionati la maggior
parte dei laogai (勞改), cioè i campi di rieducazione, la
maggior parte delle donne sceglieva la vita in famiglia
e in casa, rinunciando alle prospettive offerte dal partito
per dedicarsi al matrimonio, ai figli, alla loro dimora e
33. E. Honig, cit.; E. Croll, cit.
34. E. Croll, Changing Identities, cit.
35. E. Croll, Chinese Women since Mao, cit.
36. Idem.
41
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
contribuendo al lavoro nei campi37. Questa dicotomia
era il segno della mancanza di percezione obiettiva della
propria reale condizione; di tale carenza soffrivano, nel loro
presente, la maggior parte delle donne cinesi, soprattutto
quelle che dimoravano lontane dai centri urbani e dalle
zone costiere (tradizionalmente le aree più sviluppate
del Paese). Se da una parte, quindi, la retorica maoista
propagandava l’uguaglianza tra i sessi, dall’altra non aveva
protetto le donne dall’emarginazione sociale e dagli abusi
che proseguivano soprattutto nelle aree più isolate della
Cina e nelle campagne.
La morte di Mao Zedong, oltre che ad una profonda
revisione della dottrina maoista, provocò un altrettanto
profondo rinnovamento nel sistema economico e sociale
del Paese poiché, come è noto, dal 1976 in poi la Cina si
avviò verso la modernizzazione (soprattutto grazie alla
dottrina delle quattro modernizzazioni (sì gè xiàndaihuà
四 个 现代化) per affermarsi come grande potenza
economica ed internazionale38. La completa revisione della
politica comunista ebbe i suoi effetti anche sulla situazione
delle donne poiché l’introduzione graduale del capitalismo
e successivamente del consumismo determinarono il
riapparire di alcuni fenomeni discriminatori, soppressi
durante il maoismo, nei confronti delle donne. Se le
tendenze della moda e l’accesso a beni di consumo globali
caratterizzano la contemporaneità del mondo cinese
femminile e si è assistito ad un incremento notevole del
numero delle donne laureate e con attività professionali
nel mondo dell’imprenditoria e della finanza, negli ultimi
quattro decenni è divenuto sempre più evidente che il
processo di modernizzazione e di crescita dell’economia
ha travolto il mondo femminile.
Questo, infatti,
durante gli anni del maoismo non era stato socialmente
difeso né rafforzato nelle sue differenze di genere, ma
“appiattito” su quello maschile secondo il principio
dell’uguaglianza. Gli effetti della modernità cinese sono
stati drammatici per molte donne poiché hanno provocato
nuovamente l’emersione della discriminazione femminile,
precedentemente ostacolata dal regime maoista, e tornata
ad essere un fenomeno costante della società. La prima, più
evidente forma di disparità femminile si è manifestata in
ambito lavorativo, poiché le donne sono diventate i soggetti
professionali più deboli ed indifesi. Le donne in Cina sono
meno retribuite rispetto agli uomini, a parità di incarico;
alle donne sono affidate responsabilità professionali meno
prestigiose ed infine sono licenziate più dei loro colleghi
37. Idem; H. H. Wu, Laogai: i gulag cinesi, Napoli, L’ancora del
Mediterraneo, 2006; C. H. Smith, Forced Labor in China: Hearing Before
the Committee on International Relations, U.S. House of Representative,
Washington D.C., US Government Printing Office, 1998.
38. Le quattro modernizzazioni sono il contenuto principale della
riforma promossa nel 1978 da Deng Xiaoping in quattro settori
principali: agricoltura, scienza e tecnologia, industria e difesa nazionale.
Cfr. M.-C. Bergère, La Cina dal 1949 ai giorni nostri, Bologna, Il
Mulino, 2000, pp. 255 e ss.; J.-L. Domenach, Dove va la Cina?, Roma,
Carocci, 2005; L. Tomba, Storia della Repubblica popolare cinese,
Milano, Mondadori, 2002, pp. 141 e ss.; G. Samarani, cit., pp. 301 e ss..
42
maschi poiché i datori di lavoro considerano elevato il
costo della maternità (i tre mesi successivi al parto sono
interamente retribuiti e a carico del datore di lavoro, che
si assume anche l’onere di altre forme di assistenza)39.
Nelle campagne il lavoro femminile è ancora svolto in
condizioni precarie (a causa della scomparsa dei servizi
sociali e dei presidi sanitari, un tempo esistenti grazie ai
fondi messi a disposizione dalle unità collettive di lavoro)
e a questo si aggiunge il carico della cura della casa e
della prole40; l’aumento degli uxoricidi e degli infanticidi
femminili (soprattutto a causa dell’introduzione nel 1979
della “politica del figlio unico”, jìhuà shēngyù zhèngcè计
划 生育 政策, letteralmente “politica di pianificazione
familiare”41) ha determinato una vera e propria emergenza
sociale, con conseguenze gravissime per l’intera società
cinese che nei primi anni Duemila conta un numero
superiore di uomini rispetto alle donne. Nonostante
le politiche del governo abbiano fomentato una vasta
compagna contro l’infanticidio e l’uxoricidio, soprattutto
nelle zone rurali, la partecipazione delle giovani donne
alla vita economica, politica e sociale del Paese è ancora
impari rispetto a quella maschile42. Un chiaro esempio
delle discriminazioni femminili contro cui il governo volle
battersi è dato dal testo relativo alla legge sul matrimonio,
varato nel 1980, all’interno del quale furono inserite
dettagliate disposizioni che proibivano il maltrattamento e
l’uccisione delle bambine e delle mogli.
Fenomeni di emarginazione come la prostituzione, la
vendita e la tratta di esseri umani e il fenomeno della
“vendita delle mogli” (拐卖, guǎi mài, che letteralmente
significa “rapimento e vendita”, causato dalla minore
presenza di donne rispetto agli uomini e dalla necessità
della figura femminile per il lavoro in casa e, nelle
province più lontane, anche nei campi)43, sovente nascosti
e segretamente sostenuti dalle autorità di pubblica
sicurezza locali, ha generato l’esigenza di un intervento
più massiccio del governo che, oltre ad eliminare nel 2013
39. E. Croll, cit.; From Heaven to Earth: Images and Experiences of
Development in China, Londra, Routledge, 1994; J. Banister, China’s
Changing Population, Stanford, Stanford university Press, 1991; D.
K. Tatlow, “For China’s Women More Opportunities, More Pitfalls, in
NYTimes, 25 novembre 2010.
40. M. Miranda, “La Quarta Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite
sulle Donne e la condizione della donna in Cina”, in Mondo Cinese, n.
90, sett.-dic. 1995.
41. Si tratta di una delle politiche principali di controllo delle nascite
attuata dal governo cinese per contrastare il notevole incremento
demografico del paese, più volte sottoposta a revisione. Cfr. E. Croll,
China’s one-child Family Policy, Londra, MacMillan Press, 1985; H.
H. Wu, Strage di innocenti: la politica del figlio unico in Cina, Milano,
Guerini e Associati, 2009.
42. C. Viglione, “L’altra metà del cielo. Chiacchierata sulla condizione
della donna nella Cina di fine millennio”, in Frammenti d’Oriente,
febbraio 1998; E. J. Perry-M. Selden, Chinese Society: change, conflict
and resistance, Londra, Routledge, 2010, pp. 162 e ss.; “Gender Equality
and Women’s Development in China”, in China.org.cn/english/2005/
Aug/139404.htm.
43. R. Foot, China across the Divide: The Domestic and Global politics
and the Society, Oxford, Oxford University Press, 2013, p. 145.
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la politica del figlio unico, ha provveduto a rafforzare
l’attività di lavoro ed indagine della Federazione nazionale
delle donne cinesi44. Nel corso della Quarta conferenza
mondiale sulle donne organizzata dall’ONU a Pechino
nel 1995, le dichiarazioni del governo cinese sono state
decise nello stabilire che lo sviluppo della condizione
femminile è un requisito fondamentale per la costruzione
della società armoniosa; che la conoscenza e la soluzione
dei problemi delle donne rappresenta il sistema migliore
per salvaguardare questa armonia nel lungo periodo; che
la promozione dello sviluppo della condizione della donna
attraverso politiche armoniose di controllo è il canale
principale per prevenire gli squilibri sociali45.
Un aspetto positivo registratosi negli ultimi due decenni è
rappresentato dall’aumento di consapevolezza della propria
condizione da parte delle donne cinesi: la Federazione
nazionale è diventata più influente sul governo e soprattutto
più incisiva come “voce” nazionale delle donne, ed oltre
a questa associazione operano nuovi gruppi femminili
autonomi, sorti spontaneamente soprattutto nei principali
centri urbani. Le donne cinesi, quindi, sono diventate
coscienti della duplicità della visione a loro riservata dalla
società della Cina modernizzata, che da una parte le lascia
libere e ne consente la realizzazione come esseri umani
indipendenti ed autonomi ma che, dall’altra parte, continua
a discriminarle e a sfruttarle. Parallelamente esse iniziano a
percepire la propria coscienza individuale e a proteggerla,
riscoprendo la propria femminilità e il proprio ruolo di
44. J. Howell, “The struggle for survival: Prospects for the Women’s
Federation in Post-Mao China” in World Development, n. 1, 1996, pp.
129-143; L. Bohong, The All-China Women’s Federation and Women’s
NGOs. Chinese Women Organizing: Cadres, Feminist, Muslims, Queers,
Oxford, Berg, 2001.
45. M. Miranda, cit.; I. Attané, cit., p. 6.
madri, mogli o nubili nella società e nella famiglia, grazie
al maggiore benessere economico e al consumismo.
Nonostante l’azione del governo debba essere più
estesa ed efficiente a favore della parità di genere,l’ex
presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu
Jingtao ha riconosciuto pubblicamente la persistenza di
notevoli disparità tra i due sessi46: questa dichiarazione
deve essere inquadrata nel processo, ancora in atto, di
legittimazione della Cina al rango di grande potenza
mondiale, raggiungibile, secondo la classe dirigete cinese,
solo se il Paese avesse aderito al rispetto e alla tutela dei
principali diritti umani e civili riconosciuti dalla comunità
internazionale, tra cui si annoverano quelli relativi al
miglioramento della condizione femminile.
Tuttavia misure efficienti del governo cinese sono ancora
largamente assenti, soprattutto contro la discriminazione
sul lavoro, sulle pratiche di tratta umana delle donne, sul
lavoro femminile sommerso nelle aree rurali47.
Nella Cina attuale emerge che le disuguaglianze di
genere si estendono anche all’assistenza sanitaria, alla
rappresentanza politica e al lavoro imprenditoriale (le
cosiddette “quote rosa”) e alla sfera privata sulla base di
decisioni e consuetudini che, ancora oggi, traggono origine
dalle famiglie48.
Il sistema sociale cinese, quindi, presenta un accesso alle
opportunità economiche e sociali per donne che è ancora
sostanzialmente differente rispetto a quello per gli uomini.
Inoltre molto importante è la forte disuguaglianza della
condizione tra donne stesse, a seconda che esse risiedano e
46. I. Attané, cit., p. 7.
47. M. Miranda, cit.
48. I. Attané-C. Guilmoto, Watering the Neighbor’s Garden: the Growing
Demographic Female Deficit in Asia, Parigi, Cicred, 2007, pp. 207-228.
43
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
vivano in differenti aree del Paese49.
Un indice di particolare rilievo è rappresentato dal
livello di istruzione primaria, che risulta essere inferiore
per le bambine, soprattutto quelle nate nelle aree rurali50.
L’istruzione secondaria e quella secondaria superiore,
nonostante un incremento registratosi tra il 1990 e il 2010,
resta ancora appannaggio di un numero limitato di giovani
cinesi, per cui la durata media degli anni di istruzione
obbligatoria nel 2010 per le donne è di circa l’8,8%, per gli
uomini arriva al 9,1%51.
Un’indagine più accurata, svolta in riferimento all’anno
2000 dalla Federazione nazionale delle donne cinesi, ha
evidenziato che il tasso medio di abbandono degli studi è
più alto per le giovani (36,8%) che non per i loro coetanei
di sesso maschile (27,9%), rilevando che generalmente le
famiglie, nel caso in cui incorrano in difficoltà economiche,
considerano l’istruzione inutile per le fanciulle e non per i
figli maschi52.
Altro elemento rivelatore della condizione di
disuguaglianza femminile in Cina è rappresentato dal tasso
di occupazione: nel 2010 ammonta al 73,6% per le donne
contro l’88,7% per gli uomini di fascia d’età compresa
tra i 20 e i 59 anni, con una diminuzione del primo nelle
aree urbane (il 60,8% delle donne è impiegato rispetto
all’81,1% degli uomini). Nelle campagne, invece, il tasso
di impiego femminile sale all’84,4% per le donne (contro
il 94,3% di quello maschile)53. Perciò, nonostante una
complessiva disparità nel mondo del lavoro, le donne
sono più facilmente impiegate nelle campagne che non
nelle grandi città, dove esistono opportunità professionali
di maggiore responsabilità e più remunerative. Un’élite di
donne-manager, con altissime remunerazioni e patrimoni
miliardari, è presente in Cina ma rappresenta più il
simbolo irraggiungibile ed inimitabile degli effetti della
crescita economica cinese che un esempio concreto per
i milioni di donne che vivono in condizioni economiche
e professionali più limitate se non addirittura precarie.
Queste disuguaglianze sopravvivono in Cina nonostante le
garanzie costituzionali e legali che il governo riconosce al
lavoro femminile54.
Risultati più evidenti si ottengono attraverso un’analisi
statistica relativa alla percezione della qualità del
lavoro, secondo cui sul piano lavorativo le competenze
professionali delle donne sono meno valorizzate rispetto
49. I. Attané, Êntre femme en Chine, cit., p. 7.
50. All Chinese Women Federation (ACWF), Executive Report of the
third Sample Survey on Chinese Women’s Social Status, vol. 6, n. 108,
2011, pp. 5 e ss.
51. Idem.
52. ACWF, Executive Report of the second Sample Survey on Chinese
Women’s Social Status, 2001.
53. ACWF, Executive Report of the third Sample Survey on Chinese
Women’s Social Status, cit.
54. J. Burnett, “Women Employment Rights in China: Creating Harmony
for Women in the Workplace”, in Indiana Journal of Legal Studies, vol.
17, n. 2, 2010, pp. 289 e ss.; I. Attané, cit., pp. 8-9.
44
a quelle degli uomini. Da questa indagine, infatti, risulta
che secondo la maggior parte degli intervistati le capacità
lavorative maschili sono naturalmente superiori rispetto a
quelle femminili55. Le cause di questa “naturale” differenza
risiederebbero anzitutto nelle competenze femminili,
generalmente giudicate limitate; segue la resistenza fisica,
valutata insufficiente rispetto a quella maschile; solo una
piccola percentuale del campione di intervistati ritiene
che le prospettive di carriera per le donne cinesi siano
effettivamente più modeste rispetto a quelle di accesso
maschile56. Un dato positivo è offerto dal fatto per cui,
all’interno del campione, le donne intervistate mostrano
una forte consapevolezza della propria condizione,
ammettendo che le loro opportunità di lavoro non sono
affatto equivalenti a quelle maschili, né nelle competenze,
né nelle retribuzioni ed infine nemmeno nelle prospettive di
carriera57.
Sulla base di questi risultati statistici, è evidente che la
società cinese sia rimasta ancorata alla tradizionale visione
di inferiorità della donna rispetto all’uomo, ulteriormente
rafforzata dalla considerazione generale per cui gli uomini
sono predisposti alla vita sociale e professionale e le donne
alla cura della famiglia58.
Gli effetti reali di questa valutazione, generalmente
condivisa nella società cinese, sono rappresentati da
una forte interiorizzazione, nel mondo femminile, della
dominazione maschile; questo peso è tuttavia foriero di
un crescente senso di insicurezza delle donne sul lavoro e
nella vita sociale, aggravata dall’eco della crisi economica
internazionale degli anni Duemila59.
La sfera privata rappresenta una dimensione in cui la
donna cinese assume un ruolo ambivalente: se da una
parte la donna cinese moderna essa partecipa attivamente
alle decisioni familiari e vive liberamente la propria
femminilità, senza la necessaria ed obbligatoria osservanza
di “virtù” o “obbedienze”, dall’altra parte rimane
inesorabilmente influenzata dalle considerazioni generali
che su di lei la società proietta60. Anche in questo caso, i
risultati presentati dalle indagini statistiche condotte
dalla Federazione nazionale delle donne cinesi sono
particolarmente rivelatori. Sebbene tre donne su quattro
partecipino attivamente a decisioni di natura economica e
55. W. Guoying, “Gender Comparision of Employment and Career
Development in China”, in Asian Women, vol. 27, n. 1, 2011, p. 95 e ss.;
ACWF, Report of the second Sample Survey on Chinese Women’s Social
Status, cit.
56. I. Attané, cit., p. 9.
57. Population Census Office and National Bureau of Statistics of China,
Tabulation on the 1990 Population Census of the People’s Republic of
China, Pechino, 1993; National Statistics Office, Data of the 2005 1%
Sample Survey, Pechino, 2005.
58. ACWF, Executive Report of the third Sample Survey on Chinese
Women’s Social Status, cit.
59. Zuo Jiping-Bian Yanjie, “Gender Resources, Division of Housework
and Percieved Fairness-Case in Urban China, in Journal of Marriage and
Family, vol. 63, n. 4, 2001, pp. 1122 e ss.N. 42 p. 9.
60. I. Attané, cit., p. 10.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
finanziaria relative al ménage familiare, dall’altra parte il
loro accesso alle risorse finanziarie familiari è decisamente
più limitato rispetto a quello maschile, sopravvivendo
la tradizione sociale per cui è privilegiato il lignaggio
maschile61.
La percentuale di tempo dedicata al lavoro domestico
risulta essere maggiore per le donne, nonostante siano
impiegate stabilmente, che non per gli uomini (anche
in questo caso nelle aree rurali le donne si dedicano
maggiormente al lavoro domestico che non le loro
concittadine residenti nelle aree urbane). Il lavoro
domestico femminile è aumentato tra il 2000 e il 2010,
soprattutto a causa della crisi economica internazionale,
passando dal 70,2% al 70,3% per le donne che vivono nelle
aree urbane e dal 73,9% al 74,1% per coloro che vivono nei
centri urbani62.
Dal quadro finora tracciato, la discriminazione
nell’accesso alle risorse educative, finanziarie, patrimoniali
e professionali per le donne cinesi, fenomeno generato
dalla persistenza nella società cinese di una tradizionale
marginalizzazione della donna, sta provocando un
incremento della disparità di genere, nonostante gli
indubbi progressi, consolidati dagli anni Cinquanta in poi,
verso una maggiore autonomia femminile. La realtà delle
donne cinesi di oggi, quindi, è ancora caratterizzata dalla
dipendenza dal mondo maschile e dalla disuguaglianza
rispetto ad esso. Questa condizione è certamente
paradossale rispetto alla corsa verso la modernità che la
Cina contemporanea effettua da quasi quattro decenni
ma rischia di provocare effetti molto seri sull’equilibrio
generale della società stessa63.
Una delle principali conseguenze dell’emarginazione
femminile, come è già stato osservato, è la minore
presenza di donne rispetto agli uomini in Cina: nel 2010,
il numero di uomini di età compresa tra i 15 e i 59 anni
ogni 100 donne era di 107,2 e, se non si assisterà ad un
incremento delle nascite femminili, nel 2050 questo dato
arriverà al 116,364. Tenendo presente che il fenomeno
del celibato in Cina è abbastanza diffuso, ma ancora
contenuto, un suo rafforzamento non solo diminuirebbe
il numero di matrimoni e quindi di nuove nascite (poiché
nella Cina contemporanea il legame coniugale rappresenta
il principale contesto sociale finalizzato alla procreazione,
essendo le convivenze e la condizione di genitore single
fenomeni ancora poco diffusi su una popolazione di
oltre 2 miliardi e mezzo di persone)65 ma indurrebbe una
61. ACWF, cit.; J. L. Osburg, Engendering Wealth in China: New’s Rich
of the Rise of an Elite Masculinity, Chicago, The University of Chicago
Press, 2008; I. Attané-C. Guilmoto, cit.
62. ACWF, cit.
63. I. Attané, Êntre femme en Chine, cit. p. 14.
64. UN-WPP, World Population Prospect. The 2010 Revision, New York,
United Nations, 2011.
65. H. Evans, Women and Sexuality in China, New York, Continuum,
1997; Yuen Sun-Pong – Law Pui-Lam – Ho Yuying, Marriage, Gender
and Sex in a Contemporary Village, New York, E. Sharpe, 2004.
massiccia emigrazione dei celibi cinesi verso Paesi vicini.
La riduzione della natalità e quindi il rallentamento della
crescita della popolazione dovuta a questo fenomeno
apre uno scenario sociale certamente inesplorato nella
Repubblica Popolare Cinese. Tuttavia una marcata
o definitiva prevalenza numerica degli uomini sulle
donne (provocata dalla debolezza dello status femminile
rispetto a quello maschile), renderebbe la condizione
femminile ancora più fragile e precaria, con una possibile
contrazione delle conquiste di libertà ed indipendenza
finora ottenute non solo in seno alla famiglia ma anche
nella società intera66. Ulteriori effetti sono possibili anche
nelle relazioni di genere e nei rapporti tra i rispettivi
status poiché la società cinese è ancora legata al vincolo
matrimoniale come principale condizione non solo per la
creazione di una futura famiglia ma anche per l’esercizio
della sessualità67. La dicotomia tra uomini sposati e celibi,
quindi, tenderebbe a rafforzarsi nel caso di un tasso della
popolazione femminile in contrazione, poiché quest’ultimo
fattore potrebbe indurre alla radicalizzazione della
competizione tra i diversi gruppi maschili. In particolare,
gli uomini celibi delle classi meno abbienti sarebbero,
in condizioni di ipergamia femminile, più svantaggiati
rispetto a quelli degli strati sociali più elevati nel riuscire a
sposarsi. I più benestanti, a causa della migliore condizione
economica, godrebbero di un livello di accesso maggiore
al matrimonio68. La diminuzione della popolazione
femminile in età matrimoniale, quindi, oltre a determinare
un rafforzamento dello status degli uomini delle classi
sociali più agiate rispetto ai meno abbienti, con un evidente
disparità sociale tra gruppi, provocherebbe un ulteriore
effetto: quello di trasformare la possibilità di vivere in
coppia e di avere accesso ad una partner in un indicatore di
status economico69.
Si tratta di scenari potenziali e certamente in conflitto
con il progetto di héxié shèhui cinese ma che, essendo
riconducibili alla discriminazione delle donne, possono
contaminare seriamente l’equilibrio complessivo della
società cinese. Il semplice fatto che, al di là delle possibili
prospettive future, la marginalizzazione femminile sia
praticata nella Cina di oggi nei confronti di un gruppo
di genere molto debole e fragile come quello delle
donne rende l’obiettivo della società armoniosa ancora
da consolidare. Nonostante questo progetto, infatti, la
condizione di disparità femminile, come la persistenza di
altre forme di discriminazione e di squilibrio sociale nella
Cina di oggi, è causata, come ha evidenziato da JeanLuc Domenach, dal fatto che la società cinese attuale è
caratterizzata da una dimensione di “fiducia contrattata”
tra i cinesi e la classe dirigente. La dimensione sociale
66. R. Collins, “A Conflict Theory of Sexual Stratification”, in Social
Problems, vol. 19, n. 1, 1974, pp. 3 e ss.
67. J. McMillan, Sex, Science and Morality in China, Londra-New York,
Routledge, 2006.
68. I. Attané, cit. p. 15.
69. Idem.
45
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
cinese è “inviluppata”, cioè dominata da un meccanismo
di controllo dall’alto verso il basso, determinato da una
dilatazione del potere del partito attraverso lo Stato70.
In questo modo l’élite dirigente riesce a distribuire
adeguatamente (e senza compromettere l’unità dello
Stato stesso né del proprio potere) lo spazio dei fenomeni
sociali. In Cina, quindi, coesistono disuguaglianze intrasettoriali e trasversali agli strati sociali la cui presenza si
rende indispensabile per consolidare il ruolo di arbitro
e di guida dello Stato (e quindi della classe dirigente).
La persistenza di tali diversità rappresenta, quindi, un
“male necessario” della società cinese attuale perché
rende fondamentale il ruolo e la funzione di constante
controllo e monitoraggio dell’élite di governo71. Le autorità
politiche riescono ad evitare che la società civile non si
frammenti a causa delle disuguaglianze esistenti (né si
organizzi in modo autonomo) sviluppando e rafforzando
politiche sociali a livello nazionale. Come affermato
anche da Yves Chevrier, nonostante il disegno di società
armoniosa, la disgregazione sociale nella Cina di oggi
rappresenta la condizione necessaria per il mantenimento
del potere del partito e per la costruzione di quello dello
Stato72. Questo stesso riempie tutti gli spazi sociali e non
lascia libero corso ad autonomie “non ufficiali” (cioè
70. J.-L. Domenach, cit., p. 259 e ss.
71. Idem.
72. Y. Chevrier, “L’Empire distendu: esquisse du politique en Chine des
Qing à Deng Xiaoping”, in J.-F. Bayart, La greffe de l’Etat, Karthala,
Parigi, 1996, pp. 265-395.
46
movimenti spontaneamente sorti che non siano però
registrati e quindi riconosciuti dalle autorità politiche
stesse). Per questi motivi la condizione di precarietà e
disagio femminile resta ancora irrisolta nel paese che
risulta essere la più grande potenza economica asiatica e
che da quattro decenni è lanciato verso la modernizzazione:
come in altri casi di disuguaglianze e frammentazioni
sociali attualmente in essere in Cina, anche la controversa
situazione di marginalizzazione femminile è riconducibile
alla confusione di interessi diversi, nata dall’incontro
tra individui e gruppi sociali73. Come osservato, questo
incontro non si sviluppa mai in un campo anarchico
bensì in uno spazio sociale controllato, generando il
bisogno di un arbitro (il partito attraverso lo Stato), che
prometta fiducia e stabilità in una dimensione sociale
presente ed una futura. A differenza del passato maoista,
il moderno progetto di armonizzazione e di controllo
delle frammentazioni sociali non si configura più come
“pubblico” ma esclusivamente “privato” perché rivolto alla
nuova e popolosa società di soggetti cinese.
73. Idem.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Il ruolo dei militari nella crisi di un
regime. Cile 1970-1973
GAETANO OLIVA
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Istituto Universitario “Carolina Albasio” di Castellanza (VA)
PREMESSA
Q
uesto lavoro intende analizzare come e perché le
Forze Armate cilene, “costituzionaliste” e tradizionalmente apolitiche, assunsero il potere nel
1973.
Inoltre vuole spiegare il ruolo tradizionale avuto dalle
Forze Armate cilene, secondo la Costituzione del 1925 e il
relativo ordinamento giuridico, e le relazioni delle Forze Armate col potere civile, rilevando la loro apparente apoliticità
e mettendo in risalto le norme legislative che regolano tali
relazioni.
Il 9 ottobre 1969 i rappresentanti dei partiti comunista, socialista, radicale, del MAPU (Movimento d’azione popolare
unitaria – l’ala cosiddetta “rebelde” della DC), del piccolo
Partito socialdemocratico e di un raggruppamento d’indipendenti di sinistra (API), si incontrarono nella sede del
Partito socialista e crearono un comitato di coordinamento
incaricato di elaborare un programma e di trovare un accordo per la presentazione di un candidato comune alle elezioni
presidenziali del 1970. Qualche mese dopo, il 17 dicembre
1969 fu comunicato il programma con cui la coalizione delle sinistre (UP – Unidad Popular) intendeva presentarsi allo
scontro elettorale. Il manifesto politico di UP si apriva con la
seguente dichiarazione:
Il programma di Unità Popolare
Il potere popolare. — I cambiamenti rivoluzionari di cui il paese ha
bisogno potranno essere realizzati soltanto se il popolo cileno prenderà il potere e lo eserciterà effettivamente.
Il popolo cileno ha conquistato, attraverso un lungo processo di lotte,
determinate libertà e garanzie democratiche la cui difesa richiede una
costante vigilanza e lotta. Ma non ha conquistato il potere.
Le forze popolari e rivoluzionarie non si sono unite per lottare per
la semplice sostituzione di un presidente della repubblica con un altro, né per rimpiazzare al governo un partito con un altro, bensì per
realizzare i cambiamenti di fondo che la situazione nazionale esige
contando sul trapasso del potere dagli antichi gruppi dominanti ai lavoratori, ai contadini e ai settori progressisti delle classi medie delle
città e delle campagne.
Il trionfo popolare aprirà così la via al regime politico più democratico
della storia del paese.
In materia di struttura politica il governo popolare ha il duplice compito di:
- preservare e rendere più effettivi i diritti democratici e le conquiste
dei lavoratori;
- trasformare le attuali istituzioni per fondare un nuovo Stato in cui i
lavoratori e il popolo abbiano l’esercizio reale del potere.1
Le forze popolari avevano come scopo della loro politica
quello di rimpiazzare la struttura economica esistente, mettendo fine al potere del capitale monopolistico nazionale e
straniero per avviare la costruzione del socialismo in Cile.
Dopo laboriose trattative per la scelta di un candidato presidente comune, la coalizione di UP il 22 gennaio 1970 scelse il nome di Salvador Allende già candidato per il partito
socialista nelle elezioni del 1958 e del 1964.
Le lezioni del 4 settembre 1970, che si svolsero dopo una
campagna elettorale particolarmente accesa, decretarono la
vittoria di stretta misura di Unidad Popular e del suo candidato Salvator Allende. Un fatto nuovo e per molti versi unico
nella storia politica, non solo del Cile. Per la prima volta,
infatti, un presidente espressione di una coalizione di forze
di sinistra, era stato portato al potere da una vittoria elettorale ottenuta sulla base di un programma di radicali riforme
strutturali. Ma secondo la Costituzione cilena del 1925, non
avendo nessun candidato ottenuto la maggioranza assoluta
dei voti, spettava al Congresso scegliere, entro 50 giorni, fra
i due candidati che avevano ottenuto il maggior numero di
consensi.2
La borghesia cilena e una parte della DC con a capo il presidente uscente Frei erano state colte di sorpresa dalla vittoria di Allende e reagirono con estrema durezza e aggressivi1 Programma di Unità Popolare in AA.VV., Il Cile. Saggi, documenti,
interviste, Roma, Editrice «Il Manifesto», 1973, p. 244.
2 Nel Congresso le forze politiche erano così ripartite: DC 75 fra deputati
e senatori, UP 80, Destra 45.
47
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
tà. Nei due mesi che separarono le
lezioni dalla ratifica del Congresso,
la destra usò tutte le armi possibili
per impedire le elezioni di Allende, compresa quella del terrorismo
economico. Iniziò una campagna
coordinata di sabotaggio economico: furono prelevati dalle banche
cilene e trasferiti all’estero 650 milioni di escudos, migliaia di capi di
bestiame attraversarono l’Argentina nel sud del paese, molte imprese
rallentarono la produzione, sospesero le vendite a credito, arrestarono l’acquisto di materie prime e
di pezzi di ricambio, sospesero dal
lavoro gli operai. Tale campagna
trovò ampia risonanza su tutta la
stampa conservatrice che cercò con
ogni mezzo di diffondere il panico
nell’opinione pubblica e di ingene- Salvador Allende
rare una sorta di psicosi collettiva
circa le conseguenze disastrose che
avrebbe avuto per l’economia cilena l’avvento di un governo
socialista. Si tentava con questi mezzi di esercitare pressioni
sulla DC e sulle Forze Armate, incitandole a impedire l’elezione di Allende.3
A tale proposito sono indicative le parole del Generale
Schneider Comandante in Capo dell’Esercito cileno:
Esa intervención en política esta fuera de todas nuestras doctrinas.
Somos garantes de un proceso legal en el que se funda toda la vida
constitucional del país. Por ello no se puede permitir que se realicen
tales actividades. Es nuestra doctrina garantizar la estabilidad interna
y a ello deben tender todos nuestros esfuerzos y es una razón poderosa por la cual no debemos tener preferencia por ninguna tendencia,
candidatura o partido.
[…]
Insisto en que nuestra doctrina y misión es de respaldo y respeto a
la Constitución Política del Estado. De acuerdo con ella el Congreso
dueño y soberano en el caso mencionado y es misión nuestra hacer
que sea respetado en su decisión.
Si se producen hechos anormales nuestra obligación es evitar que ello
impidan que se cumpla lo que indica la Constitución. El Ejército va a
garantizar el veredicto constitucional.4
48
nale ed esse diventano “i protettori
armati” della nazione.
Su misión durante la paz es contribuir al
progreso general y a la instrucción de las
clases menos preparadas, a la vez que garantir el funcionamiento de las instituciones y el respeto a las leyes siendo en caso
de guerra el mejor exponente de la virilidad del país y el firme baluarte en que ha
de estrellarse la ambición y la audacia de
los que pretenden desconocer sus derechos
u hollar su libertad.5
I concetti di “difesa del territorio” e di “protettori armati della nazione” sono equivoci. Il territorio
nazionale, senza i relativi abitanti,
è una specie di recipiente vuoto e
può non avere un rilevante valore
umano. A sua volta il concetto di
“nazione” può essere un’astrazione, se si prescinde dal popolo che
le dà concretezza e valore; e in
questo modo le parole “protettori
armati della nazione” possono essere una frase vuota.
Di fatto nelle nazioni democratiche la difesa del territorio
nazionale coincide con la difesa degli interessi, soprattutto
economici, delle classi dominanti.
A tale proposito si è voluto osservare le origini e l’evoluzione delle Forze Armate cilene e delle loro istituzioni e in
particolar modo la loro ideologia, trattando inoltre i problemi
di difesa nazionale del Cile e l’uso delle risorse.
El desarrollo material de las Fuerzas Armadas, de su equipamiento,
le su poderío bélico, estaba fuertemente exigido por la inercia de su
propio proceso de modernización. Su modernización constante dependía enteramente, in embargo, de las posibilidades de equipamiento
provenientes de la producción bélica de los países industriales desarrollados. En este sentido, el desarrollo que ellas alcanzaban no estaba
sustentado en la producción interna, en el desarrollo de las fuerzas
productivas nacionales, y tendía, por tanto, a crearse un hiato entre
la modernización castrense y el desenvolvimiento de las fuerzas productivas internas. Este no se expresaba en el desarrollo de las Fuerzas
Armadas. Mas bien, el nivel alcanzado por ellas expresaba una situación divorciada respecto de su base material en la sociedad: “con sus
cascos en punta, sus monóculos y sus mostachos, pero sin industria
pesada y sin mercados de capitales extranjeros por conquistar”.6
In tutte le nazioni o stati che possiedono un ordinamento
economico, sociale e politico democratico, il ruolo delle Forze Armate si fonda sul concetto di difesa del territorio nazio-
Le Forze Armate di ogni società civile, organizzata secondo lo schema dei moderni stati democratici, hanno avuto la
3 Il 24 ottobre 1970 il Congresso cileno eleggeva Allende Presidente
con 153 voti contro i 35 a Alesandri candidato delle destre. Il martedì 3
novembre Allende assumeva ufficialmente la carica insieme al governo
da lui nominato.
4 Internista al Comandante in Capo dell’esercito cileno il Generale
René Schneider riportata dal giornale «El Mercurio» l’8 maggio 1970. Il
contenuto di tutta l’intervista fu definita dalla stampa dell’epoca la “Dottrina
Schneider”. Il fondamento di tale dottrina si basa sulla interpretazione del
concetto di subordinazione delle Forze Armate al potere civile, in uno
stato di diritto, cioè le istituzioni armate sono professionali, gerarchizzate,
disciplinate, obbedienti e non deliberanti.
5 Augusto Varas, Felipe Agüero, El Desarrollo Doctrinario de las
Fuerzas Armadas Chilenas, Ed. Andres Bello, Santiago, 1979, p. 3. Le
considerazioni riportate dagli autori sono tratte da una conferenza dal
titolo La Defensa Nacional, tenuta presso l’Università del Cile nel 1917
dal Colonnello dell’esercito cileno Mariano Navarrete. Successivamente
pubblicata nel «Memorial del Ejército», n. 358, novembre-dicembre 1970.
6 Augusto Varas, Felipe Agüero, Fernando Bustamante, Chile
Democrazia Fuerzas Armadas, Santiago, FLACSO, 1980, pp. 31-32. Le
frasi comprese tra le “” sono state riportate da Alain Joxe, Las Fuerzas
Armadas en el sistema politico chileno, Santiago, Ed. Universitaria, 1970,
p. 51.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
fondamentale funzione di difendere gli interessi delle classi
dominanti e sono state sempre i difensori armati di tali interessi.
El desarrollo del hombre en el cuartel aumenta triplemente el capital
hombre: el desarrollo físico, (más resistencia para el trabajo y mayores horas para producir), desarrollo intelectual (mejor calidad de
producción y mayor producción), desarrollo moral (más honradez
para producir, exactitud en el trabajo, etc.). Todo redunda a favor de
la producción, cuyo aumento es auge económico. El Ejército con su
existencia, da seguridad a la industria y al comercio que pueden desarrollarse tranquilamente.7
Nel 1970 in Cile fu eletto un governo costituito da un’alleanza di forze politiche di Unità Popolare. Nel testo si cercherà di spiegare la politica e gli avvenimenti del governo
di Unidad Popular: esaminando gli eventi cileni tra il 1970
e il 1973, tracciando semplicemente il loro contesto storico
politico e i passi tattici fatti dai diversi settori della società
cilena, evidenziando come il corpo dei capi militari cileni
sia passato dall’apparente apoliticità al decisivo intervento
armato contro il legittimo potere di UP.
Considerábamos la neutralización del Ejército, su no intervención
contra el movimiento popular, como condición necesaria y suficiente
para la conquista del Gobierno, como ocurrió efectivamente. Luego,
con el Gobierno en las manos, pensábamos que seriamos capaces de
modificar el carácter de las FF. AA., contando con una correlación
de fuerzas favorables en el país y apoyándonos en los sectores democráticos de las instituciones militares. Esta concepción se mostró
insuficiente. De hecho, aunque tenía en cuenta el carácter de clase de
las FF. AA., lo subvaloraba.8
In una nazione democratica che possiede un esercito efficiente, viene a determinarsi un “assurdo storico” nel momento in cui il relativo ordinamento economico, sociale e politico
è radicalmente modificato. Anche se molti capi militari erano
pienamente convinti del rispetto per la Costituzione e per la
suprema autorità legittimamente costituita, la loro devozione
a essa e la loro cieca e militaresca obbedienza al Capo dello
Stato furono messe in crisi dall’incalzare degli eventi.
Aún así, desafortunadamente, tenemos grupos de ciudadanos que, al
margen de la ley, tratan de quebrar nuestra Institucionalidad, creando
en menor o mayor medida, angustias, dudas e intranquilidad en los integrantes de nuestra sociedad. La solución es principalmente POLITICA, y es nuestro Gobierno, legalmente constituido quien debe buscar
las soluciones más adecuadas, considerando algo que constituye un
defecto del sistema democrático, cual es el ROBUSTECIMIENTO
DE LOS PRINCIPIOS DE AUTORIDAD.
El eterno problema del sistema democrático está en plena vigencia
en nuestro país. HASTA DONDE CADA INDIVIDUO ES LIBRE
DE HACER LO QUE LE PLAZCA SIN QUE ATROPELLE EL
DERECHO DE LOS DEMAS Y PONGA EN PELIGRO NUESTRO
SISTEMA DE VIDA.
Si la acción de una parte de la sociedad chilena rebasa todos los lími-
7 Colonnello Agustín Benedicto, El Ejército en el Estado Moderno,
«Memorial del Ejército», Santiago, Año XVIII, Febrero 1929, p. 138.
8 Ivi, p. 209. Gli autori hanno riportato la relazione presentata al
Comitato Centrale del Partito Comunista cileno dal Segretario Generale
Luis Corvalán nell’agosto del 1977. Pubblicata in seguito nell’Edizione
Colo-Colo, 1978, p. 29.
tes legales; el Gobierno y las Fuerzas de Orden tienen la obligación de
mantener el orden interno a todo trance.9
Molti capi militari, che erano maggiormente condizionati
dallo spirito di classe o dai privilegi economici e sociali della classe, cui appartenevano per nascita o per acquisizione;
sfruttarono abilmente tutte le circostanze concrete, che la
situazione politica determinò degenerando in tutto il paese,
occupando il posto dei colleghi entrati in crisi e diventarono
gli alfieri della “difesa del territorio nazionale” o della “sicurezza nazionale”.
LA SICUREZZA NAZIONALE
Può sembrare strano che le Forze Armate cilene, “costituzionaliste” e tradizionalmente apolitiche, abbiano assunto il
potere nel settembre del 1973.
Analizzando però diversi aspetti di “le Forze Armate cilene”, si comprende che la presa del potere da parte dei militari
fu il prodotto quasi spontaneo di una serie di fattori, che si
vogliono considerare in questo capitolo.
Il punto di partenza di ogni dottrina militarista, e quindi
anche quella cui s’ispiravano e s’ispirano i militari cileni,
è la sicurezza nazionale. Nella mente dei militari cileni tale
sicurezza era intesa soprattutto come quella degli interessi
della borghesia cilena, collegati a quelli dell’imperialismo
americano. È ovvio che la natura specifica di tale sicurezza
affiori apertamente quando sorge una minaccia contro il sistema economico-socio-politico borghese e, soprattutto, in
una situazione di crisi le Forze Armate manifestano con la
massima evidenza che sono una dei più importanti elementi
dell’ordinamento borghese dello stato.
La oligarquía se libera del sistema presidencial monárquico y autoritario con ayuda de la marina; la clase media se libera del sistema
parlamentario oligárquico y corrompido con ayuda del ejército de tierra. La marina actúa, en 1891, como una fracción de la oligarquía; el
ejército, en 1924, como una fracción de la clase media. En cada caso,
la acción militar lleva a cierto progreso en el camino de la democratización formal, a un acrecentamiento de la participación política real, a
un aumento del cuerpo electoral (especialmente a partir del Frente Popular), así como a la mayor eficacia del sistema, acompañándose todo
este conjunto de hechos — de manera no fortuita — por la aceleración
en cierto tipo de inversiones extranjeras que conducen a una expansión y a un fortalecimiento del poder económico del estado en el interior del país al mismo tiempo que de su dependencia del exterior.10
Le Forze Armate cilene erano, come in ogni società democratica, i protettori della nazione, perché dovevano:
- difendere la sovranità nazionale e l’integrità territoriale;
- salvaguardare l’ordine interno e garantire il governo costituzionale.
Per ora si lascia da parte la difesa dell’integrità territoriale
e della sovranità nazionale e concentriamoci invece su “or9 Maggiore Juan de Dios Barriga, Lo que debemos saber sobre Seguridad
y Defensa Nacional, «Memorial del Ejército», n. 373, maggio-agosto,
1973.
10 Alain Joxe, Las Fuerzas Armadas en el sistema político Chileno,
Santiago, Editorial Universitaria, 1970, p. 115.
49
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
dine interno” e “governo costituzionale”. Trattandosi di una
società classista, è ovvio che il governo costituzionale non
sia altro quello di una o più classi dominanti, che nelle società moderne sono in genere classificate come “borghesia”. La
stessa cosa si deve dire per l’ordine interno: è quello instaurato soprattutto per gli interessi della borghesia.
Si ha che sino al 1970 “il governo costituzionale cileno” e
“l’ordine interno” della società cilena coincidevano con gli
interessi della borghesia, e non era necessario che le Forze
Armate cilene manifestassero chiaramente la loro reale funzione. Invece con l’amministrazione Allende alla borghesia
sfuggì il controllo della situazione e per la difesa dei suoi
interessi si fecero avanti le Forze Armate.
LA SICUREZZA NAZIONALE COME IDEOLOGIA
Come per ogni esercito, anche per quello cileno la sua funzionalità esige la professionalità e l’efficiente utilizzazione
del complesso armamento degli eserciti moderni. Il presupposto è che esso sia molto disciplinato e organizzato in modo
gerarchico, centralizzato e autoritario e che tutti i sottoposti
siano stati addestrati all’ubbidienza cieca e automatica.
Premesso ciò, si determinano meglio i tre concetti fondamentali, nei quali si sviluppa l’ideologia della sicurezza nazionale delle Forze Armate cilene, fondata sulla geopolitica,
la strategia totale e il ruolo privilegiato delle Forze armate.
La Geopolitica è una scienza creata da ideologi tedeschi
durante la prima guerra mondiale, sviluppata dai nazisti al
tempo della seconda guerra mondiale e insegnata per molti
anni nelle accademie militari di tutto il mondo.
La Geopolítica la ubicamos como ciencia a principios del presente
siglo como la culminación de un proceso de ideas políticas, geográficas y filosóficas acumuladas durante siglos. Luego, el concepto de
una estrecha relación entre las constantes geográficas con las políticas
no es fruto ni de un determinado pensador ni ha surgido en forma
espontánea. Un análisis del proceso humano sobre la tierra muestra
cómo un grupo complejo de ciencias se ha movido entre los extremos
geográficos y políticos.11
È in diretta opposizione alla scienza universale del marxismo-leninismo, offre una concezione totale dell’uomo e può
11 Augusto Pinochet Ugarte, Geopolitica, Santiago, Editorial Andres
Bello, 1984, p.53. Lo stesso autore definisce il rapporto tra Geopolitica
e Stato: «La Geopolítica considera al Estado como un organismo
supraindividual y, como tal, un organismo vivo que se halla empeñado
en una lucha constante por la existencia. La Tierra, por su configuración
natural, está dividida en cierto número de espacios que son el escenario
de estas luchas entre los Estados. Este hecho condiciona una política
encadenada al espacio, con leyes determinadas y constantes que afectan,
en forma permanente, a los pueblos que actúan en una región, a medida que
van haciendo su aparición en la Historia. […] Uno de los objetivos de la
Geopolítica es el de proporcionar antecedentes sobre la posible aplicación
y utilización de estas leyes espaciales en la política exterior del Estado y
en el periodo de desarrollo. La eterna actitud beligerante de los pueblos
entre sí obliga a que la política exterior del Estado prime sobre la interna.
Las ideologías políticas y los sistemas de gobierno dan solidez y ayudan a
obtener en forma más eficaz aquellos objetivos de carácter nacional dentro
de las condiciones geográficas donde se asienta el Estado». Ivi, p.31.
50
essere sintetizzata nelle seguenti affermazioni:
1) l’individuo non esiste;
2) i popoli sono miti;
3) esiste solo la nazione e senza di essa non può esistere
l’uomo come singolo né come gruppo o popolo;
4) la nazione coincide con lo stato, ed esso non è altro che
il potere della nazione o la nazione che esercita il potere;
5) il mondo non è altro che una totalità di nazioni che sono
poteri in conflitto permanente; cioè la nazione per definizione esiste solo in conflitto e richiede competitività per sussistere ed espandersi;
6) la guerra è la condizione naturale delle nazioni e quindi
dei popoli e dei singoli uomini, la cui funzione è reale solo
in seno alla nazione;
7) lo stato e la nazione poiché è soggetto di potere è uno
organismo, che deve crescere ed espandersi; quindi deve difendersi e lottare, perché la sua legge primordiale è occupare
sempre altro spazio;
8) “la guerra è la cosa più naturale, il problema quotidiano. La guerra è eterna. Non vi è pace e tutta la vita è lotta o
guerra” (Adolf Hitler).
Nell’attuale sviluppo della lotta l’antagonismo fondamentale è tra Est e Ovest, Nord e Sud, o tra Comunismo e Cristianesimo, Paesi Occidentali e Fondamentalismi Islamici, e, di
conseguenza, tutte le nazioni o stati e i relativi popoli e uomini sono necessariamente amici o nemici in una situazione
permanente di guerra, che permea tutte le relazioni: diritto,
morale, arte, ecc.
In questa visione la nazione non ammette nessun superiore
a se stessa e nessuna limitazione al suo potere. A sua volta
“la nazione latinoamericana”, basata sul vincolo geografico,
economico, strategico e storico, si definisce come totalità
di nazioni allineate, ad eccezione di Cuba, e dipendenti dal
blocco occidentale “cristiano e anticomunista” dominato dagli USA.
La strategia totale. La strategia è la scienza della conduzione della guerra. L’antagonismo “Comunismo-Cristianesimo” o “Est-Ovest” rileva che la guerra è totale e quanto
apparentemente sembra, una situazione di pace non è altro
che “guerra fredda” o “guerra di religioni”. Se la guerra è totale, tutti ne sono coinvolti, militari e civili, col risultato che
tutte le attività umane, sia collettive sia individuali, sono in
funzione della guerra. Il nemico è ovunque e qualsiasi azione
o lo danneggia o lo favorisce.
Se la guerra è totale, anche la strategia è totale e si basa su
tre concetti: il progetto nazionale, la sicurezza nazionale e il
potere nazionale.
Il progetto nazionale è l’insieme degli obiettivi dello stato
che si possono conseguire, date le risorse disponibili. A sua
volta la sicurezza nazionale è la base del progetto o lo scopo
che s’intende conseguire con l’insieme degli obiettivi. Infine il potere nazionale, assoluto o incondizionato, giustifica
e legittima tutte le attività pubbliche e private, che sono in
funzione degli obiettivi o del progetto e dello scopo o della
sicurezza nazionale. Ne consegue che tutti i cittadini devono
vivere e lavorare perché il potere nazionale aumenti e diventi
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
sempre più efficiente. In questo modo la strategia assume le
seguenti forme:
- nel campo economico lo sviluppo consiste soprattutto
nell’aumento della capacità offensiva della sicurezza nazionale, e quindi è data priorità assoluta ai settori produttivi di
alto valore strategico;
- nel campo culturale sono utilizzate al massimo tutte le
idee, particolarmente religiose, che sviluppano nella psiche
dei singoli il valore del potere nazionale. In altre parole, la
verità e la falsità delle idee dipendono dal loro contributo positivo o negativo al raggiungimento degli obiettivi strategici;
- nel campo della politica le attività di tutti gli organismi
sociali e tutte le manifestazioni civiche sono collegate con la
strategia totale e perciò sono guidate dal proposito di mobilitare il popolo per la guerra contro “il comunismo internazionale”;
- nel campo militare si crea uno stato di “all’erta” permanente per l’uso della forza militare, dove sia necessario. Vedi
particolarmente la fase iniziale di stabilizzazione di un regime e l’eliminazione dei suoi nemici più vicini.
Per conseguire la massima sicurezza e un potere nazionale
sempre più efficiente sono necessari dei sacrifici. Perciò nel
campo dell’economia si giustificano livelli di vita di sussistenza, e in quello dei diritti civili la soppressione delle libertà individuali; e in entrambi i casi, il limite è determinato
soprattutto dalla reale efficienza del potere nazionale. In altre
parole la vita di sussistenza può avvicinarsi anche allo zero
e le libertà personali possono essere soppresse totalmente, se
così è richiesta dall’efficienza del potere nazionale.
Il ruolo privilegiato delle Forze Armate. Solo “l’èlite nazionale” può gestire la strategia; e la massa può e deve partecipare alla strategia, ma solo perché è guidata e controllata
per la realizzazione del progetto nazionale. A sua volta l’èlite, dopo che ha elaborato il progetto nazionale e quindi la
sicurezza e il potere nazionale, si rivolge ai suoi agenti o alle
Forze Armate perché mettano in atto la strategia.
Augusto Varas riporta un saggio di Lucien Pye, preparato
per dei corsi di scienze sociali e di sicurezza nazionale dello
Smithsonian Istituto in USA. Vi si legge quanto segue:
Nella maggioranza delle società sottosviluppate il problema è la difficoltà di creare organizzazioni effettive capaci di usare adeguatamente
tutte le attività fondamentali della vita moderna.
Generalmente in tali società vi è uno squilibrio nello sviluppo delle organizzazioni. Se una di esse si sviluppa efficacemente e rapidamente,
molto presto deve compiere anche le funzioni delle altre organizzazioni. Cioè quelle più salde e autonome assumono il compito di quelle
che sono meno strutturate. Pertanto le autorità militari spesso devono
controllare le più importanti organizzazioni della società e possono
essere forzate dai fatti a sostituirsi alle autorità civili.12
tuzione principale” delle società latinoamericane. Il pubblico
americano in generale e i militari latinoamericani, che frequentano i corsi nelle accademie militari USA, sanno molto
bene che gli eserciti latinoamericani sono utili ed essenziali
per quello che gli USA definiscono “sviluppo”.
Comunque, il punto di vista di Pye, rappresentativo della
politica internazionale del Pentagono, segnala che i militari
sono la migliore organizzazione esistente o la più “chiamata”
ad assumere il potere con la forza delle circostanze.
Non è pura coincidenza che i militari, a parte le loro funzioni spesso mitiche e tradizionali di “difesa”, sono predestinati come i principali agenti istituzionali della strategia geopolitica per due ragioni importanti: l’incapacità, il tradimento e la demagogia politica dei popoli civili, e, la primordiale
necessità geopolitica o l’ansia sfrenata per una guerra totale.
Estas orientaciones, que son el resultado de un muy meditado análisis,
y que están avaladas por la experiencia de una larga vida al servicio de
la Patria, tienen por objeto servir de guía a los Oficiales de los Estados
Mayores destinados al trabajo de apreciación que debe hacerse antes
de llevar a la práctica la conformación de un instrumento bélico más
moderno, tanto en su estructura orgánica, en sus medios, en sus procedimientos, como en su gestión profesional, para seguir garantizando
el desarrollo del país y asegurar el cumplimiento de nuestras misiones
constitucionales.13
Infatti, il “disordine” sociale ed economico legittima l’intervento dei militari come l’unica struttura alternativa, capace di “rigenerare e recuperare” la società e il potere statale.
La nazione e lo stato sono fondamentalmente dei poteri ma
se le strutture civili diventano inoperanti per il salvataggio
interno ed esterno, l’istituzione militare resta l’unica depositaria del potere reale della macchina dello stato. Il risultato
finale è che i vertici militari, nelle cui mani sono le Forze
Armate, si assumono il compito di “salvare la nazione”. In
situazione di guerra totale le Forze Armate non possono
quindi permettersi di essere neutrali poiché essendo l’unico
elemento nazionale debitamente integrato nel sistema interamericano o nelle strutture imperialistiche, il loro ruolo sarà
di essere al fianco degli USA contro “il nemico” o contro “il
comunismo internazionale” sia dentro sia fuori le frontiere
nazionali.
IL CONDIZIONAMENTO ISTITUZIONALE
Questo modo di pensare vuole giustificare il mantenimento di un esercito bene equipaggiato e addestrato, come “isti-
La suddetta ideologia serve per comprendere meglio la
dottrina dei militari cileni, nella quale si devono distinguere
due aspetti: la dottrina istituzionale delle Forze Armate e le
dottrine individuali dei suoi membri. La prima consiste nelle
funzioni attribuite dalla Costituzione e dall’ordinamento giuridico cileno alle Forze Armate. Tali funzioni, già analizzate,
sono in genere un risultato storico. Invece le dottrine individuali dei militari suppongono una particolare situazione so-
12 Augusto Varas, Las nuevas relaciones de poder en América Latina.
Escenario y perspectivas. Santiago, Ed. Quimantu, 1980, p. 22. Inoltre
cfr., Lucien Pye, Aspects of Political Development. An Analytical Study,
Toronto, Little Brown and Co., 1966, pp. 87-88.
13 Augusto Pinochet Ugarte, Ejercito de chile: trayectoria y futuro,
Santiago, FASOC Vol. VII, No. 4, 1992. Fascicolo pubblicato dopo
una lezione magistrale di Pinochet all’Università di Santiago Facoltà di
Scienze Politiche il 21 de agosto de 1992.
51
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
cio-economica e ideologica, collegato alla selezione sociale
e quindi alla posizione di classe e alla situazione culturale e
politica dei militari nella società.
Si precisa che quando si parla degli atteggiamenti più o
meno dottrinali dei militari latinoamericani, ci si riferisce
quasi soltanto al settore degli ufficiali. Infatti, la truppa è
in genere un miscuglio amorfo d’individui delle classi più
basse, ai quali dall’indottrinamento militare e forse anche da
quello religioso è stata tolta ogni autonomia mentale e devono solo eseguire gli ordini al modo delle parti inanimate di
una macchina.
Il contesto storico della dottrina è dato dalla storia del
mondo latinoamericano. Limitando il discorso alla sola storia militare, quella degli ultimi venti anni occupa molti volumi. Però la vittoria militare popolare di Cuba nel 1959 e i
golpe militari apparentemente progressisti, il 1968 nel Perù
e il 1971 in Bolivia, hanno fatto cambiare gli atteggiamenti
dei militari poiché devono affrontare le nuove richieste delle
masse latinoamericane. Ben presto, però, la combinazione
delle dipendenze militari e la manipolazione diretta dall’esterno della forza militare locale hanno pian piano annullato
gli effetti positivi dei tre avvenimenti ed hanno motivato un
“contro indottrinamento” nelle scuole militari interamericane e locali.
Non solo gli USA ma anche le classi dominanti delle varie regioni del mondo latinoamericano sono ora molto attenti
che non si ripeta un’altra Cuba.
Più che nel passato ora i militari latinoamericani non vivono in una specie d’isolamento dalla lotta di classe. Anche
se non contaminati dalla realtà socio-economica,vivono immersi in essa e quindi nella realtà politica dei vari stati e nella relativa dipendenza economica dal capitalismo mondiale,
diretto soprattutto dagli USA.
Si può anche dire che i militari latinoamericani sono una
specie di casta, indipendente dalle classi. Ciò è dovuto ai particolari valori sociali, culturali e politici, che sono permessi
e si rafforzano in seno all’istituzione militare. Così il valore
dello “spirito di corpo” produce la subordinazione individuale e la dedizione assoluta all’istituzione militare e ai suoi
obiettivi e pian piano riduce e cancella le diversità ideologiche individuali.
América Latina se ha caracterizado por una secular dificultad para estabilizar acuerdos democráticos. Esta limitación explica - en parte - el
permanente, recurso o tentación de usar la fuerza militar para resolver
disputas políticas internas o para imponer determinados proyectos
de desarrollo que no cuentan con una legitimación social mayoritaria.
Sin embargo, las élites democráticas poco o nada conocen de la vida,
historia, necesidades y perspectivas de la institución militar y la defensa nacional en sus respectivas sociedades.
En consecuencia, el uso y abuso de las FFAA en política ha dejado un
negativo saldo en su estabilidad y desarrollo institucional. A su vez,
los proyectos de estabilización democrática que se han intentado en la
región con posterioridad a las intervenciones militares han adolecido
de una falla básica en materias de política hacia las FF AA. En la
medida que las democracias latinoamericanas no dan cuenta adecuadamente del problema de la inserción de las fuerzas armadas en el
proceso democrático, definiendo los temas de la defensa nacional al
interior de sus proyectos de cambio, han dejado sin resolver un problema crucial.
52
Este, poco tiempo después se ha vuelto en contra de las propias instituciones democráticas, sea bajo la modalidad de formas de acomodación autonómicas o bien en nuevas intervenciones militares.14
A sua volta il valore dell’esclusiva funzionalità dei militari
o il relativo comportamento predefinito verso il settore civile produce lo sterile apolitismo, fondato sul principio della
non deliberazione, e soprattutto l’isolamento culturale con la
conseguente chiusura mentale, che è impenetrabile più che in
altre istituzioni, compresa la chiesa.
Questa chiusura è comune a ogni istituzione. Nel caso delle istituzioni militari latinoamericane è ulteriormente accentuata dal concetto di difesa della “civiltà occidentale”, che è
piena di deformazioni ideologiche e di falsificazioni storiche. Tale concetto, istillato nella mente dei giovani militari
al tempo del loro addestramento nelle accademie di guerra, è
fondamentale per l’accettazione incondizionata della difesa
della propria regione nella cornice della difesa degli USA,
dell’emisfero e della cultura cristiano-occidentale.
Si aggiunga che tale accettazione è collegata alla dipendenza delle forze militari delle varie regioni dagli USA per
l’equipaggiamento, per l’addestramento e per i rifornimenti,
senza dei quali i militari delle varie regioni latinoamericane
non potrebbero sopravvivere.
Per concludere questa panoramica, è importante dire che quello che
manca allo forzo democratico latinoamericano — od anche alla chiesa
o ai cristiani, in quanto interessati a questo tipo di discorso sul futuro
della società. latinoamericana — è la capacità di prospettare una politica, un progetto politico alternative all’esistente, dove si rifletta sul
problema dei militari in una prospettiva diversa dall’attuale.
Uno dei punti più deboli del movimento democratico in A. L. è proprio il fatto che non ha saputo esprimere fino ad oggi, una riflessione
sufficiente sul problema militare in una prospettiva storica o politica
distinta: una riflessione su quella che dovrebbe essere la funzione dei
militari in un nuovo progetto politico per l’A. L. o sul problema della
sicurezza nazionale in una prospettiva democratica.
È questa una riflessione che ancora dobbiamo fare ed è questo uno
dei punti cardinali essenziali per una futura politica. Io penso che per
arrivare a questo, dobbiamo partire da questa premessa fondamentale:
Non bisogna più parlare di “sicurezza emisferica”, ossia della sicurezza di un sistema dove stanno insieme Stati Uniti o America Latina, ma
parlare di sicurezza latinoamericana. Cambiare cioè il soggetto della
sicurezza: da un sistema dove c’è da una parte una superpotenza nucleare e dall’altra paesi sottosviluppati, bisogna passare al concetto di
un sistema dove il soggetto di questa. sicurezza sia l’America Latina
in quanto tale e non l’A. L. legata agli USA.
Questo suppone ridefinire i rapporti economici, sociali, politici o militari dell’A. L. con gli USA, partendo dall’idea che l’A. L. è un soggetto a sé stante, geopolitico, diverso dagli Stati Uniti: per alcuni aspetti
può essere complementare, per altri contrastante, ma comunque diverso. Non ci sono cioè interessi comuni fra USA e A. L.
Partendo quindi da questa nuova base che è il concetto di sicurezza
latinoamericana (dove si vede come minaccia a questa sicurezza per.
esempio l’egemonia di una superpotenza straniera), si deve trovare un
rapporto diverso con gli USA.
È a partire da questo concetto di sicurezza latinoamericana che si può
arrivare a collegare la sicurezza al popolo, vale a dire, collegare la funzione della sicurezza a una funzione di liberazione del popolo, in cui
il popolo si trasforma in soggetto della vita politica, culturale, economica, ecc. e dove si mette l’accento su tutti gli aspetti di integrazione
comune latinoamericana.
Si devono individuare nuovi rapporti tra il popolo è le forze armate,
14 Augusto Varas, Las nuevas relaciones de poder en América Latina.
Escenario y perspectivas, cit., p. 1.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
in quanto espressione di uno stato democratico, di un continente preoccupato della sua sicurezza come unità a se stante, nel concerto delle
nazioni del mondo.
In questo modo l’A. L. potrebbe svolgere un ruolo nella creazione del
cosiddetto “nuovo ordine internazionale”, in collegamento con le diverse unità geografiche e politiche esistenti, come Europa, USA, Paesi
socialisti, Paesi del Terzo Mondo, ecc.
Riassumendo, la realizzazione di questo compito suppone:
1. Ripensare alla funzione geopolitica dell’A. L.
2. Ammettere il pluralismo politico all’interno della comunità latinoamericana.
3. Infine, in funzione di questo processo pluralistico o democratico,
ripensare il collegamento fra Forze Armate professionali e popolo democratico e cosciente.
Se si potesse fare tutto questo, sarebbe più facile che si potesse sviluppare una corrente democratica all’intorno delle F. A., condizione
questa necessaria per mutare la situazione dell’A. L.15
Limitando il discorso al Cile, era ovvio che alla fine i militari cileni siano entrati in conflitto con la politica antimperialista e indipendente di UP nel 1970.
Come casta, gli interessi dei militari sono difesi nei momenti di crisi politica ed economica sia come mantenimento
e miglioramento del livello di vita e sia come condizioni per
l’efficienza dell’attività militare. Segue che i militari formano, soprattutto nei momenti più critici per la vita di un
popolo,un costante gruppo di pressione.
Se poi la crisi penetra nelle caserme, utilizzando il severo codice della giustizia militare, gli elementi sospetti sono
espulsi o congedati o anche semplicemente corretti col metodo delle sanzioni sociali e della pressione pubblica.
Parallelamente a questo meccanismo istituzionale di autodifesa c’è una sezione del codice penale, ugualmente rigorosa, che tratta tutti i crimini contro la “inviolabilità” costituzionale dei militari. Un esempio della protezione militare dei
militari si trova nella legge di sicurezza dello stato del 1958,
che definisce crimine qualsiasi offesa contro la dignità o la
morale delle Forze Armate da parte dei politici, della stampa
e di altri; e la punizione relativa può consistere in multe, prigioni e censura di pubblicazioni.
TITULO II
Delitos contra la Seguridad Interior del Estado
15 José Antonio Viera Gallo, América Latina, Trabajo presentado en la
Comisión de Estudios Institucionales de los partidos de izquierda chilenos
en Roma 18 de septiembre de 1977, pp.15-16. Durante el gobierno del
presidente Allende fue subsecretario de Justicia, desde noviembre de 1970
hasta diciembre de 1972. José Antonio Viera Gallo después del golpe
militar en 1973, partió al exilio, radicándose en Italia, donde continuó
desempeñando su profesión, entre otras actividades. En Roma editó
la revista de opinión “Chile-América”. Trabajó como Consultor de la
UNESCO, CEPAL, FAO y en el Consejo Mundial de Iglesias. Ocupó,
también, la Secretaría General Adjunta del International Documentation
Center, IDOC, con sede en Roma. Asimismo, integró el Consejo
Directivo de HUIRIDOCS, Sistema de Información y Documentación
sobre Derechos Humanos, con sede en Oslo, Noruega. En abril de 2007
fue nombrado ministro por la Presidenta Michele Bachelet Jeria, en el
Ministerio Secretaría General de la Presidencia, cargo que desempeñó
hasta el 10 de marzo de 2010. La Presidenta lo nombró miembro del
Tribunal Constitucional, en el cargo de ministro, labor que cumplirá por los
próximos 3 años, a contar del 11 de marzo de 2010. Il testo è dattiloscritto
in italiano mentre le note biografiche sono scritte in spagnolo. Si trova
nella Sezione B- Riviste, bollettini, periodici, dell’archivio Ferdinando
Murillo Viana.
Artículo 4.o Sin perjuicio de lo dispuesto en el Título II del Libro II
del Código Penal y en otras leyes, cometen delito contra la seguridad
interior del Estado los que en cualquiera forma o por cualquier medio,
se alzaren contra el Gobierno constituido o provocaren la guerra civil,
y especialmente:
a) Los que inciten o induzcan a la subversión del orden público o a la
revuelta, resistencia o derrocamiento del Gobierno constituido y los
que con los mismos fines inciten, induzcan o provoquen a la ejecución
de los delitos previstos en los Títulos I y II del Libro II del Código
Penal o de los de homicidio, robo o incendio y de los contemplados en
el artículo 480 del Código Penal;
b) Los que inciten o induzcan, de palabra o por escrito o valiéndose de
cualquier otro medio a las Fuerzas Armadas, de Carabineros, Gendarmería o Policías, o a individuos pertenecientes a ellas, a la indisciplina, o al desobedecimiento de las órdenes del Gobierno constituido o
de sus superiores jerárquicos;
c) Los que se reúnan, concierten, o faciliten reuniones tinadas a proponer el derrocamiento del Gobierno constituido o a conspirar contra
su estabilidad;
d) Los que inciten, induzcan, financien o ayuden a la organización
de milicias privadas, grupos de combate u otras organizaciones semejantes y a los que formen parte de ella, con el fin de sustituir a la
fuerza pública, atacarla o interferir en su desempeño, o con el objeto
de alzarse contra el Gobierno constituido;
e) Los empleados públicos del orden militar o de Carabineros, policías
o gendarmerías, que no cumplieren las órdenes que en el ejercicio
legítimo de la autoridad les imparta el Gobierno constituido, o retardaren su cumplimiento o procedieren con negligencia culpable;
f) Los que propaguen o fomenten, de palabra o por escrito o por
cualquier otro medio, doctrinas que tiendan a destruir o alterar por
la violencia el orden social o la forma republicana y democrática de
Gobierno;
g) Los que propaguen de palabra o por escrito o por cualquier otro
medio en el interior, o envíen al exterior noticias o informaciones
tendenciosas o falsas destinadas a destruir el régimen republicano y
democrático de Gobierno, o a perturbar el orden constitucional, la seguridad del país, el régimen económico o monetario, la normalidad
de los precios, la estabilidad de los valores y efectos públicos y el
abastecimiento de las poblaciones, y los chilenos que, encontrándose
fuera del país, divulguen en el exterior tales noticias.
Artículo 5.o Los delitos previstos en el artículo anterior serán castigados con presidio, relegación o extrañamiento menores en sus grados
medio a máximo, sin perjuicio de las penas accesorias que correspondan según las reglas generales del Código Penal.16
In questo modo si ha una specie di cintura di sicurezza
per ogni informazione sui militari. Inoltre la medesima legge
proibisce tutte le incitazioni, di parole e di fatti, all’indisciplina o alla disubbidienza nelle Forze Armate; e così l’istituzione militare è validamente difesa contro tutte le infiltrazioni comuniste, nemico numero uno di ogni disciplinato
esercito gerarchico e antipopolare.
L’ESTRAZIONE SOCIALE DEI MILITARI CILENI
Per determinare meglio la definizione di “casta” dei militari cileni si deve tenere presente la loro particolare funzione nel sistema statale, che fin dal principio del secolo XX
difendeva gli interessi riformisti della classe media contro
il dominio dell’oligarchia e allo stesso tempo, reprimeva le
16 Ministerio del Interior Ley 12927 Seguridad Interior del Estado
del 02-08-1958. Cfr., il seguente sito URL: http://www.leychile.cl/
N?i=27292&f=1958-08-06&p= Biblioteca del Congreso Nacional de
Chile.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
Più esatto è invece lo studio, condotto sugli ufficiali cileni
raccolti nel 1965. Si riporta il questionario distribuito durante le interviste:
Augusto Pinochet
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Como parte de un estudio sobre las FFAA estamos recogiendo información a ofíciale, militaros que han prestado sus servicios profesionales en el Ejército y que debido a su experiencia nos ayudará a comprender mejor la relación entro el ejército y el pueblo de Chile. Desde
luego quedaremos especialmente agradecidos a Ud por la cooperación
que pueda prestarnos contestando a las preguntas que le haremos a
continuación. Debido a su carácter estrictamente científico ellas son
estrictamente confidéncialos, ya que serán sometidas a procesos posteriores de análisis estadístico que hacen imposible la identificación
de los autores de las opiniones. Asimismo ostas preguntas solo constituyen una base de explicación científica y no son bajo ningún aspecto
una prueba de conocimientos o de inteligencia.
Dada la finalidad eminentemente científica del trabajo que estamos
realizando, las opiniones que Ud se sirve manifestarnos a continuación no necesitan llevar su firma, y son, por lo tanto, estrictamente
confidenciales.
a) Grado b) Arma de Servicio c) Unidad de escuela, Academia de
Guerra, o Politécnica Militar d) Lugar de nacimiento e) ocupación
de su padre f) ocupación del padre de su esposa g) parientes en las
fuerzas armadas o Carabineros (especificar grado de parentesco, grado
alcanzado y si están en servicio activo o no) h) Educación (numero de
años) Universidad, Escuela Militar, Academia de Guerra, Academia
Politécnica, Escuelas Militares Extranjeras i) Antigüedad obtenida en
el curso militar de la Escuela Militar
Preguntas de “orientación de opinión”:
1) Si tuviera que escoger entre las siguientes alternativas, en cuál de
ellas se situaría hoy políticamente?: derecha, hacia la derecha, hacia la
izquierda, izquierda. Por favor, comente las razones de su decisión y
el significado que le da a la alternativa escogida.
2) Un cuestionario distribuido a una muestra de la población de Chile
mostró que los civiles tienen gran confianza en que si fuere violada
la Constitución, los militare la defenderían. Concretamente, en que
circunstancias cree Ud que los militares deberían intervenir en este
problema?
3) Hasta que punto cree Ud que la participación en programas de desarrollo es incompatible con la eficacia militar del ejército?
4) En su opinión, cuál debería ser la actitud del gobierno respecto a
una mayor participación del ejército en dichos programas?
5) Cree Ud que una amplia participación de los oficiales en los programas de desarrollo es compatible con su función profesional y su
propia imagen como oficiales?
6) En cierto modo, una guerra limitada es buena para el país ya que
largos periodos de paz producen un debilitamiento general de la población?
7) Los militares son necesarios para un país aunque no haya guerra,
para actuar como guardianes de la Constitución en caso de que el gobierno decidiera violarla?19
classi più basse e i lavoratori. In questo modo c’è una stretta
connessione tra le classi rappresentate dai militari e le funzioni attribuite a essi.
Lo studio di Roy Allen Hansen che analizza i generali
dell’esercito cileno, congedati tra il 1952 e il 1964, mostra
che sino agli anni del 1940 le classi medie predominavano
nelle file degli ufficiali, in precedenza dominate dalle classi
superiori e dall’aristocrazia, e che tra gli anni 1950 e 1960 gli
aspiranti ufficiali dell’esercito furono reclutati principalmente tra le classi medio-basse a causa del declino del prestigio
militare.17
I trentasette ufficiali studiati da Hansen hanno origine nella
classe media, definiti dai redditi paterni. Non è esatto ubicare
gli ufficiali nel settore della classe media attenendosi unicamente al loro reddito poiché in questo modo si finiscono col
trascurare i molti vantaggi e privilegi, che i militari in genere
hanno in materia di trasporti e di alloggio18.
Il livello degli ufficiali graduati, intervistati nella scuola
militare “Bernardo O’Higgins” fu il seguente. Apparteneva
alla classe medio-alta il 42%, alla classe media il 39% e alla
classe medio-bassa il 19%. A sua volta il livello sociale dei
17 Roy Allen Hansen, Military culture and organizational decline.
A study of the Chilen army. Phd thesis at University of California , Los
Angeles, 1967. Avaible from University Microfilms Service, N. XUM 687466, Ann Arbor, Michigan, USA, pp.170-210.
18 Per illustrare la ricerca scientifica di Hansen, vale la pena riportare
alcuni passaggi rilevanti del suo lavoro. Alla fine del 1964 egli si recò
in Cile e si mise in contatto con il segretario generale dell’Accademia
di Guerra, Generale René Schneider, che gli diede pieno accesso alla
biblioteca dell’Accademia e gli permise di intervistare i membri della
Forza Armata. Il risultato del suo lavoro entrò a far parte della sezione
classificata della biblioteca dell’Accademia di Guerra e fu a disposizione
di un numero limitato di giornalisti alla fine del 1969. Cfr., Ibidem.
19 Hansen riuscì a intervistare solo 200 militari. Nonostante il numero
relativamente basso d’interviste, il suo lavoro è uno dei pochi che presenta
una visione documentata della realtà militare cilena dell’epoca. Infatti,
poco dopo i fatti del “Tacnazo” uno studente americano che aveva
collaborato con Hasen, tentò di vendere i fogli originali con le domande
del questionario a ufficiali in servizio e in pensione. Inoltre l’importanza
delle informazioni contenute nel suo lavoro furono di grande utilità agli
uffici della CIA in Santiago per creare una rete di contatto tra i militari
cileni che parteciparono successivamente al complotto per eliminare il
proprio Generale Schneider nel 1970. Cfr., Ivi, p. 346.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
graduati militari intervistati nell’accademia di guerra e al politecnico militare, diede questi risultati: il 29% degli intervistati apparteneva alla classe alta, il 65% a quella media, e il
6% alla classe bassa.
Un altro importante studio è di Agüero, che si riferisce alla
situazione all’inizio degli anni 1970, quando era possibile
individuare cinque strati orizzontali del corpo degli ufficiali
cileni.
Il vertice era costituito da generali, che avevano più di
trentacinque anni di servizio e in genere provenivano dalle numerose “promozioni” degli anni 1929, trenta, trentuno
e trentadue. Si erano formati durante l’ultimo periodo del
governo Ibáñez20 e al tempo della successiva anarchia rivoluzionaria, avevano conosciuto le amare vicissitudini della
reazione civile antimilitarista. Questi erano di elevatissima
professionalità e la loro lunga carriera si era svolta nell’ambito dei principi di non deliberazione e di distacco dalle contingenze politiche.
Seguiva un sottile strato di colonnelli, che aveva trenta,
trentacinque anni di servizio e provenivano dalle poche promozioni avvenute tra il 1933 e il 1938. Questo gruppo era
caratterizzato dalla formazione avuta in una scuola militare
adatta ai programmi d’insegnamento del ginnasio in un periodo di grande povertà delle istituzioni armate e di scarsi
incentivi professionali. E tutto ciò richiedeva che vi fosse in
essi una solida vocazione militare.
Veniva poi un grosso strato di ufficiali, che avevano venti,
trenta anni di servizio ed erano usciti dalla scuola militare
alla fine del 1939, durante la seconda guerra mondiale e nel
periodo della “guerra fredda”. Erano in genere caratterizzati
da una non dissimulabile simpatia per la causa nazista.
Il quarto strato, promosso tra il 1949 e il 1957, aveva una
mentalità certamente anticomunista. Erano inoltre ufficiali di
formazione classica e caratterizzati dall’esperienza compiuta
con gli armamenti tradizionali.
C’era infine lo strato più giovane, formato a partire dal
1958. Erano giovani educati alla concezione della guerra
antisovversiva, nella quale perdeva attualità l’eventualità di
un’aggressione armata extracontinentale in America Latina
mentre emergeva la guerriglia come la più pericolosa minaccia per la sicurezza continentale. La loro formazione militare
era avvenuta in modo differente e vi erano stati introdotti
mezzi come i comandos, i paracadutisti e i metodi d’istruzione della controguerriglia. La successiva partecipazione di
numerosi contingenti di questi giovani ai brevi corsi della
scuola delle Americhe, istituita dagli Stati Uniti, diedero loro
un chiaro orientamento nordamericano.
Ogni struttura bellica si basa, in ultima analisi, sul soldato. E allora
non bastano un sistema di stretti legami interistituzionali, un equipaggiamento moderno e adeguato, un coordinamento dottrinario e strategico per rendere efficiente una macchina da guerra: e ancor meno
bastano quando essa è destinata a combattere contro uomini che vivono sulla stessa terra e sono, quindi, compatrioti. È dunque neces20 Il colonnello, poi generale, Carlos Ibáñez del Campo, eletto presidente
nel 1927, fu costretto nel 1931 a lasciare il potere da un movimento di
borghesia urbana contrario ai suoi metodi autoritari.
sario inculcare contemporaneamente nei combattenti — e anzitutto
nei capi incaricati della direzione operativa — una forte motivazione
politica. Di qui il sempre maggior interesse per la formazione psicologica e professionale di ufficiali e di sottufficiali, compito che il
governo della Casa Bianca ha assegnato a una rete di insediamenti
militari destinati a istruire il personale straniero e, in particolare quello
latino-americano.21
Come si vede, all’interno della gerarchia dell’esercito cileno nel 1970 esisteva un’eterogenea suddivisione, derivante
dalla forte influenza dell’ambiente circostante, dall’educazione familiare e da una mentalità, formatasi sulle tesi di
difesa emisferica, diffuse nel continente. Tuttavia tenendo,
presenti i risultati dei tre studi esaminati e particolarmente
l’ultimo, nel 1970 gli ufficiali dell’esercito cileno provenivano, dal generale al sottotenente, dal ceto medio-alto22.
Per la formazione dello spirito di “casta” il comportamento militare è sottoposto, sin dall’adolescenza, al forte influsso
delle norme e dei precetti dell’istituzione. Dall’età di quindici o sedici anni ci si assoggetta a un regime di vita, che ha
una marcata somiglianza con quella propria della formazione
ecclesiastica e segna in modo indelebile la personalità, creando una notevole differenza con i civili di qualsiasi attività.
In quanto alle associazioni, cui partecipavano gli ufficiali,
si può dire che nell’ultimo decennio erano notevolmente diminuiti gli aderenti alla massoneria.
In conclusione, gli ufficiali cileni del 1970 erano elementi
della democrazia borghese imperante, avversi al marxismo e
inclini al modo di vita nordamericano.
I SOTTUFFICIALI E I COSCRITTI
Intorno al 1970 i sottufficiali formavano un’omogeneità
sociale quasi completa. La loro provenienza dalla classe operaia e dai contadini li rendeva tipici rappresentanti del popolo salariato, senza che s’identificassero tra essi strati generazionali caratterizzati dall’influenza dell’evoluzione politica.
Il sottufficiale coltiva con sapienza una tradizione di assoluta apoliticità. Il suo mondo è la caserma e la famiglia. Per
lui la disciplina militare costituisce un elemento di ordine e
di rigida sottomissione alla gerarchia imposta dalla carriera.
La sua massima ambizione è di raggiungere il grado di sottufficiale maggiore. Egli a sempre coltivato con orgoglio le
virtù militari, inculcandole con determinazione nei giovani
coscritti, e adempie gli ordini degli ufficiali in piena accettazione della gerarchia del comando. Se quegli ordini andavano più in là dei limiti di legittimità, si adeguava al principio
secondo il quale chi li impartiva ne era responsabile.
Neanche i sottoufficiali più anziani, con trent’anni di servizio e più, si erano trovati nelle condizioni di dover seguire
un’avventura, che li portasse a infrangere il giuramento alla
bandiera. Le attività politiche, svolte da alcuni capi militari,
non erano giunte al punto di coinvolgerli.
21 Cfr., Raul Ampuero, La formazione del soldato multinazionale, in
«Mondoperaio», Roma, n. 4, aprile 1977, p. 41. Traduzione dallo spagnolo
di Gabriella Lapasini.
22 Cfr., Augusto Varas, Felipe Agüero, El Desarrollo Doctrinario de las
Fuerzas Armadas Chilenas, cit., pp. 1-42
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
Ne consegue che la truppa e i sottufficiali partecipavano
senza troppi problemi alle repressioni avvenute in piazza
Bulnes a Santiago il 194623, ancora nella capitale il 2 aprile
195724, nella borgata Josè Marìa Caro nel dicembre 1962, e,
nella miniera di El Salvador nel 196625, adempiendo gli ordini superiori al fine di ristabilire l’ordine pubblico.
23 Tale repressione fu la conseguenza dei seguenti avvenimenti politici
che avvennero in quegli anni: «Las conspiraciones peronista. A partir
de 1943 se hizo sentir la influencia del peronismo sobre la imaginación
política de los oficiales chilenos, igual que ocurría en el conjunto de
América Latina. Hasta se constituyó, en 1946, un «Ministerio del Tercer
Frente», en la confusión que reinaba durante la enfermedad del presidente
Juan Antonio Ríos, poco antes de la muerte de éste, y como resultado de
los conflictos que dividían a comunistas y socialistas, y al día siguiente de
la mortífera represión de una manifestación callejera en Santiago. Dicho
Ministerio se apoyaba en la alianza de algunos jefes socialista con ciertos
jefes militares inspirados en el peronismo». Cfr., Alain Joxe, Las Fuerzas
Armadas en el sistema político chileno, cit., p.79.
24 Los desordenes de abril, 1957. En 1957 le fueron otorgados
nuevamente píenos poderes, a causa de los des ordenes anárquicos
producidos en Santiago. Durante los tres primeros días de abril se
produjeron graves desórdenes como consecuencia del alza del costo de la
vida y de la congelación de los salarios, insertada en el marco de la política
antiflacionista aplicada por Ibáñez, aconsejado por la misión de expertos
norteamericanos, Klein-Sacks. La causa inmediata de los desórdenes,
sobre los cuales no existe ningún estudio histórico serio, fue un aumento
de las tarifas de transportes colectivos. Los revoltosos que bajaron de
sus «callampas» hacia el centro de Santiago, trataron de apoderarse del
palacio presidencial, de incendiar la Catedral y el Congreso, apedrearon la
sede de «El Mercurio», saquearon las tiendas e incendiaron automóviles.
Los desordenes pudieron tomar tal incremento, en parte, porque según
se dijo, se dejó pasar un lapso demasiado largo entre el momento en
que los carabineros, literalmente vencidos por la muchedumbre, habían
abandonado la calle a los revoltosos y el momento en que el general jefe
de plaza que tenia la responsabilidad de mantener el orden a título del
estado de urgencia, pudo iniciar la represión. Ciertos comentaristas vieron
en esta incuria la huella de una intervención indirecta de grupos de derecha
que deseaban provocar la represión. El Gobierno atribuyó los hechos a
la influencia comunista, pero los comunistas tentaron, al contrario, de
contener esta agitación anárquica que no controlaban, de manera alguna.
Para restablecer el orden la tropa disparó y según las cifras oficiales,
causó 18 muertos, según fuentes oficiosas, causó 70 muertos y más de
200 heridos. El Presidente, que había recibido píenos poderes, renunció
a ellos al cabo de pocos días. Cfr., Ivi, pp. 82-83. Inoltre cfr., «Keesing’s
Contemporary Archives», April 2-9 1957, p. 1500.
25 Gli accadimenti avvenuti alla miniera di El Salvador sono connessi al
mandato militare in zona di emergenza durante l’amministrazione Frei: «Sin
embargo, bajo la administración Frei, estas facultades fueron extendidas,
hasta abusivamente, y los usos técnicos y logísticos de las fuerzas armadas
fueron extendidos hasta incluir sus funciones represivas (legalmente
justificadas). Para explicar este fenómeno, podemos citar el ejemplo de
la masacre de ocho trabajadores de El Salvador, en marzo le 1966. El
coronel Manuel Pinochet (primo del dictador) fue designado Comandante
de la Zona (Jefe de Plaza) declarada por Frei zona de emergencia, como
resultado de una prolongada huelga de mineros del cobre. Al mismo
tiempo, Pinochet fue nombrado interventor militar (director temporáneo)
de la compañía minera. Esta posición dual está agravada por el hecho de
que las funciones del Comandante de Zona están lejos de ser claramente
definidas, y, ambiguamente, incluyen el control del Orden Público, así
como una superposición de autoridad sobre los tradicionales poderes
civiles locales. Efectivamente, el Comandante de Zona es el representante
elegido por el Presidente, llenando el papel temporal de dictador local.
Pinochet emergió del escándalo público suscitado por la muerte de los
trabajadores completamente indemne; intocado por la ley civil y protegido
por la ley militar, con la justificación de que las muertes eran el resultado
de una misión pacificadora de parte de los militares. El papel dual de
Comandante de Zona permite llevar a cabo dos aspectos de la represión
antipopular, en interés de la Seguridad del Estado y del capitalismo». Cfr.,
Raul Ampuero, El poder político y las Fuerzas Armadas, cit., pp. 3-4.
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In quanto alla coscrizione, ragioni fondamentalmente di
bilancio la limitarono, sino al 1970, a contingenti molto limitati, comprendenti un terzo o un quinto della base di coscrizione annuale. Per questo, salvo l’eccezione di limitati
e periodici corsi studenteschi, quasi il cento per cento dei
coscritti chiamati annualmente nelle file dell’esercito erano
giovani figli di operai e contadini, non ancora iscritti nei registri elettorali.
UNO SGUARDO D’INSIEME
Il 1970 le Forze Armate cilene rappresentavano gli interessi e le contraddizioni della media borghesia. E ciò perché la loro struttura disciplinare le sottometteva all’azione
di comando di un’èlite, formata dagli ufficiali e quantitativamente minoritaria ma investita di tutte le attribuzioni legali
e regolamentari per organizzare, insegnare e usare lo strumento coercitivo dell’esercito secondo le proprie concezioni
ideologiche, anche se la maggioranza dei membri delle Forze
Armate erano della più pura estrazione popolare.
Così l’opinione, secondo la quale l’esercito cileno appartiene alla classe media, è ampliamente giustificata riguardo
agli ufficiali. Non si può dire la stessa cosa dei sottufficiali e
della truppa. Vale il commento generale che anche in questi
settori ci sono soldati professionali, e come tali difendono
anche la gerarchia istituzionale e i relativi diritti professionali.
ALTRI FATTORI
Si considerano altri aspetti per determinare meglio la fisionomia o il pensiero personale degli ufficiali cileni sull’importante problema delle relazioni tra l’ordinamento civile e
quello militare.
Durante la loro carriera gli ufficiali del sud avevano contatti soprattutto con l’alta classe rurale o con l’aristocrazia
possidente; invece nel nord li avevano con i professionisti e i
commercianti, che erano considerate classi “alte” in termini
locali e medie su scala nazionale. Quelli che dimorarono più
lungamente a Santiago ebbero maggiori contatti con la nuova
classe media urbana.
Le esperienze, fatte dai militari durante la loro carriera,
possono essere rilevanti per determinare la loro personalità.
In genere però è difficile ottenere soddisfazioni nella carriera
in funzione puramente militari, sempre che non si tratti di
attività di alto livello.
Una particolare esperienza fu l’incorporazione dei militari
ai programmi di sviluppo nazionale di “Azione Civica”. Essa
fu promossa il 1961 dal pentagono per migliorare l’immagine dei militari presso i civili ma portò solo uno scarso numero di militari al contatto diretto con i problemi sociali, umani
ed economici. Inoltre questa deviazione dell’attività militare,
che sino allora era esclusivamente orientata alla difesa, non
fu ben accolta da tutti i settori militari poiché i progetti di
sviluppo potevano essere portati a termine più economicamente dai soli civili. Comunque, l’incorporazione di ufficiali
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
superiori in istituzioni civili fu l’inizio di un’integrazione
istituzionale nei compiti dello sviluppo nazionale e gli effetti
di tale integrazione furono considerati positivi perché favoriva una fuori uscita dal forzoso mutismo politico dei militari.
La sfortunata contropartita di tale processo fu, nel periodo di
Allende, l’emergere di atteggiamenti chiaramente fascisti in
molti ufficiali superiori.
Si consideri di nuovo la dottrina istituzionale dell’esercito
cileno, che ha una chiara evoluzione storica e una pratica
corrispondente. L’influenza prussiana, stabilita dalla missione tedesca diretta da Emil Körner alla fine del secolo scorso, è riconosciuta ancora oggi come effettiva e come fattore
primordiale nel mantenimento della disciplina. Sebbene non
si possa determinare bene l’importanza, l’influenza USA era
considerevole e comincia a essere rilevante soprattutto dopo
la seconda guerra mondiale. Tale influenza è decisiva come
conseguenza dello spostamento dell’attenzione dalla difesa
esterna a quella antisovversiva e la conseguente adozione,
com’era avvenuto in altri paesi latinoamericani, di programmi di azione civica e lo sviluppo di efficienti forze di
“pacificazione”o di polizia.
Nel primo capitolo si è considerata la dottrina militare cilena, com’è stabilita dalla Costituzione del 1925 e dal codice
di giustizia militare del 1926. Considerando anche le successive modificazioni, risultava che nell’apparato statale l’esercito era molto repressivo. Tuttavia gli interventi militari nel
passato erano stati piuttosto pochi, uno ogni circa quaranta
anni. Si può allora dire che sino al 1969 i militari erano “soddisfatti” della posizione loro concessa nel sistema. Si trattava
però di un delicato equilibrio della relazione civico-militare
poiché esso era fondato anche sull’obbedienza al “Generalissimo”. In questo modo l’equilibrio reggeva perché almeno
una parte dell’alta gerarchia militare era dalla parte del governo costituzionale. Quando però un tale settore fu eliminato, come nell’agosto del 1973, l’equilibrio fu rotto e restò
aperto il cammino alla completa insurrezione istituzionale.
LA DOTTRINA SCHNEIDER
Riallacciandosi a quanto si è già detto riguardo a settori
della gerarchia, sostenitori della linea costituzionalista, dobbiamo far riferimento a quella che fu definita la “dottrina
Schneider”.
LA DOCTRINA SCHNEIDER
- Que piensa el Comandante en Jefe con respecto a la participación de
personal militar en actividades políticas?
Esa intervención en política está fuera de todas nuestras doctrinas.
Somos garantes de un proceso legal en el que se funda toda la vida
constitucional del país. Por ello no se puede permitir que se realicen
tales actividades. Es nuestra doctrina garantizar la estabilidad interna y a do deben tender todos nuestros esfuerzos y es una razón poderosa por la cual no debernos tener preferencia por ninguna tendencia,
candidatura o partido.
GARANTIZAMOS
- Cuál es su pensamiento con respecto a la próxima elección que se
vislumbra como un proceso difícil?
Vamos a llegar a la elección manteniendo nuestra tradición de pleno
respaldo a las decisiones del Gobierno Constitucional de la República, vamos a garantizar la normalidad del proceso eleccionario y a
dar seguridad de que asuma el Poder Ejecutivo quien resulte electo.
Puede darse el caso de que ninguno de los candidatos obtenga mayoría absoluta en septiembre. Se ha dicho en varios tonos que podrá
ocurrir por primera vez que el Congreso chileno no ratificara al poseedor de la mayor cantidad de votos y, en cambio, designara como
Presidente de Chile a quien obtenga la segunda mayoría. Cuál sería en
ese caso la actitud del Ejército?
Insisto en que nuestra doctrina y misión es de respaldo y respeto a la
Constitución Política del Estado. De acuerdo con ella el Congreso es
dueño y soberano en el caso mencionado y es misión nuestra hacer
que sea respetado en su decisión.
CUMPLIREMOS LA CONSTITUCION
- Y si en ese caso se produce una situación de seria convulsión interna
que incluso podría degenerar en algo mayor?
Si se producen hechos anormales nuestra obligación es evitar que
ellos impidan que se cumpla lo que indica la Constitución. El Ejército
va a garantir el veredicto constitucional
- Después de las circunstancias vividas últimamente, cuál es, según
su concepto, la situación del Ejército? Puede asegurarse que existe
estabilidad total?
Pequeñas situaciones locales no implican un síntoma de inestabilidad. Hay solidez institucional. Los hombres del Ejército viven una
sociedad viva, que vibra, es imposible, entonces, que están totalmente
al margen de lo que ocurre a su alrededor, pero es indispensable que
no participen. Y, en último caso, quien tenga una inquietud grande
con respecto a ciertas ideas, ciertas tendencias, o ciertas actividades
políticas y desee participar en ellas, lo mejor es que deje el uniforme
y las abrace como un civil. Esa es nuestra posición.
DISCIPLINA
- Los mismos sucesos mencionados hacen pensar a muchos que se
ha relajado la disciplina en el Ejército. Existe la misma obediencia y
disciplina de antes?
La disciplina se mantiene inalterable, naturalmente que con los cambios derivados de la época en que vivimos. La disciplina se fundamenta en la conciencia de superior y subalterno, en el ascendiente
de mando. Lógicamente no es como antaño cuando no había acceso
a la gestación de las órdenes. Ahora el subordinado piensa e incluso
sugiere y esto es un aporte a la efectividad de esa orden, pero, llegado
el momento de cumplir lo resuelto, se cumple sin discusión26
René Schneider, con quarantuno anni di carriera nell’esercito e ufficiale di stato maggiore, fu designato comandante
26 Generale René Schneider intervista rilasciata dal Comandante in Capo
dell’Esercito al periodico «El Mercurio» l’8 maggio 1970. René Schneider
Chereau, oficial de Estado Mayor brillante carrera militar, fue designado
Comandante en Jefe el 23 octubre de 1969, en circunstancias conflictivas
para las Fuerzas Armadas. Su saludo al Ejército en el momento de asumir
traduce en compleja situación que entonces vivía la institución castrense:
“Al asumir el mando del Ejército deseo expresar a todos sus miembros el
alto honor que significa comandar a nuestra institución, cuya trayectoria
profesional cuyos fundamentos doctrinales y de principios permanecen
inconmovibles e inalterables frente a quienes han pretendido perturbar su
normal conducto de acción”.Militar constitucionalista sucedió en el Alto
Mando al General Sergio Castillo Arànguiz, quien debió dejar su cargo,
llamado a retiro, porque no judo controlar un pronunciamiento que se
produjo en las filas, al frente del cual apareció Roberto Viaux Marambio, a
la sazón General de Ejército, pero llamado a retiro. Ese acontecimiento se
le conoce en jerga popular como “El Tacnazo”, porque Viaux escogió el
cuartel del Regimiento de Artillería Tacna, en Santiago, para precipitar el
pronunciamiento, que constituyó un grave problema para el gobierno de la
época presidido por el democratacristiano Eduardo Frei. Cfr., AA.VV., El
caso Schneider, Santiago, Editora Nacional Quimantú, 1972, pp.172-173.
57
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
in capo il 23 ottobre del 1969 in circostanze abbastanza conflittuali per le Forze Armate. Infatti, si trattava di un periodo
politico particolarmente nuovo per Cile, con il movimento
popolare in ascesa e con una campagna elettorale presidenziale particolarmente difficile, nella quale figuravano tre candidati:
- Salvatore Allende, candidato di UP (coalizione di sinistra: PC, PS, Partito Radicale, Movimento di alleanza popolare (MAPU) e Partito Socialista Democratico);
- Jorge Alessandri, candidato dalla destra nazionalista;
- Radomiro Tomic, candidato dalla DC (Democrazia Cristiana).
Si andava alle urne con una situazione politica, che vedeva da un lato un forte schieramento di sinistra e dall’altro le
tendenze moderate, divise in due schieramenti: la DC e le
forze di destra.
In questo quadro politico, alla vigilia della campagna elettorale il generale Schneider, comandante in capo dell’esercito, dichiarò l’8 maggio del 1970, in un’intervista nella prima
pagina del «El Mercurio», i seguenti punti:
1) l’esercito garantirà il verdetto costituzionale o elettorale;
2) l’intervento dell’esercito nella politica è contrario a tutte
le nostre dottrine;
3) se ci saranno delle anormalità o dei turbamenti, sarà nostro dovere assicurare il totale completamento del processo
costituzionale;
4) sarà Presidente il candidato deciso dall’elettorato, se
otterrà la maggioranza assoluta; o quello designato dal Congresso, nel caso che nessuno dei candidati lo ottenesse;
5) ogni membro delle Forze Armate, che sia “preoccupato” per certe idee politiche o attività e tendenze, dovrebbe
lasciare le file della propria Arma e continuare a vivere come
civile.
Una serie di congetture e d’interpretazioni seguirono alle
affermazioni del generale, in quanto si era in presenza di due
fattori, che davano alle elezioni un carattere incerto ed enigmatico:
- la generalizzata convinzione che lo scarto di voti per la
vittoria dei tre candidati, sarebbe stato minimo;
- la circostanza che nessuno di essi avevano l’appoggio
maggioritario in Parlamento.
Pertanto la solenne dichiarazione di rispetto dei procedimenti costituzionali poneva le Forze Armate e il suo comandante in capo in una posizione precisa di fronte a tutte le
forze politiche, nessuna delle quali avrebbe potuto pensare di
ribaltare la situazione politica, che si veniva a creare dopo le
elezioni, con l’aiuto delle Forze Armate.
Dopo la vittoria di UP, il 2 settembre 1970 Schneider dichiarò: «Noi appoggeremo e proteggeremo sino alla fine il
Presidente che è eletto dal congresso».27
Il 25 ottobre 1970 Schneider fu assassinato da un complotto politico organizzato dalla destra e alcuni membri delle
Forze Armate. L’uccisione di Schneider fu il primo esempio
27 Ivi, p. 182.
58
della violenta risposta reazionaria, data dagli USA e dagli
oppositori di Allende alla “via pacifica al Socialismo”.28
Il 21 dicembre del 1970 il Presidente Allende descrisse
Schneider come il simbolo del soldato con una coscienza
umana e civica, che serve la madre patria in pace, obbedendo
alla legge.
La dottrina Schneider fu forse una continuazione del mito
delle Forze Armate, e servì per mantenere una cecità generale rispetto alla presenza politica dei militari. Inoltre fu ingannata l’opinione pubblica, facendola pensare che Allende
controllava le Forze Armate.
La dottrina, un pò mitizzata dall’assassinio di Schneider,
non fu conosciuta apertamente fino al 1970. In un discorso
del 13 marzo del 1970 egli riaffermò la credenza popolare
28 Il Generale Prats racconta l’avvenimento nel suo diario: «El jueves 22
de octubre me encontraba trabajando en mi oficina del 50 piso del Ministerio
de Defensa Nacional, cuando a las 08:30 suena el citófono interno y siento
la emocionada voz del ayudante del Comandante en Jefe, Comandante
Santiago Sinclair, quien me avisa apresuradamente que Schneider ha sido
victima de un atentado, que está herido y que fue trasladado al Hospital
Militar. Parto con el General Manuel Pinochet al Hospital Militar y nos
encontramos con la dolorosa noticia de que el estado de Schneider es
gravísimo. Su automóvil había sido bloqueado poco después de las 08:00
en la intersección de Martín de Zamora con Américo Vespucio por varios
automóviles, para permitir que un grupo de individuos jóvenes rodeara su
vehiculo, y destrozara con martillos los cristales traseros y de la puerta
lateral izquierda. Estos, al percatarse de que Schneider intentaba usar
su pistola, descargaron sus armas de fuego, algunas calibre 45, sobre
su cuerpo vulnerable y huyeron. El conductor, viendo que Schneider se
desangraba, se traslado a gran velocidad al Hospital Militar, donde — en
los momentos en que llegamos con el General Manuel Pinochet — era
eficientemente sometido a los auxilios que el grave caso requería por un
grupo de cirujanos militares. Veo el cuerpo inconsciente de Schneider,
inmóvil sobre la camilla, con su rostro hecho mármol y su busto bañado en
sangre. Uno de los tres balazos le había perforado los pulmones, le rozó el
corazón y le destrozó su hígado. Siento un intenso dolor ante la tragedia del
gran amigo y me siento como si rodara por un negro precipicio, en medio
de una vertiginosa iluminación de imágenes siniestras en que se alternan
multitudes enloquecidas y despavoridas que gritan desaforadamente
en medio del agudo traqueteo de ametralladoras y el ronco estallido de
bombas. […]. A las 10:00 concurre el Presidente Frei al Hospital Militar,
profundamente impresionado por lo ocurrido. Analizamos rápidamente
la situación, te impongo de las medidas que he adoptado y me confirma
su confianza como Comandante en Jefe Subrogante del Ejército. […] .
A medianoche espero en el Hospital Militar el resultado de una segunda
operación de Schneider. Lamentablemente, sólo puede lograrse el taponaje
de la región abdominal. Su estado es de suma gravedad. Durante el día
viernes 23 de octubre, entre viajes al Hospital Militar y a la Comandancia
en Jefe, reviso y apruebo las medidas de seguridad para el funcionamiento
del Congreso Pleno del día siguiente. La situación de orden público se
presenta aparentemente controlada. En todos los cuarteles del Ejército se
vive un estado de tensa indignación y de angustiosa espera de la evolución
de los esmerados cuidados que los cirujanos militares prestan día y noche
a Schneider. A las 13:00 del sábado 24 de octubre, es proclamado Salvador
Allende Gossens como Presidente de la República: 153 votos a su favor
de los partidos de la Unidad Popular y Democracia Cristiana, 35 votos en
favor de Alessandri y 7 votos en blanco. A las 19:00, los tres Comandantes
en Jefe, Almirante Tirado, General Guerraty y yo, con el General Director
de Carabineros, Vicente Huerta, cumplimos el deber protocolar de saludar
al Presidente Electo en su domicilio. Es la primera vez que converso
con Salvador Allende. Enseguida, me traslado al Hospital Militar donde
recibo esperanzado el informe médico de que Schneider ha experimentado
una leve reacción favorable. El domingo 25 de octubre, a las 07:30 me
avisan telefónicamente del Hospital Militar que Schneider ha sufrido un
paro cardiaco. Llego a las 07:50 a la sala de operaciones, en el momento
que el Comandante en Jefe deja de existir». Cfr., Carlos Prats Gonzales,
Memorias. Testimonio de un soldado, cit., pp. 184-187.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
La Moneda
che le Forze Armate avrebbero rispettato il sistema legale
democratico:
Nel nostro paese viviamo sotto un governo legale, il quale è stato eletto, accettato e controllato dal popolo, dalla nazione. Il sistema elettorale, dal quale è derivato il presente governo, è definito con assoluta
precisione; e nel relativo processo legale le Forze Armate devono
agire come una garanzia e un pilastro per la sua normale e giusta comprensione.29
29 Il discorso è tenuto da Schneider il 13 marzo del 1970 al Consiglio
Generale delle Forze Armate Cilene. Il Generale Carlos Prats, presente
alla riunione, descrive l’avvenimento nelle sue memorie: «El 13 de marzo
se inicia un Consejo de Generales. al que asisten los generales de división
Manuel Pinochet, Pablo Schaffhauser, Camilo Valenzuela, Francisco
Gorigoitía y yo; los generales de brigada Eduardo Arriagada, Raùl
Poblete, José Larrain, Galvarino Mandujano, Augusto Pinochet, Orlando
Urbina, Furique Garín, Manuel Torres de la Cruz. Oscar Bonilla, Ervaldo
Rodriguez, José Valenzuela, Alfredo Canales, Eduardo Cano, Pedro del
Río y José Rodríguez, y el Coronel Mario Sepúlveda. No concurrieron,
por encontrarse transitoriamente en el extranjero los generales de brigada
Rolando González y Héctor Bravo y el Agregado Militar en los EE.UU.,
General de brigada Ernesto Baeza. He enumerado los asistentes a este
consejo, porque, además de ser el primero en que Schneider reunía a todos
los generales, es la oportunidad en que el Comandante en Jefe define con
absoluta claridad su pensamiento completo sobre la situación que vivía el
Ejército, y señala las pautas orientadoras de la marcha de la Institución en
el futuro». Ivi, pp. 147-148.
La dottrina Schneider fu un prodotto storico del ruolo dei
militari sino al 1970, soprattutto come un gradino nell’evoluzione della relazione che le Forze Armate avevano col potere
civile, relazione che era subordinata alla situazione politica,
formulata in difesa degli interessi della sicurezza nazionale
basati sulla Costituzione del 1925. Le opinioni politiche del
generale non andavano di conseguenza molto più in la della
Costituzione e avevano soprattutto l’intento di convincere
sia i settori civili sia quelli militari del dovere costituzionale
dei militari.
La dottrina Schneider non è una dichiarazione rappresentativa del pensiero degli ufficiali cileni ma piuttosto un’opinione personale, con effetti soprattutto orali o non necessariamente pratici.
Si aggiunge che il relativo terreno di prova furono gli avvenimenti del 1970-73, quando la dottrina fu portata alla
pratica dal generale Prats, secondo comandante in capo di
Schneider e comandante in capo sotto Allende.
Per una migliore conoscenza della dottrina o del pensiero di Schneider si riportano le frasi più importanti di alcuni
suoi appunti, stesi nei momenti cruciali di settembre-ottobre
del 1970. Sono note personali su un seminario, che lui tenne
all’accademia di guerra il 10 settembre e quelle relative a un
59
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
suo discorso all’accademia del politecnico il 15 ottobre.
Dagli appunti sul seminario si deduce che per lui due problemi si presentavano all’esercito e soprattutto al suo comandante in capo:
1) l’esercito non doveva convertirsi in un ostacolo tra le
due principali forze elettorali;
2) il futuro dell’esercito trascendeva la politica qualunque
fosse il partito eletto per governare.
Qual è il nostro atteggiamento? L’unico: la legalità. Gli altri atteggiamenti ci dividono, e ci collocano contro il popolo. I risultati elettorali
sono sotto la nostra responsabilità. La soluzione è politica e spetta al
Congresso; non è sicuramente una soluzione armata. No alla guerra
civile. Il nostro futuro è inquietante e insicuro, anche sotto altri aspetti.
Assicurare la nostra istituzionalità: difficile, ma non impossibile. Sia
Allende sia Alessandri richiedono appoggio per governare. Ci sono
dettagli precisi per negare quest’appoggio: il Congresso. Uniti, saremo capaci.30
Negli appunti per il suo discorso all’accademia del politecnico militare, il 15 ottobre del 1970, scrisse:
L’ambiente istituzionale attuale richiede dimostrazione di tranquillità
professionale. Riconosco inquietudine nelle persone, dubbi sul futuro,
angoscia personale che io ho. Questo non può cambiare il nostro atteggiamento professionale. L’ho detto molte volte che è l’unica cosa che
ci unisce. Intimidazioni, infiltrazioni multiple, Generale Viaux, politici diversi, lettere, telefono,conversazioni; obbiettivo rompere l’unione
(...). Politica seguita mantenimento della posizione legale. Mantenere
contatto (...); appoggio a ciò che decide il Congresso. Per golpe, informazioni opportune. Mantenere l’unione istituzionale, preparazione
per attuarla, piani e analisi di ogni circostanza. Politica: futura garanzia costituzionale nostra principale difesa, nostra inalterabile posizione, dottrina chiara e precisa; unione istituzionale (dentro l’esercito)
e tra istituzioni (con marina e aviazione). Proporre al futuro governo
politica di difesa nazionale, politica istituzionale. Pianificazione per
sei anni: definizione, obiettivi, classificazione; programmare la nostra
evoluzione. Non fermare l’evoluzione e i cambi. Dobbiamo accettarli,
dirigerli; non cadere in estremi. Ciò che non desidero: sono colpi di
stato militari o civili, organizzazioni civili con molteplici obiettivi,
campagna del terrore.31
Questa dottrina illumina, nelle vissute circostanze del
1970, certe posizioni strategiche che adottò Schneider come
militare costituzionalista e non come un politico civile né
con interessi in mente, che non fossero quelli puramente democratici. Possiamo riassumerle brevemente:
1) l’esercito deve appoggiare l’evoluzione democratica;
2) l’esercito è il garante di questo processo, e come tale ha
l’ultima parola in questi problemi;
3) l’appoggio del parlamento e dell’esercito è essenziale
per il governo, sia di sinistra sia di destra;
4) l’unità dell’esercito è fondamentale per evitare una situazione di guerra civile;
5) l’unità può essere raggiunta soltanto con l’appoggio totale al regime legale.
LA COSTITUZIONE DEL 1925
30 Cfr., Joan Garces, Allende y la experiencia chilena – las armas de la
critica, Barcelona, Ed. Ariel, 1976, p. 273-274. Inoltre cfr., AA.VV., El
caso Schneider, cit., pp. 187-192.
31 Ibidem.
60
I fattori storici che hanno forgiato il carattere dei militari
cileni (Forze Armate e Carabinieri) non sono una serie lineare di elementi trascendenti. Invece, molti dei problemi
del ruolo delle Forze Armate nella vita della società cilena
si trovano, di fatto, mascherati col risultato che tra il dettato
costituzionale e l’azione quotidiana dei militari si sviluppano
divari e contraddizioni tra le Forze Armate e la società.
La Costituzione del 192532 fornisce il referente essenziale
per comprendere adeguatamente il comportamento e l’attività dei militari per tutto il periodo del governo costituzionale
in Cile sino al 1973.
Uno dei miti della cultura politica cilena è che le Forze
Armate sono fuori o sopra le parti, dalle lotte e dei problemi
sociali e politici della società. Per tale cultura la presenza
delle Forze Armate nella società è solo in funzione della difesa delle frontiere nazionali e dei relativi interessi strategici,
includendo in tale difesa quella del patrimonio nazionale e
della sicurezza di tutti i cittadini o dell’ordine interno.
Così dovrebbe essere. Così forse non è stato nel Cile al
tempo della crisi dal 1970 al 1973. Infatti, tale concezione dimentica che in genere le Forze Armate hanno un alto potere
coercitivo col risultato che in una situazione di forte polarizzazione politica possono avere un ruolo traumatico.
ORIGINE DELLA COSTITUZIONE DEL 1925
Alla prima Costituzione del Cile, nel 1828, caratterizzata
come liberale pur essendo stata emanata sotto la presidenza
di Francisco Antonio Pinto, che era stato un generale dell’esercito cileno, seguì la Costituzione del 1833 fondata, a differenza della precedente, su “principii nettamente autoritari
e conservatori”; e anche questa volta il Presidente della Repubblica, Joaquin Prieto, era un generale dell’esercito cileno.
Nel 1891 l’ordinamento costituzionale fu notevolmente
modificato, il potere esecutivo fu ridotto quasi all’impotenza
e si rafforza invece quello legislativo-parlamentare.
Il testo della Costituzione del 1833, interpretata erroneamente da buona parte della storiografia come la carta autocratica voluta dal ministro
32 Hasta el 11 de Septiembre de 1973 rigió en Chile la Constitución de
1925, preparada en ese año por una comisión pluralista designada por el
entonces Presidente de la Republica don Arturo Alessandri y aprobada
plebiscitariamente en Agosto del mismo año. Su contenido, en lo
fundaméntale es el mismo de la Constitución de 1833, aunque hizo avances
en materia de garantías individuales e y sociales, definición del régimen
político y perfeccionamiento de Estado de Derecho. Por ello, puede
decirse que ha habido en Chile, formal y sustantivamente, una notable
continuidad y regularidad constitucional, desde 1833 hasta 1972, es decir,
durante 140 años. Cfr., Jorges Tapia Valdés, Poder Judicial, gobiernos
de facto y protección de la Constitución: el caso de Corte Suprema de
Chile, Rotterdam, Institute for the New Chile, 1979, p. 33. Jorge Tapia
Valdés, abogado y profesor universitario, desempeñó tareas docentes en
la Universidad de Chile como Profesor de Derecho Constitucional. En los
últimos años ha sido investigador y docente en varias universidades latino
y norteamericanas. Actualmente es Profesor Visitante de Derecho Publico
en la Universidad Erasmo de Rotterdam y asociado del Instituto para el
Nuevo Chile. Durante el gobierno del Presidente Allende desempeño
las carteras ministeriales de Justicia y Educación. El presente trabajo
fu expuesto y debatido durante el Seminario sobre Seguridad Nacional
y Fuerzas Armadas, organizado por el Instituto para el Nuevo Chile en
Febrero de 1979.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
degli interni [Diego Portales], rappresenta la volontà dei costituenti
di andare al di là dell’emergenza politica e dei rapporti di forza del
momento e di disegnare una istituzionalità di più ampio respiro. In
essa vengono recepite le inquietudini dei liberali dell’epoca e in essa
convivono, in una sorta di curioso equilibrio, elementi di presidenzialismo e di parlamentarismo. Non a caso rimane in vigore, per quasi
un secolo, sino al 1925 e garantisce il quadro istituzionale del paese
anche durante l’esperienza del parlamentarismo (1891-1925).33
Con l’inizio del nuovo secolo la situazione politica diventa
ancora più instabile per l’inasprirsi della questione sociale e
anche in Cile fecero la loro comparsa “i partiti democratici”,
che nelle elezioni del 1924, ebbero la maggioranza in entrambe le camere sotto la presidenza di Arturo Alessandri, un
civile di origine italiana che in precedenza aveva formulato
un programma politico democratico e quasi rivoluzionario
per quegli anni. Basta pensare al decentramento amministrativo, al suffragio femminile, alla separazione della chiesa
dallo stato, all’imposta sul reddito, al codice del lavoro e al
controllo del governo sull’industria dei nitrati.
Esasperati dall’indifferenza con cui i parlamentari affrontano la loro
richiesta di aumenti salariali, il 2 settembre 1924, 56 ufficiali dell’esercito fanno irruzione nel Senato mentre è in corso un dibattito su un
progetto di legge per l’istituzione di uno stipendio ai parlamentari (le
cariche parlamentari non sono retribuite) come strumento di democratizzazione del Congresso che avrebbe permesso l’accesso a persone
senza fortune personali, e esprimono la loro protesta. Qualche giorno
dopo formano un comitato che presenta a Alessandri un memorandum con una serie di petizioni. Queste ultime, vanno al di là delle
rivendicazioni dei militari e includono una serie di punti contenuti nel
programma elettorale di Alessandri mai realizzati. Tra questi viene
contemplata la riforma della Costituzione, la promulgazione immediata di uno statuto dei lavoratori, l’approvazione di un’imposta alla
rendita e una serie di altre leggi riguardanti la questione sociale. […].
All’Esercito intanto si associa nella protesta la Marina, dichiaratamente antialessandrista. Dinanzi a questa situazione Alessandri rinuncia
alla sua carica e abbandona il paese. L’11 settembre del 1924 si costituisce una giunta militare che annuncia i suoi propositi di “abolire le
falde politiche” e convocare una libera assemblea costituente con l’obiettivo di redigere una nuova Costituzione che ponga fine al “parlamentarismo selvaggio” degli ultimi trent’anni e accolga le aspettative
legittime di ordine e progresso del popolo cileno. Alla fine di questo
processo le forze armate sarebbero ritornate nelle loro caserme. […].
Dopo pochi mesi la giunta militare si scioglie e dà vita, insieme a
esponenti dei Partiti radicale, democratico e a alcune frazioni dei liberali, a un movimento di militari e civili che chiedono il ritorno di
Alessandri e la formazione di un governo civile. Il presidente riassume
il suo incarico alla fine del gennaio 1925 […] nomina immediatamente una commissione consultiva costituita dai rappresentanti di tutte le
tendenze politiche, inclusi i comunisti, e delle organizzazioni sociali
con il compito di preparare e organizzare un’assemblea costituente
che però, per problemi dovuti alle tensioni politiche, non viene mai
eletta. La commissione consultiva si fa quindi carico della stesura della nuova Costituzione che, sottoposta a plebiscito, viene votata in agosto e promulgata il 18 settembre 1925. Sottraendo al Congresso una
serie di prerogative in materia finanziaria, […] Alessandri instaura un
regime di tipo presidenziale. […].
Ma il punto debole di questa Costituzione è il nodo non risolto della
relazione presidente-parlamento. Il grande potere extraparlamentare
dei partiti politici che era stato un elemento fondamentale della crisi
del sistema politico precedente, sopravvive alla riforma del 1925 e nel
corso dei decenni successivi si consoliderà sempre di più.34
33 Maria Rosaria Stabili, Il Cile. Dalla Repubblica Liberale al dopo
Pinochet (1861-1990), Firenze, Giunti Gruppo Editoriale, 1991, p.13.
34 Ivi, pp. 49-51.
Il 30 agosto del 1925 fu votata la nuova Costituzione che
rimase in vigore fino al 1980.
ALCUNI RILIEVI SULLA COSTITUZIONE DEL 1925
La Costituzione del 1925 è divisa in dieci capitoli, con un
totale di 110 articoli, più dieci disposizioni transitorie.
La commissione Consultiva fu consigliata da un gruppo
di tecnici, che la perfezionarono dal punto di vista lessicogrammaticale e giuridico. Tuttavia, per la ristrettezza del
tempo, si commisero degli errori, così ad alcune materie non
si diedero l’ubicazione e l’importanza che le circostanze richiedevano.
Inoltre la Costituzione del 1925 non è stata applicata nella
sua integrità perché i precetti, che contengono alcune delle più interessanti riforme, non sono stati mai regolati. Così
avvenne con le assemblee provinciali, i tribunali amministrativi, l’indennizzo per i condannati poi risultati innocenti, la proprietà familiare, e altre disposizioni, che sono state
chiamate “le disposizioni programmatiche incomplete della
Costituzione del 1925”. A esse si deve aggiungere che il decentramento amministrativo, cui aspiravano i costituzionalisti del 1925, non si realizzò mentre, di fatto, si accentuò la
centralizzazione, con evidente danno per la vita delle provincie e specialmente degli organi di amministrazione locale
che sono le municipalità.
Sono numerosi i progetti di riforma che sono stati presentati per modificare la Costituzione del 1925, ma molti di essi
non sono stati nemmeno discussi. Solo due leggi di riforma
sono state promulgate:
- la legge n. 7727, del 23 novembre del 1943;
- la legge n. 12548, del 30 settembre del 1957.
La prima aveva come finalità principale quella di ordinare
la finanza; l’altra invece trattava della nazionalizzazione dei
nati in Spagna e della perdita della nazionalità cilena.
Dal 1925 fino al 1973 si è creata una nutrita e interessante
legislazione complementare e regolamentare della Costituzione35, in vigore sino al 1980, anno in cui è stata promulgata
la nuova Costituzione cilena da Pinochet.
L’ARTICOLO 22 DELLA COSTITUZIONE
Per comprendere in maniera sufficientemente adeguata “il
mito militare cileno” e quindi la reale funzione dei militari nella vita della Repubblica, si deve soprattutto analizzare
l’articolo 22 della Costituzione, che fu ridefinito nel 1970.
Art. 22.- La fuerza pública está constituida única y exclusivamente
35 El estudio de la Constitución de 1925, de las decisiones judiciales y
de la práctica política chilena, lleva a la conclusión de que el país había
elaborado un vasto y complejo sistema de protección de la supremacía
constitucional. Dentro de dicho sistema, podían distinguirse tres niveles
de control de la constitucionalidad: el de los actos del Poder Legislativo,
el de los actos políticos de Gobierno, y el de los actos comunes de la
Administración ordinaria. Cfr., Jorges Tapia Valdés, Poder Judicial,
gobiernos de facto y protección de la Constitución: el caso de Corte
Suprema de Chile, cit., p.12.
61
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
por las Fuerzas Armadas y el Cuerpo de Carabineros, instituciones
esencialmente profesionales, jerarquizadas, disciplinadas, obedientes
y no deliberantes. Sólo en virtud de una ley podrá fijarse la dotación de
estas instituciones. La incorporación de estas dotaciones a las Fuerzas
Armadas y a Carabineros sólo podrá hacerse a través de sus propias
escuelas institucionales especializadas, salvo la del personal que deba
cumplir funciones exclusivamente civiles.36
Secondo tale articolo «La forza pubblica è essenzialmente
ubbidiente. Nessun gruppo armato può deliberare». Nel 1970
si precisò che «La forza pubblica è istituita unicamente ed
esclusivamente dalla Forza Armata e dai carabineros, istituzione professionale, gerarchizzata, disciplinata, obbediente
e non deliberante».
In primo luogo la forza pubblica è un’istituzione professionale. La sua unica funzione è l’intervento tecnico, difensivo
e repressivo, per la conservazione dell’ordinamento legale e
costituzionale della società cilena. Pertanto la forza pubblica
non deve infiltrarsi in nessun altro campo di attività e tanto
meno in quello politico.
In astratto la professionalità della forza pubblica è senz’altro un alto valore sociale ma per la sua adeguata valutazione,
deve essere considerata nel concreto della società cilena.
Nel 1925, quando fu promulgata la Costituzione, l’ordinamento economico-sociale della Repubblica cilena era di natura capitalistico-borghese, e per di più il capitalismo cileno
era subordinato a quello internazionale e soprattutto a quello
statunitense.
In questo modo “la professionalità” o l’efficienza difensiva
e offensiva dei militari serviva alla difesa dell’ordinamento
capitalistico della società.
Quest’aspetto negativo della professionalità dei militari
cileni è sottolineata dal fatto che gli ufficiali potevano partecipare alle elezioni nazionali mentre ai soldati invece questo
diritto era negato. Gli ufficiali in genere avevano una formazione alto-borghese, la più favorevole all’ordinamento
sociale ed economico capitalistico e, di conseguenza la loro
partecipazione attiva alla vita e alla lotta politica non poteva
essere un pericolo per tale ordinamento. Invece i soldati, in
genere di estrazione popolare, aderiscono molto facilmente
soprattutto a movimenti politici contrari al capitalismo. Di
qui la necessità di negare loro il diritto al voto nelle elezioni
nazionali affinché salvaguardassero la loro professionalità
militare. Così i soldati potevano essere usati come dei burattini, che devono attendere unicamente a quanto gli ufficiali,
ordinavano.
Un altro limite della professionalità dei militari, particolarmente se eccessiva, è una specie d’isolamento sociale. La
specializzazione tecnica di tipo militare può rendere difficile
l’inserimento nella società civile, quando si lascia il servizio
militare. Da tutto ciò deriva una lunga permanenza degli ufficiali ed anche sottufficiali nell’esercito, con il conseguente
quasi totale distacco dal resto della società.
L’aspetto negativo del fenomeno è evidenziato dal grado
36 Artículo sustituido por la Reforma Constitucional contenida en la Ley
N. 17.398, de 9 de Enero de 1971.
62
di chiusura dei circoli militari, soprattutto degli ufficiali. A
volte la chiusura è tale che gli iscritti sembrano membri di
una casta.
Per alcuni teorici l’esclusione dei militari dalla vita politica è un elemento del sistema sociale borghese, studiato per
isolare i militari dai conflitti presenti nelle società borghesi.
Tale fatto però si tratta di un equivoco perché gli ufficiali,
in genere di formazione borghese, interverranno con tutta la
forza repressiva delle armi se i conflitti sociali mettono in
pericolo gli interessi o i privilegi della borghesia.
Il mito della professionalizzazione dell’esercito fu rotto
dal Tacnazo del 1969 quando il reggimento blindato “Tacna” distanza a Santiago, occupò la caserma (come l’anno
prima avevano fatto gli studenti con l’Università e i cristiani
di sinistra con la Cattedrale) e pose una serie di rivendicazioni professionali (più armi) e sindacali (più salario). Il capo
dell’iniziativa era il generale Viaux, messo a riposo proprio
alla vigilia del colpo e molto popolare per le sue prese di posizione “sindacali” in favore dei militari. La rivolta si spense
non appena fu data la garanzia che sarebbero state accolte le
rivendicazioni; ma se solo il reggimento blindato si ribellò
apertamente, in pratica tutto l’esercito fu complice poiché
l’aviazione si rifiutò di intervenire e i “reparti fedeli” non
diedero l’assalto alla caserma occupata.
L’episodio del Tacna, “il primo sciopero dei militari in
Cile”, fa sospettare «al livello più alto della gerarchia militare, un abbozzo di manovra più politica che professionale,
tendente a revocare alla Democrazia Cristiana il beneficio
dello sforzo che essa si decideva in extremis a compiere in
favore delle Forze Armate, obbligandola ad agire sotto la
pressione delle baionette»37: un’operazione di inequivocabile segno di destra.
È importante chiarire che se la ribellione poté passare ed
avere una conclusione vincente fu a causa di una frattura,
ormai consolidata all’interno delle Forze Armate. La rottura
del rigoroso professionalismo, che da quarant’anni circa aveva caratterizzato l’esercito nella sua interezza, significava il
rifiuto, di segno politico uniforme, di “un’ideologia militare”
che si basava su una sostanziale adesione al regime.
L’esercito risentiva delle forti tensioni sociali e le esprimeva al suo interno mostrandosi politicamente non unificato, fra
un’ala di destra golpista e fascista, di “stampo brasiliano”, e
un’ala di sinistra, addirittura di estrema sinistra. In mezzo vi
era la massa indecisa, turbata dal pronunciamento del Tacna, ma che si rifiutava di dargli un contenuto propriamente
politico e che una volta soddisfatte le domande relative agli
stipendi e agli armamenti, accettò la capitolazione degli ammutinati e le sanzioni per avere attentato alla disciplina.
La forza pubblica gerarchizzata. Cioè è un’organizzazione
centralizzata o di vertice, e tutto l’esercito è subordinato al
37 Gli avvenimenti citati sono avvenuti durante il governo Frei. Dopo tali
eventi il governo nomina al comando dell’esercito il generale Schneider,
un militare assolutamente costituzionalista e professionalmente rispettato
che avrà il difficile compito di restaurare la disciplina nei ranghi militari.
Cfr., Alain Joxe, I militari cileni dal legalismo alla violenza istituzionale,
in «Politica Internazionale», n.11, novembre 1973, p.49.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
controllo di un ristretto gruppo degli alti membri dell’élite
professionale. Invece la massa dei militari prima è addottrinata con i valori astratti di “Nazione”, “Ordine”, “Madre
Patria” e simili, dietro i quali sono però nascosti i reali e concreti interessi della borghesia. Tutto ciò porta a sviluppare tra
di essi differenze economiche, sociali e di prestigio, e così si
mantiene fra i militari una permanente atmosfera competitiva. Segue l’ubbidienza cieca o meccanica perché, eccettuati
i pochi che riescono ad analizzare adeguatamente le mistificazioni, tutti pensano che la fedeltà agli ordini di quelli che
stanno al vertice dell’organizzazione è per la salvaguardia
dei suddetti valori.
La forza pubblica è disciplinata. La disciplina militare,
che riguarda la struttura stessa delle Forze Armate, è l’insieme delle norme sull’ubbidienza o sull’obbligo dei militari
di eseguire gli ordini ricevuti dai propri superiori; e dipende
proprio da tale obbedienza la forza del principio gerarchico.
Le norme sull’ubbidienza militare sono contenute soprattutto nel libro del regolamento militare. Ad esempio l’articolo 6:
Il soldato deve essere cosciente che, solo compiendo esattamente il
suo dovere nel suo rango, gli può essere riconosciuta la più alta stima
dai suoi superiori; perciò deve dimostrare un grande amore per il servizio, ambizioni oneste ed un costante desiderio di essere utilizzato
in situazioni di alto rischio; deve inoltre dimostrare valore, talento,
preparazione e costanza in tempo di pace e di guerra; ed un grande
spirito di sacrificio, contrario a qualunque altra intenzione egoistica. 38
Le forme più rilevanti d’indisciplina sono la sovversione,
l’ammutinamento, la diserzione, l’omissione d’informazione
su attività sovversive e l’insubordinazione. Tali forme d’indisciplina sono considerate crimini e la loro pena massima è
la morte.
È facile avvertire che la disciplina militare, così concepita,
riduce i soldati e i sottufficiali ma anche gli ufficiali inferiori
a degli automi nelle mani dei più alti gradi militari, dei quali
già si è detto che anche in Cile erano soprattutto di estrazione
borghese e perciò a servizio del relativo ordine sociale di tipo
capitalistico.
Vi sono però l’articolo 335 e parte dell’articolo 336 del
codice di giustizia militare, che contengono delle norme apparentemente contrarie al suddetto articolo 6.
Art. 335. Se un inferiore ha ricevuto un ordine e sa che il superiore
nel dettarla non ha potuto verificare sufficientemente la situazione,
o quando gli avvenimenti hanno anticipato gli ordini, o se teme con
ragione che l’esecuzione di un ordine produce un male grave che il
superiore non ha potuto prevedere, o l’ordine tende notoriamente
all’esecuzione di un delitto, il subalterno potrà sospendere l’esecuzione dell’ordine e nel caso urgente anche modificarlo, dandone però
l’immediato resoconto al superiore. […].
Art. 336 […]. Se però il subalterno non si attiene all’ulteriore ingiunzione del superiore di eseguire l’ordine, momentaneamente sospeso
o modificato, potrà ricevere la massima reclusione militare e persino
38 Reglamento de Disciplina para las Fuerzas Armadas, n. 1445,
Santiago, 14 de diciembre de 1951, in Código de Justicia Militar, cit.,
p. 301.
la morte.39
L’articolo 335, considerato attentamente, non è contrario all’articolo 6 del regolamento militare ma lo rafforza.
Di fatto il sottoposto può momentaneamente sospendere o
modificare un ordine del superiore, solo perché si realizzi
meglio lo scopo per il quale l’ordine è stato emanato e che
circostanze concrete, sfuggite al superiore, possono impedire il conseguimento. Deve perciò avvertire al più presto il
superiore, che, di fatto, accetta la momentanea sospensione
dell’esecuzione dell’ordine impartito o la sua modificazione
solo o soprattutto in funzione dello scopo reale, che si era
prefisso nell’emanarlo. In conclusione, la disciplina delle caserme cilene è simile al funzionamento di una macchina o di
un robot. Tutti devono eseguire bene e presto qualsiasi ordine, soprattutto in circostanze difficili, al di fuori di qualsiasi
considerazione sulla sua obiettiva razionalità e del suo valore
umanamente non negativo.
La forza pubblica è obbediente. Per l’articolo 22 della
Costituzione l’aggettivo “obbediente” non si riferisce all’obbedienza automatica, propria dell’istituzione militare; ma a
quella istituzionale dei militari di grado superiore al potere
civile, perché il capo supremo costituzionale di tutti i militari è il Presidente della Repubblica, riconosciuto come “Generalissimo”. Non si tratta di un’autorità puramente decorativa o non funzionale nell’amministrazione militare. È un
potere discrezionale, del quale la Costituzione ha investito il
Presidente e che discuteremo più avanti. Qui si vuole rilevare
soltanto che, nella relazione tra potere civile e quello militare, l’obbedienza-servizio dei militari di grado superiore molto facilmente genera insoddisfazione in essi, perché possono
sentirsi minacciati dal potere del Presidente.
La forza pubblica è non deliberante.40 Questo termine
deve essere collegato a professionale e si riferisce alla “prescindenza politica” delle Forze Armate, tanto quanto istituzione che riguardo ai suoi membri soprattutto di grado superiore: è loro proibito di deliberare su qualsiasi aspetto della
società cilena.
39 Ivi, p. 112.
40 La Constitución Política actual transcribió el antiguo Art. 157 y le
dio un nuevo numero: 22. Las Actas de las Comisiones de Reforma, al
referirse a este artículo dicen escuetamente: “no dio lugar a debate; se
aprueba tal como estaba en la Constitución de 1833”. Y en esta forma los
Constituyentes de 1925 jugaron una mal pasada a los miembros de las
Fuerzas Armadas y no aclararon su verdadero sentido y alcance. La caída
de O’ Higgins; la tentativa o’ higginista de 1825; el motín de Campino;
la disolución de tres Congresos; las renuncias de Blanco y Eyzaguirre;
los motines militares por falta de pago; el hábito de cuartelazos y
pronunciamientos; todos son antecedentes concretos que indujeron a los
constituyentes de 1833 a poner fin a este estado de desintegración cívica
mediante un precepto constitucional riguroso, inflexible, lacónico: “La
Fuerza Pública es esencialmente obediente, Ningún Cuerpo Armado puede
deliberar”. Era la fórmula más positiva de terminar con este espíritu de
turbulencia; había que encauzar a las Fuerzas Armadas de esa época por un
sendero diferente; ellas debían, antes que la sociedad, conjurar el peligro
y la anarquía. Y éstos son, a mi juicio, los antecedentes que indujeron a
los constituyentes de 1833 a contemplar una disposición rígida, ajustada
a la época […]. Cfr., Capitán Fernando Montaldo Bustos, Ningún cuerpo
armado puede deliberar, «Memorial del Ejército», Julio-Agosto, 1953.
63
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
Su questo tema il comandante in capo generale Carlos
Prats entrò in una disputa pubblica con i senatori democristiani, di opposizione, circa l’integrazione di alcuni alti capi
militari imposti da gabinetti politici nel 1972.
Posteriormente e stando in esilio Prats commentò che la
tanto discussa prescindenza politica della Forze Armata cilena ha contribuito al suo isolamento dalla vita sociale e a una
concezione profondamente deformata dei problemi sociopolitici.41
Perciò nel pieno della crisi del 1972 Prats patrocina almeno l’integrazione del comandante in capo in ogni ramo del
governo. E prima di questa crisi il corpo dei generali aveva
consegnato al Presidente Allende un memorandum, che è riprodotto nel libro-memorie di Prats e dal quale traspare con
molta chiarezza il carattere nettamente politico e di natura
almeno centrista ma forse anche di destra della loro richiesta.
Essi erano in accordo con la posizione del partito Democratico Cristiano e senz’altro avrebbero costituito, con la loro presenza in seno al governo, “un gruppo di pressione politica” in
linea con gli elementi più di destra di tale partito.
Da quanto si dirà studiando il pensiero di Prats, la richiesta di partecipazione alla vita politica da parte dei generali è
disegno contrario a quanto intendeva Prats. Quest’ultimo era
per l’inserimento dei supremi comandi delle Forze Armate
nella vita politica allo scopo di un migliore sviluppo della
società cilena e quindi di tutti i suoi cittadini. L’alta ufficialità invece, pensava che con la loro presenza nel governo, si
rafforzava la pressione politica di centro e di destra.
IL PROBLEMA MILITARE CILENO
Raul Ampuero, parlando del problema militare cileno al
tempo del governo di UP 1970-73, si pone due domande:
Fu il rispetto della legalità formale, che permise alla coalizione di UP
di guadagnarsi il favore delle Forze Armate per instaurare il socialismo? O al contrario l’appoggio, che queste dettero al governo, rese
impossibili i cambiamenti rivoluzionari?42
Il presente lavoro ha cercato di rispondere nel seguente
modo alle due domande. La fedeltà formale al dettato costituzionale, secondo il quale gli alti ufficiali delle Forze Armate cilene non hanno un potere deliberante e il loro capo supremo è il Presidente della Repubblica, ebbe un’importanza
rilevante perché esse si mettessero dalla parte del Presidente
legittimamente eletto dal popolo e poi designato dal Congresso. Le Forze Armate, infatti, appoggiarono il Presidente
nella relativa azione governativa per la realizzazione del socialismo per la via pacifica; ma solo nella fase iniziale o sino
a quando la collaborazione produceva per essi miglioramen41 Cfr., Carlos Prats González, Memorias testimonio de un soldado,
Santiago, Ed. Pehuèn, 1985, pp. 580-610. Inoltre cfr., Guido Vicario (a
cura di), Il soldato di Allende. Dalle “Memorie” di Carlos Prats González,
Roma, Editori Riuniti, 1987, pp.229-233.
42 Raúl Ampuero, El poder político y las Fuerzas Armadas, Santiago,
Ed. Punto Final, 1973.p. 2
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ti economici e di potere e purché la volontà per le riforme
socialiste non avesse mai toccato i fondamenti dell’ordinamento capitalistico-borghese del Cile. In altre parole era un
assurdo storico e sociale l’idea di realizzare il socialismo, in
una società come quella cilena, con l’aiuto delle Forze Armate.
CONFERMA TEORICA
L’assunto è dimostrato anzitutto teoricamente. In tutte le
società storiche del passato, l’esercito è stato sempre lo strumento più efficace del potere di una o più classi dominanti. L’esempio più tipico possono essere gli eserciti popolari
della Rivoluzione Francese. Da quando Napoleone diventò
Primo Console, l’esercito francese combatté soprattutto per
gli interessi della classe borghese, che si stava sostituendo
all’antica nobiltà nella funzione di classe dominante.
Limitando il discorso al Cile, si può dire che né il professionalismo né la neutralità ideologica potevano impedire
che le relative Forze Armate non fossero in funzione dell’ordinamento capitalistico o per il mantenimento di un ordine
sociale, che difende e sviluppa i privilegi di una o più classi
dominanti. E conosciamo bene i relativi meccanismi.
A) La stretta dipendenza dell’individuo dall’istituzione
militare.
1) Nonostante la legislazione militare cilena preveda, come
quelle europee, il principio dell’obbedienza critica, l’imposta
abitudine ad assimilare l’ordine gerarchico genera nel soldato un meccanismo di ubbidienza automatizzata, fino a dare
alla subordinazione gerarchica un carattere quasi assoluto.
2) L’istituzione militare garantisce al soldato, che ha ubbidito agli ordini, una protezione nei confronti delle istituzioni
civili; e ciò da un lato dà sicurezza al soldato, dall’altro lo
lega irrimediabilmente a una concezione corporativa della
giustizia.
3) La formazione professionale, unilaterale ed escludente
qualsiasi utilizzazione civile, contribuisce a legare i soldati e
soprattutto gli ufficiali all’istituzione.
4) Il principio della cosiddetta neutralità ideologica, di fatto, consiste nella proibizione a deliberare. Inoltre si attua con
maggior vigore e quasi soltanto negli strati più bassi della
scala gerarchica, dove assume la funzione di barriera contro
l’eventuale contagio d’idee, soprattutto valide, che possono
mettere in crisi la cieca ubbidienza militaresca. Invece diventa sempre di più, specialmente negli alti gradi, pretesa a
un ordinamento sociale nel quale i militari, particolarmente i
più alti in grado, devono essere favoriti come e più di tutti gli
altri cittadini di pari dignità e professionalismo.
B) La fusione istituzionale con il sistema socio-politico
capitalista.
1) La Costituzione prevedeva un controllo sulle Forze Armate; ma con una serie di meccanismi si cercò sempre di
sottrarle a ogni forma di controllo democratico. A questo
scopo era funzionale la suprema ed esclusiva autorità del
Presidente sopra i corpi armati, vera e propria garanzia del
mantenimento dell’esercito al di fuori di ogni contatto con
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
le idee ed i partiti rivoluzionari; e furono proprio le Forze
Armate che eliminarono, anche fisicamente il legittimo Presidente costituzionale.
2) In tutte le norme di diritto e canoni di comportamento
ideologico, che legano l’esercito agli organi del potere, l’istituzione della “zona di emergenza” è quella che fa meglio
risaltare l’integrazione della macchina militare con il potere
civile e, in particolare,con i partiti che specificatamente lo
esercitano. Infatti, nella zona, dichiarata di emergenza, il comandante del corpo militare assume anche il potere civile.
Inoltre, mentre inizialmente tale istituzione era legata a situazioni di minaccia militare esterna o di calamità naturale,
sotto l’amministrazione democristiana fu data la facoltà al
Presidente di dichiarare una zona di emergenza per affrontare situazioni di agitazione sociale o politica. Un esempio
efficace è dato dai fatti di El Salvador, quando l’autorità del
comandante della piazza si estese fino all’interno della fabbrica Andes Copper, diventando lo strumento della direzione
della fabbrica.
3) La rigorosa stratificazione, vigente all’interno dell’esercito, durante il processo di formazione degli ufficiali è spinta
a un tal punto, che fra ufficiali e sottufficiali si forma una
vera e propria barriera quasi infrangibile.
4) La negazione del diritto di voto ai sottufficiali i quali
rimangono gli unici cileni a non poter votare, cioè a non usufruire di quel diritto di cui godono gli analfabeti, gli invalidi
e tutti i cittadini maggiori di diciotto anni.
C) Subordinazione della difesa nazionale del paese a una
concezione “emisferica”.
Questa subordinazione si manifesta attraverso i trattati,
che avevano il loro centro nei Patti di Mutuo Aiuto (PAM)
ed erano stati sottoscritti e firmati dal Cile nel 1952. Con essi
il sub-continente diventa una specie di santuario del “mondo
libero”, il cui nemico fu identificato nell’Unione Sovietica
e nel campo socialista. Inoltre il PAM aggiunge un nuovo
anello alla catena della dipendenza cilena, quello della subordinazione logistica e strategica al Pentagono, che diventa l’arbitro silenzioso dell’equilibrio del sub-continente per
mezzo della discriminata assegnazione delle risorse e degli
armamenti. Tali accordi permettono agli USA di colpire duramente ed anche direttamente i paesi soggetti a sovversione.
L’ingresso dei cileni nel sistema di difesa dell’emisfero comporta così un’adesione implicita al sistema capitalista.
Il carattere dipendente delle Forze Armate cilene al piano
imperialista, che ne deriva, è stato evidenziato dal ruolo assegnato alla marina cilena nelle manovre congiunte con gli
USA (“Unita”); infatti, è coinvolta in combattimenti contro
potenze extra continentali, nemiche degli USA, ma non “nemici naturali” dei cileni.
È vero che durante il governo di UP vi fu un’apertura tecnica verso altre esperienze istituzionali (Cuba, URSS) e una
diversificazione nell’acquisto delle armi dall’Europa; e questi fatti dettero alle Forze Armate cilene una relativa autonomia dall’America; ma contemporaneamente continuarono
tutti gli impegni che legavano l’esercito cileno al Pentagono
e all’Organizzazione degli Stati Americani.
CONFERMA STORICA
L’assunto è forse confermato con più evidenza da un insieme di fatti, che sono strettamente legati tra di loro come
effetto a causa. Sorvolando sulla precedente storia del Cile,
con l’inizio del XX Secolo la sua classe dominante era formata da un ristretto gruppo di oligarchi che, circondati da
funzionari, professionisti, commercianti e industriali piuttosto piccoli, sfruttavano la massa delle classi inferiori con gli
strumenti delle istituzioni liberali e borghesi.
Anche nel Medioevo era così. I nobili e l’alto clero si godevano la vita col lavoro delle masse dei contadini, che erano
lasciati nell’ignoranza e nella miseria.
Nel mondo moderno le masse sfruttate non sono formate
solo dai contadini ma anche e soprattutto da quelli che lavorano per la produzione industriale e per i molti e grandi
lavori pubblici; l’unità di tali masse genera in essi, prima la
coscienza di classe sfruttata e poi una lotta sociale sempre
più aspra.
Nel mondo moderno le masse popolari non possono essere
tenute nell’ignoranza e nella miseria, perché una minoranza
si goda sfacciatamente la vita, senza la decisiva efficienza
delle Forze Armate, le cui numerose truppe possono essere
solo di origine popolare. In altre parole in ogni società borghese l’eventuale ricorso alla violenza armata dell’esercito è
una necessità costituzionale.
Così nel Cile nel 1957 una rivolta generale delle bidonvilles, provocata dalla crisi che seguì alla fine del boom coreano, fu repressa dall’esercito con estrema durezza e secondo
gli osservatori stranieri i morti furono parecchie centinaia.43
Dopo tale data le Forze Armate cilene hanno sempre saputo ricordare al popolo, mediante piccoli massacri, l’esistenza
dei grandi massacri e la pesante autorità dei capi militari.
Nel Cile, quando è indetto uno sciopero generale di tipo rivendicativo per il raggiustamento dei salari o per altro simile
motivo, è proclamato automaticamente lo stato di emergenza
e l’esercito assume il comando dei carabineros e mette unità
militari in servizio di ordine pubblico; e di solito capitano
dei morti “accidentali”, perché i militari non sanno fare altro
che sparare.
Siamo al 1969. In genere i giovani ufficiali, formati negli
Usa,sono inquieti per i problemi sociali ed economici e, come
in genere gran parte della classe media, sono snazionalizzati
e hanno come ideale la vita dei borghesi degli Stati Uniti.
Perciò, con un’inflazione cronica che nel 1969 tormentava il
Cile, gli ufficiali esigono un raggiustamento degli stipendi,
superiore a quello delle altre categorie dei dipendenti dello
stato. E vogliono anche l’ammodernamento delle armi, che
sono il fondamento per uno stipendio superiore. Se non si
può dimostrare la propria efficienza armata, alla fine non si
potrà giustificare neanche uno stipendio alto.
Pertanto le Forze Armate fecero pervenire al Presidente
Frei, per via gerarchica e senza “deliberare” né riunirsi, in
43 Cfr., Alain Joxe, I militari dal legalismo alla violenza istituzionale,
Politica Internazionale, n. 11, novembre 1973, pp. 47-48.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
una maniera molto costituzionale, una serie di richieste che
riguardavano gli stipendi e gli armamenti.
Queste richieste, non soddisfatte, fecero crescere l’odio dei
militari per Frei e per la democrazia cristiana; ma soprattutto
spiegano il tacnazo o l’occupazione, sotto la direzione di un
generale messo a riposo qualche giorno prima, della propria
caserma da parte del reggimento “Tacna”.
Si ha così la prima sicura comparsa, tra gli ufficiali cileni,
di una destra che pensa soprattutto all’aumento dei privilegi
economici e sociali e forse anche al potere politico.
L’aviazione rifiutò di intervenire contro gli ammutinati e le
cosiddette “truppe fedeli” non si prestarono a dare l’assalto.
Comunque gli alti ufficiali, soddisfatte le domande riguardanti, gli stipendi e agli armamenti, accettarono la capitolazione degli ammutinati e le relative sanzioni. Subito dopo
Frei nomina alla testa dell’esercito il generale Schneider.
Dopo i militari anche i giudici reclamarono il raggiustamento dello stipendio; e i due fenomeni, uniti all’ingente
acquisto di armi moderne, dettero il via a una ripresa catastrofica dell’inflazione.
È questo il primo momento della dimostrazione storica. Ai
più alti comandi militari cileni il proprio favore a un eventuale governo di tipo socialista doveva significare soprattutto,
anche se inconsciamente, un più alto prestigio e aumentati
benefici economici.
Alle elezioni del 1970 Allende, candidato di UP, ottenne la
maggioranza relativa del 36,3% dei voti e fu designato Presidente dal Congresso dopo un negoziato con la democrazia
cristiana. Ebbe così inizio il governo di UP e il primo anno fu
un successo economico. Le tensioni sociali furono ridotte al
minimo, salvo nelle campagne,dove la riforma agraria prese
talvolta aspetti di rivoluzione agraria. L’esercito fu oggetto,
da parte del governo, di cure attente. Il potere di acquisto e
il livello di vita dei militari migliorarono a seguito del raggiustamento dello stipendio e di vantaggi in natura di ogni
sorta. Inoltre l’esercito era soddisfatto anche sotto il profilo
professionale, grazie alla continuazione del piano di acquisto di armi moderne. E vi erano per di più soddisfazioni di
amor proprio: mai sotto nessun regime, da vent’anni, i militari erano stati presi tanto in considerazione. Come esperti di
questioni di difesa partecipavano alle decisioni di sviluppo
regionale; e numerosi generali furono designati come gerenti
o rappresentanti del governo nelle industrie nazionalizzate o
sul punto di esserlo.
Quest’atteggiamento del governo verso i militari si spiega
con la necessità, in cui si trovava, di convincere le Forze Armate ad appoggiare il processo cileno di transizione pacifica
al socialismo. Infatti, tutti quelli che erano contrari alla svolta socialista, quasi dal giorno stesso della vittoria elettorale di
Allende non fecero altro che moltiplicare le iniziative perché
ciò non fosse; e col passare dei mesi la democrazia cristiana,
che si era accordata con UP perché Allende fosse designato
Presidente dal Congresso, cominciò a condizionarlo sempre
più pesantemente; quindi, collegata con la destra parlamentare, nemica di UP, mise il governo nell’impossibilità di portare avanti le riforme e persino di legiferare.
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Fu a questo punto che Allende pensò all’esercito come a un
sostituto della DC, e l’entrata del primo generale nel governo
nel 1972 permise al Presidente di continuare a governare.
Nei mesi di luglio e agosto dello stesso anno andò a vuoto
una nuova fase di negoziato con la democrazia cristiana, la
borghesia intensificò la propria azione contro il governo e la
situazione diventò sempre più difficile.
Infatti, le forze di opposizione cambiarono atteggiamento
nei confronti delle Forze Armate, e il loro scopo fu di privare
il governo dell’appoggio dei militari. Il concetto di “legalità”
e “neutralità” delle Forze Armate che animava l’opposizione,
fu spiegato in un editoriale di «El Mercurio». L’editorialista
scriveva che non bastava che le Forze Armate si limitassero
a non deliberare; questo significava, infatti, non intervenire
in politica, sino a quando non era ben chiaro che lo spirito
di lealtà alla Costituzione non era usato in modo che esse
rimanessero inerti mentre si violavano i principi della Costituzione.
La Semana Política
La Doctrina del Ejército
El artículo comenta la petición de retiro del general Alfredo Canales
Márquez, solicitado por el comandante en jefe del Ejército, general
Carlos Prats González. El general Canales se desempeñaba como
director de instrucción del Ejército, y se dijo que se le solicitaba la
renuncia «por convenir al interés institucional». El general Canales
señala que la petición se debe a una conversación sostenida con el
contraalmirante Horacio Justiniano, en que manifestó su inquietud
por la situación del país.
Un escueto comunicado del Ejército informó oficialmente que el comandante en jefe, general don Carlos Prats González, pidió al Gobierno el retiro del general de brigada don Alfredo Canales Márquez, «por
convenir al interés institucional». La medida tuvo inevitable trascendencia política tanto porque se la vinculaba a las especulaciones en
torno a un «Plan Septiembre», denunciado por el Gobierno, como porque esta decisión no está dentro del mecanismo eliminatorio normal
de los institutos armados. Además, el separar a un general diciendo
que ello conviene al «interés institucional» implica dejar al afectado
en una situación pública controvertible. El general Canales, por su
parte, sintiéndose autorizado para explicar a sus conciudadanos y a
sus compañeros de armas las causas de su separación del Ejército, y
obrando en defensa de su honor militar, formuló declaraciones públicas severas. Explicó el general que se había pedido su retiro teniendo
sólo a la vista una relación escrita del señor almirante don Horacio
Justiniano, que le fue remitida al general Prats por el Comandante en
Jefe de la Armada, almirante don Raúl Montero Cornejo, relación que
daba cuenta de una conversación sostenida por el general Canales con
el almirante Justiniano en que el primero había manifestado opiniones
políticas. El general rechazó en forma terminante los cargos y el procedimiento que se emplearon para su retiro.
Cualquiera que sea el juicio definitivo que el país se forme de esta
incidencia militar, debe lamentarse desde luego que ella se hubiera
prestado de algún modo para hacer surgir resquemores o sospechas
entre dos ramas de la Defensa Nacional. A no dudarlo, hay en los
partidos marxistas que gobiernan la intención próxima o remota de
cambiar al Ejército profesional y a las demás instituciones armadas de
la República por otra que está en consonancia con los principios de la
revolución marxista-leninista y que históricamente ha sido uno de los
pasos fundamentales para consolidar todos los regímenes comunistas
del mundo. No puede pretender Chile ser una excepción en esta materia, si, como dicen los comunistas, el proceso chileno está sometido
como los demás a las leyes generales del socialismo.
Nuestras Fuerzas Armadas tienen pues enemigos muy poderosos, y
cualquier tentativa de desunirlas o de abrir paso a incomprensiones
entre ellas favorece a tales enemigos.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
La introducción de posibles malas interpretaciones en los mandos medios de alguna rama castrense respecto de otras, o el empleo de medidas para alejar progresivamente de las filas a los jefes y oficiales que
se mantienen en la verdadera doctrina de nuestra Defensa Nacional
serían recursos extraordinariamente perjudiciales para los institutos
armados y para la propia seguridad del país. Corresponde, sin duda,
a la superioridad del Ejército calificar las elevadas razones que le han
dado motivo para provocar el retiro del general Canales, pero la opinión pública está cierta de que tal determinación obedece a la llamada
doctrina del Ejército, expuesta públicamente ante la ciudadanía, en su
tiempo, por el general Schneider y, con ocasión de las Fiestas Patrias,
en forma reiterada por el general Prats. No debe llamar la atención
que este tema profesional castrense adquiera jerarquía política. Ello se
debe a que la revolución que desenvuelve el Gobierno del Presidente
Allende toca puntos esenciales para la vida de la República y, en estos
instantes, parece estar poniendo en juego nada menos que el criterio
constitucionalista que ha de imperar en nuestros hombres de armas.
Un problema de esta especie rebasa el marco de las instituciones a las
cuales afecta. El principio constitucional que rige la conducta de las
Fuerzas Armadas es que ellas son esencialmente obedientes y que no
pueden deliberar. Esto significa que deben cumplir con fidelidad las
instrucciones de sus superiores jerárquicos en la esfera en que éstos
son competentes y que no pueden intervenir en el juego de la política
contingente. Mientras las acciones de un Gobierno han quedado libres
de todo reproche de inconstitucionalidad, la obediencia y la prescindencia profesional de la política no presentan problemas ni en la teoría
ni en la práctica para los institutos armados. Las dificultades nacen
cuando hay riesgos de que la Constitución quede sobrepasada, ya sea
por acciones individuales del gobernante, ya sea por la virulencia de
un proceso, revolucionario que tiende precisamente a destruir el orden actual. Rige en este segundo caso la doctrina constitucionalista
de obediencia y no deliberación del Ejército y con mayor vigor que
nunca, a condición de que no se confunda la verdadera doctrina del
Ejército con la falta de personalidad en el mando y con la sumisión
indiscriminada a las posibles arbitrariedades que provengan del Gobierno.
La doctrina del Ejército exige lealtad a la Constitución y al país, más
que a hombres, a regímenes o a gobiernos. Estos últimos pasan, en
tanto que las instituciones armadas están al servicio de valores permanentes. Por hondos que sean los cambios en la sociedad y en las
propias instituciones castrenses, conforme a las exigencias de los
tiempos, regir. siempre la defensa de la patria, concebida como una
totalidad, instalada sobre un territorio, constituida en nación y dueña
de un destino que cumplir en el concierto de los pueblos.
Según esto, no corresponde a un concepto constitucional y profesional
del Ejército aquella política que emplee los llamados resquicios legales o los ardides reglamentarios para transformar a la institución en
otra cosa que lo que ella es y debe ser en concepto de la Constitución
Política del Estado y de las demás leyes y principios fundamentales
de la República.
Así como no puede ser válida una interpretación de la norma constitucional que destruya a la Constitución misma, tampoco puede ser
válida una interpretación de la doctrina del Ejército que haga posible
la destrucción de éste. Los principios constitucionales que gobiernan
la conducta leal del Ejército parten del supuesto evidente de que tales
principios exigen la existencia misma del Ejército, de modo tal que
jamás podrán interpretarse en forma que contraríen a la misión específica, a la naturaleza jerárquica y disciplinada o a la unidad fundamental de la institución. Y lo que decimos del Ejército parece aplicable a
la Armada Nacional y la Fuerza Aérea, así como a las tres ramas de
la Defensa Nacional consideradas como un dispositivo de seguridad
integrado y verdaderamente funcional.
Forzoso es llegar entonces a la conclusión de que cualquier medida
conducente a transformar en órganos políticos a las instituciones que
la Carta Fundamental describe como «esencialmente profesionales»
o que, aspirando a una supuesta democratización, desnaturalice su
carácter de «jerarquizadas», de «disciplinadas» y de «obedientes» es
contraria a la auténtica doctrina Schneider que tanto ha proclamado el
actual Gobierno.
No basta entonces que las Fuerzas Armadas se limiten a no deliberar,
esto es a no intervenir en política contingente, sino que es preciso que
su espíritu de lealtad a la Constitución no sea utilizado para que se
mantengan inertes mientras se violan los demás principios de la Carta
Fundamental relativos a la naturaleza de tales fuerzas, a su misión y a
su eficacia defensiva.
Papel actual de las fuerzas armadas
Durante muchos años estas columnas insisten en la necesidad de que
las Fuerzas Armadas, así como otros institutos y servicios que satisfacen necesidades permanentes y esenciales del Estado, tuvieran el
trato que corresponde a su alta jerarquía. En concreto, la seguridad
nacional, la administración de justicia y el magisterio parecen dignas
de especial trato para el buen desempeño de las respectivas funciones y para que puedan constituirse en expectativas atrayentes para la
juventud. Por desgracia, el interés de los Gobiernos por sus propios
programas económicos o sociales postergó muchas veces las aspiraciones legítimas de los servicios e institutos básicos del Estado. En lo
que concierne a las Fuerzas Armadas, justo es reconocer que este Gobierno adoptó una política de mayor atención hacia las más urgentes
necesidades de aquellas instituciones.
Lo cierto es que este nuevo trato a las ramas castrenses del Estado ha
permitido que los hombres de armas recuperen poco a poco la posición que antes tenían en la sociedad chilena, superando así un estado
de relativa postergación que fue posible merced a que nunca se esclareció hasta dónde llegaba la obediencia constitucional de las Fuerzas Armadas y hasta dónde la paciencia para soportar con heroísmo
riesgos graves de paulatino deterioro profesional por falta de medios
indispensables. La expectación suscitada por el retiro forzoso del general Canales no habría tenido lugar si los militares se mantuvieran en
el antiguo plano relegado. Por el contrario, es la importancia adquirida
por las Fuerzas Armadas lo que da singular relieve a la referida decisión del comandante en jefe del Ejército. Mientras las Fuerzas Armadas se mantengan como «instituciones esencialmente profesionales,
jerarquizadas, disciplinadas, obedientes y no deliberantes», como lo
establece la Constitución, su papel será cada vez más prestigioso y
decisivo en la convivencia chilena. No son los militares, los marinos
y los aviadores quienes han ambicionado o impuesto ese nuevo papel.
Son más bien los hechos la causa determinante de dicha situación.
Tanto el Gobierno como los opositores rodean a las Fuerzas Armadas
de creciente consideración. Día a día se abren nuevas oportunidades
para que los miembros de aquéllas reciban más estrechos contactos
con la organización productiva estratégica del país y logren un conocimiento más acabado de los problemas políticos, sociales y económicos que se relacionan directa o indirectamente con el gran tema de
la seguridad nacional. Mientras las condiciones de nuestra economía
no sigan el curso de una inflación galopante y de una crisis grave
de divisas, que hoy caracterizan al país, las necesidades de equipo e
instalaciones así como las rentas del personal pueden ser atendidas en
forma correspondiente a la alta misión de las Fuerzas Armadas.
Este proceso de verdadera reivindicación del papel de las Fuerzas Armadas es saludable para el país y beneficioso profesionalmente para
dichas instituciones. Si las ramas de la Defensa Nacional conservan
su integridad, su naturaleza, su unidad y su función específicamente
castrense e intactos los caracteres que la Constitución y las leyes les
fijan, podrá llegar el caso en que sean ellas el único o acaso el único
ejemplo de intachable constitucionalidad mientras un fermento corrosivo continúe debilitando las bases chilenas.44
Allora Allende pensò di porre fine alla crisi, facendo entrare diversi generali nel governo e affidando loro posti importanti; ma gli ufficiali di grado superiore, che non volevano
saperne di adesione neppure alla linea moderata di UP, erano
sufficientemente numerosi e stavano al gioco solo apparentemente.
A marzo del 1973 le elezioni legislative furono un successo per i partiti di UP. Ottennero, infatti, il 44% dei voti e non
era escluso che alle successive potessero arrivare al 50%.
Pertanto dopo le elezioni di marzo il solo strumento, per
impedire la riforma socialista dell’ordinamento sociale ed
economico, era il colpo di stato militare. Un primo tentativo
44 Articolo pubblicato sulla rivista «El Mercurio» il 24 settembre 1972.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
fallì il 29 giugno; ma nello stesso tempo i generali, che erano
ancora per il colpo di stato, fecero il censimento dei capi e
delle unità fedeli al governo; e i mesi successivi vide la loro
sistematica repressione all’interno dell’istituzione militare.
In precedenza, nell’ottobre del 1972 il Congresso aveva
votato una legge, che fu promulgata per un’inspiegabile negligenza dell’esecutivo, che poteva porre il veto. La legge
dava alle Forze Armate poteri d’inchiesta e di perquisizioni
esorbitanti e il diritto di avocare davanti a tribunali militari
tutte le cause concernenti detenzioni di armi, da quelle di
guerra a quelle “bianche”. La legge, che poteva essere usata
perché i militari reprimessero le milizie armate organizzate
dalla destra, sino al 29 giugno del 1973 restò lettera morta;
invece dopo e soprattutto da agosto in poi la misero in opera.
In questo modo gli alti ufficiali, che si preparavano al colpo di stato, a cominciare da agosto agirono su due fronti: da
un lato con l’epurazione di elementi, della marina e dell’aviazione, vicini al governo, dall’altro lato con un’attenta perquisizione all’interno delle imprese sia pubbliche sia private
con grande spiegamento di reparti delle Forze Armate usando una violenza e torture inaudite nei confronti dei contadini
nelle regioni dove la riforma agraria aveva preso un andamento più rivoluzionario.
Alla fine di agosto i generali, riuniti in assemblea, votarono contro il mantenimento a capo dell’esercito di Prats, che
intendeva restare fedele al governo costituzionale. Prats dette
le dimissioni e gli successe Pinochet.45
In questo modo i fatti di agosto del 1973 dimostrarono che
l’esercito stava ritrovando la sua unità intorno al nucleo politico di destra, che non era alla sommità del comando ma che
deteneva il potere reale; e col colpo di stato dell’11 settembre
sarebbe stata eliminata tutta l’opposizione costituzionalistica
dell’esercito. In altre parole i fatti di agosto rilevarono molto
bene l’autentica anima delle Forze Armate cilene, che non
potevano essere qualitativamente diverse da quella di ogni
esercito borghese: i militari a servizio di un’oligarchia soprattutto economica o di un ristretto gruppo d’individui, che
vogliono moltiplicare ricchezze e privilegi in modo dinamico e selvaggio; ma con la pretesa più o meno esplicita che
essi, gli alti comandi militari, sono la punta di diamante di
tutti i privilegiati e del relativo ordinamento sociale, economico e politico; e perciò essi, gli alti comandi militari, sono
per diritto i massimi fruitori dei privilegi economici e sociali.
LA LEGITTIMAZIONE DEL GOLPE
Sulla scena politica la coalizione di UP subì una sconfitta
nel Congresso Nazionale da parte dell’opposizione. Fu approvata una mozione che dichiarava “illegale” il governo di
Allende.
Acuerdo adoptado por la H. Cámara de diputados, el día 23 de agosto
de 1973, y dirigido a
S. E. el Presidente de la Republica.
45 Cfr., Alain Joxe, I militari dal legalismo alla violenza istituzionale,
cit., p. 53.
68
La Cámara de Diputados aprueba un proyecto de acuerdo que declara que el Presidente Allende ha quebrantado gravemente la Constitución.
Santiago, 23 de agosto de 1973.
A S. E. EL PRESIDENTE DE LA REPUBLICA.
Tengo a honra poner en conocimiento de V. E. que la Cámara de Diputados ha tenido a bien prestar su aprobación al siguiente Acuerdo:
«Considerando:
1°. Que es condición esencial para la existencia de un Estado de Derecho, que los Poderes Públicos, con pleno respeto al principio de
independencia reciproca que los rige, encuadren su acción y ejerzan
sus atribuciones dentro de los marcos que la Constitución y la ley les
señalan, y que todos los habitantes del país puedan disfrutar de las
garantías y derechos fundamentales que les asegura la Constitución
política del Estado;
2°. Que la juridicidad del Estado chileno es patrimonio del pueblo que
en el curso de los años ha ido plasmando en ella el consenso fundamental para su convivencia y atentar contra ella es, pues, destruir no
sólo el patrimonio cultural y moral de nuestra nación sino que negar,
en la práctica, toda posibilidad de vida democrática;
3°. Que son estos valores y principios los que se expresan en la Constitución Política del Estado que, de acuerdo a su artículo 2°., señala que
la soberanía reside esencialmente en la nación y que las autoridades
no pueden ejercer más poderes que los que ésta les delegue y, en el
articulo 3°., se deduce que un Gobierno que se arrogue derechos que
el pueblo no le ha delegado, incurre en sedición;
4°. Que el actual Presidente de la República fue elegido por el Congreso Pleno, previo acuerdo en torno a un estatuto de garantías democráticas incorporado a la Constitución política, el que tuvo como
preciso objeto asegurar el sometimiento de la acción de su Gobierno a
los principios y normas del Estado de Derecho, que .l solemnemente
se comprometió a respetar;
5°. Que es un hecho que el actual Gobierno de la República, desde sus
inicios, se ha ido empeñando en conquistar el poder total, con el evidente propósito de someter a todas las personas al más estricto control
económico y político por parte del Estado y lograr de ese modo la instauración de un sistema totalitario, absolutamente opuesto al sistema
democrático representativo que la Constitución establece;
6°. Que, para lograr ese fin, el Gobierno no ha incurrido en violaciones aisladas de la Constitución y de la ley, sino que ha hecho de
ellas un sistema permanente de conducta, llegando a los extremos de
desconocer y atropellar sistemáticamente las atribuciones de los demás Poderes del Estado, violando habitualmente las garantías que la
Constitución asegura a todos los habitantes de la República, y permitiendo y amparando la creación de poderes paralelos, ilegítimos, que
constituyen un gravísimo peligro para la nación, con todo lo cual ha
destruido elementos esenciales de la institucionalidad y del Estado de
Derecho;
7°. Que, en lo concerniente a las atribuciones del Congreso Nacional,
depositario del Poder Legislativo, el Gobierno ha incurrido en los siguientes atropellos:
a) Ha usurpado al Congreso su principal función, que es la de legislar, al adoptar una serie de medidas de gran importancia para la vida
económica y social del país, que son indiscutiblemente materia de ley,
por decretos de insistencia dictados abusivamente o por simples resoluciones administrativas fundadas en «resquicios legales», siendo de
notar que todo ello se ha hecho con el propósito deliberado y confeso
de cambiar las estructuras del país, reconocidas por la legislación vigente, por la sola voluntad del Ejecutivo y con prescindencia absoluta
de la voluntad del legislador;
b) Ha burlado permanentemente las funciones fiscalizadoras del Congreso Nacional al privar de todo efecto real a la atribución que a éste le
compete para destituir a los Ministros de Estado que violan la Constitución o la ley o cometen otros delitos o abusos señalados en la Carta
Fundamental, y
c) Por último, lo que tiene la más extraordinaria gravedad, ha hecho
«tabla rasa» de la alta función que el Congreso tiene como Poder
Constituyente, al negarse a promulgar la reforma constitucional sobre
las tres .reas de la economía, que ha sido aprobada con estricta sujeción a las normas que para ese efecto establece la Carta Fundamental;
8°. Que, en lo que concierne al Poder Judicial, ha incurrido en los
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
siguientes desmanes:
a) Con el propósito de minar la autoridad de la magistratura y de doblegar su independencia, ha capitaneado una infamante campaña de
injurias y calumnias contra la Excma. Corte Suprema y ha amparado
graves atropellos de hecho contra las personas y atribuciones de los
jueces;
b) Ha burlado la acción de la justicia en los casos de delincuentes que
pertenecen a partidos y grupos integrantes o afines del Gobierno, ya
sea mediante el ejercicio abusivo del indulto o mediante el incumplimiento deliberado de órdenes de detención;
c) Ha violado leyes expresas y ha hecho «tabla rasa» del principio
de separación de los Poderes, dejando sin aplicación las sentencias o
resoluciones judiciales contrarias a sus designios y, frente a las denuncias que al respecto ha formulado la Excma. Corte Suprema, el Presidente de la República ha llegado al extremo inaudito de arrogarse en
tesis el derecho de hacer un «juicio de méritos» a los fallos judiciales,
determinando cuándo éstos deben ser cumplidos;
9°. Que, en lo que se refiere a la Contraloría General de la República
─ un organismo autónomo esencial para el mantenimiento de la juridicidad administrativa ─ el Gobierno ha violado sistemáticamente los
dictámenes y actuaciones destinados a representar la ilegalidad de los
actos del Ejecutivo o de entidades dependientes de él;
10°. Que entre los constantes atropellos del Gobierno a las garantías y
derechos fundamentales establecidos en la Constitución, pueden destacarse los siguientes:
a) Ha violado el principio de igualdad ante la ley, mediante discriminaciones sectarias y odiosas en la protección que la autoridad debe
prestar a las personas, los derechos y los bienes de todos los habitantes
de la República, en el ejercicio de las facultades que dicen relación
con la alimentación y subsistencia, y en numerosos otros aspectos,
siendo de notar que el propio Presidente de la República ha erigido
estas discriminaciones en norma fundamental de su Gobierno, al proclamar desde el principio que .l no se considera Presidente de todos
los chilenos;
b) Ha atentado gravemente contra la libertad de expresión, ejerciendo toda clase de presiones económicas contra los órganos de difusión que no son incondicionales adeptos del Gobierno; clausurando
ilegalmente diarios y radios; imponiendo a estas últimas «cadenas»
ilegales; encarcelando inconstitucionalmente a periodistas de oposición; recurriendo a maniobras arteras para adquirir el monopolio del
papel de imprenta, y violando abiertamente las disposiciones legales
a que debe sujetarse el Canal Nacional de Televisión, al entregarlo
a la dirección superior de un funcionario que no ha sido nombrado
con acuerdo del Senado como lo exige la ley, y al convertirlo en instrumento de propaganda sectaria y de difamación de los adversarios
políticos;
c) Ha violado el principio de autónoma universitaria y el derecho que
la Constitución reconoce a las Universidades para establecer y mantener estaciones de televisión, al amparar la usurpación del Canal 9 de la
Universidad de Chile, al atentar por la violencia y las detenciones ilegales contra el nuevo Canal 6 de esa Universidad, y al obstaculizar la
extensión a provincias del Canal de la Universidad Católica de Chile;
d) Ha estorbado, impedido y, a veces, reprimido con violencia el ejercicio del derecho de reunión por parte de los ciudadanos que no son
adictos al régimen, mientras ha permitido constantemente que grupos
a menudo armados se reúnan sin sujeción a los reglamentos pertinentes y se apoderen de calles y camiones para amedrentar a la población;
e) Ha atentado contra la libertad de enseñanza, poniendo en aplicación
en forma ilegal y subrepticia, a través del llamado Decreto de Democratización de la Enseñanza, un plan educacional que persigue como
finalidad la concientización marxista;
f) Ha violado sistemáticamente la garantía constitucional del derecho
de propiedad, al permitir y amparar más de 1.500 «tomas» ilegales de
predios agrícolas, y al promover centenares de «tomas» de establecimientos industriales y comerciales para luego requisarlos o intervenirlos ilegalmente y constituir as., por la vía del despojo, el .rea estatal
de la economía; sistema que ha sido una de las causas determinantes
de la insólita disminución de la producción, del desabastecimiento,
el mercado negro y el alza asfixiante del costo de la vida, de la ruina
del erario nacional y, en general, de la crisis económica que azota al
país y que amenaza el bienestar mínimo de los hogares y compromete
gravemente la seguridad nacional;
g) Ha incurrido en frecuentes detenciones ilegales por motivos polí-
ticos, además de las ya señaladas con respecto a los periodistas, y ha
tolerado que las víctimas sean sometidas en muchos casos a flagelaciones y torturas;
h) Ha desconocido los derechos de los trabajadores y de sus organizaciones sindicales o gremiales, sometiéndolos, como en el caso de El
Teniente o de los transportistas, a medios ilegales de represión;
i) Ha roto compromisos contraídos para hacer justicia con trabajadores injustamente perseguidos como los de Sumar, Helvetia, Banco Central, El Teniente y Chuquicamata; ha seguido una arbitraria
política de imposición de las haciendas estatales a los campesinos,
contraviniendo expresamente la Ley de Reforma Agraria; ha negado la participación real de los trabajadores de acuerdo a la Reforma
Constitucional que les reconoce dicho derecho; ha impulsado el fin de
la libertad sindical mediante el paralelismo político en las organizaciones de los trabajadores;
j) Ha infringido gravemente la garantía constitucional que permite
salir del país, estableciendo para ello requisitos que ninguna ley contempla;
11°. Que contribuye poderosamente a la quiebra del Estado de Derecho, la formación y mantenimiento, bajo el estimulo y la protección
del Gobierno, de una serie de organismos que son sediciosos porque
ejercen una autoridad que ni la Constitución ni la ley les otorgan, con
manifiesta violación de lo dispuesto en el artículo 10, N° 16 de la
Carta Fundamental, como por ejemplo, los Comandos Comunales,
los Consejos Campesinos, los Comités de Vigilancia, las JAP, etc.;
destinados todos a crear el mal llamado «Poder Popular», cuyo fin es
sustituir a los Poderes legítimamente constituidos y servir de base a la
dictadura totalitaria, hechos que han sido públicamente reconocidos
por el Presidente de la República en su último Mensaje Presidencial y
por todos los teóricos y medios de comunicación oficialistas;
12°. Que en la quiebra del Estado de Derecho tiene especial gravedad
la formación y desarrollo, bajo el amparo del Gobierno, de grupos
armados que, además de atentar contra la seguridad de las personas y
sus derechos y contra la paz interna de la Nación, están destinados a
enfrentarse contra las Fuerzas Armadas, como también tiene especial
gravedad el que se impida al Cuerpo de Carabineros ejercer sus importantísimas funciones frente a las asonadas delictuosas perpetradas
por grupos violentistas afectos al Gobierno. No pueden silenciarse,
por su alta gravedad, los públicos y notorios intentos de utilizar a las
Fuerzas Armadas y al Cuerpo de Carabineros con fines partidistas,
quebrantar su jerarquía institucional e infiltrar políticamente sus cuadros;
13°. Que al constituirse el actual Ministerio, con participación de altos
miembros de las Fuerzas Armadas y del Cuerpo de Carabineros, el
Excmo. señor Presidente de la República lo denominó. «de seguridad nacional» y le señaló como tareas fundamentales las de «imponer
el orden político» e «imponer el orden económico», lo que sólo es
concebible sobre la base del pleno restablecimiento y vigencia de las
normas constitucionales y legales que configuran el orden institucional de la República;
14°. Que las Fuerzas Armadas y el Cuerpo de Carabineros son y deben ser, por su propia naturaleza, garantía para todos los chilenos y no
sólo para un sector de la Nación o para una combinación política. Por
consiguiente, su presencia en el Gobierno no puede prestarse para que
cubran con su aval determinada política partidista y minoritaria, sino
que debe encaminarse a restablecer las condiciones de pleno imperio
de la Constitución y las leyes y de convivencia democrática indispensables para garantizar a Chile su estabilidad institucional, paz civil,
seguridad y desarrollo;
15°. Por último, en el ejercicio de las atribuciones que le confiere el
articulo 39 de la Constitución Política del Estado,
La Cámara de Diputados acuerda:
PRIMERO. ─ Representar a S. E. el Presidente de la República y a los
señores Ministros de Estado miembros de las Fuerzas Armadas y del
Cuerpo de Carabineros, el grave quebrantamiento del orden constitucional y legal de la República que entraña los hechos y circunstancias
referidos en los considerándoos N° 5° a 12 precedentes;
SEGUNDO. ─ Representarles, asimismo, que, en razón de sus funciones, del juramento de fidelidad a la Constitución y a las leyes que han
prestado y, en el caso de dichos señores Ministros, de la naturaleza de
las instituciones de las cuales son altos miembros y cuyo nombre se
ha invocado para incorporarlos al Ministerio, les corresponde poner
inmediato término a todas las situaciones de hecho referidas, que in69
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
fringen la Constitución y las leyes, con el fin de encauzar la acción gubernativa por las vías del Derecho y asegurar el orden constitucional
de nuestra patria y las bases esenciales de convivencia democrática
entre los chilenos;
TERCERO. ─ Declarar que, si así se hiciere, la presencia de dichos
señores Ministros en el Gobierno importaría un valioso servicio a la
República. En caso contrario, comprometerán gravemente el carácter nacional y profesional de las Fuerzas Armadas y del Cuerpo de
Carabineros, con abierta infracción a lo dispuesto en el artículo 22
de la Constitución Política y con grave deterioro de su prestigio institucional, y
CUARTO. ─ Transmitir este acuerdo a S. E. el Presidente de la República y a los señores Ministros de Hacienda, Defensa Nacional, Obras
Públicas y Transportes y Tierras y Colonización».
Dios guarde a V. E.
Luis Pareto González (Presidente), Raúl Guerrero Guerrero (Secretario).46
Dopo la presentazione della mozione, i militari presenti
nel governo si affrettarono a fare la seguente dichiarazione
che fu pubblicata dalla stampa:
I ministri militari, conforme alla risoluzione approvata, autorizzati dal
loro giuramento di fedeltà alla Costituzione, porranno fine a tutte le situazioni che infrangono la Costituzione e la legge; guideranno le azioni governative in modo coerente con la legge, e assicureranno l’ordine
costituzionale. D’altronde, il carattere nazionale e professionale delle
Forze Armate sarebbe messo in pericolo seriamente con un’aperta infrazione della Costituzione.47
Questa mozione, una chiara “messa in piazza” del ruolo
dei militari e dei loro doveri, in realtà mancava di validità
giuridica. Dimostrava però tutto il suo peso politico e persuasivo. Il potere legale dichiarava che il potere esecutivo era
46 Cfr., AA.VV., Antecedentes Histórico-Jurídicos Años 1972-1973,
Santiago, Editorial Jurídica de Chile, 1980, pp. 143-148.
47 Dichiarazione contenuta in un articolo della rivista «El Mercurio»
del 24 agosto del 1973. Nello stesso articolo fu pubblicata anche una
dichiarazione di UP: «Declaracion UP. El comité ejecutivo de la Unidad
Popular emitió el siguiente comunicado: Compañeros: La obcecación de
la oposición ha llegado al límite más peligroso de estos últimos tiempos.
En ese objetivo deben entenderse el acuerdo irracional, sin destino
jurídico e inconstitucional de la mayoría de la Cámara de Diputados y
la embestida contra las Fuerzas Armadas, especialmente canallesca en el
caso del ataque al hogar y la persona del ministro de Defensa, general
Carlos Prats. La dirección nacional de la Unidad Popular, declarada en
estado de emergencia y de reunión permanente, ha decidido ordenar a
sus organismos y militantes a lo largo de todo el país lo siguiente: 1.Todas las directivas provinciales y comunales de la Unidad Popular y
sus bases deben constituirse en sesión permanente, cualquiera que sea el
estado de los actos o conflictos provocados por las fuerzas reaccionarias
para intentar, una vez más, el derrocamiento del Gobierno Popular.
2.- Respecto de la clase trabajadora y sus tareas, este comité ejecutivo
respalda en todas sus partes y hace suyo el instructivo general emitido por
la Central Única de Trabajadores y declara que ese organismo será el que
mantenga la conducción de la clase en su lucha por la defensa del Gobierno
constitucional. 3.- La gravedad extrema del momento que vive Chile exige
la mayor y más férrea unidad de los partidos populares. 4.- Formulamos un
llamado a todos los sectores que se opongan al enfrentamiento sangriento
entre chilenos, a unirse en torno a la defensa del Gobierno legítimo 5.Todos nuestros militantes y simpatizantes deben colaborar y cumplir sin
pausa con las tareas de vigilancia, trabajo voluntario y en las labores de
abastecimiento y movilización que realicen y planteen las autoridades
de Gobierno para que el país mantenga su marcha incontenible hacia un
destino superior. Los obreros, empleados, campesinos, profesionales y
técnicos, juventudes, hombres y mujeres de todos los sectores patrióticos
responderán con su fuerza al desafío criminal del golpismo y lo aplastarán
definitivamente. ¡Unidad y combate, venceremos! Comité Ejecutivo
Nacional Unidad Popular».
70
illegale, e così obbligava i generali-ministri, parte integrante
dell’esecutivo, a scegliere la legalità parlamentare o l’illegalità governativa. Ovviamente, la risoluzione di tale dilemma
non fu difficile per quei generali che già sostenevano posizioni contro la coalizione di UP. Nei restanti giorni di agosto
del 1973, aumentò la tensione nei circoli militari.
Il 24 agosto si dimisero il generale Guillermo Pickering,
comandante degli istituti militari, e il generale Mario Sepùlveda, comandante della seconda divisione dell’esercito, di
istanza a Santiago. Furono rimpiazzati rispettivamente dai
generali Sergio Arellano Stark e Herman Brady, conosciuti
entrambi come simpatizzanti della DC e fautori del golpe di
settembre. Invece i due generali uscenti erano, anche se tacitamente della stessa linea politica di Prats.
Il 28 agosto chiese le dimissioni dal governo anche all’ammiraglio Raùl Montero, Ministro delle Finanze, che tornò al
suo posto di Comandante della Marina; questo perché Allende non aveva fiducia nel comandante supplente, vice-ammiraglio Toribio Merino.
Immediatamente si formò un nuovo gabinetto politico, ma
ci fu solo l’inclusione del comandante in capo dei Carabineros. L’intento era di mantenere la stabilità istituzionale intorno ai leader del momento.
Caras nuevas, cambios y enroques:
¡El nuevo gabinete!
A raíz de las renuncias de ministros militares, se forma un nuevo gabinete, en el que participan el contraalmirante Daniel Arellano y el
general de división Rolando González.
Los ministros debutantes en el Gabinete del Presidente Allende son
solamente tres: el contraalmirante Daniel Arellano, quien asumió la
cartera de Hacienda en reemplazo del almirante Raúl Montero, y el
general de división, Rolando González, quien se desempeñará como
ministro de Minería en lugar del ingeniero Pedro Felipe Ramírez, y el
doctor Mario Lagos, que reemplaza al doctor Jirón. El contraalmirante
Arellano ha cumplido una brillante carrera en las filas de la Armada Nacional, siendo jefe de la Primera Zona Naval. Por su parte, el
general González es especialista en Geología y Geodesia, disciplinas
íntimamente relacionadas con la cartera que desempeñará. El doctor
Lagos es profesor universitario y especialista en cirugía del tórax.
Volvió «pinocho»
Al Ministerio del Interior regresó el ex ministro Carlos «Pinocho»
Briones. Su nombramiento fue hecho en carácter de independiente de
izquierda y como señaló expresamente el Presidente, «lo nombraba de
acuerdo a sus prerrogativas constitucionales».
Otros cambios
«Fanta» Letelier, que dejó la Secretaría del Interior, asumió la Cartera
de Defensa, reemplazando al general Carlos Prats. Pedro Felipe Ramírez pasó de Minería a Vivienda, mientras el resto del equipo ministerial quedaba «igual pascual».
Los que se fueron
Además del general Prats y el almirante Montero, cuyas renuncias ya
se conocían, dejaron el gabinete los ex ministros de Salud, Dr. Arturo
Jirón y el «Pibe» Palma, que desde su puesto de ministro de Vivienda
pasará a colaborar directamente con el Presidente en otro cargo de alta
responsabilidad. Y así se cumplió la reestructuración del gabinete.48
Il direttore generale dei Carabineros, Josè Maria Sepùlveda, fu nominato Ministro dell’Agricoltura; il controammiraglio Daniel Arellano alle finanze, sostituendo Montero; il
48 Articolo pubblicato sul diario «Clarín» il 29 agosto del 1973.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
generale di divisione Rolando Gonzales alle miniere; il generale di brigata Humberto Magliochetti ai trasporti e opere
pubbliche. A sua volta Orlando Letelier rimpiazzò il generale Prats al Ministero della Difesa.
Queste nomine provocarono uno scandalo sulla stampa
di opposizione al governo, che fece sentire la sua voce con
diversi articoli come ad esempio: “Infiltrazioni marxiste nei
carabineros”, ecc…
La situazione nella marina era lontana dall’essere stabile. Il
7 agosto, quando la stampa d’opposizione denunciò “attività
sovversiva di sinistra tra i marinai e i lavoratori portuali”,
tre politici, Garreton (MAPU), Atamirano (PS) ed Enriquez
(MIR), s’interessarono della faccenda, soprattutto perché i
lavoratori e i marinai erano stati accusati di sedizione e posti
sotto la legge di sicurezza interna dello stato. Allende stesso
approvò l’applicazione della legge.
ACCION DE EXTREMISTAS
Armada detecto movimiento subversivo en dos unidades
La oficina de Relaciones Públicas de la Armada comunicó de manera
oficial la detección de un movimiento subversivo en dos unidades de
la Escuadra, apoyado por elementos ajenos a la Institución.
La Comandancia en Jefe de la Armada, a través de la oficina de Relaciones Publicas, informó oficialmente ayer tarde que «en los últimos días de la semana pasada» fue detectada la gestación de un movimiento subversivo en dos unidades de la Escuadra, «apoyado por
elementos extremistas ajenos a la institución». La declaración expresa
textualmente: «En los últimos días de la semana pasada fue detectada por los Servicios de Inteligencia de la Armada la gestación de
un movimiento subversivo en dos unidades de la Escuadra, apoyado
por elementos extremistas ajenos a la institución. De inmediato se
procedió a la substanciación de un sumario interno que ha permitido
individualizar y detener a varios tripulantes, presumiblemente comprometidos. En el citado proceso que se instruye se han formulado
cargos por faltas graves a la disciplina y a las disposiciones del Código
de Justicia Militar al personal que habría deliberado con elementos
ajenos a la institución, cuya vinculación y responsabilidad una vez esclarecida será sancionada rigurosamente de acuerdo con el reglamento
de disciplina de la Armada y el Código de Justicia Militar. Estos hechos son consecuencia evidente de la intensa campaña de propaganda
perniciosa que han estado desarrollando grupos extremistas mediante
continuos llamados a la desobediencia. La Armada Nacional condena
violentamente todo intento destinado al quebrantamiento de la disciplina y la cohesión institucional que afecta a la institución, expresando
que será inflexible en la aplicación de las medidas tendientes a controlar la situación y sancionar a sus responsables».
Pedro Barahona Lopetegui, capitán de Fragata, jefe de Relaciones Públicas de la Armada.
Santiago, 7 de agosto de 1973.
Valparaíso.- (Corresponsal).- Según ha trascendido, en el crucero,
«Almirante Latorre» y en el destructor «Blanco Encalada», que se encuentran atracados al molo de abrigo en Valparaíso, se iba a concretar
el pasado fin de semana una acción subversiva aprovechándose de que
gran parte de la dotación no se encontraría a bordo por efecto de las
guardias que tienen franco.
Esta acción, cuyos verdaderos alcances están siendo conocidos en estos instantes por la justicia naval, a través de los jefes y oficiales encargados de estructurar los sumarios correspondientes, concentra básicamente a personal de distintos grados de las tripulaciones de ambas
naves. Los movimientos, que, al parecer, consultaban incluso el desplazamiento de unidades, fueron detectados a tiempo por miembros
de la Inteligencia Naval, lo que permitió lograr controlar la situación
a tiempo. Esto derivó en la inmediata detención de quienes aparecían
como responsables e implicados en los hechos, estableciéndose la actuación de varios elementos infiltrados que ya están perfectamente in-
dividualizados. Los sumarios están desarrollándose con gran agilidad,
de acuerdo a las instrucciones que en tal sentido se han impartido, a
fin de descubrir en toda su amplitud el movimiento que pretendía soliviantar al personal de la Escuadra con fines hasta ahora desconocidos.
Tanto la Comandancia en Jefe de la Escuadra como la Comandancia
en Jefe de la Primera Zona Naval han observado rigurosa reserva sobre este hecho, expresándose solamente que cualquier informe será
entregado por la Comandancia en Jefe de la Armada en Santiago, a
través de su Departamento de Relaciones Públicas.
Acuarteladas fuerzas armadas en Valparaiso
Valparaíso.- (por Eduardo Parra, corresponsal).- De acuerdo con disposiciones emanadas de sus respectivas jefaturas, fueron acuartelados
en primer grado las Fuerzas Armadas y Carabineros en la provincia.
La medida fue dispuesta ante la situación reinante en la zona y en general en todo el país. Contingentes fuertemente armados comenzaron
ayer a custodiar algunos centros vitales de la zona, vías de comunicación, etc., con el objeto de evitar cualquier atentado.49
I cento lavoratori e marinai degli arsenali navali furono arrestati; e senza essere giudicati, furono torturati brutalmente
con metodi nazisti, tipici dal golpe di settembre in poi: scosse elettriche, simulazione di soffocamento, ecc… Quando
poi furono giudicati, i lavoratori non ebbero neppure la possibilità di una difesa legale, e si formularono vaghe accuse di
“non aver adempiuto doveri militari”.
Altamirano e Garreton denunciarono clamorosamente i
fatti accaduti. La reazione militare fu immediata, entrambi
furono accusati dalla corte navale di Valparaiso e il mandato
di comparizione fu firmato da uno dei cospiratori, l’ammiraglio Toribio Merino. Questi pretendeva che fosse tolta ai
due politici l’immunità parlamentare, e che si presentassero
davanti alla corte militare. Nei fatti, i marinai e i lavoratori
detenuti erano stati forzati a confessare, sotto la tortura, che
stavano eseguendo ordini di Altamirano, Garreton e Enriquez.
Marineros torturados
La situación de los marineros y trabajadores de ASMAR (Astilleros
y Maestranzas de la Armada) detenidos bajo la acusación pública de
profesar ideas de izquierda, causa honda preocupación. Con alguna
lentitud, debido a la prolongada incomunicación en que han permanecido los prisioneros, han comenzado a fluir informaciones que han
conmovido a la clase trabajadora. En efecto, se ha sabido que los marineros y trabajadores detenidos fueron sometidos a crueles torturas.
Algunas de ellas, en materia de sadismo, no tienen nada que envidiar
a las que aplican a sus opositores algunos regimenes fascistas como
el brasileño. Se ha pretendido arrancarles confesiones para configurar
presuntos delitos, entre ellos el de insurrección. Se ha buscado vincular a los suboficiales y marineros detenidos con partidos políticos de
izquierda y con imaginarios planes para apoderarse de buques de la
Escuadra. Sin embargo, a pesar de los repudiables métodos usados,
el Fiscal Naval se ha tenido que conformar con acusarlos de “incumplimiento de deberes militares”. Este es un concepto muy vago que,
cuando mas, sirve para encubrir cargos que no es posible sostener por
falta de pruebas. Lo que ha quedado en clara, en cambio, es que los
suboficiales, marineros y trabajadores de ASMAR detenidos y torturados, han sido objeto de estos tratos inhumanos por su negativa a
sumarse a los planes golpistas que descaradamente propugnan sectores de la oficialidad. Los testimonios en este sentido son variados y
elocuentes. Las victimas de esta insólita represión interna en la Armada, al parecer están unidos por un vínculo común: su decisión de
no prestarse para aventuras golpistas que pretenden agredir a la clase
trabajadora. Es por eso que la situación de los marineros y trabaja-
49 Articolo pubblicato sulla rivista «El Mercurio» l’8 agosto del 1973.
71
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
dores presos ha despertado la más amplia solidaridad en todo el país.
Numerosas organizaciones de masas, partidos políticos, personalidades, órganos de prensa, etc., han protestado enérgicamente por esta
situación y han expresado su solidaridad con los detenidos. Como es
lógico, PF se suma a su vez a esas manifestaciones. Los trabajadores
ven en los marineros hoy torturados, en los militares, aviadores y carabineros que también rechazan el golpismo, a sus mejores amigos. El
pueblo esta con quienes, dentro de las FF. AA. y Carabineros, hacen lo
posible por contrarrestar la creyente amenaza golpista que manipulan
la burguesía y el imperialismo.50
Qualche tempo dopo, il giorno precedente al golpe, Altamirano dichiarò che una volta si era unito a un gruppo di
marinai, che l’avevano invitato ad ascoltare la loro denuncia
su dei piani insurrezionali, organizzati da ufficiali importanti
della marina.
Le persistenti denuncie della stampa di sinistra sulle attività dei cospiratori furono ostensibilmente lasciate da parte
dall’esecutivo, che preferì avere fede nei procedimenti della
giustizia, allora sotto “l’imparziale” direzione di Toribio Merino. Persino Allende criticò il comitato esecutivo dell’UP
per aver fatto delle dichiarazioni d’appoggio ai marinai detenuti:
Unidad Popular: (Comité Ejecutivo Nacional):
Declaración sobre las torturas en la Armada
(6 de agosto de 1973)
“Frente a la siniestra campaña derechista respecto de los sucesos
ocurridos en la Armada, el Comité Ejecutivo de la Unidad Popular
declara:
1. Su solidaridad con los marinos y suboficiales procesados cuya única actitud fue defender la Constitución y la ley y rechazar a quienes
pretendieron comprometer a la Armada en el golpismo. Igualmente
acuerda hacer llegar todo su apoyo y solidaridad a las esposas, hijos y
familiares de los procesados.
2. Denunciar que las torturas sin precedentes a que han sido sometidos
y que nadie ha podido desmentir, constituyen un atentado a los derechos humanos. El pueblo exige garantías de corrección, trato digno
y respeto por los derechos inalienables de los marinos injustamente
acusados.
3. Entregar su más amplio respaldo a los compañeros Carlos Altamirano, Secretario General del Partido Socialista; Oscar Garretón, Secretario General del Partido MAPU, y Miguel Enríquez, a quienes se
pretende implicar en una supuesta subversión. La Unidad Popular y el
pueblo saben que no están en su seno quienes pretenden permanentemente dividir a las Fuerzas Armadas. Por el contrario, ha sido y es su
política de siempre el respeto irrestricto por su carácter profesional y
constitucionalista.
4. Alertar al pueblo sobre esta nueva maniobra reaccionaria que atenta
contra la seguridad nacional al pretender separar al pueblo de las Fuerzas Armadas intentando comprometerlos con los intereses golpistas
del imperialismo y los reaccionarios.
¡¡El pueblo exige castigo para los golpistas!!
¡¡Contra la sedición y el fascismo, unidad y combate, venceremos!!
Comité Ejecutivo Nacional Unidad Popular”51
In base al seguente intervento fatto da Allende:
Salvador Allende:
50 Articolo pubblicato sulla rivista «Punto Final», Santiago, Año VIII, n.
191, Martes 28 agosto de 1973, p. 1.
51 La dichiarazione è pubblicata in Víctor Farías, La Izquierda Chilena
1969-1973, Santiago, Centro de Estudios Publicos, 2000, p. 4907.
72
Declaración sobre la campaña contra las torturas en la Armada
(6 de agosto de 1973)
“Es decisión del Gobierno impedir el enfrentamiento entre chilenos
y por esa superior razón señala que las acciones o declaraciones que
contribuyen a dificultar un proceso crítico como el que vive la nación,
son altamente perjudiciales.
“El Gobierno ha insistido en que no puede deformarse la realidad
chilena con un falso antagonismo entre el pueblo y las Fuerzas Armadas. Instituciones estas que deben mantener su integridad y profesionalismo para cumplir con las elevadas responsabilidades que
imponen la defensa y seguridad nacionales.
“El Gobierno, de acuerdo con su conducta invariable de respeto al
Estado de Derecho, no puede ni debe emitir juicio alguno sobre los
hechos que se investigan y que se encuentran en estado de tramitación “En relación con las denuncias públicas sobre flagelaciones a
miembros de la Marina sometidos a proceso, ha sido informado que
algunos de éstos han ejercitado las acciones legales ante los tribunales
respectivos.
“Por otra parte, ha dispuesto que se tomen todas las medidas que sean
necesarias para esclarecer los hechos referidos y se adopten las medidas concordantes con los resultados de la investigación.
“Si hay culpables de torturas, serán sancionados; en caso contrario,
serán castigados los que se hayan hecho responsables de imputaciones
sin fundamentos”.52
il comitato esecutivo dell’UP pubblicò in seguito una versione più moderata nel tono di quella precedente.53
I marinai leali e antigolpisti torturati e incriminati scrissero
una lettera aperta ad Allende e ai lavoratori del Cile:
Carta de los marineros torturados a Salvador Allende
(Agosto de 1973)
A su Excelencia el Presidente de la República,
y a los trabajadores de todo el país:
Nosotros los marinos de tropa, antigolpistas, les decimos a las autoridades, a los trabajadores de todo Chile y a nuestros familiares, que
ni las amenazas que nos hacen nuestros jefes, de volver a flagelarnos,
ni mil torturas más, nos impedirá decirle la verdad a nuestra gente,
la clase obrera y a nuestros compañeros de tropa del Ejército, Fuerza
Aérea y ciudadanía en general.
Los reaccionarios han usado todos los medios de convicción para
mentirle al pueblo diciendo que nosotros los marinos, con los señores
Altamirano, Garretón y Enríquez, íbamos a bombardear las ciudades
de Viña del Mar, Valparaíso y otras.
Los hechos son diferentes, nosotros esclarecemos estos hechos tan
52 Ivi, p. 4904. È interessante tradurre la parte in corsivo del testo
che evidenzia la polemica con l’esecutivo di UP: «Il governo non deve
creare falsi antagonismi tra il popolo e le Forze Armate, le quali devono
conservare il loro professionalismo e la loro integrità per portare a termine
i loro compiti ed eccezionali responsabilità nella difesa e la sicurezza
nazionale».
53 Si riporta la seconda dichiarazione rivisitata dopo l’intervento di
Allende: «Unidad Popular (Comité Político): Declaración sobre las
torturas en la Armada (6 de agosto de 1973). El Comité Político de la UP,
autoridad máxima de los partidos de izquierda, declara que el comunicado
del Comité Ejecutivo del Partido Federado de la Unidad Popular sobre el
proceso que sigue la Fiscalía de la II Zona Naval no tiene los alcances que
le han dado algunos sectores, en el sentido de que implicaría un apoyo a
los actos subversivos en la Armada. La UP está convencida que el proceso
establecerá que los inculpados no han cometido acto alguno de subversión.
Por lo misma razón, el Comité Político de la UP reafirma su solidaridad
con el Secretario General del PS, senador Carlos Altamirano, y con el
Secretario General del MAPU, diputado Oscar Garretón. Está fuera de
toda lógica que pudieran participar en actividades subversivas personeros
de partidos integrantes del Gobierno y de una coalición que ha expresado
reiteradamente su posición de respecto irrestricto al carácter profesional y
constitucionalista de los institutos armados». Ivi, p. 4906.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
inmensamente distorsionados por la derecha reaccionaria junto a los
oficiales y grupos golpistas de la armada, que por fuera se ven limpios,
blancos – y por dentro están podridos.
Es falso que los señores Altamirano, Garretón y Enríquez nos dirigieran. Es distinto.
Nosotros acudimos a distintas personalidades para dar cuenta del
golpe de Estado que preparaba la oficialidad golpista coludida con
los reaccionarios de otras ramas de las Fuerzas Armadas y partidos
políticos de derecha.
Nosotros los marinos, antigolpistas de tropa, buscamos por todos los
medios comunicarles al pueblo y al Gobierno de este golpe de Estado
que planificaba la oficialidad golpista de la Armada. Para nosotros
era vital evitar esa gran masacre contra el pueblo, que estaba ya planificada con fecha definida entre el 8 y el 10 de agosto, por datos e
informaciones concretas, sumando a éstos las diferencias de nuestros
jefes para con nosotros, la tropa, donde nos explicaban que por tales o
cuales razones el Gobierno marxista debía ser derrocado y limpiado el
pueblo de dirigentes marxistas.
Era, sin duda, el Plan Yakarta, como nosotros habíamos logrado saber
por ellos mismos y corroborado en el proceso que se nos sigue.
En tanto a hechos, por ejemplo: A uno de nosotros, el comandante
Bilbao, Fiscal, le preguntó de cómo se iba a restituir la legalidad,
cuando no iba a quedar después del golpe ningún líder de izquierda
vivo. También para nosotros dentro de este plan, la suerte era incierta.
En el juicio que se nos sigue podrán darse cuenta ustedes, la ciudadanía, de los tenebrosos planes que iba a ejecutar la oficialidad golpista
contra la clase trabajadora, nuestra clase, porque nosotros los marinos
de tropa somos hijos del pueblo, por lo tanto, jamás haríamos fuego
contra él.
Nuestro delito
Oponerse al golpe de Estado, por lo cual ellos fracasaron. Se nos ha
flagelado y torturado criminalmente.
Se nos ha ofrecido no flagelarnos más, inclusive dejarnos en libertad,
con tal de que nosotros cooperemos y digamos que los señores Altamirano, Garretón y Enríquez nos dirigían y que nos habían ordenado
bombardear Valparaíso, Viña, la Escuela Naval y otras cosas por el
estilo.
Como nos negamos, nos seguían golpeando en la cruz, nos colgaban
en ataúd, nos hacían tomar las meadas de los verdugos, nos colgaban
de los pies y nos sumergían en el agua, nos sumían en pozos de barro,
nos aplicaron corriente, nos tiraban agua caliente en el cuerpo, después fría y decenas de cosas más.
En Valparaíso nos vendaron los ojos
En Talcahuano (la tortura) fue sin venda y estuvo a cargo, en forma de
hecho, de los señores Koeller, capitán Bhuster, teniente Jaeger, Letelier, Luna, Alarcón, Tapia, Maldonado, Leatich.
Nos hacían hablar en grabadora lo que ellos querían en Talcahuano.
Pegándonos culatazos por todos lados y nos decían: tienen que hablar
lo mismo donde el Fiscal.
Y el Fiscal nos preguntaba: “¿Se sienten mal?”, !Si les han hecho
algo, díganme”.
Llegábamos machucados. Apenas sí podíamos hablar, otros no podían
andar, otros con conmoción cerebral no podían venir a declarar.
Nosotros le preguntamos a la ciudadanía si a los señores Viaux, Souper, comandante Sazo (de la Armada y que aún se encuentra en servicio) ¿los torturaron? Si defender al Gobierno, la Constitución, la legalidad, el pueblo, es un delito, y, al contrario, derrocar al Gobierno,
atropellar la ley y terminar con la vida de miles de seres humanos, eso
es legal.¡Que contesten los trabajadores!
Firmado: Sargento 2° (MG) Juan Cárdenas. Cabo 2° (Artill.) Alberto
Salazar. Marinero 1° (MA) Ernesto Zúñiga S. Marinero 1° (MA) Ernesto Carvajal. Cabo 2° (EL) José Lagos A. Marinero 1° (Art.) David
Valderrama. Marinero 1° (Art.) Claudio Espinoza. Marinero 1° (CF)
José Velásquez A. Marinero 1° (CF) Luis Rojo G. Marinero 1° (Art.)
Mario Mendoza U. Marinero 1° (EL) Roberto Fuentes F. Cabo 2°
(MQ) José Jara. Cabo 1° (ME) Miguel González. Marinero 1° (MQ)
Tomás Alonso. Cabo 1° (Art.) Pedro Lagos. Cabo 2° (Art.) Juan Rodán B. Marinero 1° (MA) Jaime Salazar. Cabo 2° (E) Pedro Blasset
C. Cabo 2° (MA) Sebastián Ibarra V. Marinero 1° (Art.) Luis Ayala
N. Marinero 1° (Art.) Carlos Ortega D. Marinero 1° (Art.) Rodolfo
Claro C. Cabo 2° (MA) Teodosio Cifuentes R. Marinero 1° (Art.) Juan
Segovia A. Marinero 1° (Art.) Juan Dotts. Cabo 1° (MQCA) Carlos
Alvarado. Cabo 1° (EL) Mariano Ramírez. Marinero 1° (MR-AFMQ) Alejandro Retameo. Marinero 1° (MR-AF-MQ) Luis Fernández
R. Operador 3° (MQ) Bernardino Farina. Operador 3° (MQ) Víctor
Martínez C. Marinero 1° (MQ) Nelson Córdoba. Marinero 1° (MA)
Orlando Véniz V.54
Le denuncie di queste ingiustizie, formulate dai partiti PS,
MAPU e MIR, facevano parte di una campagna diretta ai
soldati, aviatori e marinai, stimolandoli a disobbedire agli
ordini insurrezionali e antipopolari.
Mancando però una ferma organizzazione nelle caserme,
tali appelli suonarono nel vuoto. La stampa di sinistra pubblicava sui giornali articoli con i titoli come “Soldato, fermamente con il popolo” oppure “Soldato, la madre patria è la
classe operaia”; inoltre pubblicava entusiastici articoli sulle
Forze Armate rivoluzionarie di Cuba e i concetti sulla sicurezza nazionale popolare adottati dalla politica militare cubana. E questi articoli erano intercalati da altri sulla tortura,
sulla repressione militare, su incursioni e controlli delle armi
fatti alle organizzazioni dei lavoratori, ecc…
Altro motto costante, fatto da alcuni settori della sinistra,
era: “No alla guerra civile”. Il MIR definì queste posizioni politiche, come “criminalmente insufficienti, difensive e
apolitiche”.
Il conflitto nella direzione militare della marina non era
ancora risolto. All’inizio di settembre la stampa d’opposizione attaccava costantemente il comandante in capo Montero,
accusandolo di:
- aver permesso, negli anni passati, che navi della flotta
sovietica penetrassero nelle acque cilene offendendo la sovranità, l’onore, la sicurezza e l’indipendenza dello stato, in
realtà una missione sovietica, accompagnata da ufficiali della marina cilena, aveva svolto compiti d’ispezione;
- non aver risolto e chiarito il problema della concessione
del porto di Colcura alla Russia; in realtà, c’era solo il progetto della costruzione di un porto peschereccio, con l’aiuto
di un credito sovietico.
Montero come risposta a tali accuse offrì immediatamente
le sue dimissioni come comandante in capo, Allende le respinse dicendo che era nel “supremo interesse della nazione”
e per “imperativo di superiore gerarchia” che egli doveva
rimanere al suo posto fino alla fine dell’anno, quando automaticamente si sarebbe ritirato, al termine di quaranta anni
di servizio.
La situazione di Montero era insostenibile; tuttavia mantenne il suo ruolo di comandante in capo fino al giorno del
golpe, quando fu sostituito da Merino.
All’inizio di settembre, ci furono delle manovre militari
congiunte con la marina nordamericana, realizzate annualmente sotto l’auspicio della Giunta Interamericana di Difesa
(JID). Le attività della JID avevano coinciso di solito con
momenti di crisi politica nei vari paesi Latinoamericani. Nel
54 Ivi, pp. 4908-4910. È interessante tradurre le frasi in corsivo del
testo: «Se difendere il governo, la Costituzione, la legalità e il popolo è un
crimine, e al contrario violare la legge e distruggere la vita di molti esseri
umani non lo è, quale è allora la legalità? Che i lavoratori rispondano».
73
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
caso del Cile non fu il prodotto di una semplice coincidenza,
ma la coordinazione di piani esistenti tra gli USA e le Forze
Armate cilene. Tradizionalmente le manovre “Unite” si eseguivano a settembre ed erano state stabilite in conformità del
patto di aiuti militari, firmato tra il Cile e gli USA nel 1952
e approvato dal Senato dell’epoca con 25 voti favorevoli e 6
contrari. Negli anni precedenti la crescente opposizione, soprattutto sotto l’amministrazione Frei, indusse il governo cileno a ottenere che avessero una forma diversa. Le manovre
continuarono, però fuori dalle acque territoriali; e i marinai
nordamericani non sbarcavano nei porti cileni come invece
succedeva nelle manovre precedenti.
Nel programma base di UP si dichiarava l’intenzione di
«denunciare, rivedere e respingere gli accordi che significavano compromesso e limitavano la nostra sovranità; specialmente il trattato di assistenza reciproca (Rio1947), il patto mutuo di aiuti (1952) e altri patti firmati tra il Cile e gli
USA»55. Nel 1973, le operazioni “Unite” compivano però
ventuno anni di pratica; e quindi l’Unidad Popular, nei suoi
tre anni di vita, non aveva mantenuto le sue promesse elettorali, riguardo a tale proposito. Non bisogna dimenticare però
una risoluzione su tale problema, proposta dal ministro delle
relazioni estere del Cile, Clodomiro Almeyda, all’assemblea
generale dell’organizzazione degli stati americani nel 1973:
El fundamento histórico de la situación que analizamos, se encuentra
en la naturaleza del contexto internacional que rodeó y condicionó la
configuración formal definitiva del sistema interamericano a fines de
los años 40. Eran los tiempos de la más aguda guerra fría y la potencia
hegemónica en el continente necesitaba, aquí, como en otras partes
del mundo, de un dispositivo jurídico e institucional de seguridad y
dominación que a la vez legitimara su hegemonía y le permitiera incluso utilizar en su favor los recursos naturales y hasta humanos del
subcontinente latinoamericano.
La tercera reunión de consulta de los ministros de Relaciones Exteriores en Río de Janeiro en 1948; la Conferencia sobre la Guerra y
la Paz en Chapultepec, México, en 1945; y la Conferencia Sobre el
Mantenimiento, de la Paz y la Seguridad Continentales en Río de Janeiro en 1947, que aprobó el tratado de asistencia recíproca de los
Estados Americanos y finalmente, la Novena Conferencia de Estados Americanos que se reunió en Bogotá en 1948, articularon todo
un sistema de relaciones hemisféricas que encubrió e institucionalizó
la dependencia de América Latina respecto a los Estados Unidos e
insertó todo ese sistema naciente en el proceso político de la guerra
fría sobre el supuesto de una presunta solidaridad hemisférica, que ni
la historia, ni la economía, ni la política, han podido verificar en el
pasado ni en el presente.
Con relación al presente, basta con aludir al impresionante material
de investigación disponible, acumulado por los organismos internacionales que proporcionan una abrumadora evidencia acerca de la
oposición de intereses y divergencias de políticas entre el norte y el
sur, para reafirmar que la supuesta solidaridad hemisférica ha sido y es
un gigantesco artificio que no puede servir de cimiento para construir
nada como no sea ayudar a la deformación de la conciencia de los
pueblos latinoamericanos, obstaculizando su despertar y su liberación.
[…]
Está naciendo ya, aunque no nos lo hayamos propuesto conscientemente, el germen de lo que puede y debe llegar a ser un verdadero
sistema latinoamericano, constituido por políticas comunes, movidas
por intereses, ideales y principios comunes, que tienden a buscar formas orgánicas e institucionales para manifestarse.
Creemos los chilenos que ha llegado la hora de promover conscientemente este proceso, La caducidad irreversible del sistema interameri55 Programa Básico de Gobierno de la Unidad Popular, cit., p. 33.
74
cano en su forma actual, encuentra su contrapartida en la emergencia
de estos principios y elementos orgánicos en que tiende a expresarse la
presencia latinoamericana en el mundo contemporáneo. Tenemos los
latinoamericanos la obligación de concebir con audacia una perspectiva y un programa que sirvan para ir articulando iniciativas dispersas
y recogiendo experiencias comunes y para diseñar una meta que imprima sentido y organización a este irresistible movimiento histórico
que pugna por nacer, expresarse y afirmarse. Lo que hemos estado
acostumbrados a llamar “El sueño de Bolívar”, parece ahora, en una
versión de fines del siglo XX, querer convertirse en realidad.
En la perspectiva de promover la progresiva institucionalización de un
sistema latinoamericano, la regulación de la convivencia interamericana, hemisférica, cambia de sentido y de naturaleza.
Lo que hasta ahora ha sido el sistema interamericano dispositivo de
dominación del norte sobre el sur, debe llegar a ser en el futuro y en
la medida en que un sistema latinoamericano se expresa institucionalmente, la estructura orgánica y hemisférica que sustente el diálogo
entre los Estados Unidos, por una parte, y la América Latina por otra.
Tal diálogo estaría dirigido a regular el conflicto latente manifiesto
entre ambas partes, buscarle respuestas constructivas y propósitos comunes que puedan servir de cimiento a una política de cooperación
interamericana en el plano económico-social y en el plano cultural,
científico y tecnológico.
Es por ello necesario y urgente:
1. Que los órganos competentes de la entidad dejen sin efecto incondicionalmente las sanciones políticas y económicas contra Cuba, que
Chile, como otras naciones latinoamericanas rechaza, cuestionando
su legitimidad. Por nuestra parte, pensamos que la subsistencia de tan
insólita situación no sólo conspira contra todo intento serio de reorganizar el sistema interamericano en el futuro, sino que hasta amenaza
con obstruir el normal funcionamiento de la organización en su actual
etapa.
2. Que se disuelva prontamente la “Comisión Especial de Consulta
sobre Seguridad”, tal como lo ha planteado la representación chilena
en el Consejo de la OEA, por estimar incompatible su existencia con
el irrestricto derecho de cada país de darse el régimen político y social
que soberanamente desee, sin discriminación ideológica de ninguna
naturaleza.
3. Que se reexaminen, a la luz del principio que acabamos de señalar,
aquellos tratados y convenciones Ínter-hemisféricas que, como el Tratado interamericano de Asistencia Recíproca, o entidades que, como
la Junta Interamericana de Defensa o el Colegio Interamericano de
Defensa, se inspiran y contienen disposiciones o prácticas incompatibles con la neutralidad política e ideológica sobre la que necesariamente debe sustentarse toda estructura que quiera regular las relaciones entre los Estados Soberanos del continente. […].56
La soluzione proposta dal Ministro si basava sul riesaminare, alla luce del principio del diritto di ogni paese di darsi il
regime politico e sociale che sovranamente desidera e senza
discriminazione ideologica di nessuna natura, quei trattati e
convenzioni interemisferici, come il trattato internazionale
di assistenza reciproca, e quegli enti, come la giunta interamericana di difesa o il collegio interamericano di difesa,
che s’ispiravano e contenevano disposizioni o pratiche incompatibili con la neutralità politica e ideologica, sulla quale
necessariamente deve sostenersi tutta la struttura che regola
le relazioni tra gli stati sovrani del continente.
Il giorno 6 settembre 1973 Allende ordinò espressamente
ai capi della marina di uscire da Valparaiso e di riunirsi con
la flotta americana il giorno dieci.
56 Discorso fu pronunciato dal Ministro delle Relazioni Estere del
Cile, Clodomiro Almeyda, nel III Periodo Ordinario della Sessione
dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione degli Stati Americani il
4 aprile 1973 a Washington D.C., USA. È stato pubblicato sulla rivista
«Estudios Internacionales», Santiago, Anno VI, n. 21, 1973, pp. 84-90.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Realidades y Fantasías
El diario Clarín señala que los allanamientos efectuados por las
Fuerzas Armadas son provocadores para la clase obrera, y que deben
evitar que disminuya el afecto del pueblo por las Fuerzas Armadas, ya
que esto también atenta contra la seguridad nacional.
La derecha chilena sueña con una ayuda «infinita» del imperialismo
norteamericano, pero no se detiene a meditar en la realidad que enfrenta ese país, estremecido por los escándalos políticos y económicos
mayores del siglo.
El caso Watergate y las acusaciones de fraude contra el vicepresidente
Spiro Agnew son sólo una manifestación del hondo drama que corroe
el corazón mismo del imperio. Ello se refleja también en las fluctuaciones del valor de la divisa nacional, el dólar, lo que a su vez crea una
inflación interna fruto de la inestabilidad de los capitalistas y acarrea,
igualmente, inflación a otras naciones de la Tierra. Por último, es preciso recordar que EE.UU. viene saliendo de una feroz derrota militar
en Indochina y que su opinión pública es visiblemente hostil a otras
aventuras externas, incluyendo muy especialmente los vastos territorios de América Latina.
Como resultado de los hechos que someramente hemos indicado, el
nuevo Secretario de Estado, Kissinger, trata de mejorar la «imagen»
de esa gran potencia ante los ojos de los pueblos débiles del Tercer
Mundo. No solamente ha promovido el término de la guerra en el
sudeste asiático y ha intentado relajar las tensiones con los países socialistas, sino que ha insinuado la posibilidad de normalizar las relaciones con Cuba. Ello deriva de conveniencias para las empresas
transnacionales en que gira el capital imperialista, más que de razones
humanitarias o convicciones teóricas, pero de todas maneras es una
realidad que debe ser analizada y aceptada.
En estos momentos, pues, para los Estados Unidos, no es un «buen
negocio» complicarse en un golpe de Estado en Chile o financiar al
Gobierno que sugiere de esa sedición antidemocrática y gorila.
Uso y abuso de los militares
Tal vez por eso la derecha, cazurra y sofisticada, quiere sacar las castañas con la mano del gato y busca la quiebra de la disciplina de las
Fuerzas Armadas, para empujarlas a un gobierno militar, que no podría solucionar los problemas que el país enfrenta y que acarrearía
sobre los uniformados el odio pasional de los trabajadores y de la ciudadanía. Sólo entonces intervendrían los políticos reaccionarios, que
habrían así liquidado a todos los sectores de la nación interesados en
modernizar las instituciones y erradicar los grupos oligárquicos que
siempre se beneficiaron con las riquezas nacionales.
Los militares que sienten atracción por la aventura deben pensar en la
responsabilidad que asumirán al desacreditar a un ejército cuya tradición democrática y profesional le ha dado prestigio en el exterior y
afecto en el interior, ya que no es posible «echar por la borda» como
material en desuso, la doctrina Schneider-Prats, de prescindencia política y de respeto a las autoridades legítimamente constituidas.
En estos asuntos se sabe cómo se comienza, pero jamás como se termina, tanto más cuanto que el pueblo no está dispuesto a tolerar una
dictadura gorila que humille la conciencia y violente la paciencia de
los trabajadores.
Allanamientos provocadores
A este respecto no podemos dejar de referirnos a los allanamientos
en búsqueda de inexistentes armas que sólo sirven para provocar a
una masa obrera que siempre ha respetado y querido a sus Fuerzas
Armadas, pero a la que se hace víctima de un trato brutal y vejatorio.
Este trato se ha extendido a los periodistas que acuden a cubrir el frente de la noticia, todo lo cual parece maquiavélicamente calculado para
empujar a grupos militares a hechos imprevisibles. Las armas están,
justamente, en manos de los que denuncian a los trabajadores y, sin
embargo, a ellos no se les allana ni se les veja. En Chile no hay clases
privilegiadas, por mandato de la Constitución, por lo que estas discriminaciones resultan particularmente odiosas. No se ha sabido de que
se haya allanado con la bayoneta calada ninguna mansión del barrio
alto ni que se haya obligado a alguna señorona a tenderse de bruces
sobre el pasto mojado de los jardines, como se hace con las obreras
sobre el barro inmundo de las calles suburbanas. Los jefes castrenses
deben impedir que se deteriore el afecto popular por las Instituciones
Armadas, pues de ello depende también la «seguridad nacional».57
57 L’articolo fu pubblicato dal diario «Clarín» il 7 settembre 1973.
Le notizie sul ritorno della marina a Valparaiso, alle prime
ore della mattina del giorno undici, furono simultanee alle
prime informazioni sul golpe.
LO SCENARIO DEL GOLPE 10 SETTEMBRE 1973
Per la preparazione del golpe ci furono vari movimenti
anormali di truppe. Il reggimento Buin, di Santiago che i
cospiratori supponevano che avrebbe fatto resistenza, poco
prima del golpe fu inviato nel sud del paese con vari pretesti.
Aerei civili DC-8 furono trasferiti alla base aerea di Los
Cerrillos, in previsione di dover trasportare truppe.
Parte dello squadrone di jet da combattimento Hawker
Hunter fu trasferito da Santiago a Conception. Secondo le
dichiarazioni del generale Leigh dopo il golpe, questo fu fatto per timore di sabotaggi da parte di “elementi di estrema
sinistra”.
Durante la notte del 10 settembre, Allende fu informato
del ritorno della flotta a Valparaiso e che da San Felipe, 100
kilometri dalla capitale, si muovevano truppe verso Santiago. Quando cercò conferma di quello che stava succedendo, non ebbe nessuna risposta dai suoi comandanti in capo.
Solamente il comando superiore dei carabineros rispose alla
sua domanda iniziale e rimase alla Moneda tutta la mattina
dell’undici, durante l’attacco.
Forze dei carabineros difesero il perimetro del palazzo con
carri blindati e armi corte fino a quando il suo centro di controllo delle comunicazioni fu preso dall’esercito e ricevette
l’ordine di ritirarsi.
Molti politici e consiglieri della coalizione di UP si trovarono il giorno 11 nel palazzo presidenziale. Allende rifiutò
l’offerta, fatta dal generale dell’aviazione Gabriel Van Schowen, di uscire dal Cile sano e salvo, e aggiunse:
Dite al generale Van Schowen che il Presidente del Cile non prenderà
un aereo per scappare, saprà comportarsi come un soldato, come Presidente della Repubblica.58
Durante la mattinata del giorno 11 Allende parlò per radio
al popolo varie volte, rivolgendosi alla classe operaia nel suo
insieme,tra il rumore delle mitragliatrici e dei razzi lanciati
dagli Hawker Hunters contro il palazzo della Moneda.
«Estas son mis ultimas palabras» dijo Allende a las 9.20 de hoy
El Rancagüino, que es el único diario que salió a la calle el mediodía del 11, informa sobre las palabras de Salvador Allende a través
de Radio Magallanes, en la cual se despide de la ciudadanía, en los
mismos instantes en que se desarrolla el golpe militar.
A las 9.20 de la mañana el Dr. Allende se dirigió al país por cadena
de radios de la Unidad Popular, expresando que ésta era la última
oportunidad que tenia para dirigirse al pueblo y que estas serían sus
últimas palabras:
«Pagaré con mi vida la lealtad al pueblo», dijo, agregando que la semilla sembrada en miles y miles de chilenos no podrá ser cegada.
Ellos tienen la fuerza y podrán avasallarnos, dijo, pero no se detienen
los procesos con el crimen ni con la fuerza. La victoria es nuestra.
58 Joan Garcés, Allende y la experiencia chilena las armas de la critica,
cit., p. 381.
75
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
Enseguida comenzó a expresar agradecimientos en primer lugar a los
trabajadores de su Patria, por la lealtad y la confianza que depositaron
en un hombre que empeñó su palabra de respetar la Constitución y las
leyes. Agregó que por ser esta la última oportunidad en que se dirigía
a los trabajadores, les pedía que aprovecharan la lección y acusó al
capital foráneo, al imperialismo y la reacción de haber creado el clima
que hizo que las Fuerzas Armadas rompieran su tradición. Se dirigió
después a las mujeres y a la juventud, a los campesinos y a los intelectuales, advirtiendo que el fascismo ya está presente. Expresó que
estaba hablando por medio de Radio Magallanes, que seguramente
seria acallada. Dijo que el pueblo debía defenderse pero no sacrificarse. «Tengo fe en Chile y su destino que superará con otros hombres
este momento amargo de la traición», expresó. Sus últimas palabras
fueron: «Viva Chile, viva el pueblo, vivan los trabajadores. Tengo
la certeza de que mi sacrificio no será en vano y que se castigará la
felonía y la cobardía».59
L’11 settembre, il popolo e i cittadini del Cile ricevettero
una pioggia di volantini lanciati da aerei ed elicotteri. Dicevano:
Disciplina civile
Le azioni portate a termine dalle Forze Armate e carabineros sono
unicamente per il bene del Cile e dei cileni e contano sull’appoggio
civile.
Non si avrà compassione per gli estremisti stranieri che sono venuti
a uccidere cileni.
Cittadino, rimani all’erta per scoprire chi sono e denunciali alle autorità militari più vicine.61
CONCLUSIONI
Le forze dell’esercito, che attaccavano il palazzo, esigevano la sua resa ma egli continuo a rifiutarla fino alla morte.
Nel suo ultimo messaggio dalla radio Magellano disse:
Il capitale straniero e l’imperialismo uniti alla reazione, hanno creato
un clima per cui le Forze Armate hanno spezzato la loro tradizione,
quella segnalata da Schneider e riaffermata dal comandante Araya.
Le Forze Armate sono vittime dello stesso settore sociale che oggi è
chiuso nelle case, sperando che altre mani conquistino il potere per
continuare a difendere i loro privilegi.60
59 Articolo pubblicato sul diario «El Rancagüino» l’11 settembre 1973.
60 Joan Garcés, Allende y la experiencia chilena las armas de la critica,
cit., p. 394. L’ultimo discorso di Allende prima di morire: «Seguramente
esta es la última oportunidad en que me pueda dirigir a ustedes. La Fuerza
Aérea ha bombardeado las torres de Radio Portales y Radio Corporación.
Mis palabras no tienen amargura, sino decepción, y serán ellas el castigo
moral para los que han traicionado el juramento que hicieron... soldados
de Chile, comandantes en jefe titulares, el almirante Merino que se ha
auto designado, más el señor Mendoza, general rastrero... que sólo ayer
manifestara su fidelidad y lealtad al gobierno, también se ha nominado
director general de Carabineros. Ante estos hechos, sólo me cabe decirle a
los trabajadores: ¡Yo no voy a renunciar! Colocado en un tránsito histórico,
pagaré con mi vida la lealtad del pueblo. Y les digo que tengo la certeza
de que la semilla que entregáramos a la conciencia digna de miles y miles
de chilenos, no podrá ser segada definitivamente. Tienen la fuerza, podrán
avasallarnos, pero no se detienen los procesos sociales ni con el crimen... ni
con la fuerza. La historia es nuestra y la hacen los pueblos. Trabajadores de
mi patria: Quiero agradecerles la lealtad que siempre tuvieron, la confianza
que depositaron en un hombre que sólo fue intérprete de grandes anhelos
de justicia, que empeñó su palabra en que respetaría la Constitución y la
ley y así lo hizo. En este momento definitivo, el último en que yo pueda
dirigirme a ustedes, quiero que aprovechen la lección. El capital foráneo,
el imperialismo, unido a la reacción, creó el clima para que las Fuerzas
Armadas rompieran su tradición, la que les enseñara Schneider y que
reafirmara el comandante Araya, víctimas del mismo sector social que hoy
estará en sus casas, esperando con mano ajena reconquistar el poder para
seguir defendiendo sus granjerías y sus privilegios. Me dirijo sobre todo, a
la modesta mujer de nuestra tierra, a la campesina que creyó en nosotros;
a la obrera que trabajó más, a la madre que supo de nuestra preocupación
por los niños. Me dirijo a los profesionales de la patria, a los profesionales
patriotas, a los que hace días estuvieron trabajando contra la sedición
auspiciada por los Colegios profesionales, colegios de clase para defender
también las ventajas que una sociedad capitalista da a unos pocos. Me
dirijo a la juventud, a aquellos que cantaron, entregaron su alegría y su
espíritu de lucha. Me dirijo al hombre de Chile, al obrero, al campesino,
al intelectual, a aquellos que serán perseguidos... porque en nuestro
país el fascismo ya estuvo hace muchas horas presente en los atentados
terroristas, volando los puentes, cortando la línea férrea, destruyendo
los oleoductos y los gasoductos, frente al silencio de los que tenían la
obligación de proceder: estaban comprometidos. La historia los juzgará.
Seguramente Radio Magallanes será acallada y el metal tranquilo de mi
voz no llegará a ustedes. No importa, lo seguirán oyendo. Siempre estaré
junto a ustedes. Por lo menos, mi recuerdo será el de un hombre digno
76
L’instaurazione di un governo militare fu solo possibile
grazie all’uso della Forza Armata.
ACTA DE CONSTITUCION DE LA JUNTA DE GOBIERNO
Decreto ley N. 1.- Santiago de Chile, a 11 de Septiembre de 1973.
El Comandante en Jefe del Ejército, General de Ejército don Augusto
Pinochet Urgarte; el Comandante en Jefe de la Armada, Almirante
don José Toribio Merino Castro; el Comandante en Jefe de la Fuerza
Aérea, General del Aire don Gustavo Leigh Guzmán y el Director
General de Carabineros, General don César Mendoza Durán, reunidos
en esta fecha, y Considerando:
1.- Que la Fuerza Pública, formada constitucionalmente por el Ejército, la Armada, la Fuerza Aérea y el Cuerpo de Carabineros, representa
la organización que el Estado se ha dado para el resguardo y defensa
de su integridad física y moral y de su identidad histórico-cultural;
2.- Que, por consiguiente, su misión suprema es la de asegurar por
sobre toda otra consideración, la supervivencia de dichas realidades
y valores, que son los superiores y permanentes de la nacionalidad
chilena, y
3.- Que Chile se encuentra en un proceso de destrucción sistemática
e integral de estos elementos constitutivos de su ser, por efecto de la
intromisión de una ideología dogmática y excluyente, inspirada en los
principios foráneos del marxismo-leninismo;
Han acordado, en cumplimiento del impostergable deber que tal misión impone a los organismos defensores del Estado, dictar el siguiente, Decreto-ley:
1.- Con esta fecha se constituyen en Junta de Gobierno y asumen el
Mando Supremo de la Nación, con el patriótico compromiso de restaurar la chilenidad, la justicia y la institucionalidad quebrantadas,
conscientes de que ésta es la única forma de ser fieles a las tradiciones
nacionales, al legado de los Padres de la Patria y a la Historia de Chile,
y de permitir que la evolución y el progreso del país se encaucen vigorosamente por los caminos que la dinámica de los tiempos actuales
exigen a Chile en el concierto de la comunidad internacional de que
forma parte.
2.- Designan al General de Ejército don Augusto Pinochet Ugarte
como Presidente de la Junta, quien asume con esta fecha dicho cargo.
3.- Declaran que la Junta, en el ejército de su misión, garantizará la
que fue leal a la lealtad de los trabajadores. El pueblo debe defenderse,
pero no sacrificarse. El pueblo no debe dejarse arrasar ni acribillar, pero
tampoco puede humillarse. Trabajadores de mi patria: Tengo fe en Chile y
su destino. Superarán otros hombres este momento gris y amargo, donde
la traición, pretende imponerse. Sigan ustedes, sabiendo, que mucho más
temprano que tarde, de nuevo, abrirán las grandes alamedas por donde pase
el hombre libre, para construir una sociedad mejor. ¡Viva Chile! ¡Viva el
pueblo! ¡Vivan los trabajadores! Estas son mis últimas palabras y tengo la
certeza, de que mi sacrificio no será en vano. Tengo la certeza de que, por
lo menos, habrá una lección moral que castigará la felonía, la cobardía y la
traición». Cfr., http://www.salvador-allende.cl/Discursos/1973/despedida.
pdf.
61 I volantini sono depositati in originale presso l’archivio Fernando
Murillo – Sezione B- Riviste, bollettini, periodici.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
plena eficacia de las atribuciones del Poder Judicial y respetará la
Constitución y las leyes de la República, en la medida en que la actual
situación del país lo permitan para el mejor cumplimiento de los postulados que ella se propone.
Regístrese en la Contraloría General de la República, publíquese en
el Diario Oficial e insértese en los Boletines Oficiales del Ejército,
Armada, Fuerza Aérea, Carabineros e Investigaciones y en la Recopilación Oficial de dicha Contraloría.
JUNTA DE GOBIERNO DE LA REPUBLICA DE CHILE.- AUGUSTO PINOCHET UGARTE, General de Ejército, Comandante en
Jefe del Ejército.- JOSE T. MERINO CASTRO, Almirante, Comandante en Jefe de la Armada.- GUSTAVO LEIGH GUZMAN, General
del Aire, Comandante en Jefe de la Fuerza Aérea.- CESAR MENDOZA DURAN, General, Director General de Carabineros.
Lo que se transcribe para su conocimiento.- René C. Vidal Basauri,
Teniente Coronel, Jefe Depto. Asuntos Especiales, Subsecretario de
Guerra subrogante.62
L’eliminazione della resistenza si è ottenuta mediante assassinii, torture, carcerazioni arbitrarie e persecuzioni indiscriminate.
Gli organi rappresentativi popolari politici, sindacali, sociali e la stampa furono smantellati e i servizi pubblici posti
sotto il controllo militare: scuole, ospedali, università.
La cultura popolare fu inquinata da valori militari e “patriottici”. In poche parole, l’eliminazione di quello che la
giunta militare di Pinochet chiamava “il cancro marxista”,
portò tutta la società cilena dell’epoca verso un processo di
“militarizzazione”. Le Forze Armate erano diventate l’unico
partito legale.
Ancora prima del golpe, le Forze Armate avevano assunto
un ruolo sempre più importante nella vita nazionale cilena.
Per salvaguardare gli interessi dell’imperialismo, i partiti politici dell’opposizione alla coalizione di UP si erano convertiti in guardiani inadeguati della situazione nazionale. Quando aumentò la crisi di dominazione, le Forze Armate erano
strettamente legate ai settori della destra. Il loro ruolo tradizionale come istituzione professionale, con l’incarico della
difesa nazionale, fu compromesso dal processo generale di
politicizzazione.
Mentre la destra organizzava i suoi gruppi paramilitari,
aiutata da importanti ufficiali e da ex membri delle Forze
Armate, la facciata tradizionale andò decadendo, e i militari
furono chiamati a “deliberare” nella politica nazionale.
I fatti dal 1970-73, hanno mostrato che quando il regime
civile diventa incapace di controllare efficacemente la situazione nazionale in virtù di operazioni destabilizzanti, la
risposta della classe dominante è di servirsi delle Forze Armate per riaffermare il suo dominio sulla società. In questo
modo si determina un dominio sociale con la violenza armata
o “all’eliminazione chirurgica dell’opposizione”, usando una
definizione della giunta di Pinochet.
Questo è quello che si chiama “Dittatura della Sicurezza
Nazionale”.
dei militari nella crisi di un regime (1970-1973), Arona, Editore XY.IT, 2015.
Inoltre:
AA.VV., El caso Schneider, Santiago, Editora Nacional
Quimantú, 1972.
AA.VV., Il Cile. Saggi-Documenti-Interviste, Roma, Edizioni «Il Manifesto», 1973.
Salvador Allende, Nuestro camino hacia el socialismo: la
vía chilena, Buenos Aires, Ed. Papiro, 1971.
Raul Ampuero, El poder político e las Fuerzas Armada,
Santiago, Ed. Punto Final, 1973.
Raul Ampuero, El pueblo en la defensa nacional, Santiago, Documento del USP, 1971.
Alain Joxe, Las Fuerzas Armadas en el sistema político de
Chile, Santiago, Ediciones Universitaria, 1970.
Alain Joxe, I militari cileni dal legalismo alla violenza
istituzionale, Politica Internazionale, n. 11, novembre 1973.
Alberto Polloni, Las Fuerzas Armadas de Chile en la vida
nacional, Santiago, Editorial Andrés Bello, 1972.
Carlos Prats, Memorias. Testimonio de un soldado, Santiago, Edición Pehuén, 1985.
Carlos Prats, Una vida por la legalidad, México, Fondo de
Cultura Económica, 1976.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Gaetano Oliva, La costituzione cilena del 1925. Il ruolo
62 Cfr., Biblioteca del Congreso Nacional de Chile - www.leychile.cl.
77
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
Il “monachus miles”. La legittimità
della guerra nell’ideologia degli Ordini
religioso-militari: il caso dei Templari
LUCIANA PETRACCA
Università del Salento
L
a predicazione della prima Crociata aveva
radunato in difesa della cristianità e della
Chiesa di Roma una nuova cavalleria, composta da milites che anelavano alla salvezza dell’anima e alla remissione dei peccati
mediante l’esercizio della funzione bellica. Ciò era divenuto
possibile grazie alla valorizzazione ideologica del mestiere
delle armi e alla conseguente cristianizzazione della cavalleria, non più milizia secolare, ma comunità guerriera e religiosa al servizio della fede, della Chiesa e dell’intera società
cristiana.
Nel corso dell’XI secolo, le vicende orientali e l’occupazione dei Luoghi Santi da parte degli infedeli avevano indotto la cultura occidentale ad interrogarsi sulla necessitas di
brandire la spada a tutela della fede cristiana. Il ricorso alla
tradizione veterotestamentaria e l’identificazione col “popolo eletto”, unico custode dal dogma della Rivelazione, resero
possibile il processo di legittimazione della guerra condotta
dai cristiani. Essa divenne “guerra santa”, fondata su uno ius
iustum o ius belli, in grado di cancellare anche la colpa di
omicidio a quanti avessero ucciso in battaglia degli infedeli1.
Fu così che l’Europa cristiana, rispondendo all’appello di
Urbano II che chiamava alla liberazione del santo sepolcro,
risolse, legittimandola, il problema della guerra all’infedele.
In realtà, come è stato osservato già diversi anni addietro da
Claudio Leonardi, non bastava solo rendere cristiana la guerra o rifiutarla in toto in nome degli stessi valori cristiani, era
necessario accettarla, sebbene carica di ogni violenza, quale
unica soluzione per il trionfo della giustizia e della fede in
Cristo2.
1 O. Capitani, Sondaggio sulla terminologia militare di Urbano II, in
“Militia Christi” e Crociata nei secoli XI-XIII, Atti della undicesima
settimana internazionale di studio (Mendola, 28 agosto-1 settembre
1989), Milano 1992, pp. 167-192: 183; V. Sibilio, Le parole della prima
Crociata, Galatina 2004.
2 C. Leonardi, La tradizione cavalleresca e San Bernardo, in I Templari.
Una vita tra riti cavallereschi e fedeltà alla chiesa, Atti del I Convegno
78
Alla luce di queste considerazioni, il presente contributo,
ripercorrendo i momenti salienti di tale processo di legittimazione, esito di una profonda e difficile riflessione maturata in seno alla cristianità a partire, soprattutto, dalla riforma
gregoriana, prenderà in esame la figura di quei monachi e
milites3, membri dell’Ordine Templare, atipica istituzione
monastica, fondata sull’inedito connubio di professione religiosa e attività militare, per cui «impavidus profecto miles,
et omni ex parte securus, qui ut corpus ferri, sic animum fidei
lorica induitur»4.
L’argomento, oggetto di attenzione da oltre un trentennio
da parte della più autorevole storiografia italiana ed internazionale (Cardini, Fleckenstein, Florì, Fonseca, Laclercq,
Leonardi, Luttrell, Vetere, Zerbi5 - solo per citarne alcuni -),
“I Templari e San Bernardo di Chiaravalle” (Certosa di Firenze, 23-24
ottobre 1992), a cura di G. Viti, Certosa di Firenze 1995, pp. 11-18: 15.
3 Bernardi Claraevallensis, Liber ad milites Templi. De laude novae
militiae, ed. C. D. Fonseca, in Opere di san Bernardo, (d’ora in poi: Liber
ad milites Templi), I, Milano 1984, p. 452.
4 Liber ad milites Templi cit., p. 440.
5 F. Cardini, Le crociate tra il mito e la storia, Roma 1971; Cardini, Il
movimento crociato, Firenze 1972; Cardini, Alle radici della cavalleria
medievale, Firenze 1987; Cardini, I poveri cavalieri del Cristo. Bernardo
di Clairvaux e la fondazione dell’Ordine templare, Rimini 1992; Cardini,
Studi sulla storia e sull’idea di crociata, Roma 1993; Cardini, I primi
tempi dell’Ordine del Tempio, in I Templari. Una vita tra riti cavallereschi
cit., pp. 31-124; Cardini, La nascita dei templari. San Bernardo di
Chiaravalle e la cavalleria mistica, Rimini 1999; J. Fleckenstein, Die
Rechtfertigung der geistlichen Ritterorden nach der Schrift “De laude
novae militiae” Bernhards von Clairvaux, in Die geistlichen Ritterorder
Europas, herausgegeben von J. Fleckenstein - M. Hellmann (Vorträge
und Forschungen, 26), Sigmaringen 1980, pp. 9-22; J. Florì, L’essor de la
chevalerie. XIe - XIIe siècles, Genève 1986; Florì, Croisade et chevalerie,
Louvain-La Neuve 1998; Florì, Cavalieri e cavalleria nel Medioevo,
Torino1999; Florì, La guerra santa. La formazione dell’idea di Crociata
nell’Occidente cristiano, Bologna 2009; C. D. Fonseca, Introduzione
al Liber ad milites Templi. De Laude novae militiae, in Opere di San
Bernardo cit., pp. 427-437; J. Leclercq, Attitude spirituelle de S. Bernard
devant la guerre, in «Collectanea cisterciensia», 36 (74), pp. 195-225;
Leclercq, Bernard de Clairvaux (Bibliothèque d’Histoire du Christianisme,
19), Paris 1989; Leclercq, L’ordine del Tempio: monachesimo guerriero
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
continua, tuttavia, ad affascinare e a suscitare l’interesse
degli storici e della grande
divulgazione, non fosse altro che per i risvolti, spesso
alquanto cruenti, che ancora
oggi, purtroppo, producono
le guerre di religione6.
Tornando all’Ordine Templare, ricordiamo che con
l’istituzione della nova militia Christi, il miles, l’uomo
d’armi, vestiva i panni del
monachus; la guerra si trasformava in impegno religioso: un nuovo stile di vita
contemplativa e belligerante
insieme, la cui missione, passando anche attraverso l’eliPapa Urbano II
minazione fisica del nemico,
ossia dell’infedele, garantiva
la difesa della cristianità, dei pellegrini, dei Luoghi Santi e
della fede. I Templari, nati come gruppo penitenziale laico
composto da poveri cavalieri votati a proteggere i pellegrini
occidentali lungo le strade per Gerusalemme, si organizzarono ben presto, col consenso di sovrani e di pontefici, e con la
sistematica elaborazione di specifiche Regole, in complesse
ed organizzate strutture religiose, in Ordini capaci di gestire
notevoli risorse e di controllare vaste aree territoriali, sia in
Oriente sia in Occidente.
Si trattava di “monaci-cavalieri”, tenuti al rispetto dei voti
di obbedienza, povertà e castità in quanto religiosi, e dediti
all’esercizio delle armi in quanto soldati. In realtà, sebbene
l’accesso all’Ordine fosse subordinato al pronunciamento dei
e spiritualità medievale, in I Templari: mito e storia, Atti del convegno
internazionale di studi alla magione di Poggibonsi-Siena (29-31 maggio
1987), a cura di G. Minnucci e F. Sardi, Sinalunga-Siena 1987, pp. 1-8;
Leonardi, La tradizione cavalleresca e San Bernardo cit., pp. 11-18; A.
Luttrell, Templari e Ospitaliari in Italia, in Templari e Ospitalieri in Italia.
La chiesa di San Bevignate a Perugia, a cura di M. Roncetti, P. Scalpellini
e F. Tommasi, Milano 1987, pp. 19-26; B. Vetere, Il “monacus miles”
nell’epoca crociata, in Verso Gerusalemme, II Convegno internazionale
del IX centenario della I Crociata (1099-1999) (Bari, 11-13 gennaio 1999),
a cura di F. Cardini, M. Belloli e B. Vetere, Galatina 1999, pp. 201-244;
Vetere, Obbedienza monastica e disciplina cavalleresca, in Il cammino
di Gerusalemme, a cura di M. S. Calò Mariani, Bari 2002, pp. 485-512;
P. Zerbi, La “Militia Christi” per i Cistercensi, in “Militia Christi” e
Crociata cit., pp. 273-294.
6 In anni più recenti, il dibattito internazionale sull’origine della
spiritualità militare ha visto il coinvolgimento di vari studiosi, come:
L. Garcìa-Guijarro Ramos, Ecclesiastical Reform and the Origins of
the Military Orders: New Prospectives on Hugh of Pyns’ Letter, in The
Military Orders. Volume 4. On Land and by Sea, ed. J. Upton-Ward,
Ashgate 2008, pp. 77-83; W. J. Purkis, Crusading Spirituality in the Holy
Land and Iberia, c. 1095-c.1187, Woodbridge 2008, in particolare pp. 100111; J. Riley-Smith, Templars and Hospitallers as Professed Religious in
the Holy Land, Paris 2010; C. De Ayala Martinez, Espiritualidad y prática
religiosa entre las Órdenes Militares. Los orígenes de la espiritualidad
militar, in As Ordens Militares. Freires, guerreiros, cavaleiros, Actas do
VI encontro sobre Ordens Militares (10 a 14 de Março de 2010), ed. I. C.
F. Fernandes, Palmela 2012, I, pp. 139-172.
voti monastici7, e diversi studiosi siano concordi nell’accogliere per i Templari la
definizione di “monaci-cavalieri” o di “monaci-soldati”8,
ci sono a riguardo anche pareri discordi. Secondo Anthony Luttrell, ad esempio,
sarebbe forse meglio parlare
di religiosi o di semi-religiosi
piuttosto che di veri e propri
monaci9. Lo stesso studioso,
infatti, in un passaggio alquanto convincente, sottolinea, che «The military-religius orders were corporations
of religious within the Roman Church whose special
function was to oppose the
infidel or the pagan. There
were many variations in their
constitutions, but in general their members, male and female,
had to be fully professed religious who were bound by their
vows of poverty, chastity and obedience, and who supposedly lived a communal liturgical life according to a rule approved by the papacy, to which they were subject. They were
not monks in the narrower sense of the term; many were not
knightly or noble; and they could not take the vows which
would make them crusaders»10.
Osservazioni accolte, più di recente, anche da Carlos de
Ayala Martinez11.
Ma, sia che si voglia guardare ai Templari come ad un
ordo monastico tout court, sia che li si voglia assimilare ad
una comunità di religiosi laici12, obbiettivo nella nostra riflessione è quello di cogliere il percorso ideologico che ha
7 La Règle du Temple, publiée par H. de Curzon, Société de l’Histoire
de France, Paris 1886, 9, p. 21. Sui problemi riguardanti le due tradizioni
del testo (la francese e la latina), e sui problemi posti dall’edizione del de
Curzon, vedi S. Cerrini, A New Edition of the Latin and French Rule of the
Temple, in The Military Orders, 2, Welfare and Warfare, ed. H. Nicholson,
Aldershot 1998, pp. 207-215.
8 Cardini, I primi tempi dell’Ordine del Tempio cit., 105-113; Leonardi,
La tradizione cavalleresca cit., pp. 16-17; Vetere, Il “monacus miles”
nell’epoca crociata cit.
9 Luttrell, Templari e Ospitaliari in Italia cit., p. 19: «Ma sarebbe stato
più preciso parlare di religiosi che non di monaci, perché l’ordine militare
fu piuttosto una religio o ordo di laici religiosi con l’obbligo di combattere
per la fede contro gli infedeli».
10 Luttrell, The Military Orders: Some Definitions, in Militia Sancti
Sepulcri. Idea e istruzioni, ed. K. Elm and C. D. Fonseca (Vatican City
1998, pp. 77-88: 88.
11 de Ayala Martinez, Espiritualidad y prática religiosa cit., p. 166.
12 A riguardo, si veda ancora quanto precisato da Anthony Luttrell, The
Military Orders: Further Definitios, in Sacra Militia. Rivista di storia
degli Ordini Militari, 1 (2000), pp. 7-12: 7: «These were bodies of laici
religiosi and their priests, whose institution did indeed lack clear canonical
definition. Their brethren took the religious vows of poverty, chastity and
obedience, and they followed a rule approved by teh papacy. That their
professed members were religious but were, strictly speaking, neither
monks or canons, nor crusaders, nor in the secular sense milites, was not
always appreciated».
79
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
permesso di coniugare entusiasmo religioso e spirito cavalleresco, obbedienza monastica e disciplina militare.
Per Benedetto da Norcia, padre del monachesimo occidentale, l’“obbedienza” rappresentava certo una delle prerogative più importanti al conseguimento della perfectio monastica. Una condizione che, in periodi di disordini e di smarrimento, come quelli vissuti dall’Europa al tempo della Regula
Benedicti, avrebbe potuto rappresentare un modello di vita
non solo per la comunità monastica ma anche per l’intera
società allo sbando. Altrettanto importante nel dettato benedettino era poi la “disciplina”, requisito indispensabile che
consentiva al discepolo di adempiere al comando impartito
dal maestro. In altri termini, la “disciplina” rendeva possibile
l’“obbedienza”13.
Nel VI secolo, però, il modello di monachesimo cenobitico proposto da Benedetto si riconosceva esclusivamente
nell’esigenza di una stabilitas loci, principio che sanciva un
profondo e duraturo legame tra il monaco e il monastero di
appartenenza.
Le trasformazioni cui andò incontro la civiltà occidentale
nel corso dell’XI secolo, congiunte ad una percezione sempre più minacciosa dell’infedele, che occupava la Terrasanta,
fecero indubbiamente vacillare anche le più solide certezze.
La cristianità prese ad interrogarsi sull’utilità della guerra,
sulla mobilità dei monaci, sulla liceità o meno per un cristiano «pro dogmate armis decertare», o, ancora - sempre dagli
scritti di Bonizone da Sutri, canonista patarino e acceso gregoriano -, «si licet christiano armis pro veritate certare»14.
Le necessità del momento esigevano una risposta affermativa, che trovava le sue ragioni nella giusta causa (bellum
iustum) e nella totale identificazione dell’Occidente e della
cristianità con la gens iusta, la sola che, in quanto custode
della verità del Cristo fatto uomo e risolto, poteva adempiere,
secondo le parole di Bernardo di Chiaravalle, monaco cistercense vissuto nella prima metà del XII secolo, al delicato
compito di custodies veritatem15.
Il diritto alla guerra, dibattuto in più occasioni, scaturiva
così dal peculiare momento storico, dall’esigenza di affrontare una situazione che non consentiva soluzioni alternative,
sebbene figure dal calibro di Pier Damiani continuassero a
respingere qualsiasi uso della forza, promuovendo una militia Christi di tipo tradizionale, votata a Dio attraverso l’esperienza contemplativa16.
Di diverso avviso fu invece Gregorio VII, al quale si riconduce il proposito di trasformare il monachesimo in una forza
attiva nella predicazione ai fini della Riforma, in difesa della quale avrebbero poi combattuto i milites, parte integrante
13 Vetere, Obbedienza monastica e disciplina cavalleresca cit., p. 485.
14 Boninzoni Episcopi Sutrini, Liber ad amicum, ed. E. Dümmler, in
Monumenta Germania Historica, Libelli de lite, I, Hannover 1891, 1, p.
571; e 9, p. 618.
15 Liber ad milites Templi cit., III, 5, p. 446.
16 Petri Damiani, Epistolae, IV, 9, Ad Oldericum episcopum Firmanum,
in PL, 144, coll. 311-320; Petri Damiani, Opusculum XL. De frenanda ira,
5, in PL, 145, col. 656; Petri Damiani, Sermones, LXVI, in PL, 144, coll.
883-884.
80
dello stesso disegno riformista17.
Anche il già citato Bonizone da Sutri, pronunciandosi sul
ruolo del clero e dei vescovi nella difesa della Chiesa e della fede (in auxilium Petri) mediante il coinvolgimento delle
armi, riconosceva loro una parte attiva. Per Bonizone, infatti,
i vescovi, sia pur astenendosi dal compiere materialmente
azioni di guerra, avrebbero comunque dovuto contribuire a
promuoverla. Era compito del clero, dunque, indirizzare la
mano armata dei laici contro i nemici della Chiesa18.
Il dibattitto sul primato della Chiesa romana e sulla legittimità dell’uso di mezzi anche cruenti per la difesa della
Chiesa stessa e dell’ortodossia vide anche il coinvolgimento
di Anselmo, vescovo di Lucca, al quale si suole attribuire
il testo De vindicta et de persecutione iusta, già dal titolo
alquanto esemplificativo19.
La Chiesa era dunque chiamata a riflettere e a pronunciarsi
su come giustificare l’uccisione del nemico, come legittimare l’azione di inferre mortem - espressione usata da Bernardo
di Chiaravalle - per Cristo e in nome di Cristo.
La ricerca di una giustificazione, prendendo spunto da
ragioni di ordine culturale, fece della necessitas la prima e
legittima motivazione. Essere fedeli a Cristo implicava partecipare attivamente alla difesa della fede, prendere atto della
presenza del “diverso”, dell’infedele, e, conseguentemente,
se necessario, ricorrere alle armi per sconfiggerlo. Una scelta, quella di uccidere (hostem deprimere), che diventa doverosa ed inevitabile proprio perché imposta da necessitas e
non da voluntas, come ebbe modo di dibattere Anselmo da
Lucca nei canoni allo stesso attribuiti20.
Insigni presuli, dunque, nel delicato momento storico,
quanto l’intera Europa si mobilitava per liberare dall’infedele i luoghi della vita, della passione e della morte di Cristo, si
pronunciarono positivamente sulla liceità dell’uso delle armi
in nome della fede. Essi formularono paradigmi ideologici
maturati dalla tradizione biblica - illuminanti in merito soprattutto le riflessioni di Réginard Grégoire21 - dalla patristica, dalla Iurisdictio Aquisgranentis e dalla Regula Benedicti22, offrendo così le basi teoriche all’azione, che sarebbe
seguita all’invito di Urbano II.
Si trattava di speculazioni, che, sebbene non sia questa la
sede opportuna per l’approfondimento, richiamavano prece17 Leonardi, La tradizione cavalleresca cit., p. 15; Sibilio, Le parole
della prima Crociata cit., pp. 208-225.
18 Boninzonis Episcopi Sutrini, Liber de vita cristiana, ed. E. Perels,
Berlin 1930, II, 43, p. 56; Capitani, Sondaggio sulla terminologia militare
cit., pp. 167-192: 172.
19 Anselmi Lucensis, Collectio canonum, in Patrologia Latina 149, ed. J.
P. Migne (d’ora in poi: PL), coll. 483-536, Capitula libri decimi terti, Qui
est de vindicta et de persecutione iusta; E. Pasztor, Lotta per le investiture
e “ius belli”: la posizione di Anselmo di Lucca, in Sant’Anselmo, Mantova
e la lotta per le investiture, a cura di P. Golinelli, Bologna 1987, pp. 406408.
20 Capitani, Sondaggio sulla terminologia militare cit., p. 181.
21 R. Grégoire, Esegesi biblica e “militia Christi”, in “Militia Christi”
e Crociata cit., pp. 21-45.
22 C. D. Fonseca, “Militia Deo” e “militia Christi” nella tradizione
canonicale, in “Militia Christi” cit., pp. 343-354: 350.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
denti autorevoli, come Agostino, Gregorio Magno, Gelasio,
Girolamo e Ambrogio23.
La guerra diveniva lecita, anzi giusta e necessaria, perché
consentiva, come, in realtà, avvenne a seguito della prima
Crociata, il recupero dai Luoghi Santi da parte dei cristiani,
la liberazione del santo sepolcro, la difesa della fede. Il conseguimento di tali fini esentava il combattente dalla colpa di
omicidio, poiché lo stesso agiva per «zelo matris ecclesiae»24.
Una eccezione richiamata anche nei testi trasmessi da Ivo di
Chartes (Decretum)25 e nel Decretum Gratiani, dove si legge «Non sunt homicidae qui adversus excommunicatos zelo
matris ecclesiae armantur»26.
Una giustificazione che diventa ancora più esplicita nelle parole di Bernardo di Chiaravalle, primo sostenitore dei
Templari, fautore della «cristianizzazione integrale degli
ideali cavallereschi»27 e, in buona parte, autore della Regola
dell’Ordine28, il quale, nel Liber ad milites Templi, manifesto
della nova militia, scriveva: «mors pro Christo vel ferenda,
vel inferenda, et nihil habeat criminis»29.
Ed è proprio in questo contesto storico e culturale che
prende forma la figura del “monachus miles”, che nasce una
nova militia, incarnata dai Templari e dagli altri Ordini religioso-militari (Giovanniti e, in seguito, Teutonici).
L’Ordine dei Templari, non a caso, sorgerà, su iniziativa di
Ugo di Payns, cavaliere originario della Champagne, appena
un ventennio dopo la morte di Urbano II (1088-1099). Ebbene, nel 1119/20, anno di nascita dell’Ordine, che al momento
contava poco meno di dieci adepti, i tempi erano ormai maturi per considerare indispensabile l’istituzione di una militia
Christi.
Nel Sermo ad milites Templi, attribuito da alcuni studiosi ad Ugo di Payns30 e da altri ad Ugo di San Vittore31, ma
verosimilmente precedente il Concilio di Troyes (1129),
circostanza in cui sarà ufficialmente riconosciuta l’istituzione dell’Ordine Templare e approvata la Regola, appare già
evidente la consapevolezza dei limiti di una vita monastica
esclusivamente contemplativa, ma anche quella della inevitabilità della guerra32.
23 O. Capitani, Sondaggio sulla terminologia militare cit., pp. 180-181.
24 O. Capitani, Sondaggio sulla terminologia militare cit., p. 183.
25 Ivonis Carnotensis, Decretum, in Patrologia Latina cit., 161, col. 706:
«Quod non sint homicidae existimandi qui excommunicatos zelo ecclesiae
occiderint».
26 Decretum Gratiani, ed. E. Friedberg, Corpus Iuris Canonici, I, Graz
1959, col. 945.
27 F. Cardini, Il movimento crociato, Firenze 1972, p. 29.
28 Sulla collaborazione di Bernardo alla redazione della Regola templare,
vedi Fleckenstein, Die Rechtfertigung der geistlichen cit., p. 22.
29 Liber ad milites Templi cit., cap. IV.
30 Leclercq, Un document sur le débuts des Templiers, in Recucil
d’Études sur Saint Bernard et ses ècrits, Roma 1966, pp. 87-99.
31 S. Sclafert, Lettre inédite de Hugues de Saint-Victor aux chevaliers de
Temple, in «Revue d’ascétique et de mystique», 34 (1958), pp. 275-299;
Cardini, I primi tempi dell’Ordine del Tempio cit., pp. 94-97.
32 Leclercq, Un document sur le débuts cit., p. 95: «Ipsi habitatores
heremi ita omnino occupationem fugere non possunt, ut pro victu et vestitu
et ceteris mortalis vite necessariis non laborent: si non essent arrantes et
seminantes, congregantes et preparantes, quid facerent contemplantes?»;
«Videte, frates: si hoc modo, ut vos dicitis, requies et pax querenda esset,
nullus in Ecclesia Dei ordo subsisteret».
Certamente non fu facile per i fratres della prima comunità templare accogliere senza perplessità o esitazione l’invito
all’azione armata proposto dall’autore del Sermo, come rivelano proprio alcuni passi del testo33. Tuttavia, il conseguimento di un bene superiore (requies, pax e ordo in Ecclesia
Dei) fu in grado di fugare ogni dubbio. L’uso delle armi e lo
spargimento di sangue nemico, ovvero infedele, divenivano
atti indispensabili per la salvezza della Chiesa, erano il sacrificio necessario per chi combatteva in nome di Cristo.
Le incertezze degli esordi, protrattesi verosimilmente anche all’indomani del concilio di Troyes (1128), furono efficacemente superate dall’intervento di Bernardo di Chiaravalle,
che tra il 1129 e il 1136, anno di morte di Ugo di Payns, dedicatario dell’opera, scrisse il celebre Liber ad milites Templi.
De laude novae militiae. Contrariamente a quanto prescritto
dalla legislazione canonica, che impediva a clerici e monaci
l’uso della spada, Bernardo proponeva alla nuova fraternitas
dei «pauperes milites Christi» un programma spirituale in
grado di giustificare una professione di vita monastica, che
fosse, al tempo stesso, anche militare; sebbene, per Bernardo,
come per la migliore tradizione benedettina, il monachesimo
tradizionale, quello dedito alla sola vita contemplativa nello
spazio chiuso e solitario del chiostro, continuasse ancora a
rappresentare la militia Chisti per eccellenza. Convinzione
che traspare chiaramente in una lettera indirizzata dall’abate ad Ugo di Champagne, che aveva scelto di abbandonare
Chiaravalle per unirsi ai Templari34.
L’ideologo dell’Ordine Templare, però, a coloro i quali
continuassero a preferire il mestiere delle armi piuttosto che
il monastero, ideale di vita perfetta, proponeva nel suo trattato un novum militiae genus, una nova militia, “alternativa”
- espressione usata da Leclercq35 - alla tradizionale militia
secularis, nei confronti della quale Bernardo sferza una dura
critica. Quest’ultima, infatti, dedita alla più sfrenata mondanità, si presentava agli occhi dell’abate di Clairvaux come
uno stupendus error36. Definita non militia, ma malitia, essa
era preda di almeno tre degli otto vizi capitali, ovvero l’ira,
la vanagloria e la cupidigia («Non sane inter vos aliud bella movet, litesque suscitat, nisi aut irrationabilis iracundiae
motus, aut inanis gloriae appetitus, aut terrenae qualiscunque
possessionis cupiditas»)37. La vecchia cavalleria era accusata
ancora di combattere per scopi frivoli, di sprecare tempo e
denaro al fine di impreziosire sino all’eccesso armature, vesti
e acconciature, che sfioravano spesso il gusto muliebre.
La nuova cavalleria, invece, si distingue dalla precedente perché combatte in nome di Dio, motivo per cui i milites
Christi non incorrono nel peccatum quanto uccidono, né sono
in periculum quando periscono in combattimento. La guerra
per Cristo, che è guerra santa, «nihil habeat criminis», ma è
degna di altissima gloria. Il guerriero di Cristo usa la fede e la
spada, egli è, al tempo stesso, sia monaco sia soldato.
33 Leclercq, Un document sur le débuts cit., p. 95.
34 Fonseca, Introduzione al Liber ad milites Templi cit., I, p. 430.
35 Leclercq, Bernard de Clairvaux cit., 49.
36 Liber ad milites Templi cit., p. 442.
37 Liber ad milites Templi cit., p. 444.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
Miniatura da Histoire d’Outre-Mer di Guglielmo di Tiro, XIII secolo
Ed è proprio quest’ultimo aspetto a differenziare maggiormente la nova militia dalla vecchia malitia. Il nuovo modello di cavalleria, conseguito attraverso la conversio dall’uno
all’altro stile di vita, impone necessariamente al miles l’abito del monachus. Il miles Christi, che combatte da valoroso
soldato con prudenza e decisione, è infatti un monaco, e in
quanto tale, vive in comunità con altri monaci («cor unum
et anima una») nel rispetto dei voti di obbedienza, povertà
e castità.
Più miti degli agnelli e più feroci dei leoni, i Templari, che
lo stesso Bernardo definisce sia monachi sia milites - contribuendo alla definitiva affermazione di un ordine religiosomilitare del tutto nuovo ed originale -, adempiono alla propria missione attraverso la monachi mansuetudo e la militi
fortitudo38. Essi devono saper coniugare la spada e la croce,
la vita attiva (militare) e quella contemplativa (monastica),
essendo al tempo stesso bellatores e oratores39.
Questa nova militia, però, è votata a combattere non solo
la guerra - diciamo esteriore - del cavaliere, ma anche quella,
tutta interiore, del monaco, vale a dire la quotidiana battaglia
contro le tentazioni del demonio e le inquietudini dell’animo,
pertanto, essa segue necessariamente un percorso di peniten38 Liber ad milites Templi cit., p. 452.
39 Di diverso avviso, come già accennato, è invece Carlos de Ayala
Martinez, il quale, commentando il passo di Bernardo, esclude che
l’abate abbia voluto identificare i Templari con dei monaci. Cfr. de Ayala
Martinez, Espiritualidad y prática religiosa cit., p. 166: «no resulta
convincente aducir en contrario que quando retóricamente se pregunta en
su tratado apoloético [….] cómo habrían de ser llamados los templarios, si
caballeros o monjes, y acaba optando por ambos títulos, pues lo hace en un
contesto de pura analogía».
82
zialità, che impone, oltre ai voti monastici, anche l’eventualità del martirio attraverso la morte per Cristo. Il “monachus
miles”, infatti, non teme la morte. Per il guerriero cristiano
essa è sempre portatrice di un premio: sia in caso di vittoria,
quando la morte dell’infedele procura gloria a Dio; sia in
caso di sconfitta, quando il martirio del miles Christi assicura
allo stesso l’eterna ricompensa40.
È soprattutto nella prima parte del De Laude che Bernardo
di Chiaravalle celebra la dignità e la legittimità dell’Ordine Templare, promuovendo, in pari tempo, l’ideale di una
guerra giusta e santa. Nella seconda parte del trattato, invece,
dove è proposto un itinerario spirituale attraverso i Luoghi
Santi, si dà spazio ad una serie di riflessioni sulla vita di Cristo41.
Travestendo il miles da monaco, Bernardo compie un’operazione culturale e spirituale alquanto audace e complessa, poiché trasforma l’esperienza della guerra in missione di
fede, in missione monastica, sia pur atipica, che si arricchisce di nuovi contenuti spirituali. Ovviamente, la guerra condotta dai Templari, lungi dal perseguire la violenza fine a se
stessa, caratterizzante la militia saecularis, sarà soltanto una
guerra difensiva, votata a ridurre al minimo l’uso della forza
e far emergere essenzialmente intenti caritativi42. Un processo di maturazione spirituale e di ascesi in grado di condurre
il miles cristiano verso la grazia, verso Cristo, unico modello
40 F. Cardini, I primi tempi dell’Ordine del Tempio, in I Templari. Una
vita tra riti cit., pp. 31-122: 108-109.
41 Fonseca, Introduzione al Liber ad milites Templi cit., pp. 430-432.
42 Leclercq, Attitude spirituelle de S. Bernard cit., pp. 212-215; Leclercq,
Bernard de Clairvaux cit., p. 52.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
di vita, che con la sua morte ha redendo il mondo43.
La guerra santa del miles Christi contro l’infedele trova
comunque la sua giustificazione nelle problematicità affrontate dai cristiani in Terra Santa tra XI-XII secolo. Pertanto, l’esercito cristiano di cui parla Bernardo ha soprattutto
una funzione difensiva. Deve proteggere i cristiani residenti
in Oriente e soccorrere i pellegrini diretti a Gerusalemme,
dal momento che gli infedeli intendono profanare «christiani populi inaestimabiles divitias» e «possidere sanctuarium
Dei»44.
Sebbene necessaria e combattuta per scopi difensivi, la
guerra produce, tuttavia, spargimento di sangue, impone al
soldato, sia pur cristiano, di uccidere il proprio nemico. Questo aspetto, peculiare di ogni guerra, creò certo non poco imbarazzo alla cultura cristiana del tempo, la quale, nato l’Ordine Templare, si trovò nella condizione di dover accettare e
giustificare l’operato di quei monaci guerrieri che combattevano e uccidevano. L’argomento, alquanto delicato e persino
scandaloso, fu affrontato e risolto da Bernardo di Chiaravalle
che ricorse ad un efficace gioco di parole, tratto caratteristico
del suo stile.
Per l’abate, infatti, il miles Christi che procura la morte
del nemico in battaglia non è «homicida, sed, ut ita dixerim,
malicida»45. In altri termini, non senza un certo imbarazzo,
Bernardo introduce il concetto di “malicidio”, che consente
di distinguere l’uccisione di un uomo (omicidio) dall’uccisione del male (malicidio). La battaglia combattuta dal templare incarna dunque - secondo l’interpretazione dualistica,
e quasi manichea, proposta da Franco Cardini - l’eterna lotta
delle forze del Bene contro le forze del Male46. Pertanto, trova legittimazione anche la soppressione fisica dell’infedele
in quanto essa non dovrà essere intesa come l’eliminazione
dell’uomo, bensì come quella del male. Attraverso la morte
degli infedeli è infatti possibile estirpare il male dal mondo.
Il ragionamento di Bernardo, la conversione dell’homicidium dell’empio in malicidium, rappresenta il punto di arrivo di una riflessione, quella sul rapporto cristiano-guerra,
particolarmente vivace nel corso dell’XI secolo, sebbene già
avviata dalla definizione agostiniana del bellum iustum, di
natura essenzialmente difensiva47, come pure dalla dottrina
di Anselmo da Aosta sulla guerra che diviene legittima quanto risulta inevitabile48.
L’elogio della cavalleria cristiana, che infligge la morte
per glorificare Cristo («In morte pagani christianus gloriatur,
quia Christus glorificatur») e che riceve la morte quale proprio vantaggio («in morte christiani, Regis liberalitas ape43 Liber ad milites Templi cit., pp. 466-467.
44 Liber ad milites Templi cit., III, 5, p. 446.
45 Liber ad milites Templi cit., III, 4, p. 446.
46 Cardini, Le crociate tra il mito e la storia cit., p. 9.
47 A. Morisi, La guerra nel pensiero cristiano dalle origini alle
crociate, Firenze 1963 (Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Milano, 29), pp. 97-120; F. H. Russel, The juste war
in the Middle Ages, Cambrige-London-New York-Melbourne 1975
(Cambridge Studies in medieval life and though, third series, 8), pp. 1639; Florì, La guerra santa cit.
48 Lequercq, Attitude spirituelle cit., pp. 200-202.
ritur, cum miles remunerandus educitur»), non esime però
Bernardo dal provare amarezza e un certo imbarazzo, evidenti, soprattutto, nel passo in cui si giustifica il malicidium.
Per l’ideologo della militia Christi sarebbe certo miglior cosa
non uccidere nessuno («Non quidem vel Pagani necandi essent»), se solo vi fosse altro modo per impedire agli infedeli di esercitare violenza a danno dei cristiani («quo modo
aliter possent a nimia infestatione seu oppressione fidelium
cohiberi»)49.
La difesa della Terrasanta e dei valori cristiani rende dunque opportuna e necessaria la morte dell’infedele. Solo attraverso l’eliminazione fisica di quest’ultimo, i cristiani potranno professare liberamente la loro fede ed evitare il rischio di
allontanarsi da essa perché indotti a farlo con la forza50.
In conclusione, Bernardo di Chiaravalle, padre spirituale
dei Templari e guida morale per tutto l’Occidente cristiano,
ebbe certo un ruolo determinante nel portare a compimento
la rivoluzione dottrinale della Chiesa di fronte alla guerra. La
nascita e la conseguente promozione di un Ordine religioso a
vocazione cavalleresca e guerriera sanciva ormai l’ingresso
dei bellatores tra gli oratores, legittimava l’uso delle armi
anche per coloro i quali, prendendo i voti monastici, consacravano la propria vita a Cristo. Attraverso la sacralizzazione
del guerriero cristiano, il “monachus miles”, eroe e martire
della fede, la dottrina della Chiesa di Roma accoglieva la
nozione di guerra santa, indirizzando gli ideali cavallereschi
al proprio servizio nella lotta agli infedeli.
49 Liber ad milites Templi cit., III, 4, p. 446.
50 Liber ad milites Templi cit., III, 4, p. 446: «Nunc autem melius est
ut occidantur, quam certe relinquatur virga peccatorum super sortem
iustorum, ne forte extendant iusti ad iniquitatem munus suas».
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
Gli alberi lungo le strade: una questione
storica e ambientale
ROSSANO PAZZAGLI
Università degli Studi del Molise
L
’aumento del traffico automobilistico, conseguenza anche del mancato potenziamento
dei trasporti pubblici che anzi stanno subendo politiche di tagli e ridimensionamenti, sta
riproponendo in misura crescente il problema della sicurezza stradale. Spesso sotto la spinta emotiva di
gravi incidenti, dimenticando la responsabilità di errate strategie gestionali della mobilità, come quella delle numerose
privatizzazioni e della progressiva introduzione dei pedaggi
sulle strade a scorrimento veloce, sono le tradizionali alberature lungo le strade d’Italia a finire sotto accusa. Qualcuno
arriva così a proporre l’abbattimento indiscriminato di interi
filari di piante, ignorando le funzioni che questi hanno a lungo svolto e che almeno in parte potrebbero ancora svolgere.
Lo stesso codice della strada, approvato nel 1992, prevede
nei successivi regolamenti di attuazione il divieto della presenza di alberi entro una distanza minima di sei metri dal
bordo stradale1.
Si tratta di un tema molto ampio e ricco di significati, che
inevitabilmente tocca diversi ambiti – dalla storia dell’architettura all’agronomia, dalle scienze forestali all’ingegneria e che ci consegna non pochi interrogativi sul nostro modo di
intendere il rapporto tra società, infrastrutture e paesaggio.
La prospettiva storica può aiutare a porre correttamente il
problema, al di fuori di scorciatoie o soluzioni irrazionali.
LE ALBERATURE STRADALI DALLE CARROZZE
ALL’AUTOMOBILE
In gran parte d’Europa i viali alberati sono la più antica
forma d’inverdimento ai bordi delle strade, marcando in
modo quasi indelebile i tragitti viari. Originariamente le alberature servivano a consolidare e a rendere permanenti e
riconoscibili le vie di comunicazione: le radici degli alberi
impedivano che la superficie stradale non pavimentata si ero1 Decreto Legislativo 30 aprile 1992, n. 285, Nuovo codice della strada.
84
desse, le chiome creavano una piacevole zona d’ombra attutendo il caldo estivo e proteggevano da pioggia e neve nella
stagione invernale; quando si impiegavano alberi da frutto,
questi davano nutrimento ai viandanti; inoltre fornivano legname da costruzione e legna da ardere, fascine, alimenti per
animali, miele ecc. Gli alberi più frequentemente usati per
le alberature stradali sono il tiglio, l’acero, la quercia, il platano e l’ippocastano, ma anche il noce, il carpino, il faggio,
come pure varie specie di alberi da frutto, e in certe regioni
gelsi e cipressi, fino all’impiego di piante esotiche – come
le palme - talvolta legate alle avventure coloniali. Per lungo
tempo si è usato soprattutto l’olmo, prima che una aggressiva malattia fungina (Ophiostoma ulmi) falcidiasse nel secolo
scorso gli olmi europei. Infine, a livello ambientale, i viali
alberati offrono con i loro rami, le foglie e i tronchi un habitat
adatto molte specie animali e costituiscono elementi di collegamento tra ecosistemi, configurandosi a volte come veri e
propri corridoi ecologici. Nell’age of oil, o età dell’automobile, molte di queste funzioni non risultano più compatibili
con gli stili di vita e le modalità degli spostamenti, ma non è
fuori luogo domandarsi quante e quali di esse possono essere
attualizzate o addirittura rilanciate nell’ottica di una nuova
mobilità sostenibile.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Le alberature stradali, simili per certi aspetti alle alberature che segnano i confini dei campi, hanno rivestito dunque,
nel corso del tempo, ruoli funzionali e funzioni produttive:
legname, foglie, frutti, difesa dal sole, dal vento e dalla pioggia, consolidamento del suolo e creazione di un microclima
più adatto agli spostamenti degli animali e delle persone.
L’ESTETICA DELLA STRADA
Dal punto di vista visivo queste formazioni hanno sempre
teso a disegnare delle linee e delle interruzioni, in special
modo nelle zone di pianura dove prevaleva il paesaggio semplice dei seminativi o dei pascoli, inserendo elementi diversificatori che contribuito ad arricchire paesaggio rendendolo
meno omogeneo ed uniforme. Per tutti questi motivi le alberature stradali hanno rappresentato un segno quasi indelebile,
un elemento di resistenza al processo di banalizzazione del
paesaggio che ha preso piede soprattutto nell’età contemporanea.
Sotto questo aspetto si può dire che la tecnica di costruzione stradale è stata sostanzialmente mutuata dalla più
complessiva organizzazione dello spazio rurale, che soprattutto nell’Italia centro-settentrionale assegnava agli alberi un
ruolo importante, sia nella forma della piantata padana che
in quella dell’alberata toscana e umbro-marchigiana, per riprendere le classiche espressioni coniate da Emilio Sereni .
Nelle campagne le strade sterrate, che sono anche alberate, sono generalmente piccole, strette, di costruzione e concezione talvolta molto antica, attraversano i campi, costeggiano colline, evitando salite che non si potevano percorrere
con la trazione animale; ai lati di queste strade, gli alberi
venivano messi quasi a distanza di chioma l’uno dall’altro.
Quando le strade costeggiavano dei corsi d’acqua, il terreno
doveva essere più rialzato e le piante ancora più fitte per
consolidare il piede della strada e proteggerla da esondazioni o erosioni del fiume o del torrente.
Sono assai note le vicende delle alberature in ambito urbano dove, soprattutto nei giardini e nei parchi storici, i viali
alberati venivano usati per creare effetti ottici ad arte o per
riqualificare la città e migliorare la vivibilità urbana, come
avverrà a Parigi nella seconda metà dell’Ottocento con lo
straordinario piano di George Eugène Haussmann e l’opera
di Jean Charles Adolphe Alphand che arricchirà le vie principali della città di oltre 80.000 piante in modo da ricreare anche sulle grandi arterie l’ambiente della passeggiata3. Meno
nota appare ancora la storia delle alberature in spazi aperti,
fuori delle città, sebbene non manchino importanti lavori di
storia delle strade e della viabilità .
Quella degli alberi lungo le strade è una storia molto lunga, che potremmo seguire a partire almeno dagli scrittori latini. D’altra parte fu proprio l’età romana, con la rete delle
grandi stradi consolari, a porre le basi delle più importanti
direttrici infrastrutturali italiane. Con la fine dell’impero anche le strade, come le città, andarono incontro ad un periodo
di decadenza, ma il medioevo si configura comunque come
un mondo di uomini in cammino5.
Nei secoli centrali del medioevo e fino al Rinascimento
sulle strade italiane viaggiavano numerose persone: mercanti, soldati, corrieri, studenti, ma soprattutto i pellegrini che
si recavano a Roma lungo itinerari che collegavano la città
del papa al nord Europa, alla Francia e all’importante meta
cristiana di Santiago de Compostela; da Roma verso sud tali
itinerari proseguivano verso le Puglie da dove si poteva salpare per Gerusalemme6. Dal Quattro-Cinquecento il viaggio
verso Roma tende a perdere la prevalenza dei motivi religiosi, ma continua come viaggio culturale, trasformandosi
in “viaggio in Italia”, alla ricerca delle città d’arte, delle antichità classiche e infine – nell’età dell’illuminismo e del romanticismo - delle bellezze naturali e del paesaggio7. Sono
i secoli del gran tour, cioè del prolungato viaggio attraverso
il continente europeo, avente come meta privilegiata l’Italia, finalizzato al completamento della formazione culturale
dei giovani aristocratici inglesi, ma che finì per interessare
anche molti esponenti della cultura europea e della borghesia in ascesa. La descrizione delle strade fatta da numerosi
grandtouristi europei dedica una frequente attenzione alla
condizione delle strade e alla presenza di alberature lungo
il percorso, generalmente fatto in carrozza, ma anche a piedi
e a cavallo.
Nel corso dell’età moderna in vari stati regionali anche le
leggi italiane favoriscono il diffondersi e il mantenimento
degli alberi lungo le strade. A Roma i primi viali accompagnati da filari verdi nascono alla fine del Cinquecento,
quando Sisto V fece piantare gli alberi lungo le ampie vie
che collegavano tra di loro le chiese principali, in modo che
i pellegrini trovassero po’ d’ombra lungo il percorso. Altre
piantumazioni seguirono nel corso del 600. Si trattava prevalentemente olmi, tanti da formare le olmate che divennero
perfino un simbolo della città8.
Tuttavia prima del ‘700 la costruzione di strade secondo
tracciati nuovi è del tutto eccezionale, se non si risale all’epoca delle grandi colonizzazioni medievali o addirittura a
Roma antica, mentre è proprio nel secolo dei Lumi che si
verifica una profonda trasformazione delle funzioni e delle
2 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1979,
p. 177 ss.
3 F. Panzini, Per i piaceri del popolo. L’evoluzione del giardino pubblico
in Europa dalle origini al XX secolo, Zanichelli, Bologna, 1993.
4 Per l’Italia cfr. tra gli altri la sintesi di J. Day, Strade e vie di comunicazione, in Storia d’Italia, vol. 5, I documenti, t. I, Torino, Einaudi, 1973, pp.
87-120; L. Bortolotti, Viabilità e sistemi infrastrutturali, in Storia d’Italia,
Annali 8, Insediamenti e territorio, a cura di C. De Seta, Torino, Einaudi,
1985, pp. 287-366.
5 H. C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo. Dall’ospitalità alla locanda,
Bari, Laterza, 2009.
6 F. Cardini, Il pellegrinaggio. Una dimensione della vita medievale ,
Roma, Vecchierelli, 1996.
7 A. Brilli, Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale,
Bologna, il Mulino, 2008.
8 Cfr. la sintesi di C. Redina, Poveri viali alberati, due secoli di distruzioni, “La Repubblica”, Roma, 7 giugno 2001.
PAESAGGIO AGRARIO E PAESAGGIO STRADALE
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
tecniche stradali: si apre definitivamente l’epoca delle carrozzabili, il passaggio dal trasporto someggiato a quello con
i carri e le carrozze – dal mulo alla diligenza, come è stato
efficacemente sintetizzato9 - che comporta a sua volta il passaggio dai lastricati e acciottolati ai fondi inghiaiati o gettati.
Inoltre, coerentemente con il pensiero razionale dell’illuminismo, si cominciano ad adottare i moderni sistemi di classificazione delle strade. Il ‘700 fu – come è stato detto – il
secolo del risveglio stradale10. Ed è in questo periodo che si
afferma anche quella che possiamo definire una estetica della
strada, in aggiunta all’idea del viale alberato rinascimentale,
prevalentemente urbano o collegato alle ville o ai parchi e
giardini. L’attenzione si sposta anche sul paesaggio rurale,
nel quale le strade grandi e piccole assumono un ruolo di
spicco. Ciò vale sia per le regioni dove prevale la coltura
estensiva cerealicola e pastorale, sia per quelle dove invece
predomina il sistema della coltura promiscua, come è nelle
aree mezzadrili dell’Italia centrale e della Toscana in particolare.
Poco dopo la metà del ‘700 l’inglese Joseph Spence percorrendo il Valdarno dalla parte di Pisa lo trova “una delle
più belle valli del mondo”; una delle ragioni di questa bellezza era che “il margine della strada è pieno di viti, e i grappoli
pendono da gelsi e olmi, e, a volte, si vedono un albero di
uva rossa e uno di uva bianca insieme per un lungo tratto.”11
Le testimonianze in tal senso da parte dei viaggiatori stranieri non riguardano solo la Toscana, ma sono rintracciabili
un po’ per tutta la penisola. A proposito di Napoli – siamo
intorno al 1780 - Joseph-Jerome de Lalande, collaboratore
dell’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert, scriveva che “si
giunge in questa bella capitale per una strada affascinante
(charmante), larga, diritta, bordata di alberi alti che fanno
un’ombra piacevole, e che sono legati da ghirlande di viti”12.
Negli stessi anni il marchese De Sade, in fuga dalla Francia
per i guai giudiziari connessi ai suoi costumi libertini, confermava che a Napoli si arriva per “una strada superba, fiancheggiata su entrambi i lati da alti pioppi e ornata di pampini.
Tutto, insomma, dà l’impressione di una festa”13.
DALLA FRANCIA ALLA TOSCANA
Un ruolo di primo piano nello sviluppo di questa nuova
sensibilità e nella realizzazione di grandi strade alberate spetta alla Francia, che proprio a partire dal ‘700, grazie all’impegno e alla preparazione del corpo degli ingegneri di ponti e
strade, vede la creazione di un vero e proprio sistema stradale. La stessa legislazione in materia si fa più sempre più fitta
9 J. Day, Strade e vie di comunicazione, cit., p. 98.
10 L. Bortolotti, Viabilità e sistemi infrastrutturali, cit., p. 302.
11 M. Meini, Paesaggio e territorio nella Toscana di ieri: in viaggio con
il Grand Tour, in Itinerari in Toscana. Paesaggi e culture locali, risorse
per un turismo sostenibile, a cura di M. Azzari, L. Cassi e M.
Meini, Firenze, Edizioni PLAN, 2004, pp. 31-78.
12 I. Agostini, Il Paesaggio antico. Res rustica e classicità tra XVIII e
XIX secolo, Firenze, Aiòn, 2009, p. 92.
13 Ivi, p. 93.
86
e in età rivoluzionaria e napoleonica vari decreti affinano e
aggiornano continuamente la normativa stradale, comprese
le disposizioni relativamente agli alberi piantati sulle strade:
si susseguono infatti vari decreti, fino alla legge del 1812
secondo cui anche le strade dipartimentali, oltre a quelle
imperiali, dovevano essere alberate e si incaricavano a tale
scopo prefetti, ingegneri e maires14. Secondo questo decreto,
tutti gli alberi piantati fino ad allora sulle strade regie appartenevano allo Stato, mentre veniva prevista la redazione di
un piano generale delle strade “non piantate e suscettibili di
piantagione”.
Durante la realizzazione dell’imponente sistema stradale
francese l’aspetto estetico non viene tralasciato e le alberature sono attentamente scelte in base al loro portamento e allo
sviluppo della chioma, mentre la loro disposizione è stabilita
in relazione al paesaggio attraversato ed al significato che
esse devono sottintendere: “Queste grandi architetture vegetali testimoniano l’aspirazione degli ingegneri ad abbellire il
paese...gli alberi fastigiati come il pioppo italico segnalavano
i punti rimarcabili del percorso, i ponti, l’incontro con un’opera d’arte; gli alberi più monumentali, dalle chiome dense
e arrotondate o coniche, come i castagni, annunciavano gli
ingressi nei paesi…, mentre si riserveranno i tigli, potati, alla
scala degli edifici circostanti, all’attraversamento dei paesi
e della città, e gli alberi da frutto per gli edifici pubblici”15.
In Italia la presenza degli alberi sembra più timida, a dispetto del clima più caldo e soleggiato, come farà notare di
lì a qualche anno Stendhal che in occasione della sua promenade a Roma del 1829 annotava: « Dès qu’on voit une
promenade plantée d’arbres en Italie, on peut être assuré
qu’elle est l’ouvrage de quelque préfet français. ... Les Italiens modernes abhorrent les arbres; les peuples du Nord,
qui n’ont pas besoin d’ombre [que] vingt fois par an, les aiment beaucoup»16. Aveva certamente ragione a sottolineare
l’influsso francese, e in particolare dei prefetti napoleonici,
nella costruzione di questo tipo di paesaggio e anche nell’affermarsi di una tradizione che si consoliderà nel periodo della Restaurazione e ancor più nel secondo ‘800.
Nel 1827 viene pubblicato in Toscana il Ragionamento sui
boschi di Gaetano Savi, professore di botanica Università di
Pisa, direttore dell’Orto botanico e autore anche di un Trattato degli alberi della Toscana (1801). Uscito sul “Giornale
agrario toscano”, questo corposo articolo fu ripreso anche
sulle pagine di altri periodici italiano, come il “Giornale di
scienze lettere e arti per la Sicilia”17. Quello proposto da Savi
era un saggio sull’utilità degli alberi e delle alberature. In
14 M. Ambrosoli, Alberate imperiali per le strade d’Italia : la politica
dei vegetali di Napoleone, « Quaderni storici », 99, a. XXXIII, n. 3, 1998,
pp. 707-738.
15 E. Morelli, Disegnare linee nel paesaggi. Metodologie di progettazione paesistica delle grandi infrastrutture viarie, Firenze, Firenze University
Press, 2005.
16 Stendhal, Promenades dans Rome, Paris, Calmann Lévy, 1883, pp.
172-173.
17 G. Savi, Ragionamento sui boschi, “Giornale agrario toscano”, I,
1827, pp. 43-70; anche in “Giornale di scienze lettere e arti per la Sicilia”,
XXI, 1828, pp. 113-138.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Toscana – scriveva - “Ci è sempre da piantarne un’ infinità
lungo le strade, tanto maestre che comunali, e questi tutti,
adulti che fossero, colle potature annue darebbero molte legna minute… e tagliati poi regolarmente ne’ tempi debiti legname grosso, buono per molti usi.” Faceva poi riferimento a
un provvedimento legislativo del 1750, “la quale ordina una
piantata di alberi, e a preferenza di gelsi, nei margini delle
strade del territorio pisano , invita a farla i possessori dei terreni confinanti, dichiarando che il frutto dell’albero apparterrà per metà al padrone del terreno, e per metà al lavoratore,
e quando i possessori ricusino di farla, ne addossa la cura
all’Ufizio dei Fossi cui per intiero n’è rilasciato il profitto.”
La stessa normativa prescriveva la pena di 40 lire per chi
tagliasse un gelso e di 20 lire per le altre piante, stabilendo
“che l’Ufizio dei Fossi faccia fare una visita annua generale,
per prender nota delle piante deperite, e farle ripiantare a chi
spetta”.
Una legge simile era stata emanata per il pistoiese nel 1752
e nello stesso anno un altro provvedimento “ordinò la piantagione di alberi lungo le strade del territorio aretino, che
affidata fu all’Ufizio dei viari”. “È da desiderarsi – scriveva
Savi - che tali leggi siano tenute in esatta esecuzione, e che
siano estese a tutte le altre strade della Toscana: e qualora il
bisogno per l’educazione dei bachi da seta non prescrivesse
il piantar gelsi, meglio sarebbe scegliere alberi di crescimento più sollecito, come l’acacia, l’ailanto e le diverse specie di
pioppi, fralle quali è raccomandabile il pioppo angolato che
cresce con una rapidità sorprendente”. Gli alberi, a partire
dal gelso che in certi territori veniva definito l’albero d’oro
per la sua fondamentale importanza nella sericoltura, avevano una funzione produttiva, ma non solo: “l’ombra e la
traspirazione degli alberi spargono nell’estate una frescura e
un’ umidità favorevole , e l’irradiazione da essi dipendente ci
diminuisce il freddo dell’ inverno. Cosi un albero dev’esser
considerato come un centro vivente, che emana e diffonde
per tutte le parti influssi benefici per la vita vegetabile…”
Lo scritto del Savi fu subito commentato da un altro naturalista, Ottaviano Targioni Tozzetti, che stigmatizzava “l’atterramento di laute rigogliose querci ed altri alberi coltivati
lungo le pubbliche strade del Mugello e dei monti contigui”;
così – continuava - si privano di pastura i maiali, e si abolisce il legname da costruzione e da fuoco, del quale è tanto
cresciuto il consumo modernamente” 18. Per lui “Buonissimo
[era] il progetto del sig. Savi, di piantare alberi di ogni sorte
lungo le strade maestre. Nella Romagna papale, nel Bolognese, e Ferrarese, sono bellissime strade con file d’alberi da
una parte e dall’altra, e talvolta a due file per parte, di pioppi
18 O. Targioni Tozzetti, Intorno al Ragionamento sui boschi del prof.
Savi, “ Giornale Agrario Toscano”, I, 1827, pp. 295-304. Anche questo
scritto fu ripreso dal “Giornale di scienze lettere e arti per la Sicilia”, XXII,
1828, pp. 20-28.
87
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
I cipressi di Bolgheri
cipressini , di salcio arboreo e altri alberi, i quali rendono
delizioso il viaggio, e non troppo ombroso. Molte sono le
strade in Toscana, specialmente del Pisano , del Valdarno
e del Pratese e di altri piani, le quali sono assai larghe, e
dove si potrebbero piantare utilmente tali alberi, dandone
cura e responsabilità, e parte del profitto ai possessori dei
campi contigui alle strade”. Poiché gli alberi a grande chioma trattenevano l’umidità e con la loro ombra mantenevano
fangose le strade rotabili, Targioni Tozzetti sponsorizzava il
cipresso e altre piante che tendono a svilupparsi in altezza: i
pioppi cipressini, che si alzano diritti e non allargano i rami,
come pure i comuni pioppi, conosciuti col nome di albaro
o albero, che si puliscono da’ rami ogn’anno … che fanno
ombra non folta , e lasciano passare sufficiente luce e vento
fra l’uno e l’altro”. L’ 800, in effetti, è il secolo in cui si
moltiplicarono i filari di cipressi lunghe le strade toscane, da
quelle poderali a quelle di collegamento tra borghi e città.
Non solo Toscana, come abbiamo visto. Anche a Napoli
si riprende l’esperienza amministrativa francese: un decreto del 25 gennaio 1842 , relativo proprio alla piantagione e
conservazione degli alberi lungo le vie .provinciali e comunali, affermava all’articolo 1 che “Le piantagioni lungo le
pubbliche strade sono sotto la particolare cura e protezione
del Governo” e che alla loro custodia e manutenzione provvederanno, oltre agli appaltatori delle piantagioni, tutte le
istituzioni locali e i “proprietari ed i coloni dei fondi limitrofi
alle strade”19.
19 P. Petitti, Repertorio amministrativo, ossia collezione di leggi, de88
I CIPRESSI DI BOLGHERI
I viali alberati non nascevano all’improvviso, né secondo
progetti chiaramente predefiniti. La creazione del Viale dei
Cipressi di Bolgheri, ad esempio, durò parecchio tempo. Si
trattava di una lunga strada che si diramava dalla via Emilia (Aurelia) verso l’entroterra dell’Alta Maremma toscana.
L’antica via Aurelia, ricostruita fra il 1828 e il 1841, fu bordata di filari di pioppo, che era considerato una pianta in grado di sopportare l’umidità delle zone pianeggianti e acquitrinose. I giovani alberi erano protetti da palizzate in legno
che ne impedivano il danneggiamento da parte del bestiame
brado (in particolare dei bufali vaganti, i cosiddetti “malandroni”). Nel 1831 il conte Guido Alberto Della Gherardesca,
il più grande proprietario dell’area, decise di piantumare con
i pioppi anche una parte dello stradone che collegava San
Guido, piccola località lungo la via principale, all’abitato di
Bolgheri; ma non avendo realizzato la staccionata di protezione le giovani piante furono distrutte dai bufali, ripiantate
e ancora mangiate e divelte dai malandroni, finché un tecnico
agrario della tenuta, Casimirro Giusteschi, suggerì di sostituire i pioppi con i cipressi, non appetibili per le bestie. Il completamento del viale alberato, con la piantagione di cipressi
fino a Bolgheri, avverrà comunque nei primi anni del ‘900,
quando ormai era già stato celebrato e reso noto dai versi di
creti, reali manoscritti, ministeriali di massima, regolamenti ed istruzioni
sull’amministrazione civile del Regno delle Due Sicilie, Napoli, Migliaccio, 1851, Volume 3, p. 590.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Giosuè Carducci (Davanti a San Guido, 1874).20
Le strade di pianura assumono un significativo rilievo nel
paesaggio proprio quando sono alberate: l’Aurelia di metà
‘800 presentava per lunghi tratti doppi filari di platani, che
si intensificavano in prossimità dei nuclei insediativi. Finché erano giovani, queste piante erano per certi tratti protette da staccionate perché gli animali bradi non potessero
danneggiarli. Il territorio della Toscana, costruito sulla base
di un peculiare rapporto città/campagna che si concretizzava
nell’organizzazione mezzadrile dell’agricoltura, si presenta
molto ricco di alberi. Colture arboree nei campi e alberi lungo le strade. Si mettevano gli alberi per ragioni pratiche, ma
anche per rendere certo il tracciato stradale, per fissarlo come
una linea nel paesaggio e nel tempo.
DALL’UNITÀ D’ITALIA ALLE AUTOSTRADE
A livello italiano, nell’ambito della “Legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia”, emanata il 20 marzo 1865, furono stabilite le norme sulla competenza, la costruzione, la manutenzione e conservazione delle strade, che
vennero suddivise in quattro grandi categorie: nazionali, di
competenza dello Stato; provinciali; comunali; vicinali, di
competenza dei consorzi formati dagli utenti privati, con o
senza la partecipazione degli enti locali21. Questa classificazione rimarrà immutata fino al ‘900, almeno fino al periodo
fascista quando, nel 1923, il Regio Decreto n. 2506 ripartì le
strade in cinque classi oltre a quelle vicinali: strade di prima
classe, di competenza dello Stato (circa 20.000 km di strade importanti, molte delle quali, nel Mezzogiorno, finivano
per costituire la sola risorsa viaria); strade di seconda classe,
cogestite dallo Stato e dalle province, che collegavano tra
loro i capoluoghi di provincia e questi con i capoluoghi di
circondario e con le città portuali; strade di terza classe, che
collegavano i capoluoghi comunali con i capoluoghi provinciali, di competenza delle province; strade di quarta classe,
che collegavano i vari centri comunali, di competenza dei
comuni; strade di quinta classe22.
Negli anni ’20 inizia anche la storia delle autostrade, con
l’inaugurazione nel 1924 del primo tratto della MilanoLaghi, la prima autostrada italiana seguita dalla MilanoBergamo (1927), Napoli-Pompei (1929), Bergamo-Brescia
(1931), Torino-Milano (1932) e Firenze-Mare (1933). Anche le prime autostrade sono spesso costeggiate da lunghe e
imponenti file di piante. Proprio lungo la Firenze-Mare, ad
esempio, nel tratto compreso tra Prato e Pistoia e poi dopo
Montecatini fino alla Pineta del Parco di Migliarino, si trovavano filari di pini disposti ad una distanza di quindici metri. L’impianto arboreo è rimasto per lo più immutato fino
agli adeguamenti, causati dall’aumento di traffico, degli anni
20 M. Agnoletti, Il paesaggio come risorsa. Castagneto negli ultimi due
secoli, Pisa, ETS, 2009, pp. 68-71
21 Legge n. 2248/1865, art. 9: “Le strade ordinarie d’uso pubblico sono
distinte in nazionali, provinciali, comunali e vicinali”.
22 R.D. 15 novembre 1923, n. 2506, Norme per la classifica e la manutenzione delle strade pubbliche.
Sessanta. Successivamente a causa dei vari danni all’apparato radicale e ad altre problematiche legate alla sicurezza, la
Società Autostrade ha progressivamente eliminato queste alberature. Oggi rimangono solo pochi individui sparsi, mentre un tratto a galleria è riscontrabile ancora nell’accesso alla
città di Prato, strada declassata ma un tempo facente parte
del tratto autostradale.
Il principio di realizzare piantagioni di alberi a fianco
delle autostrade era in parte mutuato anche dall’esperienza
della Germania, dove le alberature non erano però disposte
in fila, ma con l’intento di valorizzare le aperture visive sul
paesaggio, rispettando così la tradizione della paesaggistica
romantica tedesca. In Italia, invece, i grandi filari che seguivano le autostrade erano costituiti principalmente da una
unica specie arborea, che tende ad esaltare il segno stradale
nel paesaggio23. Le file di alberi sono diventate un elemento ambientale di pregio e un tratto paesaggistico dell’Italia.
Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia (1953-56) richiamava “le file dei pini che rigano le campagne” della Maremma,
nel paesaggio della bonifica e della riforma agraria, mentre
giudicava come “il più bel viale d’Italia… quello di platani
tra Pisa e Bocca d’Arno costeggiante il fiume: nelle giornate calde le fronde sembrano soffiare, come geni animati, un
venticello su chi passa”24. È una delle tante testimonianze
dell’alberatura stradale come benessere, prima che cominciassero gli atti di accusa verso gli alberi ai bordi delle strade.
LA STRAGE DEGLI ALBERI
Come abbiamo visto, storicamente il viale alberato era
nato per delimitare meglio la strada, talvolta per dare ombra
agli uomini e alle bestie, par favorire la tenuta idrogeologica della carreggiata, per assicurare materiali vegetali. Ad un
certo punto, tra la seconda metà del ‘700 e il primo ‘900,
questa pratica si intensificò anche per dare alla strada, con
alberi di maestosa grandezza, un’architettura monumentale,
per disegnare sul paesaggio segni caratterizzanti.
Dove sono finiti i grandi viali alberati? Perché sono soffocati dall’incuria e dall’ invasione delle macchine? Se lo chiedeva qualche anno fa lo scrittore Pietro Citati, che lanciava
il suo j’ accuse per le fronde messe a repentaglio dallo smog
e dalle malattie. Ma si deve pensare soprattutto alle battaglie
di Antonio Cederna, uno dei padri dell’ambientalismo, ispiratore delle principali battaglie di Italia Nostra: egli inserì
un apposito capitolo, intitolato “La guerra agli alberi”, nella
sua opera su La distruzione della natura in Italia, pubblicata
da Einaudi alla metà degli anni ‘7025. Si tratta di un libro
fondamentale, e sostanzialmente inascoltato, nella genealo23 E. Morelli, Strade e paesaggi della Toscana. Il paesaggio dalla strada, la strada come paesaggio, Firenze, Alinea, 2007.
24 G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Baldini&Castoldi, 2003, pp.
401 e 414.
25 A. Cederna, La distruzione della natura in Italia, Einaudi, Torino,
1975, pp. 57-58. Tema poi ripreso e ampliato dallo stesso Cederna in
Brandelli d’Italia. Come distruggere il bel paese: sventramento di centri
storici, lottizzazioni di foreste, cementificazione , Roma, Newton Compton, 1991, pp. 182-185.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
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gia della cultura ambientale italiana. Cederna denuncia qui
il malgoverno del territorio, il disfacimento delle città, l’abrogazione del paesaggio, la distruzione della natura, l’eliminazione dello spazio fisico necessario alla salute pubblica,
lo smantellamento di un’immensa e insostituibile eredità di
cultura, la privatizzazione sistematica del suolo nazionale in
nome della rendita parassitaria. Un altro capitolo del libro
era significativamente intitolato “Perché l’Italia frana quando piove”… tutti i temi ancora oggi, a distanza oltre trent’anni, di stringente attualità e che sembrano anzi essersi aggravati nel tempo, con la sostanziale sconfitta dell’urbanistica
pubblica26. Tra tutti questi problemi, allora già ampiamente
visibili, inseriva appunto la denuncia dei tagli avvenuti tra
gli anni ‘50 e ‘60, dei filari di alberi che “senza colpa né
peccato” ombreggiavano le strade statali della disgraziata
penisola.
L’attacco alle alberature stradali ebbe un’impennata tra
il 1962 e l’inizio del 1964, quando furono abbattuti più di
100.000 alberi, mentre nel ’64 l’Anas decise di eliminare
quelli che sorgevano a meno di 150 metri dalle curve e ameno di 80 centimetri dal ciglio della carreggiata, per il resto
risparmiando un albero ogni trenta metri. In un magistrale
articolo uscito su “L’Espresso” nel 1966 era lo stesso Cederna a stigmatizzare l’arretratezza tecnica dell’Anas che “da
un lato pretendeva di adeguare la rete stradale italiana al traffico crescente rubacchiando qualche centimetro a destra e a
sinistra a spese degli alberi; dall’altro mostrava di ignorare
completamente sia i dati sulla minima responsabilità degli
alberi negli incidenti, sia il parere di paesaggisti, naturalisti
ed esperti in comportamento stradale circa l’utile funzione
degli alberi proprio agli effetti della sicurezza di guida”27.
L’abbattimento delle alberate sopravvissute fuori dai
centri urbani venne fermato nel 1966 da una circolare del
Ministero dei Trasporti che prevedeva anche il reimpianto
nei filari esistenti. Ma il nuovo Codice della Strada del 1992
ha trascurato la problematica, relegandola ad una presunta
ed esclusiva questione di sicurezza automobilistica e ad un
approssimativa quanto burocratico calcolo della cosiddetta “fascia di rispetto”: con il successivo regolamento di attuazione, infatti, la distanza da rispettare per l’impianto di
alberi lateralmente alle strade extraurbane “non può essere
inferiore alla massima altezza raggiungibile per ciascun tipo
26 V. De Lucia, Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia, Parma, Diabasis, 2010.
27 L’articolo è ripreso in A. Cederna, Brandelli d’Italia. Come distruggere il bel paese, Roma, Newton Compton editori, 1991, pp. 183-85
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
di essenza a completamento del ciclo vegetativo e comunque
non inferiore a 6 metri”28. Ciò ha posto evidenti problemi
interpretativi, sia in ordine alla determinazione della distanza (a seconda del tipo di albero, l’altezza può raggiungere
20, 30 o 40 metri), sia in merito alla retroattività o meno
della normativa, che nel 2011 hanno portato a una sentenza
della Corte di Cassazione del 2011 che ha fatto addirittura
ripartire gli abbattimenti, ritenendo tale norma applicabile
anche alle alberature già esistenti prima dell’emanazione del
nuovo codice. Un correttivo a questa determinazione è rappresentato dalla circolare 3224 del Ministero dei Trasporti,
che consente di mantenere gli alberi piantati prima del 1992,
pur rimanendo il divieto di reimpianto. Fin dai primi anni
‘60 la demolizione delle alberature stradali era stata motivata
dalla necessità di aumentare la sicurezza della circolazione e
di prevenire gli incidenti automobilistici, ma secondo un documentato dossier di Legambiente “non esiste alcuno studio
che abbia messo in evidenza come la sola presenza di alberi
lungo le strade provochi un aumento degli incidenti stradali
e, contrariamente all’Italia, le norme di altre nazioni europee
permettono di mantenere e ripristinare le alberate.”29
DALLE ALBERATE ALLE ROTONDE: USO E ABUSO
Il paesaggio stradale è molto cambiato e sempre più, al
posto degli alberi sono stati inseriti altri elementi. La strada contemporanea ha visto affermarsi in modo sempre più
massiccio i tunnel a ogni minimo rilievo del terreno, le palizzate fitte dei lampioni e dei tabelloni pubblicitari, le barriere
antirumore, le scarpate cementificate e soprattutto le abusate rotonde. Sono questi ormai i principali ma improbabili
strumenti di inserimento delle infrastrutture nel paesaggio
circostante. Le rotonde, in particolare, si sono moltiplicate
in modo quasi selvaggio negli ultimi decenni, mutando il
paesaggio sotto i nostri occhi in modo tanto profondo e in
tempi tanto rapidi che non ce ne siamo nemmeno accorti.
Se in molti casi esse hanno effettivamente svolto, al posto
dei tradizionali semafori, una funzione utile nella fluidificazione del traffico e nel rallentamento della velocità, in tante altre situazioni si è assistito a un abuso del loro impiego
e anche a un aumento della pericolosità nella misura in cui
costituiscono una improvvisa interruzione di carreggiate rettilinee, un ostacolo che di notte o in particolari condizioni
di traffico può essere “dimenticato” dagli automobilisti: “Da
qualche tempo – ha scritto pochi anni fa Ilvo Diamanti – la
rotonda si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti. Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei
punti e nei luoghi più impensati. Rotonde “alla francese”, le
chiamano. Impropriamente, perché in Francia tante rotonde
così non le ho mai viste. E continuano a riprodursi. Organi-
28 Regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada
D.P.R. 16.12.1992 n° 495.
29 A. Porta – M. De Vecchi, Salviamo gli alberi lungo le strade italiane, Legambiente, 2013, http://www.legambientevaltriversa.it/wp-content/
uploads/2013/03/Salviamo-gli-alberi-v1.1.pdf
smi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola”30.
All’interno delle rotonde sono spesso sorti prati, giardini,
alberi tropicali o sculture ardite: un non luogo con presunzioni paesaggistiche, uno spazio interdetto e inibito a ogni
uso, uno dei tanti emblemi del consumo di suolo in Italia.
Le rotonde hanno cambiato in poco tempo non solo la circolazione, ma anche il modo stesso di guardare e di pensare
il territorio, divenendo metafora della stessa nostra società:
“Pochi oggetti – conclude lucidamente Diamanti - sono in
grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto
efficace delle rotonde perché la regola delle rotatorie è che
passa prima chi entra per primo”.
Forse è giunto il momento di ripensare a una estetica delle
strade che parta dalla lettura del territorio e non dalla priorità dell’automobile, dalla qualità del viaggio e non dall’ansia
della meta. In questo senso lo studio delle alberature tradizionali, dei ruoli e delle funzioni che esse hanno svolto nel
tempo, può rappresentare un aspetto per ricostruire un rapporto equilibrato tra infrastrutture e paesaggio, nel quale esse
costituiscono certamente una utile mediazione. Per questo le
alberate e gli alberi isolati sopravvissuti ai bordi delle strade
italiane sono da salvaguardare come parte significativa del
patrimonio arboreo del Paese, considerando tutte le possibili
soluzioni alternative all’abbattimento. Dobbiamo ritrovargli
un senso, una dignità e un’utilità, senza trascurare – come indica chiaramente l’esperienza storica – che la strada è anche
un segno culturale impresso sul territorio.
30 I. Diamanti, Società rotonda, anzi rotatoria, “La Repubblica”, 23 gennaio 2009.
91
COMUNICAZIONE | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
Al via l’edizione 2015 del Premio
Nazionale di Divulgazione Scientifica
dell’Associazione Italiana del Libro
L
’Associazione Italiana del Libro, con il patrocinio del CNR e dell’AIRI-Associazione
Italiana per la Ricerca Industriale, bandisce
l’edizione 2015 del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica (III edizione)
Presidente del Comitato Scientifico: Umberto Guidoni.
Media partner: Almanacco della Scienza e CNR Web Tv.
Le finalità del Premio:
• affermare la centralità della ricerca e dell’informazione
scientifica per il progresso
della società,
• valorizzare il capitale di
conoscenze scientifiche che
l’Italia possiede,
• dare visibilità al talento
di docenti, scienziati, ricercatori e professionisti della
comunicazione e dell’informazione nel campo della divulgazione scientifica,
• ampliare il dialogo del
mondo della ricerca e
dell’Università con la società, contribuendo a creare
una cultura diffusa dell’innovazione e del sapere,
• favorire nei giovani l’interesse per la cultura scientifica.
Possono partecipare al
Premio ricercatori, docenti, giornalisti e autori italiani con
libri e articoli di divulgazione scientifica pubblicati nel 2014
o nel 2015.
La partecipazione è gratuita.
Verranno premiati gli autori di libri a articoli che si sono
meglio contraddistinti per il carattere innovativo degli argomenti affrontati, l’efficacia e la chiarezza dell’esposizione
92
e la capacità complessiva di comunicazione al pubblico dei
temi trattati.
Gli interessati possono presentare le proprie opere a concorso entro il 2 agosto 2015. Nel caso di opere scritte da più
autori la presentazione da parte di uno degli autori è sufficiente ad ammettere l’opera al Premio. Per le opere collettive
la presentazione può essere effettuata dal curatore o da uno
dei curatori. Anche gli editori possono presentare le opere
dei propri autori.
Verranno assegnati 9 premi così distribuiti:
- nella Sezione Libri:
• Un premio al 1° classificato in assoluto;
• Un premio al miglior libro in ciascuna delle 5 aree
scientifiche previste;
• Un premio al 1° classificato in assoluto tra gli autori
under 35 anni di età.
- nella Sezione Articoli:
• Un premio al 1° classificato in assoluto;
• Un premio al 1° classificato in assoluto tra gli autori
under 35 anni di età.
La premiazione si svolgerà a Roma giovedì 17
dicembre 2015 nell’Aula
Convegni del CNR.
Il Comitato Scientifico e la Giuria del Premio sono costituiti da esponenti del mondo accademico, della ricerca, della cultura, del giornalismo e della comunicazione, chiamati
dall’Associazione Italiana del Libro ad esprimere, a titolo
gratuito, il loro giudizio sulle opere presentate, in armonia
con le finalità del Premio.
Informazioni: [email protected]
SUPPL. 1 - N. 7 - MAGGIO 2015
RICERCHE
Le ricerche e gli
articoli scientifici sono
sottoposti prima della
pubblicazione alle
procedure di peer review
adottate dalla rivista,
che prevedono il giudizio
in forma anonima di
almeno due “blind
referees”.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
La spedizione di Sapri nelle carte
dell’Archivio Segreto Vaticano
CHIARA D’AURIA
Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Salerno
L’
indagine storica
sull’Impresa di
Sapri tra le carte dell’Archivio
Segreto Vatica1
no trae origine dall’intenzione di verificare quanto e come fosse stata avvertita
e percepita la Spedizione di Carlo Pisacane negli ambienti diplomatici pontifici nella penisola italiana. Pur provenendo da una fonte “periferica”, certamente
marginale rispetto a quella costituita dai
rapporti tra la segreteria di Stato pontificia e le rappresentanze diplomatiche
1 ASV, nel testo.
italiane ed europee2, i documenti storici
2 Cfr. P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II
dal loro carteggio privato, Roma, Miscellanae
Historiae pontificiae, 1941-1961; Commissione
Reale Editrice (a cura di), La questione romana
negli anni 1860-1861: il Carteggio del conte
di Cavour con D. Pantaleoni, C. Passaglia,O.
Vimercati, Bologna, Zanichelli, 1929, voll.
1 e 2; M. Gabriele (a cura di), Il carteggio
Antonelli-Sacconi (1858-1860), Roma, Istituto
per la Storia del Risorgimento italiano, 1962 C.
Verducci, Il carteggio Antonelli-Barili, 19591861, in C. Rostagni, Roma, 1973, Rassegna
Storica del Risorgimento, 66 (1973) 467-468;
R. Ballerini, Pio IX e Napoleone III, in “Civiltà
cattolica”, 1889, vol. VIII, 257-269, pp. 402417; N. Bianchi, Storia della diplomazia
europea in Italia dall’anno 1814 al 1861 (n.
8 voll.), Unione tipografico-editrice torinese,
Torino-Roma-Napoli, 1869-1872; A. Lumbroso,
delle nunziature apostoliche consentono la ricostruzione di un contesto ricco
di dettagli e notizie, offrendo un’ulteriore conferma circa la propria capillare
e meticolosa capacità di informazione
alle autorità centrali pontificie, soprattutto relativamente agli eventi considerati pericolosi e rivoluzionari3.
Nel loro insieme queste fonti presentano un carattere talvolta molto specifiVittorio Emanuele e Pio IX. Il loro carteggio
inedito, in “La tribuna”, Roma, 5 e 11 settembre
1911, nn. 248-253.
3 Così dalla titolazione dei rapporti riservati
ufficiali dalle nunziature apostoliche alla
segreteria di Stato pontificia in cui sono raccolti
i fascicoli sulla Spedizione di Sapri.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
co, legato alla funzione principale delle nunziature e al loro
ruolo di rappresentanza diplomatica. Sono citati rapporti personali dei delegati apostolici con personalità politiche locali.
Numerose sono le descrizioni circa le condizioni, i problemi,
le necessità e gli interessi della comunità religiosa, delle congregazioni religiose e degli ordini monastici. Sono trattate
questioni di carattere legale e finanziario attinenti le diocesi
locali e la sede apostolica centrale. Ma è anche descritto, in
un quadro vivace e ricco di riferimenti, il contesto diplomatico della sede della nunziatura: visite, partenze e arrivi di
ambasciatori, ministri, alti ufficiali; talvolta, ancora, sono
contenute le personali considerazioni sul quadro politico,
sull’attività dei movimenti rivoluzionari, della stampa ufficiale e clandestina.
Nell’ambito dei rapporti tra nunziature e consolati da una
parte e Stato Pontificio dall’altra, spesso si istauravano relazioni caratterizzate da una costante diatriba, a causa dei numerosi contrasti tra Roma e le rappresentanze pontificie in
merito alla definizione delle regole cui dovevano attenersi i
consoli e i nunzi apostolici.
Le loro figure e i loro compiti, infatti, sono oggetto di
un’ulteriore indagine storica, poiché gli argomenti trattati nei
rapporti riservati ufficiali così come nelle altre missive alla
Segreteria di Stato consentono solo ex post di stabilire quali
fossero le funzioni, i margini operativi e i privilegi assicurati
al personale delle nunziature e dei consolati generali4.
In genere queste sedi erano deputate all’organizzazione
di una rete di informazioni e di monitoraggio costante sulle
attività politiche e diplomatiche del regno presso cui erano
accreditate; erano altresì incaricate di dare notizia a Roma
circa la diffusione di stampa tendenziosa; infine erano istruite per informare la Segreteria di Stato su eventuali movimenti politici contrari al governo dello Stato presso cui erano
accreditate.
Lo Stato Pontificio solo nella seconda metà dell’Ottocento
aveva stabilito, attraverso una cospicua produzione normativa, gli scopi e le funzioni dei consolati e delle nunziature
apostoliche5. In merito ai primi, i consoli generali ed il personale da questi dipendente non erano rappresentanti della
Sua Maestà Pontificia. Non godevano perciò di alcuna immunità, ma erano soggetti alla giustizia della nazione in cui
operavano.
Erano altresì patrocinatori di cittadini stranieri che potevano aver bisogno di assistenza nello svolgimento delle attività
connesse al commercio ed all’espatrio; potevano, infine, essere chiamati a svolgere le funzioni di consoli in territorio
4 Cfr. A. Silvestro, Nota sul traffico mercantile tra lo Stato Pontificio
e la costa istriano-dalmata e sui consolati pontifici in Istria e Dalmazia
nel’800 , in “Grada i prilozi za povijest Dal macie” 15, Split 1999, pp. 221246; Notizie sulle sedi consolari nelle Marche pontificie nel
secolo 19, in “Quaderni dell’Archivio storico arcivescovile di Fermo”,
1993, n. 13, suppl., parte I e II.
5 Cfr. G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S.
Pietro sino ai nostri giorni, Venezia, Tipografia emiliana, vol. XVII, voce
“consoli pontifici”, pp. 42-51; vol. XLVIII, voce “nunzi apostolici”, pp.
151-155.
96
romano sia sudditi pontifici sia cittadini esteri6.
Nel caso delle nunziature, invece, il personale intero era
considerato a tutti gli effetti in qualità di corpo diplomatico
pontificio, con tutti i privilegi e le immunità concernenti tale
incarico.
Nelle sedi italiane i consolati generali pontifici (soprattutto
quelli sull’Adriatico, il Tirreno ed, in generale, in prossimità
dei porti) erano incaricati soprattutto del disbrigo di pratiche
concernenti il commercio e le persone e i mezzi con cui esse
venivano svolte.
Già prima della sosta di Pisacane presso l’isola di Ponza
(con il vapore Cagliari che imbarcava il Pisacane stesso e
i suoi compagni), le nunziature apostoliche italiane svolsero una consistente attività di informazione alla Segreteria di
Stato pontificia e le sedi di Genova e Napoli costituiscono
una fonte interessante.
Secondo gli indici dell’ASV tutta la documentazione della
nunziatura di Napoli era separata da quella della Segreteria
di Stato fino all’anno 1860. Poiché la Spedizione di Pisacane si svolse nel 1857, sono stati consultati tutti gli indici
tra il 1760 e il 1860, come da catalogazione dell’Archivio,
provnienti da Napoli.
Infatti l’Archivio della Nunziatura di Napoli è ordinato
non secondo la data ma secondo la provenienza dei documenti (quindi secondo i nomi delle città) o l’argomento7.
L’attenzione si è concentrata anzitutto sui rapporti riservati ufficiali, cioè sulle informative urgenti e private che personalmente il nunzio apostolico napoletano, che nell’anno
della Spedizione era l’Arcivescovo di Seleucia monsignor
Salvatore Nobili Vitelleschi (che rivestì questa carica dal 19
giugno 1856 al 6 giugno 1858 e il cui uditore era il sig. Abate
Aloisi) scriveva di suo pungo al Segretario di Stato, il cardinale Giacomo Antonelli.
Nel fascicolo 267, posizione 2, indice 33, dal titolo: Tentativi di Rivoluzione nel Regno di Napoli fatto da alcuni
6 G. Moroni, cit.
7 Cfr. G. Gualdo, Sussidi per la consultazione dell’ASV. Lo schedario
Garampi, registri vaticani e lateranensi, in “Rationes Camerae”, Archivio
Concistoriale Nuova riveduta e ampliata, CdV, 1989, Collectanea Archivi
Vaticani; P. P. Piergentili, I consolati pontifici e le nunziature apostoliche
in Italia dalla pace di Zurigo alla presa di Roma (1859-1870). Note di storia
degli archivi, acquisizioni, dispersioni archivistiche, in Dall’Archivio
Segreto Vaticano. Miscellanea di testi, saggi e inventari, I, Collectanea
Archivi Vaticani, n. 6,1Città del Vaticano, 2006; G. Gualdo, Sussidi per
la consultazione dell’Archivio Vaticano, Collectanea Archivi Vaticani,
n. 17, Città del Vaticano, 1989; A. Mercati, La Biblioteca Apostolica
e l’Archivio Vaticano Segreto, in Vaticano, a cura di G. Fallani e M.
Escobar, Firenze, 1996; Bibliografia dell’Archivio Vaticano, a cura della
Commissione Internazionale per la Bibliografia dell’Archivio Vaticano,
I-VIII, Città del Vaticano, 1962-2001; Il Libro del Centenario. L’Archivio
Vaticano Segreto a un secolo dalla sua apertura, 1880/1-1980/1, Città
del Vaticano, 1981; L’Archivio Segreto Vaticano e le ricerche storiche,
a cura di P. Vian, Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia,
Storia e Storia dell’Arte in Roma, Roma, 1981; G: Gualdo, L’ASV da
Paolo V a Leone XIII. Caratteri e limiti degli strumenti di ricerca messi a
disposizione tra il 1880 e il 1903, cfr. i 5 appendici a cura di G. Rosselli, in
Archivi e archivistica a Roma dopo l’Unità. Genesi storica, ordinamenti,
interrelazioni. Atti del convegno, Roma, 12-14 marzo 1990, Pubblicazioni
degli Archivi di Stato, Saggi, n. 30, Roma 1994; Bibliografia dell’AVS,
Nuova Versione, IX (1997-1999), sotto la direzione di S. Pagano, Città
del vaticano, 2003.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
emigrati politici sbarcati prima
a Ponza e poi a Sapri sono
conservati i rapporti che
dal 1 luglio 1857 al 7
luglio 1858 monsignor Nobili Vitelleschi prima e il suo
successore poi (il
mons. Pietro Giannelli, arcivescovo
di Sardia, Nunzio
Apostolico dal 6
giugno 1858), informarono costantemente
la Segreteria di Stato
pontificia circa tutto
quello che accadde in merito agli
riassunto nella formula politica libertà e associazione.
Le argomentazioni degli storici hanno
consentito di sottolineare una differenza sostanziale tra il pensiero di Pisacane e quello di Mazzini8. Mentre
il primo sosteneva che fosse necessario risolvere anzitutto il
problema dell’unità d’Italia e in
un secondo momento sarebbe
stato possibile affrontare la
questione sociale, per la quale
Mazzini proponeva una soluzione interclassista, Pisacane riteneva
che per giungere ad una rivoluzione
patriottica unitaria e nazionale occorresse in primis risolvere il problema sociale, in particolare quello
contadino, attraverso
un’efficace riforma
agraria. La storiografia più recente ha tuttavia
evidenziato
l’adesione
di Carlo Pisacane agli
ideali mazziniani soprattutto per
il significato
che egli attribuiva alla lotta rivoluzioevennaria e all’esito
ti citati.
del movimento inSi
parte
surrezionale. Qualora il
dalla descrizione dei fatti di
sacrificio di Pisacane e dei suoi
CARLO PISACANE
compagni si fosse rivelato vano, la gloria sarebPonza e Sapri, alla sorte dei passeggeri, alla
be stata la migliore ricompensa, come sostenuto
questione circa la preda del Cagliari da parte
della Regia Flotta napoletana, al processo contro i fuoriu- dal patriota genovese9.
Inoltre è stato sottolineato che, nonostante il fallimento
sciti arrestati, alla provenienza delle armi di questi ultimi,
alle questioni diplomatiche sorte tra il Regno di Sardegna e della Spedizione, l’impresa di Sapri presentò all’opinione
quello delle Due Sicilie circa il vapore Cagliari e tra quello
delle Due Sicilie e quello britannico circa la sorte dei due 8 G. Racioppi, La Spedizione di Carlo Pisacane a Sapri: con documenti
inediti, Moliterno, Waltergrafkart, 2010; F. Fusco, Carlo Pisacane e
macchinisti inglesi.
la Spedizione di Sapri: lotte risorgimentali nel Cilento meridionale
I rapporti del nunzio, dunque, risultano particolarmente e nel Vallo di Diano dalla Repubblica napoletana all’Unità d’Italia,
interessanti alla luce del dibattito storiografico sull’impresa Casalvelino, Galzerano, 2007; S. Fumich ( a cura di), La rivoluzione.
di Sapri, che si è essenzialmente concentrato sul significato Carlo Pisacane:con l’aggiunta dei cenni storici di Luigi Fabbri sulla
vita, le opere e l’azione rivoluzionaria, Brembio, Andreano, 2013; E.
della Spedizione. Nonostante questa fosse stata concepita Sarogni, Carlo Pisacane. L’amore, l’Italia, il socialismo, Spartaco, S. M.
come una delle attività insurrezionali di stampo tipicamente Capua Vetere, 2012; E. Montali (a cura di), Cattaneo e Pisacane: gli eroi
mazziniano, condotta secondo il pensiero e l’azione e quindi dimenticati, Roma , Ediesse, 2012.
9 N. Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, Torino,
con la speranza di suscitare un focolaio insurrezionale contro Einaudi, 1977; L. Russi, Studi su Carlo Pisacane: realtà e utopia di un
il Regno borbonico, la storiografia ha evidenziato che il suo rivoluzionario, a cura di A. Noto, Roma, Rubettino, 2012; L. Fabbri
ideatore, Carlo Pisacane, si era allontanato dal credo politico ( a cura di), Saggio sulla rivoluzione di Carlo Pisacane, Camerano,
mazziniano, giungendo a promuovere un’ideale libertario, Gwynplaine, 2011; M. Cancogni, Gli angeli neri. Storia degli anarchici
italiani da Pisacane ai circoli di Carrara, Mursia, 2011.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
pubblica italiana la questione napoletana, cioè la liberazione del Mezzogiorno italiano dal lungo e pesante malgoverno borbonico. Infine alcuni studi hanno evidenziato che il
tentativo insurrezionale di Carlo Pisacane aveva profilato
un’alternativa alla soluzione del problema unitario: quella democratico-popolare. I fatti di Sapri, quindi, avrebbero
rappresentato un chiaro segno del rafforzamento di questa
corrente agli occhi del governo sabaudo e della monarchia, a
tal punto da indurre il Regno di Sardegna ad organizzare con
maggiore celerità ed efficacia la via diplomatico-militare per
affrontare la questione unitaria10.
In base a queste considerazioni, la testimonianza storica di
Nobili Vitelleschi sui fatti di Sapri risulta significativa poiché, svolgendo il duplice ruolo di nunzio apostolico e di rappresentante dello Stato pontificio presso il Regno delle Due
Sicilie, essa si articola attraverso le numerose e minuziose
informazioni di cui il delegato apostolico entrava in possesso, direttamente o indirettamente, tramite il comandante della Regia Marina napoletana Carafa o gli agenti diplomatici
accreditati presso il Regno delle Due Sicilie.
Allegati al fascicolo ci sono alcuni opuscoli a stampa, realizzati dalla Tipografia del Giornale Ufficiale di Napoli nel
1858 e cioè: i documenti ufficiali della corrispondenza del
governo di S.M. Siciliana con quello di S.M. Britannica riguardante i due macchinisti del Cagliari, Watt e Park; i documenti ufficiali per la vertenza del governo di S. M. Siciliana
con quella di S.M. Sarda sulla cattura del Cagliari e sulla
detenzione di quelli che vi erano imbarcati.
Un’ulteriore documentazione è quella della Segreteria di
Stato, presso cui risultano vari fascicoli collegati ai fatti di
Sapri e Ponza.
Si tratta dei rapporti scritti dal Nobili Vitelleschi in bella
copia ed esaminati in minuta tra le carte della nunziatura apostolica napoletana ma anche delle risposte e di tutte le altre
relazioni della Segreteria di Stato, comprese le missive degli
ambasciatori o di uomini politici stranieri, sia in copia originale sia in versione (cioè tradotti in lingua italiana). Inoltre
sono catalogati i rapporti del Console pontificio a Genova e
di tutti i nunzi apostolici e consoli vaticani delle maggiori
città italiane, europee e del Mediterraneo. In molti di questi
compare un esplicito riferimento alla Spedizione di Pisacane.
Per ciò che riguarda il contenuto dei rapporti riservati ufficiali tra Nobili Vitelleschi e Segretario di Stato pontificio
Antonelli, in primo luogo il nunzio descrive minuziosamente
in una missiva del 1 luglio 1857 lo svolgimento della Spedizione e nei rapporti successivi fornisce ulteriori notizie e dettagli, anche se in questa prima lettera è abbastanza esauriente
circa lo svolgimento dei fatti.
Il nunzio non omette di comunicare ad Antonelli che «c’era voce di un moto popolare in cui vi avrebbe preso parte
anche la truppa».
Vi è anche una nota informativa sulla provenienza del10 C. D. Pascarelli, Il risorgimento incompiuto : la tensione rivoluzionaria
e l’iniziativa di Carlo Pisacane nell’Italia meridionale, Pavia, Iuculano,
2009; L. Russi, Carlo Pisacane. Vita e pensiero di un rivoluzionario senza
rivoluzione, Napoli, ESI, 2007.
98
le armi. Alla richiesta, rivolta dal Regno delle Due Sicilie
a quello sardo, di spiegazioni sulla provenienza dei fucili a
bordo del Cagliari, il Regno sabaudo aveva chiarito che in
tre spedizioni, a breve intervallo, erano state trasportate da
Genova numerose casse di fucili fabbricate a Liegi. Dopo
uno scalo a Cagliari, erano giunte a Tunisi, nella speranza
che il Bay tunisino le acquistasse per il suo esercito. Il governo borbonico non aveva considerato soddisfacente questa
risposta11.
Nobili Vitelleschi comunica immediatamente che la Spedizione di Pisacane poteva essere avvenuta con la connivenza del Regno sabaudo, segretamente appoggiato da quello
inglese12.
Si sofferma anche sulla figura del protagonista, Carlo Pisacane. In tutta la documentazione esaminata se ne da notizia
due volte, limitandosi unicamente a citarne il nome. Come
primo esempio, dalla lettera del 3 luglio 1857 di Vitelleschi
ad Antonelli:
Il numero dei morti dei fuorusciti ammonta ora a non più di duecento tra i quali un tal Pisacane capo del complotto e quello dei
prigionieri e dei feriti giunge a 7013.
Inoltre le generalità di Pisacane compaiono nella copia
delle lista dei passeggeri del Cagliari, compilata direttamente
dagli stessi, in cui egli si dichiarava essere possidente napoletano diretto a Tunisi.
La questione che più preme al nunzio Nobili Vitelleschi
circa i fatti di Ponza e Sapri non è tanto relativo alla Spedizione in se o alla provenienza e alla sorte dei briganti che vi
parteciparono quanto alle conseguenze che tale evento determina nel quadro politico e diplomatico14.
11 ASV, Arch. Nunz. Napoli, fasc. 267, fogli 220-3.
12 ASV, cit.
13 ASV, cit., fogli 217-8.
14 Cfr. R. Abrecht-Carrie, Storia diplomatica d’Europa (1815-1968),
Laterza, Roma-Bari, 1978; W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento,
Einaudi, Torino, 1962. A. Scirocco, L’Italia del Risorgimento, Il Mulino,
Bologna, 1984. D. McSmith, Il Risorgimento italiano, Bari, Laterza,
luglio 1999; A. M. Banti, Il Risorgimento Italiano, Bari, Laterza, 2008;
R. Molteleone, Cospiratori, Guerriglieri, Briganti. Storie dell’altro
Risorgimento, Einaudi Ragazzi Storia, Trieste 1995; L. Salvatorelli,
Spiriti e figure del Risorgimento, Le Monnier, Firenze, 1961. J. A. Davis
- P. Ginsborg, Society and Politics in the Age of Risorgimento, Essays
in Honor of D. MacSmith, Cambridge University Press, Cambridge,
1991; N. Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano,
Torino, G. Einaudi, 1977; AA. VV., Carlo Pisacane nel Centenario della
Spedizione di Sapri, Napoli, Macchiaroli, 1957; P. Iorio, Il Saggio
su la rivoluzione di Carlo Pisacane ed il suo contenuto
ideologico, Napoli, G. Genovese, 1961; C. Pisacane, Epistolario,
a cura di A. Romano (a cura di), Carlo Pisacane. Epistolario, Milano ;
Genova ; Roma ; Napoli, Societa Editrice Dante Alighieri, 1937; L. A.
Pagano, La Spedizione di Sapri e la prigionia di Giovanni Nicotera nelle
carte della polizia borbonica di Sicilia, Rassegna storica del
Risorgimento, marzo-aprile 1934; A. Codignola, La Spedizione di Sapri e
le sue ripercussioni sulla politica internazionale; A. Depoli, La Spedizione
di Sapri e i moti di Genova del 1857; L. L Barberis, Dal moto del 1853 a
Milano alla Spedizione di Sapri, in Istituto per la storia del risorgimento
italiano, Comitato di Genova, Comitato per le onoranze a Carlo Pisacane
nel centenario della sua morte, Modena, STEM, 1957; F. Venosta,
Carlo Pisacane e i compagni martiri a Sanza, Milano, Barbini, 1863; G.
Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, Milano,
Feltrinelli, 1962; P. E. Bilotti, La Spedizione di Sapri: da Genova a
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Infatti gli argomenti principalmente trattati nelle missive
sono di tipo informativo: la preda del Cagliari, l’andamento
del processo della Gran Corte di Salerno ai prigionieri, la
sorte dei due macchinisti inglesi e dei passeggeri coinvolti
accidentalmente nel viaggio verso Ponza del vapore sardo.
Il nunzio di Napoli poteva disporre di un canale diretto
particolarmente attendibile nella figura del Comandante della Regia Flotta napoletana Carafa, con cui Nobili Vitelleschi
aveva colloqui ed incontri anche di natura privata e che gli
consentivano di aggiornarsi rapidamente e quotidianamente su argomenti quali la responsabilità dell’insurrezione,
dell’intervento della flotta sarda e di quella napoletana contro
i fuoriusciti o del potenziale delle società mazziniane che l’avevano realizzata, oltre che la riconsegna al Regno Sabaudo
da parte del Regno di Napoli di un legno (e dei suoi passeggeri presi in ostaggio) che svolgeva abitualmente il servizio
postale tra Cagliari, Genova e Tunisi15.
Da una nota del 24 febbraio 1858, il delegato apostolico
scrive che era atteso il ritorno del Principe d’Ottajano da
Parigi e che in un colloquio privato Carafa aveva confidato
al nunzio che la questione diplomatica affrontata sembrava
essere ben avviata. Al contrario, aggiunge, l’Inghilterra, su
richiesta della Francia, aveva dichiarato che avrebbe acconsentito al ristabilimento delle relazioni diplomatiche con
Napoli solo quando il governo borbonico avesse rilasciato
i due macchinisti britannici catturati con gli altri passeggeri del Cagliari16. Il 20 maggio 1858 il delegato da notizia a
Roma che il governo inglese aveva inviato nel Regno delle
Due Sicilie il sig. Lyons, segretario di Legazione a Firenze,
per riferire a Londra sugli sviluppi del processo di Salerno,
sottolineando l’ottima impressione che Lyons aveva riscosso
nell’entourage napoletano17.
Sulla questione del Cagliari viene comunicato che il Conte di Cavour aveva inviato una serie di lettere al Re di Napoli
e al Carafa esponendo le sue considerazioni circa l’illegittimità della preda del bastimento sardo da parte delle Regie
fregate napoletane ed intimandone la riconsegna e chiedendo che l’Incaricato di Affari del Regno di Sardegna presso
quello di Napoli potesse visitare, tra i prigionieri, i cittadini
sabaudi.
Dal rapporto di Vitelleschi del 3 settembre 1857, emerge
che il Conte di Cavour si preparava a trattare la questione del
vapore con un dispaccio indirizzato al Conte di Grospello18
e che il clima tra i due governi, annota il nunzio, non era
affatto sereno19.
Sanza, Salerno, Stab. Tip. F.lli Covane, 1907; F. Schlitzer, La «Cronaca»
della Spedizione di Sapri e Luigi Dragone: appunti e documenti, Napoli,
1934; L. Cassese, Luci ed ombre nel processo per la Spedizione di Sapri,
Conferenza tenuta nel 1958, estr. da L’attivita del Centro culturale, 1958,
a. 1; A. Lepre, Nel centenario di Carlo Pisacane, in «Belfagor», fasc. n.
2, 1958, pp. 141-161; A. Capone, Giovanni Nicotera e il “mito” di Sapri,
Centro Studi per il Cilento e il Vallo di Diano, vol. IX, Roma, A.G.E.R.,
1967.
15 ASV, cit., foglio 194.
16 ASV, cit., fogli 190-1.
17 ASV, cit., fogli 186-7.
18 ASV, cit., fogli 201-2.
19 ASV, cit., foglio 185.
La lettera accennata dal nunzio è contenuta tra la documentazione della Segreteria di Stato. Si tratta di una lettera
autografa, scritta con grande precisione, in uno stile asciutto
e finissimo, dal Conte di Cavour.
Torino, 16 gennaio 1858
Al Conte di Grospello
Dal Conte di Cavour
Appena ricevuta la notizia dei casi di Ponza e Sapri mi son recato
a premura di testimoniare per mezzo di V. S., al Gabinetto Napoletano la profonda indignazione provata dal Governo del Re
all’annunzio del criminale attentato commesso contro la sicurezza di uno Stato amico.
Segue la breve descrizione dei fatti, senza mai citare il
nome di alcuno dei rivoltosi e le richieste del governo piemontese, esprimendo la costernazione per il divieto rivolto
al corpo diplomatico accreditato presso il Regno borbonico
di svolgere alcun colloquio con i prigionieri del Regno sardo.
L’essersi a bordo del medesimo compiuto un atto di rivolta per
parte di passeggeri, l’essere stato alcun tempo in loro potestà e
l’essere, durante questo tempo, divenuto strumento d’una colpevole aggressione, non poteva costituirlo in quello Stato di guerra
che esiste solamente tra Governi riconosciuti o di fatto. La forsennata scorreria di Ponza e di Sapri fu l’opera di pochi cospiratori
moventi a disperata impresa, e sarebbe un abusare del significato
giuridico delle parole il paragonare e il confondere quei tentativi
in cui ben si distingue se maggiore sia la colpa o la demenza, con
uno stato legale di guerra pubblica, e il radicarvi quindi il conseguente diritto di preda. Sarebbe questa la prima volta che una
masnada di fazioso e di facinorosi vedrebbesi investita delle prerogative di una Potenza guerreggiante. L’attentato di Ponza e di
Sapri fu un atto di ribellione e di ladroneccio; fu un reato comune
e per giudicarne debbonsi applicare le norme del diritto penale
ordinario, né si possono invocare i principi del diritto pubblico,
perché vi manca il fondamento.
Del resto nel capo nostro la stessa azione criminosa più non esisteva, il legno era affatto sgombro dai ribelli; ubbidiva al legittimo suo Capitano; la bandiera Nazionale doveva assicurargli la
protezione, le immunità e i privilegi marittimi20.
Copia della relazione del Comandante Carafa, scritta il 30
gennaio del 1858 al Cavalier Canofari, Ministro della Segreteria di Stato degli Affari Esteri del Regno di Sardegna, fu
evidentemente inviata alla Segreteria di Stato da parte del
nunzio napoletano:
Questo Incaricato di Affari del Regno di Sardegna Sig. Conte di
Grospello mi ha dato lettura e rilasciato copia per ordine ricevuto
dal suo Governo di un dispaccio direttogli da S. E. il Conte di
Cavour, che verte sulla preda del vapore il Cagliari e sulla processura dei Sudditi Sardi che ne disbarcarono.
Si contesta il Cavour dicendo che «vorrà anzitutto il Signor Conte medesimo convenire anzitutto che le circostanze di un fatto
20 ASV, Segr. Stato, anno 1858, rubrica 165, fasc. 3, fogli 196-99.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
puramente contenzioso non possono essere chiarite in via Diplomatica.
1858 allega un foglio redatto da un “informatore anonimo”
dello Stato Pontificio.
Vi si aggiunge che vi era anche motto a sospettare che eseguito
Eminenza Rev.ma,
dal Cagliari il primo sbarco a Sapri, si avesse il proponimento di
ricevo in questo punto l’annesso foglio di Gaeta che le rimetto tal
ritornare a dirigersi sulla stessa Isola di Ponza, o sulla prossima
quale, perché l’Em. Vostra Rev.ma possa prender tempo comu-
di Ventotene, ove eravi altri individui che avrebbero potuto es-
nicare le risoluzioni dal Re, mio Augusto Signore, sugli affari
eguire il movimento dei primi imbarcati. È poi notevole che il
del Cagliari.
Cagliari stesso rimanga alquanto nelle acque di Sapri, fino a che
[Segue il foglio]
i rivoltosi sbarcati fossero entrati in Città e poi prese la rotta per
Dopo il discorso tenuto nel Porto d’Anzio come conoscete, il
la stessa direzione per la quale era venuto, senza prendere quella
Ministro d’Austria presentò un dispaccio del Conte Buol offren-
di accostarsi a Napoli, o ad altro punto del Regno, per avvertire
do arbitraggio o mediazione di potenza a “Svezia Olanda” si di-
dello accaduto, come sarebbe stato di suo dovere, e qualora fosse
spone con memorandum che malgrado essere sicuri del proprio
stato vero che il Vapore non agiva spontaneamente ma forzato dai
diritto per amor della pace non disgiunta dal decoro e dignità del
rivoltosi che erano a bordo.
paese, si accettava arbitraggio, non mediazione, e che l’arbitro
Siffatte idee sono state implicitamente riconosciute dallo stesso
fosse una potenza di I ordine, essendo desiderio vivo del re che
Sig. Conte di Cavour…».
la condotta del Governo Napoletano fosse stata giudicata con imparzialità e nei stretti termini di giustizia dè principi e del diritto
Carafa sosteneva che fosse necessario un «giudizio sollecito, regolare, pubblico» (come sosteneva la diplomazia inglese). In merito alla restituzione del vapore già si era espressa
«la Commissione delle Prede per il carico ai proprietari a cui
appartiene».
Il carattere delle fonti rappresentato dalle nunziature apostoliche è indubbiamente più circoscritto rispetto ad altre. Ma
si evince che, all’indomani della Spedizione, per il Regno
delle Due Sicilie le questioni di maggior interesse fossero la
presa del vapore Cagliari, la sorte dei prigionieri e le accuse
rivolte dal Conte di Cavour alle autorità borboniche per il
sequestro della nave e per l’imprigionamento dei passeggeri.
Nella relazione inviata a Roma del 10 maggio 1858 Vitelleschi allega la copia di un Trattato di Commercio e Navigazione concluso tra il Regno di Napoli ed il Gran Ducato di
Mecklemburg Schwevin, concluso per tentare una conciliazione tra il governo borbonico e la Gran Bretagna in materia
doganale, come aveva suggerito lo stesso nunzio ad Antonelli21.
Segue, il 25 maggio 1858, una lettera autografa dello stesso Duca di Mecklemburg, inviata al Com. Carafa in cui si
dichiara senza mezzi termini che se il governo napoletano
avesse respinto le richieste britanniche, Londra sarebbe stata
pienamente giustificata a replicare esercitando altri mezzi di
pressione; tuttavia, per evitare un intervento più deciso, si
poteva ricorrere alla mediazione della Corte di Svezia, data
l’evidente sproporzione nei rapporti di forza tra Gran Bretagna e Regno delle Due Sicilie22.
Da un rapporto pervenuto al cardinale Antonelli dal nunzio apostolico dei Paesi Bassi il 26 aprile 1858, si chiarisce
che, nonostante le notizie diffuse circa il coinvolgimento del
Regno dei Paesi Bassi nell’arbitrato per il Cagliari, nessuna
richiesta di partecipazione ufficiale era stata rivolta a quello
Stato23.
Il nunzio Nobili Vitelleschi in un rapporto dell’11 giugno
internazionale. A voce si espressero al Ministro Martini tutte le
ragioni che non permettevano la mediazione ma solo arbitraggio.
Esso convenne nell’opinione che la sola Russia avrebbe potuto
essere nella circostanza dell’arbitra.
Pochi giorni dopo disse non essere possibile potenza di I ordine
ma doversi contentare di una di II ordine. Essere opinione dell’Incaricato di Russia non potere accettare la Russia essere mediatrice, per non essere giudice verso il Governo di Napoli pel quale
aveva tutta l’amicizia.
Queste previsioni di Martini e dell’Incaricato di Russia sono state
confermate con le ulteriori mozioni avute da questi Governi.
Verso la Francia non vi è bisogno rammentare ciò che si è fatto,
essendo passate per mezzo vostro.
Arrivato il Dispaccio telegrafico annunciando che l’Imperatore
non poteva essere arbitro per la frivola ragione che le relazioni
con Napoli erano interrotte, non rimaneva altra che attendere con
pazienza la Nota annunciata da Bernstorff da presentarsi da Lyons e da Grospello. Non vi è bisogno dire l’impressione fatta in
tutti dalle ragioni per non essere arbitro addotte dalla Francia e
dalla Russia. Ognuno con calma ne giudicherà.
Finalmente e fortunatamente è giunta l’attesa nota che si acclude,
a cui non si è esitata a rispondere, risposta, che anche si acclude,
avendo con inaudito modo di minaccia esalto l’Inghilterra non
solo pe’ Macchinisti ma anche fatta causa propria quella del Cagliari, e la nota essendo stata fortunatamente presentata dal solo
Lyons e non da Grospello, si è creduto alla Forza Inglese, e il
cedere alla forza non è vergogna.
Si vedrà nella circostanza dalla Civili Potenze dell’Europa un
triste esempio del dritto del [chi sia il più] forte ed il fatto ed i
principi che debbonsi stabilire dal fatto successo, anche in ciò
che riguarda il dritto marittimo, stabilirà un precedente che non
può non esser preso in seria considerazione da tutte le Potenze.
Renderete di tutto ciò al più presto avvisandovi Sua Santità ed il
Cardinale Antonelli24.
La posizione ufficiale del Regno delle Due Sicilie sulla
21 ASV, Arch. Nunz. Napoli, fasc. 267, foglio 184.
22 ASV, Segr. Stato, anno 1858, rubrica 165, fasc. 3, foglio 173.
23 ASV, cit. foglio 203.
100
24 ASV, cit., fogli 216-7.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
questione internazionale determinatasi dalla Spedizione è
riportata in uno degli allegati ad un rapporto del Carafa al
nunzio, poi inviato da questi al Segretario Antonelli.
La data è dell’8 giugno 1858 e in essa Carafa dichiara che
il Re di Napoli non poteva immaginare di possedere i mezzi
necessari per opporsi alle forze di cui poteva disporre il governo britannico e che, sostanzialmente, erano accettate le
richieste inglesi25.
Il carteggio diplomatico tra il Conte di Cavour e il Com.
Carafa, il Sig. Lyons e il Duca di Mecklemburg è conservato, in copia, presso l’Archivio della nunziatura napoletana.
Quando la Gran Corte Criminale di Salerno ordina la liberazione dei passeggeri e la restituzione del vapore per mezzo
degli Inglesi, che poi avrebbero condotto sia i prigionieri sia
il Cagliari a Genova per riconsegnarlo alle autorità sabaude, il nunzio ne dà notizia al Segretario Antonelli, oltre a
fornirgli, nel corso dei mesi successivi, tutte le notizie circa
l’andamento del processo, con la conclusione finale in una
relazione riservata del 16 giugno 1858.
È affrontata anche la questione sul ruolo rivestito dalla
flotta francese per il Regno di Napoli e per lo Stato pontificio, soprattutto grazie ai colloqui privati tra il Carafa e il
nunzio di Napoli.
È noto che nel luglio del 1857 alcune navi della flotta francese erano giunte nel Porto di Civitavecchia con la funzione
ufficiale di ‘intimidire’ le possibili, ulteriori insurrezioni nel
Sud Italia e come sostegno alla Corona borbonica. Sempre
dalla relazione del 1 luglio 1857 scrive il nunzio apostolico:
[…] il Com. Carafa mi ha confidato che forse è già arrivata nel
Porto di Civitavecchia una Flotta dei Francesi dalla quale l’apparente scopo è di sorvegliare la flotta inglese ancorata a Livorno.
Però giunta la notizia a lui pervenuta il vero motivo sarebbe una
dimostrazione contro il Governo Suo, ad oggetto che questo
fecondi le domande fatte dai Bolognesi al S. Padre le quali furono
dapprima esaminate e approvate dalla Francia. Si teme che il S.
Padre possa accoglierle freddamente ed anche non curarle influenzato come si suppone dall’Austria.
L’apparato della Francia servirebbe a controbilanciare questa
temuta influenza26.
Nel fascicolo classificato pos. 2/in 32, intitolato Viaggio
del Papa a Bologna, Modena e Toscana, sono raccolti i rapporti riservati ufficiali su questo evento indirizzati alla Segreteria di Stato presso la nunziatura apostolica di Napoli. La
sede apostolica nel Regno delle Due Sicilie era, a sua volta,
aggiornata quotidianamente delle attività del Pontefice per le
sue relazioni con le autorità borboniche, oltre che per essere
al corrente delle questioni a Roma.
Dalle lettere tra il nunzio Nobili Vitelleschi e il Segretario
Antonelli e tra il primo e il nunzio apostolico di Ravenna
emerge che i cittadini di Bologna avevano richiesto al S.
Padre una maggiore autonomia amministrativa ed ulterio25 ASV, Arch. Nunz. Napoli, fasc. 267, foglio 178.
26 ASV, cit., fogli 220-1.
ri contributi finanziari. È noto27 come dalla seconda metà
dell’Ottocento la Francia fosse interessata alla parte centrale
dell’Italia per estendervi la propria influenza, sostituendosi
a quella austriaca (come confermeranno i successivi accordi
di Plombiéres).
Il successore di Vitelleschi, il nunzio Giannelli, il 31 luglio
1858 riporta al Segretario Antonelli i dettagli della sentenza
emanata dalla Gran Corte di Salerno per gli avvenimenti di
Ponza e Sapri.
Il fascicolo 165 raccoglie tre incartamenti, il 3, il 4 e il 5,
nei quali viene fatto riferimento alla Spedizione dalle sedi
apostoliche (nunziature e consolati) di tutto la penisola e
dall’estero alla Segreteria di Stato pontificia.
Ad esempio la descrizione dell’insurrezione della città di
Genova nella notte tra il 29 e 30 giugno 1857 è svolta dal
Delegato Apostolico di Civitavecchia presso il Consolato
Generale pontificio nei Regi Stati Sardi.
Il 17 marzo del 1857 l’arcivescovo di Pessalonica, nunzio
apostolico di Firenze, avvisa il Segretario Antonelli che il
Ministro degli Interni Landucci di Genova lo aveva informato che da Genova era stato inviato a Livorno uno dei capi
rivoluzionari per prelevare un’ingente somma di denaro dal
banchiere Adami di Pisa per finanziare la setta mazziniana.
Secondo l’arcivescovo circolava la notizia che sarebbe presto scoppiata una rivoluzione nel Regno di Napoli, la quale si
sarebbe propagata altrove e sarebbe stata diretta da Mazzini,
il quale doveva giungere a Genova.
A Livorno e a Civitavecchia era giunto il vapore Medea
con a bordo alcuni emissari mazziniani che avevano contattato molti personaggi considerati sospetti28.
Il 14 maggio 1857 il Consolato Generale Pontificio di Livorno avvisa la Segreteria di Stato che, sulla base di alcuni
sospetti delle autorità del governo Granducale, erano state
confiscate due casse di armi da fuoco, giunte clandestinamente a Pisa per mezzo di un’imbarcazione proveniente da
Genova e che, probabilmente, altre navi con munizioni nascoste erano dirette a Napoli o in Sicilia29.
Le prime notizie dalle altre nunziature apostoliche italiane, esclusa quella di Napoli, giungono alla Segreteria di Stato dal Delegato Apostolico di Civitavecchia il I luglio, che
fornisce, inoltre, una chiara descrizione dei moti avvenuti in
Genova tra il 29 e il 30 giugno, quando salpò il Cagliari alla
volta di Ponza, senza tralasciare, nella dinamica degli avvenimenti, la presa di bastioni del porto.
Il moto è d’ideale mazziniano. Ciò è provato dal carteggio trovato
27 Cfr. anche A. Saitta, Le relazioni diplomatiche tra Francia e Regno di
Sardegna, Roma, Ist. Storico italiano per l’età moderna e contemporanea,
Roma, 1961-71; dello stesso Autore, La questione italiana dalle
annessioni al regno d’Italia nei rapporti tra la Francia e l’Europa, Roma,
Ist. Storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1961-71; D. Cena,
L’Imperatore Napoleone III e l’Italia, Louis-Etienne-Arthur DubreuilHelion de La Gueronniere, Torino, 1859; P. Silva, La Politica di
Napoleone III in Italia, Roma, Albrighi, Segati e C., 1927 (Citta di
Castello, S. Lapi); M. Mazziotti, Napoleone III e l’Italia, Milano, Unitas,
1925.
28 ASV, Segr. Stato, anno 1858, rubrica 165, fasc. 3, foglio 29.
29 ASV, cit., foglio 32.
101
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
indosso agli arrestati. Le autorità locali ne avevano già sentore.
Le truppe della Guarnigione da giorni erano consegnate per maggior sicurezza.
[…]
il Cagliari, vapore della compagnia Rubattino, partito la sera del
26 giugno per Tunisi è stato costretto, dicesi, dal sedicente colonnello Pisacane, che ne aveva preso passaggio con una turba di
persone di cui accludo la nota, a cambiar direzione e rivolgersi
sulle Coste, vuolsi, di Sicilia per tentarvi uno sbarco. Certo è che
dispacci qui giunti assicurano che suddetto vapore non ha toccato
il porto di Cagliari e che il Governo ha mandato il vapore da guerra Inchinusa. Il Cagliari portava in puro contante 60.000 franchi30.
Il vapore preso in ostaggio da Pisacane trasportava con sé
una notevole somma di denaro, trattandosi il vapore su cui
viaggiava un’imbarcazione che svolgeva servizio postale tra
il Regno Sabaudo e Tunisi.
Segue la lista dei passeggeri, compilata direttamente da
questi ultimi al momento dell’imbarco, tra cui sono riportate
le generalità di Pisacane, che si dichiarava essere un possidente napoletano diretto a Tunisi.
Il Console Generale Pontificio di Livorno 16 maggio 1857
scrive ad Antonelli che la polizia livornese conosceva tutti i
movimenti degli affiliati della setta mazziniana e che quindi
non si correva alcun pericolo, essendo la situazione nel granducato di Toscana sotto il controllo delle autorità di pubblica
sicurezza31.
Dal Console Generale pontificio di Genova ad Antonelli,
20 maggio 1857:
guria34.
Nella nota del Console di Livorno del I luglio 1857 si descrivono i moti poi sedati nella cittadina toscana e si dichiara
che, secondo alcune voci diffuse tra gli ambienti granducali,
pare che la flotta Inglese dell’ammiraglio Lyons aveva incoraggiato gli sbarchi mentre secondo altre fonti si sarebbe
trattato di un piano prestabilito35.
Nei giorni successivi allo sbarco a Sapri la Delegazione
apostolica di Civitavecchia dalla Direzione di Polizia rassicura Roma che la situazione era sotto controllo ma che l’arrivo continuo di navi da Livorno e di individui sospetti necessitava una maggiore sorveglianza in quel porto36.
Il 4 luglio 1857 il nunzio apostolico di Ascoli scrive ad
Antonelli che la sera del 3 luglio era stato precipitosamente
informato dal Regio Intendente di Teramo che dalla Direzione della Polizia di Napoli per telegrafo era stato comunicato
che: «la masnada rivoltosa sbarcata a Sapri è stata completamente distrutta» e che il nunzio scrisse immediatamente a
quello di Macerata perché avvisasse Roma37.
Il 4 e l’8 luglio dalle sedi apostoliche di Ascoli e Benevento giungono ulteriori rassicurazioni circa la sorveglianza
contro probabili tentativi rivoluzionari.
Altri rapporti provengono dalle nunziature estere e da Genova. Dal nunzio apostolico di Parigi al Cardinale Antonelli,
11 luglio 1857:
I moti italiani pare fossero progetto dei rivoluzionari che dovevano aver luogo a Parigi dopo essersi attentato alla vita dell’Imperatore. La Polizia aveva già avuto qualche sentore di ciò per aver
intercettato la lettera di Mazzini ai capi del complotto e per aver
Si informa che è alloggiata all’Albergo Italia una signora inglese,
intercettato una valigia con pistole. Arrestati alcuni italiani (Rib-
certa Miss White che in Inghilterra soleva tenere meeting e adu-
aldi e Bertolotti). La Polizia francese ne diede notizia al Governo
nanze per la causa italiana. La sera del 17 alle 11 la Società degli
Piemontese. I fatti poi avvenuti a Genova, Livorno e nel Regno
Operai la onorò della sua Banda con una serenata in omaggio. Ol-
Napoletano hanno destato l’indignazione di tutti quelli che non
tre alle grida ‘Viva Miss White’ si udirono ‘Guerra all’Austria’,
sono venduti al partito rivoluzionario ed anarchico. Il modo, però,
‘Morte al Papa’ e ‘Viva l’indipendenza italiana’ [Molti poliziotti
con cui gli agitatori furono respinti dalla truppa in Toscana e nel
tra la folla ne hanno riportato notizia]32.
Regni di Napoli ha aperto gli occhi a molti illusi che giudicano lo
stato di d’Italia da quello che leggono e credono che bastasse una
La Miss White citata è Jessie Mario White, amica di Carlo
Pisacane e di Giuseppe Mazzini, che parteciperà ai moti di
Genova del 29 e 30 giugno 185733.
Il 4 giugno 1857 il Console Generale dei Regi Stati Sardi
comunica a Roma che il partito mazziniano stava meditando
uno sbraco armato nel Mediterraneo ma che non era ancora
certo se ciò fosse avvenuto in Romagna, in Toscana o in Li-
30 ASV, cit., fogli 34-5.
31 ASV, cit., fogli 37-8
32 ASV, cit., foglio 29, così le virgolette, nel testo.
33 Jessie Mario White, dopo aver conosciuto nel 1854 Giuseppe
Garibaldi di cui divenne subito amica e seguace, giunse in Italia come
corrispondente del Daily News e strinse forti legami di amicizia, oltre
che con Carlo Pisacane, anche con Agostino Bertani (e Marco Monnier,
che la ritrasse nella novella Miss Uragan). Cfr. R. Certini, Jessie White
Mario una giornalista educatrice: tra liberalismo inglese e democrazia
italiana, Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 1998; M. Prisco, “Adorabile
uragano. Dalle lotte risorgimentali alla Miseria in Napoli. La straordinaria
avventura di Jessie White Mario”, Napoli, Stamperia del Valentino, 2011.
102
scintilla per destarvi un incendio generale38.
Il 7 luglio 1857 il console di Genova scrive ad Antonelli
che pareva certo che Mazzini, nativo di Genova, nella notte
tra il 29 e il 30 giugno fosse in città; una volta appreso che
l’insurrezione non poteva scoppiare, era fuggito frettolosamente nella notte stessa39.
Anche dal lontano Consolato Generale del Regno Ellenico
al Segretario di Stato pontificio, 23 luglio 1857, si comunica
che è giunta notizia della insurrezione nel Regno di Napoli e
viene fornita una lunga informativa sulle attività dei mazziniani in Grecia, allegando un lasciapassare ottenuto da alcuni
34 ASV, cit., fogli 55-56.
35 ASV, cit., fogli 71-74.
36 ASV, cit., fogli 81-84.
37 ASV, cit., fogli 93-94.
38 ASV, cit., fogli 118-119.
39 ASV, cit., fogli 122-123.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
sospetti esuli mazziniani italiani dal Sultano della Sublime
Porta.
Inoltre si riporta che tra il 25 e il 26 giugno (qualche giorno
prima della Spedizione) a Costantinopoli un marinaio inglese fu udito riferire a altri marinai nei pressi del porto che
un’insurrezione era scoppiata nel Regno di Napoli e che le
truppe regie erano state sconfitte e il Re Ferdinando si era ritirato a Gaeta. Essendo stata smentita la notizia qualche giorno dopo, ma poi improvvisamente diffusa l’informativa circa
lo sbarco di Pisacane a Sapri e gli scontri con le truppe borboniche, il Console del Regno Ellenico si dichiara sorpreso
per la strana coincidenza. La questione dell’unità nazionale
italiana non era considerata negativamente da Londra, che riteneva un regno d’Italia unito (possibilmente sotto la dinastia
Savoia) non incompatibile con l’assetto post-1815 e come
elemento di stabilità in un “punto caldo” del Mediterraneo,
area di tradizionale egemonia inglese. Secondo il governo di
S.M. britannica il governo sardo poteva creare un casus belli
quando se ne fosse presentata l’occasione40.
Nell’incartamento n. 4 del suddetto fascicolo 165 non risultava esserci alcun riferimento ai fatti di Ponza e Sapri, a
parte una relazione del Delegato di Ravenna al Segretario
di Stato Antonelli, datata 28 gennaio 1858, in cui si parla
del Pieri (che con Orsini partecipò all’attentato a Napoleone
III)41.
Alla relazione segue un foglio, scritto dal delegato medesimo, con scritto «Notizie». E di seguito:
Il Duca di San Donato, siciliano, fu colui che combinò la
Spedizione di Sapri, a 3000 ascendevano gli emigrati che dovevano prendervi parte.
Il piano era concepito così.
Assalto di due fortini di Genova onde di là proteggere la presa di
due legni da guerra ed insieme l’imbarcazione che con bandiera
tricolore italiana salpa per Sapri.
Mazzini però sconvolse tutto dicendo che il colpo doveva essere
in senso repubblicano. Allora i primi concerti svanivano, che se
avessero avuto effetto, non erano ignorati dal Ministero Sardo
ma esso fingendo di ignorarlo di pari dichiarò non essere stato in
40 Cfr. The Cambridge History of English Foreign Policy, 17871919, Cambridge, 1923; M. de Leonardis, L’Inghilterra e la Questione
Romana, Pubblicazioni dell’Università Cattolica di Milano, 1980; D. M.
Scheruder, Gladstone and the Italian Unification, 1848-1870: the Making
of a Liberal?, in «English Historical Review», vol. 85, 1970, n. 336,
pp. 475-501; N. Blakiston, Inglesi e Italiani nel Risorgimento, Catania,
Bonanno, 1973; F. Curato – G. Giarrizzo, Le relazioni diplomatiche tra
la Gran Bretagna e il Regno di Sardegna, voll. I-VIII, Roma, Istituto
storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1961-71; AA. VV.,
Italia e Inghilterra nel Risorgimento, Pubblicazioni dell’Istituto Italiano
di Cultura di Londra, 1954; A. Colombo, L’Inghilterra nel Risorgimento
Italiano, Milano, Casa Editrice Risorgimento, 1917; O. Barriè,
L’Inghilterra e il problema italiano: la missione di Lord Minto (ott. 1847apr. 1848), Milano, C.U.E.M., 1955; dello stesso Autore, L’Inghilterra e
il problema italiano: dalle rivoluzioni alla seconda restaurazione, Milano,
Giuffrè, 1965; A. Signoretti, Italia e Inghilterra durante il Risorgimento,
Milano, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 1940; N. Rosselli,
Inghilterra e Regno di Sardegna, Einaudi, Torino, 1954.
41 ASV, Segr. Stato, anno 1858, rubrica 165, fasc. 4, fogli 72-73.
tempo d’impedirlo.
Allora il Pisacane con 180 di più arditi si offrì all’impresa di Sapri, e sebbene tutto fosse ivi disposto per ricevere la Spedizione,
il cambiato scopo e la stessa bandiera fecero abortire il tentativo!
E la polizia francese nel prevenire quella di Torino intese sempre
parlare della prima e non della seconda cospirazione42.
Le informazioni reperibili dai documenti delle nunziature
apostoliche restano d’interesse strettamente connesso alle
sedi di origine; tuttavia, come nel caso della Spedizione di
Pisacane, oltre a trattarsi di documenti inediti e poco noti, la
loro conoscenza e la loro analisi può contribuire non solo ad
arricchire il patrimonio degli archivi minori locali e delle conoscenze sull’argomento, ma anche a costituire un nuovo stimolo ed un potenziale ampliamento a ricerche già intraprese.
Scarso è il riferimento esplicito ai rivoltosi mentre estremamente dettagliate sono le notizie relativamente agli scontri con l’esercito borbonico, agli effetti dell’avvenimento nel
Regno delle Due Sicilie, alle reazioni della comunità diplomatica, alle condizioni dei prigionieri e alla presa del vapore
sardo Cagliari.
Ciononostante il riferimento a Pisacane e alla sua impresa
appare anche successivamente nella documentazione delle
nunziature.
In un memorandum del 9 maggio 1860 che il nunzio napoletano scrive al Segretario Antonelli in occasione dello sbarco di Giuseppe Garibaldi in Sicilia, si descrive l’avvio della
Spedizione dei Mille e si cita che i due legni a vapore erano
della «compagnia Rubattino, la stessa cioè a cui appartiene
il ‘Cagliari’»43.
Da quando nel 1881, per munifica iniziativa di Leone XIII,
l’Archivio Segreto Vaticano è stato aperto alla libera consultazione degli studiosi è divenuto uno tra i più noti centri di ricerche storiche. Come osserva Cummings, a proposito degli
archivi della nunziatura di Napoli per il periodo compreso tra
lo sbarco garibaldino in Calabria e la conquista della capitale
borbonica, nonostante nel loro insieme tali carteggi presentino un carattere talvolta molto specifico, legato alla funzione
informativa e di rappresentanza diplomatica delle nunziature, si tratta comunque di fonti che consentono di determinare
«il senso di immediatezza, tensione, paura ed eccitazione»
e che quindi, indipendentemente dal tipo di ricerca svolto,
riportano i momenti di storia di quei giorni nell’estate del
1857 nel Sud dell’Italia preunitaria44.
Le carte conservate presso l’Archivio Segreto Vaticano
possono fornire dunque ulteriori dettagli, spesso di carattere
prevalentemente inedito su Carlo Pisacane e la sua Spedizione, che, fino ad oggi, possono contribuire ad alimentare
il suo “mito”.
42 ASV, cit., fogli 74-75.
43 ASV, Arch. Nunz. Napoli, anno 1860, fasc. 268, fogli 473-7.
44 R. L. Cummings, “The nunciature of Naples, it archives and the
national Revolution”, in Archivium Historiae Pontificiae, ago.-sett. 1860,
17 (1979).
103
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
Lingua e identità nazionale in
Bosnia-Erzegovina.
Dal multiculturalismo
all’esclusivismo linguistico
ANIDA SOKOL
Università degli Studi di Roma, La Sapienza
La storia della lingua serbo-croata, dal XIX secolo ai nostri giorni, segue le turbolente vicende storiche della regione
jugoslava.1 Durante i diversi momenti storici, gli aspetti linguistici sono spesso serviti a consolidare obiettivi politici,
rappresentando sia uno strumento fondamentale per l’unificazione delle nazionalità slave del sud, sia un riflesso dell’affermazione delle identità nazionali specifiche
delle diverse componenti jugoslave. L’importanza della lingua nella regione è evidente se si considera il fatto che essa è stata sia una delle principali basi per l’unificazione dei popoli jugoslavi
nel Regno dei Serbi, Croati, Sloveni (Kraljevina
Srba, Hrvata i Slovenaca, SHS) nel 1918, sia, durante la disintegrazione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija, SFRJ) negli anni
Novanta del XX secolo, uno dei primi obiettivi
delle diverse componenti nazionali e delle entità
statali subentranti per affermare la propria specificità nazionale. Il serbo-croato, codificato nel
XIX secolo come un’unica lingua sulla base della
variante più diffusa, quella del dialetto štokavski,
oggi per ragioni politiche e nazionaliste è stato
invece “disintegrato” in quattro lingue nazionali: serbo, croato, bosniaco e montenegrino, nonostante dal punto di vista
sociolinguistico non esistessero i concreti presupposti per la
1 Nell’elaborato la definizione “lingua serbo-croata” continua ad essere
utilizzata nonostante negli ultimi due decenni sia divenuta desueta nell’area ex jugoslava. A livello internazionale, invece, il termine è ancora usato
da alcuni linguisti come Snježana Kordić con un’accezione strettamente
geografica, che non esclude quindi bosniaci musulmani e montenegrini
– come affermano al contrario i linguisti “nazionalisti” – poiché denota i
margini di una vasta area linguistica che ha vissuto tradizionalmente una
prevalenza numerica e di conseguenza politica e culturale di serbi e croati.
Si veda S. Kordić, Jezik i nacionalizam, Durieux, Zagreb, 2000, p. 267. Il
termine oggi più utilizzato per denominare la lingua comune in BosniaErzegovina è “lingua bosniaca/croata/serba” (BHS jezik).
104
loro definizione come singole entità separate.2 Tale processo,
come del resto la dissoluzione stessa dello Stato jugoslavo,
ha avuto le conseguenze più clamorose in Bosnia-Erzegovina, la repubblica jugoslava (insieme a quella macedone) con
la più complessa struttura etnica, dove le questioni linguistiche riflettono le controverse relazioni sociali e politiche cor-
renti tra le nazionalità serba, croata e bosniaco-musulmana
(bošnjaci).3 In tal senso, la Bosnia-Erzegovina, una “picco2 La lingua serbo-croata è riconosciuta nella sociolinguistica internazionale come lingua pluricentrica con varianti nazionali (serbo, croato,
bosniaco e montenegrino) mutuamente intelligibili. La definizione si riferisce a quelle lingue che hanno diversi centri interattivi ognuno con una
propria variante nazionale e proprie norme codificate. Anche se esistono differenze tra le varianti nazionali, soprattutto lessicali e fonologiche,
come nel caso dell’inglese americano e britannico, queste risultano essere
così poche da non influenzare la comunicazione fra interlocutori e quindi
da non essere considerate lingue distinte. Si veda in generale M. Clyne,
Pluricentric Languages, Differing Norms in Different Nations, York Mouton de Gruyter, Berlin and New York, 1992.
3 Dal 1993 il termine bošnjaci (“bosgnacchi”) è usato per indicare i
bosniaci musulmani, mentre il più generico termine bosanci (“bosniaci”)
indica i cittadini della Bosnia-Erzegovina senza specificare l’appartenenza
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
la” Jugoslavia che vive profonde contraddizioni, con la convivenza in una regione relativamente ristretta di tre “lingue”
– serbo, croato e bosniaco – varianti di uno stesso idioma
pluricentrico, rappresenta quindi un caso sociolinguistico
unico.
LINGUA COME STRUMENTO POLITICO
Nell’area ex jugoslava la questione linguistica riflette la
complessa questione nazionale slavo-meridionale, l’identità di popoli – serbi, croati, bosniaci e montenegrini – che
parlano la stessa lingua ma hanno spesso perseguito finalità
politiche divergenti e in contrasto tra loro. Con le dovute differenze, soprattutto lessicali, sviluppate nel corso del tempo
e all’interno di differenti contesti politico-culturali, la lingua
serbo-croata si è rivelata un ottimo strumento per il conseguimento di obiettivi politici e l’affermazione dell’identità
nazionale, ovvero un ottimo strumento di Nation-building.4 I
diversi regimi politici della Bosnia-Erzegovina hanno tentato
di imporre, con più o meno successo, determinate soluzioni
politiche e relative scelte linguistiche, nella maggior parte
dei casi per ridurre le tensioni tra le nazionalità slave del sud,
ma spesso anche per esasperarle. Se durante il periodo ottomano non esisteva da parte della Sublime Porta un reale interesse politico per le questioni linguistiche, e lingua e scrittura
si sviluppavano separatamente nelle diverse comunità confessionali cristiane e musulmana, il dominio austro-ungarico
(1878-1918) è il primo a imporre una politica linguistica
volta alla creazione di un’unica nazione bosniaca con la finalità di neutralizzare le influenze nazionaliste provenienti
dal vicino Regno di Serbia e dagli stessi territori croati all’interno dell’Impero.5 Il disinteresse dell’Impero ottomano per
le questioni linguistiche nasceva soprattutto dal fondamento
nazionale. Sui musulmani di Bosnia-Erzegovina si veda: F. Friedman, The
Bosnian Muslims, Denial of a Nation, Westview Press, Boulder-Oxford,
1996; G. Motta, From One Dynasty to Another: The Muslims of Bosnia
from Habsburg to Karađorđević, in G. Motta, Less than nations. Central-Eastern European Minorities after WWI, vol. II, Cambridge Scholars
Publishing, Newcastle, 2013, pp. 153-187.
4 Lo studioso norvegese P. Kolstø definisce il concetto di Nation-building come “strategies of identity consolidation within states and distinguish
it from ‘state-building’. The latter term, as we use it, pertains to the administrative, economic and military groundwork of functional states – the
‘hard’ aspects of state construction. Nation-building, in contrast, concerns
only the ‘softer’ aspects of state consolidation, such as the construction
of a shared identity and a sense of unity among the population”. Cfr. P.
Kolstø (a cura di), Strategies of Symbolic Nation-building in South Eastern
Europe, Ashgate, Farnham, 2014, p. 3.
5 In generale sulla storia della Bosnia-Erzegovina si veda N. Malcolm,
Storia della Bosnia. Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano,
2000. Per quanto riguarda l’area slavo-meridionale nel XIX secolo si
rimanda, nella vasta produzione storiografica esistente, a S. Clissold (a
cura di), Storia della Jugoslavia. Gli slavi del sud dalle origini a oggi,
Einaudi, Torino, 1969; A. Tamborra, L’Europa centro-orientale nei secoli
XIX-XX (1800-1920), Vallardi, Milano, 1971. In merito agli aspetti linguistici in questione si rimanda a S. Mønnesland (a cura di), Jezik u Bosni
i Hercegovini, Institut za jezik u Sarajevu, Institut za istočnoevropske i
orijentalne studije, Oslo, 2005, e in particolare per la politica linguistica
austro-ungarica in Bosnia-Erzegovina M. Šator, Bosanski/Hrvatski/Srpski
jezik u BiH do 1914, Univerzitet Džemal Bijedić, Fakultet humanističkih
nauka, Mostar, 2004.
autocratico e metastorico della sua sovranità politica, dove
non erano le nazioni, tanto meno le lingue, a legittimare il
sovrano; solamente sul finire dell’epoca ottomana, l’amministrazione imperiale in Bosnia-Erzegovina cerca d’intervenire
nelle questioni nazionali a causa dell’influenza esercitata dai
vicini territori serbi e croati. Al tempo stesso, quando ottiene
l’amministrazione della Bosnia-Erzegovina al Congresso di
Berlino del 1878, l’Austria-Ungheria per sopravvivere all’epoca della nazionalizzazione delle masse è già stata costretta
a rimodellarsi come monarchia dualistica e pertanto è pronta
a contrastare le crescenti identità nazionali con l’introduzione di strategie adeguate comprendenti anche specifiche politiche linguistiche.
Successivamente, nella “prima” Jugoslavia, quella monarchica (1918-1941), Belgrado impone con risultati discutibili
un’uniformità linguistica finalizzata a rafforzare l’unità nazionale e politica del Paese: la sopravvivenza delle tensioni
nazionaliste porta infatti alla prima disgregazione jugoslava,
sotto i colpi delle potenze dell’Asse, e alla breve e tragica
parentesi dello Stato Indipendente Croato (1941-1945), che
comprendeva anche la Bosnia-Erzegovina, durante il quale
il croato è proclamato lingua ufficiale e l’alfabeto cirillico,
caratteristico della scrittura serba, viene proibito.6 Nella “seconda” Jugoslavia, quella socialista (1945-1991), invece, la
lingua serbo-croata ritorna a essere un mezzo di unificazione
nazionale: un primo momento di comune standardizzazione
linguistica del serbo-croato (fino al 1965), tuttavia, lascia il
passo a una progressiva separazione in varianti nazionali definitivamente condotta alle estreme conseguenze dai primi
anni Novanta in poi.7
Durante il regime di Tito, infatti, il serbo-croato è la “lingua franca” dello Stato comune socialista, comprensibile anche alle altre nazionalità e minoranze jugoslave. In linea con
la politica di Bratstvo i jedinstvo (“Fratellanza e unità”), diretta derivazione della propaganda partigiana jugoslava della
Seconda guerra mondiale, due centri culturali e linguistici,
Zagabria e Belgrado, sin dagli anni Cinquanta lavorano di
comune accordo alla codificazione del serbo-croato finalizzata alla pubblicazione di un dizionario e di un’ortografia
della lingua comune. L’esistenza di un’unica lingua è riaffermata dall’Accordo di Novi Sad (Novosadski dogovor)8 del
1954, che riconosce pari dignità all’alfabeto latino utilizzato
dai croati e a quello cirillico utilizzato dai serbi, così come
alle due pronunce dello štokavski, quella ekavski orientale (ovvero con epicentro Belgrado) e ijekavski occidentale
6 Sulla persistenza delle tensioni nazionali all’interno del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, con una serie di riferimenti anche agli aspetti linguistici, si veda I. Banac, The National Question in Yugoslavia. Origins,
History, Politics, Cornell University Press, Ithaca-London, 1984. Sulle
politiche linguistiche nello Stato Indipendente Croato si veda invece M.
Samardžija (a cura di), Hrvatski jezik, pravopis i jezična politika u NDH,
Hrvatska sveučilišna naklada, Zagreb, 2008.
7 Sulle politiche linguistiche nel periodo della Jugoslavia socialista si
veda R. Bugarski, C. Hawkesworth, Language Planning in Yugoslavia,
Slavica Publishers, Columbus, 1992.
8 Zaključci novosadskog sastanka o hrvatskom ili srpskom jeziku i pravopisu, in Jezik, god. 3, br. 3, veljača 1955, p. 65.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
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(con epicentro Zagabria). L’accordo stabilisce l’obbligo di
usare entrambi i nomi nazionali (srpski-hrvatski) per la denominazione dell’idioma comune. Qualsiasi espressione di
nazionalismo linguistico è in tal modo emarginata, anche se
tensioni emergeranno già nel 1966 con la pubblicazione del
controverso dizionario di lingua serbo-croata del serbo Miloš
Moskovljević – immediatamente ritirato dal commercio – 9
e con la “Dichiarazione sul nome e la posizione della lingua
letteraria croata” (Deklaracija o nazivu i položaju hrvatskoga književnog jezika) del 1967, prodromo della “primavera
croata” del 1971, che rivendica, a nome delle più importanti
istituzioni culturali e linguistiche croate, la distinzione a livello costituzionale della lingua croata da quella serba (quindi non più srpskohrvatski ma srpski e hrvatski) e il suo uso
nel sistema educativo e nei media della Repubblica federale
di Croazia.10
Progressivamente, dunque, il risveglio delle tensioni nazionaliste in Jugoslavia contribuisce allo sviluppo di politiche linguistiche separate per le diverse entità nazionali di
lingua serbo-croata, che portano, insieme alle rivendicazioni
politiche per una maggiore autonomia regionale, alla formulazione della riforma costituzionale del 1974, che prevede
una nuova definizione del serbo-croato e lascia un più ampio
margine di interpretazione della questione linguistica alle
singole repubbliche federali e alle due regioni autonome della Serbia, quelle del Kosovo e della Vojvodina.11 In risposta
all’ascesa del nazionalismo politico e culturale nello Stato
jugoslavo, nel 1967 una politica linguistica specifica è inoltre
adottata per la prima volta in Bosnia-Erzegovina. Due anni
prima, infatti, durante il Congresso linguistico di Sarajevo
(Peti kongres jugoslavenskih slavista), un primo importante
conflitto tra linguisti serbi e croati era emerso in merito alla
questione dell’unità linguistica, delle sue varianti e delle sue
differenze, conflitto che negli anni successivi avrebbe provocato come reazione il proliferare di numerosi documenti e
proclamazioni volte a tutelare il multiculturalismo bosniacoerzegovese. L’esistenza di due varianti del serbo-croato e
la risoluzione della questione linguistica jugoslava secondo
linee nazionali minacciava il carattere multinazionale della
Repubblica della Bosnia-Erzegovina, che non aveva al suo
interno zone etnicamente omogenee. Qualora si fosse sostenuta la polarizzazione linguistica in due varianti, serba e
croata, i bosniaci musulmani sarebbero stati costretti a scegliere tra le due versioni – il che rappresentava un aspetto di
assimilazione nazionale a livello linguistico e culturale – o
a crearne una terza. Ciò rischiava di contribuire alla disintegrazione della tradizionale cultura bosniaco-erzegovese,
attraverso un’istruzione separata con due o tre programmi,
terminologie e libri di testo nell’ambito educativo, realtà che
effettivamente si concretizzerà negli anni Novanta durante e
in seguito al conflitto jugoslavo.12
Al fine di scongiurare tale ipotesi negli anni Settanta si sviluppa un’intensa attività di ricerca filologica presso l’Istituto
linguistico di Sarajevo (Institut za jezik i književnost u Sarajevu), fondato nel 1973. L’Istituto diventerà il più importante centro linguistico della Bosnia-Erzegovina coinvolgendo i
principali linguisti dell’intera Jugoslavia nella formulazione
della politica linguistica specifica bosniaca. A tal fine, Milan Šipka, primo direttore dell’Istituto, nell’ottobre del 1973
organizzerà una conferenza a Mostar, nota come Mostarsko
savjetovanje, dove interverranno più di trecento tra linguisti,
insegnanti e rappresentanti delle associazioni culturali jugoslave.13 Più in generale, i progetti dell’Istituto per la lingua
includeranno l’analisi del linguaggio utilizzato dai media,
lo studio degli scrittori della Bosnia-Erzegovina del XIX e
XX secolo, della lingua della letteratura alhamijado e della
terminologia pedagogica. Oggi l’Istituto, a causa delle politiche nazionaliste che dominano le tre nazionalità costituenti
l’attuale Bosnia-Erzegovina e nonostante la prolifica attività
di ricerca scientifica sviluppata anche negli anni successivi
alla guerra del 1992-1995, è rimasto ai margini della società
e della vita accademica del Paese proprio in virtù delle sue
posizioni multiculturali ereditate dell’epoca jugoslava. L’Istituto, infatti, privato del supporto statale, decurtato del proprio personale e soprattutto improntato a un programma di
ricerca “a-nazionale”, non è riuscito ad adeguarsi alle nuove
correnti politiche che condizionano anche le questioni linguistiche. L’Istituto non solo è stato abbandonato dai suoi
collaboratori serbi e croati, ma ha visto venire meno il sostegno della stessa popolazione bošnjak. Nel nuovo contesto
politico e sociale, non è stato capace di assumere il ruolo
guida nell’analisi della codificazione linguistica: i suoi tentativi di mantenere divisa la scienza filologica dalle politiche
nazionali sono puntualmente falliti. Per tale ragione negli
ultimi anni ha intrapreso una serie d’iniziative scientifiche
volte a riconquistare il terreno perduto affermando il sostanziale riconoscimento di tre standard linguistici per la BosniaErzegovina, seppure con la distinzione delle peculiari forme
di lingua serba e croata del Paese da quelle propriamente
parlate in Serbia e Croazia.14
9 In particolare, Rečnik srpskohrvatskog jezika di Miloš Moskovljević
viene proibito per la presenza di una serie di definizioni controverse quali
quelle relative ai termini četnik e partizan. Si veda T.F. Magner, Language
and Nationalism in Yugoslavia, in Canadian Slavic Studies, vol. 1, n. 3,
1967, p. 340.
10 Cfr. J. Hekman (a cura di), Deklaracija o nazivu i položaju hrvatskog
književnog jezika, Građa za povijest Deklaracije, Matica hrvatska, Zagreb,
1997.
11 Jezičke odredbe u ustavima od 1974. godine, Ustav Socijalističke Federativne Republike Jugoslavije, in B. Petranović, M. Zečević (a cura di),
Jugoslovenski Federalizam, ideje i stvarnost. Tematska zbirka dokumenata, II, 1943-1986, Prosveta, Beograd, 1986, p. 747.
12 I numerosi documenti, articoli e proclamazioni prodotti in quel periodo in difesa del multiculturalismo bosniaco-erzegovese sono raccolti in:
M. Šipka (a cura di), Mostarsko savjetovanje o književnom jeziku, Institut
za jezik i književnost, Sarajevo, 1974; Id. (a cura di), Standardni jezici i
nacionalni odnosi u Bosni i Hercegovini (1850-2000), dokumenti, Institut
za jezik, Sarajevo, 2001.
13 Zaključci o sprovođenju književnojezičke politike u Bosni i Hercegovini, in Mostarsko savjetovanje..., pp. 197-199.
14 N. Veljevac, Standardna novoštokavština i jezička situacija u Bosni i Hercegovini, in N. Valjevac et al., Standardna novoštokavština i
bosanskohercegovačka jezička situacija, Institut za jezik, Sarajevo, 2005,
pp. 12-14.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
SECESSIONISMO NAZIONALE E “BALCANIZZAZIONE”
LINGUISTICA
Nonostante i numerosi tentativi rivolti a mantenere un approccio tollerante e di apertura nei confronti delle politiche
linguistiche in Jugoslavia e nello specifico nella BosniaErzegovina, le tensioni nazionaliste che hanno portato alla
violenta dissoluzione del Paese hanno inevitabilmente coinvolto anche la questione della lingua. All’inizio degli anni
Novanta il consolidamento politico dei partiti nazionalisti ha
portato con sé politiche linguistiche “nazionaliste” finalizzate a differenziare le varianti linguistiche serbo-croate ed elevarle a idiomi nazionali, per ottenere, usando la definizione
di Joshua Fishman, il contrastive self-identification, il consolidamento dell’identità nazionale attraverso un sentimento di
comunità che unisce e identifica coloro che parlano la stessa
lingua, separandoli da coloro che non la parlano.15 Secessionismo nazionale e regionale hanno incluso anche le naturali
tendenze a completare l’indipendenza politica con il “separatismo linguistico” (linguistic separatism), processo definito
da Eric Hobsbawm “Balcanizzazione linguistica” (linguistic
Balkanization).16
I linguisti “nazionali” e il testo costituzionale della BosniaErzegovina oggi considerano il serbo, il croato e il bosniaco
tre lingue separate, che contribuiscono a stabilire diversi modelli educativi e formativi. Negli Stati eredi della Jugoslavia
i “pianificatori” della lingua sono ricorsi a esperimenti di
vera e propria ingegneria linguistica, riscoprendo a fini politici le tradizioni passate, ovvero l’usable past, per dirla con
le parole di Anthony Smith relative al Nation-building.17 Il
“separatismo linguistico” è oggi sostenuto dalle teorie di linguisti, intellettuali, scrittori e storici dell’area ex-jugoslava,
come ad esempio Dalibor Brozović e Stjepan Babić in Croazia, Dževad Jahić e Senahid Halilović in Bosnia-Erzegovina,
o Adnan Čirgić in Montenegro, che hanno avuto un ruolo
fondamentale nella “lotta” per l’elevazione delle varianti nazionali a veri e propri idiomi, ponendo le basi per lo sviluppo
delle politiche linguistiche “nazionaliste” delle repubbliche
post-jugoslave. Le principali argomentazioni sostenute da
questi linguisti sono: che ogni nazione ha diritto alla propria
lingua; che le varianti del serbo-croato di oggi risultano diverse rispetto a quelle del passato; che la “lingua comune”
della Jugoslavia è stata una creazione artificiale imposta e il
serbo-croato, in realtà, non è mai realmente esistito.18
15 J. Fishman, Language and nationalism, New Berry House Publishers,
Rowley, 1972, pp. 44-52.
16 “In the area of national and regional secessionism there is a natural
tendency to complement political independence by linguistic separatism”.
Cfr. E. Hobsbawm, Language, Culture and National Identity, in Social
Research, vol. 63, n. 4, winter 1996, pp. 1065-1080.
17 A. Smith, The “Golden Age” and National Renewal, in G. Hosking,
G. Schopflin (a cura di), Myths and Nationhood, Hurst & Co., London,
1997, pp. 36-59.
18 In generale, negli ultimi anni rari sono stati gli studi che hanno dimostrato un’analisi critica del fenomeno della “disintegrazione” del serbo-croato. Tra questi sicuramente la già menzionata pubblicazione Jezik
i nacionalizam di Snježana Kordić, decisamente critica nei confronti del
“purismo croato”, e il lavoro di Robert D. Greenberg Language and Iden-
A sostegno delle loro argomentazioni, i linguisti “nazionali” rafforzano differenze e peculiarità delle proprie varianti,
fino ad arrivare alla formulazione di nuove parole (neologismi) come avviene soprattutto in Croazia.19 Tale discrepanza
tra la sociolinguistica e le politiche linguistiche nell’area ex
jugoslava è il risultato della violenta disintegrazione dello
Stato comune e della creazione dei nuovi Stati nazionali. In
tal senso, la lingua ha avuto dunque un ruolo più simbolico
che comunicativo, finalizzato al superamento del messaggio jugoslavo di Bratstvo i jedinstvo, che aveva avuto come
obiettivo – anche attraverso la lingua comune – il mantenimento dell’unità dello Stato federale.
Le politiche linguistiche nazionaliste degli Stati eredi della
vecchia Jugoslavia, così come il lavoro alla base dell’unione linguistica jugoslava avviata dai “padri” del serbo-croato
Vuk Stefanović Karadžić (1787-1864) e Ljudevit Gaj (18091872) a partire dal XIX secolo, hanno alla loro origine l’approccio “primordialista” alla questione della lingua e della
nazione sviluppato durante il romanticismo tedesco della
fine del XVIII secolo da Johann Gottfried Herder. Secondo
Herder la lingua ha un ruolo sacro per la definizione di un’identità nazionale e, come conseguenza, fondamentale per la
preservazione di quest’ultima si rivela la tutela del purismo
linguistico, ovvero la pratica di definire o riconoscere una
varietà linguistica come più pura e di qualità intrinsecamente superiore rispetto ad altre varianti.20 È ben noto come il
protezionismo linguistico assuma spesso la forma di una
purificazione della lingua dalle contaminazioni linguistiche
straniere.21 È altrettanto noto come tale dinamica in Europa
abbia raggiunto le sue espressioni più estreme durante i regimi totalitari, come ad esempio quelli nazista in Germania
e fascista in Italia, o per quanto riguarda più specificamente
il tema in oggetto, il regime ustaša dello Stato Indipendente
Croato, durante il quale il purismo linguistico divenne parte
integrante delle politiche di annientamento della minoranza
serba rimasta all’interno dei suoi confini.22
Secondo l’approccio “primordialista”, l’esistenza delle natity in the Balkans, Serbo-Croatian and its Disintegration, Oxford University Press, New York, 2004, che offre un quadro generale della questione linguistica nella regione negli ultimi venti anni. Si vedano inoltre le
pubblicazioni di D. Škiljan, Jezična politika, Naprijed, Zagreb, 1988; Id.,
Javni jezik, Biblioteka XX vek, Beograd, 1998; Id., Govor nacij: Jezik,
nacija, Hrvati, Golden Marketing, Zagreb, 2008; e di R. Bugarski, Jezik
od rata do mira, Slavograf, Beograd, 1995; Id., Lica jezika, Biblioteka
XX vek, Beograd, 2002; Id., Nova lica jezika, Biblioteka XX vek, Beograd, 2002. In lingua italiana si segnalano i seguenti contributi: S. Pelussi,
Voci dalle periferie dell’Europa. Lingua e identità: la moltiplicazione degli idiomi nella ex-Jugoslavia, in Cives, 2008, pp. 126-140; G. Manzelli,
Dall’aggregazione alla disgregazione: frammenti di storia della lingua e
della letteratura serbocroata (bosniaca, croata, monetenegrina e serba),
in I. Putzu, G. Mazzon, Lingue, letterature, nazioni, Centri e periferie tra
Europa e Mediterraneo, FrancoAngeli, 2012, Milano, pp. 371-420.
19 S. Mønnesland, Od zajedničkog standarda do trostandardne situacije,
in S. Mønnesland (a cura di), op. cit., p. 481.
20 Su Herder si veda H. Alder, W. Koepke, A Companion to the Works of
Johann Gottfried Herder, Campen House, New York, 2006.
21 Si veda in generale: T. George, Lingustic purism, Longman, LondonNew York, 1992; B.H. Jemudd, M.J. Sharipo, The politics of languge purism, Walter de Gruyer & Co., Berlin-New York, 1989.
22 Si veda S. Kordić. op.cit., pp. 10-68.
107
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
zionalità serba, croata, bosniaca e montenegrina, comporta
necessariamente l’esistenza di quattro idiomi separati. La
convinzione che una nazione corrisponda a una determinata area linguistica, tuttavia, ha incontrato le confutazioni di
numerosi studiosi. L’area ex jugoslava e in generale i Balcani rappresentano tra l’altro un esempio appropriato di come
in molte aree d’Europa, le frontiere linguistiche e i confini
nazionali difficilmente corrispondano. Già nel 1882 nel suo
famoso articolo Che cos’è la nazione? (Qu’est-ce qu’une
nation?), Ernest Renan aveva sottolineato il pericolo e l’inconveniente di far coincidere a ogni costo lingua e nazione.
Secondo Renan, le origini di una nazione andavano ricercate
invece in un passato e una volontà comune, ovvero “la volontà comune di ricordare e dimenticare”.23
Come Renan, anche gli etnosimbolisti considerano passato, miti e simboli, concetti fondamentali per la formazione di
una nazione. Secondo Anthony Smith, infatti, la nazione è
una popolazione umana che condivide territorio, miti e memorie storiche, una massa con una comune cultura pubblica, un’economia comune e comuni diritti e doveri per i suoi
membri.24 La nazione troverebbe dunque le proprie origini
nell’ethnie, ovvero in forme pre-moderne di identità culturali collettive con miti, storie e culture comuni, associati a
un territorio specifico e a un forte senso di solidarietà.25 I
modernisti come Benedict Anderson, Ernest Gellner e Eric
Hobsbawm, infine, tendono invece a sottolineare la natura
artefatta delle nazioni e del nazionalismo, intesi come vere
e proprie invenzioni, prodotti del modernismo con scopi
politici ed economici. In tal senso le nazioni non avrebbero
dunque le loro origini negli elementi culturali o sociali, ma
rappresenterebbero quasi esclusivamente una forma di strategia politica.26
Se la lingua non corrisponde a una sola nazione, anche
questa diventa dunque un elemento importante per definire
l’identità nazionale, etnica e sociale, rappresentando uno
23 E. Renan, Qu’est-ce qu’une nation?, Presses-Pocket, Paris, 1992.
24 “A named human population sharing an historic territory, common
myths and historical memories, a mass, public culture, a common economy and common legal rights and duties for all members”. Cfr. A.D. Smith,
National Identity, Penguin, London, 1991, p. 14.
25 “Pre-modern forms of collective cultural identities, human populations with shared ancestry myths, histories and cultures, having an association with a specific territory and a sense of solidarity”. Cfr. A.D. Smith,
The Ethnic Origins of Nations, Blackwell, Oxford, 1986, p. 32. Kolstø
raccomanda cautela nell’applicazione agli Stati balcanici della distinzione
occidentale fra i termini “nazione” ed “etnia”. Il significato del termine
serbo-croato narod non corrisponde né a “gruppo etnico” né a “nazione”,
o almeno alle definizioni che di questi concetti si hanno nella cultura occidentale. In questa, infatti, “gruppo etnico” è un concetto non-politico, che
esula dall’appartenenza o meno di una popolazione a uno Stato, mentre
la “nazione” è intesa come un concetto politico e prevede l’inclusione di
una determinata popolazione all’interno di uno Stato. Narod, invece, nel
senso tradizionale della parola, rappresenta simultaneamente un concetto
culturale e politico, denotando un gruppo culturale che possiede un’identità politica legata a un determinato Stato ma non coincide esclusivamente
con la popolazione di quello Stato. P. Kolstø (a cura di), op.cit..., p. 5.
26 Si vedano: B. Anderson, Imagined Communities Reflections on the
Origins and Spread of Nationalism, Verso, London, 1983; E. Gellner, Nations and Nationalism, Basil Blackwell, Oxford, 1983; E. Hobsbawm, T.
Ranger (a cura di), The Invention of Tradition, University Press, Cambridge, 1983.
108
strumento di Nation-building.27 In tal modo, la lingua trasmette soprattutto un forte senso di appartenenza a un gruppo, diventando così uno strumento per il consolidamento
dell’identità nazionale. Dopo la caduta della Jugoslavia, che
secondo Kølsto rappresenta insieme alla dissoluzione sovietica la terza ondata di Nation-building, dopo quelle avvenute
in epoca moderna nell’Europa occidentale e la decolonizzazione in Africa e Asia nel XX secolo, i nuovi Stati post-jugoslavi hanno avuto bisogno di una nuova identità. Al contrario
delle prime due “ondate”, la terza ha avuto periodi di tempo
molto più breve, e metodi diretti e indiretti di consolidamento dell’identità sono stati più forti lì dove simboli e rituali
hanno svolto un ruolo cruciale. In tal senso, anche le politiche linguistiche sono state mirate ad affermare le proprie
specificità nazionali. Strumentale alla dimostrazione di tale
presupposto, durante e dopo la guerra degli anni Novanta,
nell’area ex jugoslava si è assistito al proliferare di una serie
di pubblicazioni che reinterpretavano l’evoluzione storica
delle singole varianti del serbo-croato – il linguista americano Ralph Fasold sottolinea che la lingua funziona come
collegamento con il “glorioso passato” dei popoli –28 come
ad esempio il testo di Milan Moguš del 1993 sulla storia della lingua croata o quello di Mushin Rizvić sulla lingua bosniaca.29 Secondo il linguista australiano Michael Clyne, le
lingue pluricentriche unificano e dividono i popoli al tempo
stesso: si unificano le persone attraverso l’uso della lingua e
si separano attraverso lo sviluppo di norme nazionali, come
nel caso del serbo-croato.30
LA LINGUA NELLA BOSNIA-ERZEGOVINA DEGLI
ACCORDI DI DAYTON
In Croazia, dove la definizione “lingua letteraria croata”
era riconosciuta già dalla Costituzione jugoslava del 1974,
nel 1990 la nuova costituzione decreta il croato lingua nazionale ufficiale e lo stesso avviene in Serbia per la lingua serba
con la “Legge sull’uso ufficiale della lingua e della scrittura”
(Zakon o službenoj upotrebi jezika i pisama). Nel 1992 la
lingua serba con la pronuncia ekavski o ijekavski e l’alfabeto
cirillico – salvo l’uso di quello latino in casi particolari – è
inoltre proclamata lingua ufficiale nella Repubblica Federale
di Jugoslava (Serbia e Montenegro). Parallelamente anche
in Bosnia-Erzegovina c’è chi sostiene la necessità di riconoscere una lingua peculiare per i bosniaci musulmani. In quel
periodo in Bosnia-Erzegovina la politica linguistica del 1970
era ancora in uso e le denominazioni ufficiali vigenti erano ancora srpskohrvatski e hrvatskosrpski. Nei media, e in
particolar modo nel quotidiano Oslobođenje, sarebbe seguito
un acceso dibattito sulla questione linguistica. Autori come
27 Cfr: Kolstø, op.cit, p. 4.
28 Cfr. R. Fasold, The Sociolinguistics of Society, Oxford, Blackwell,
1984, p. 77.
29 M. Moguš, Povijest hrvatskoga književnog jezika, Globus, Zagreb,
1993; M. Rizvić, Bosna i Bošnjaci: jezik i pismo, Preporod, Sarajevo,
1996.
30 M. Clyne, op. cit., p. 1.
SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1 | STORIA
Alija Isaković,31 Amira Idrizbegović e Senahid Halilović32
sostengono il diritto dei bosniaci musulmani ad avere una
propria lingua e nel 1991 due pubblicazioni fondamentali,
Jezik bosanskih muslimana di Dževad Jahić e Bosanski jezik
dello stesso Halilović, che riconoscono la peculiarità della
lingua dei musulmani soprattutto per la presenza di parole
d’origine orientale (orijentalizmi) – ovvero prestiti linguistici dalla lingua turca e araba affermatisi durante il periodo
ottomano –, vengono pubblicati.33
Il riconoscimento della lingua bosniaca, al pari di quella
serba e croata, in tale contesto viene considerato un passaggio fondamentale per la conferma dell’esistenza della nazionalità bosniaco-musulmana, riconosciuta solamente negli
anni Sessanta durante il periodo socialista ma seriamente minacciata nel corso della violenta dissoluzione jugoslava dei
primi anni Novanta. Alla fine del 1992, dopo la dichiarazione d’indipendenza della Bosnia-Erzegovina che rigettata dai
serbi sarà causa della deflagrazione della guerra, centocinque
intellettuali bosniaci firmano una lettera indirizzata al governo bosniaco-erzegovese dal titolo “Per l’uguaglianza dei musulmani bosniaci nella lingua” (Za ravnopravnost Bosanskih
Muslimana u jeziku) con la richiesta che nella Costituzione
della Bosnia-Erzegovina sia specificato che le lingue ufficiali
della Repubblica sono la bosniaca, la croata e la serba con il
dialetto ijekavski.34 Nel 1993 il governo introduce un nuovo
regolamento costituzionale che afferma: “Nella Repubblica
della Bosnia-Erzegovina la lingua ufficiale in uso è quella
standard letteraria con la pronuncia ijekavica dei suoi popoli
costitutivi, chiamata con uno dei tre nomi: bosniaca, serba,
croata”.35 Il regolamento emanato dal Ministero della Pubblica Istruzione sostiene che i tre nomi (lingua bosniaca, serba
e croata) saranno adottati dagli insegnanti nell’ambito del
sistema educativo nazionale, mentre gli studenti avranno facoltà di scegliere il termine preferito.36 L’obiettivo è quello di
conservare l’immagine multiculturale e multinazionale della
Bosnia-Erzegovina, preservandone l’unità e l’indipendenza.
Il termine che già allora va affermandosi e riscontra un maggiore utilizzo, comunque, è “lingua bosniaca”, definizione
consolidata dalla pubblicazione nel 1994 – durante la guerra
– della prima grammatica della lingua bosniaca per le scuole
superiori di Hanka Vajzović e Husein Zvrko.37 A questa se31 Alija Isaković è stato uno dei più noti sostenitori del riconoscimento della lingua bosniaca come idioma nazionale. Nel 1992 ha pubblicato
Rječnik karakteristične leksike u bosanskom jeziku, Svjetlost, Sarajevo.
32 A. Idrizbegović, U Prilog bosanskom jeziku, in Oslobođenje, Sarajevo
23. 2. 1991; S. Halilović, Govorim i pišem bosanski, in Oslobođenje, 16.
2. 1991.
33 Si veda Dž. Jahić, Jezik bosanskih muslimana, Bibiloteka Ključanin,
Sarajevo, 1991; S. Halilović, Bosanski jezik, Biblioteka Ključanin, Sarajevo, 1991.
34 Pismo Predsjedništvu BiH, Za ravnopravnost bosanskog jezika, in
Oslobođenje, 13. 7. 1992.
35 Uredba sa zakonskom snagom o nazivu jezika u službenoj upotrebi
u Republici Bosni i Hercegovini za vrijeme ratnog stanja, in Službeni list
Republike Bosne i Hercegovine, 1. septembar 1993.
36 I bosanski, i srpski jezik, Saopćenje Ministarstva za obrazovanje, kulturu, nauku i sport RBiH, in Oslobođenje, 7. 4. 1995.
37 H. Vajzović, H. Zvrko, Gramatika Bosanskog jezika, I-IV razrad gimnazije, Ministarstvo obrazovanja i nauke, Sarajevo, 1994.
guiranno altre pubblicazioni finalizzate alla codificazione e
all’affermazione dell’originalità della lingua bosniaca come
idioma dei musulmani di Bosnia-Erzegovina in contrapposizione a quella dei serbi e dei croati: l’ortografia Pravopis bosanskog jezika di Halilović (1996), la Gramatika bosanskog
jezika di Halilović, Jahić e Palić, e ancora le pubblicazioni
di Jahić Bošnjački narod i njegov jezik (1999) e Bosanski
jezik u 100 pitanja i odgovora (1999).38 Nel 1998 si tiene
inoltre a Bihać il “Simposio sulla lingua bosniaca” (Simpozij
o bosanskom jeziku),39 cui partecipano quasi esclusivamente
linguisti bosniaco-musulmani che ribadiscono esplicitamente la peculiarità della lingua bosniaca.40 Oltre a ciò, infine, un
altro importante documento, la “Carta della lingua bosniaca”
(Povelja o bosanskom jeziku), è firmato nel 2002 da sessanta
intellettuali bosniaci musulmani per il diritto a chiamare la
propria lingua “bosniaca” (bosanski), nome non riconosciuto
da serbi e croati in quanto collegato al Paese comune e non
alla singola nazionalità bošnjak.41
In seguito agli Accordi di Dayton che hanno posto fine al
conflitto del 1992-1995, la Bosnia-Erzegovina è oggi composta di due entità amministrative, la Federazione della Bosnia-Erzegovina (51% del territorio) e la Republika Srpska
(49%), cui si aggiunge il distretto autonomo di Brčko. Nella
Costituzione della Federazione, entità in cui vivono prevalentemente bosniaci musulmani e croati, era inizialmente
scritto (1994): “Le lingue ufficiali della Federazione sono
il bosniaco e il croato. L’alfabeto ufficiale è il latino”.42 Il
38 S. Halilović, Pravopis bosanskog jezika, Preporod, Kulturno društvo
Bošnjaka, Sarajevo, 1996; S. Halilović, D. Jahić, I. Palić, Gramatika bosanskog jezika, Dom štampe, Zenica, 2000; Dž. Jahić, Bošnjački narod i
njegov jezik, Dom štampe, Zenica, 1999; Id., Bosanski jezik u 100 pitanja
i odgovora, Ljiljan, Sarajevo, 1999.
39 Nel contributo presentato al Simposio, Jahić elenca le sedici ragioni che testimonierebbero l’esistenza di una lingua bosniaca diversa dalla
serba e dalla croata: l’esistenza di un etnos che ha creato e conservato
la lingua; la discendenza dei bosniaci musulmani dagli eretici medievali
bogumili; l’esistenza di un regno medioevale bosniaco; l’islamizzazione
avvenuta nel periodo ottomano; il nome “lingua bosniaca” risalente al medioevo; l’esistenza in passato della particolare letteratura alhamijado; la
particolare scrittura bosančica; la pubblicazione del dizionario della lingua
bosniaca di Muhamed Hevaija Uskufi nel 1631; le riforme linguistiche
arabe; la politica linguistica di Benjamin Von Kállay durante il periodo
austro-ungarico; la ricca tradizione orale bosniaca; la letteratura dei bosniaci musulmani del XIX secolo; e infine il diritto di ogni nazione ad avere la propria lingua. Cfr. Dž. Jahić, Lingvistički i kulturno-historijski izvori
bosanskog jezika, in I. Čedić (a cura di), Simpozij o bosanskom jeziku,
zbornik radova, Institut za jezik i književnost, Sarajevo, 1997, pp. 28-29.
40 Il linguista americano Curtis Ford ha analizzato il congresso nel contesto di First Congress Phenomenon e Status planning. Si veda C. Ford,
Language Planning in Bosnia and Herzegovina, the 1998 Bihać Syposium,
in The Slavic and East European Journal, vol. 46, no. 2, summer 2002, pp.
349-361. La sociolinguistica moderna attribuisce un importante significato
ai primi congressi per la codificazione delle lingue nazionali. Fishman lo
definisce il “fenomeno del primo congresso”: “early efforts at both corpus
planning and status planning, i.e., efforts to purify, enrich and/or standardize the language itself, on the one hand, and efforts to protect, foster, and
require the language, on the other hand”. Cfr. J.A. Fishman (a cura di), The
Earliest Stage of Language Planning, The “First Congress” Phenomenon,
Mouton du Gruyter, Berlin, 1993, p. 2.
41 Povelja o bosanskom jeziku, http://bichamilton.com/web/wpcontent/
themes/calvary/docs/Povelja%20o%20Bosanskom%20jeziku.pdf
42 Odluka o proglašenju Federacije Bosne i Hercegovina, Službene novine Federacije Bosne i Hercegovina, 21 juli/srpanj 1994.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 7 • MAGGIO 2015 • SUPPLEMENTO 1
tribunale costitutivo (ustavni sud) ha tuttavia dichiarato
l’affermazione non del tutto corretta e in disaccordo con i
principi espressi nella carta costituzionale; per tale motivo
la definizione è stata modificata in: “Le lingue ufficiali della
Federazione della Bosnia-Erzegovina sono la lingua bosniaca, la lingua croata e la lingua serba. Gli alfabeti ufficiali
sono il latino e il cirillico”.43 Sull’altro versante, nella Republika Srpska, l’entità dove vivono prevalentemente i serbi di
Bosnia-Erzegovina, la lingua serba è stata introdotta come
ufficiale nel 1992. La Costituzione dell’entità serba inizialmente recitava: “Nella Repubblica la lingua serba con pronuncia ijekavica e ekavica e l’alfabeto cirillico è quella d’uso
ufficiale, mentre l’alfabeto latino potrà essere utilizzato solo
nel modo determinato dalla legge”. Nella prime tre classi
scolastiche sarebbero stati insegnati entrambi gli alfabeti,
mentre per il diploma e altra documentazione doveva essere
utilizzato il cirillico. Tuttavia, poiché anche tale definizione
e prassi non erano in linea con l’Accordo di Dayton, anche
queste sono state rapidamente cambiate. Oggi sulla Costituzione della Republika Srpska è scritto che le lingue ufficiali
sono quelle dei serbi, dei bošnjaci e dei croati. Gli alfabeti
ufficiali sono il cirillico e il latino. In questo modo, ovvero
usando un riferimento ai tre popoli costituenti e non alle loro
lingue, è stato evitato di usare il termine “lingua bosniaca”,
non riconosciuto dai serbi.44
Già durante la guerra, il governo serbo di Pale aveva compiuto dei tentativi di proclamare l’ekavica pronuncia ufficiale della Republika Srpska, nonostante questa fosse del tutto
estranea ai serbi della Bosnia-Erzegovina. Il tentativo era
stato sostenuto da linguisti quali Branislav Brborić e Pavle
Ivić e dal ministro della Cultura Đoko Stojičić, che aveva
sostenuto ci si trovasse dinanzi all’ultima opportunità di
unificare definitivamente il popolo serbo attraverso l’omologazione linguistica. La proposta, comunque, aveva anche
incontrato il disappunto di tanti altri linguisti serbi, come nel
caso del belgradese Ranko Bugarski, che l’aveva considerata
un vero e proprio tentativo di “pulizia etnica linguistica”, assurda dal punto di vista linguistico e politicamente pericolosa.45 Il governo della Republika Srpska aveva poi continuato
su tale linea anche dopo la guerra, quando nel 1996 con la
“Legge sull’uso ufficiale della lingua e della scrittura” (Zakon o službenoj upotrebi jezika i pisma), aveva stabilito che
nelle scuole primarie gli insegnanti dovessero utilizzare la
pronuncia ekavica, mentre gli insegnanti e gli studenti nelle
scuole superiori e nelle università potevano usare anche la
ijekavica. La pronuncia ekavica era proclamata obbligatoria
anche nei media, nelle pubblicazioni e per gli organi governativi, insieme all’uso del cirillico. Venivano stabilite multe dai duemila ai diecimila dinari per chi avesse infranto la
legge, che tuttavia era presto proclamata incostituzionale in
seguito a un’azione legale intrapresa dall’associazione degli
43 Ustav Federacije Bosne i Hercegovine, http://skupstinabd.ba/ustavi/f/
ustav_federacije_bosne_i_hercegovine.pdf
44 Ustav Republike Srpske, http://www.narodnaskupstinars.net/upload/
documents/lat/ustav_republike_srpske.pdf.
45 S. Mønessland, op.cit., pp. 490-491.
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insegnanti della Republika Srpska.46
Per i croati della Bosnia-Erzegovina, infine, la politica linguistica è strettamente collegata a quella vigente nella vicina
Croazia, dove negli anni Novanta è tornato in auge un purismo linguistico estremista che Snježena Kordić collega direttamente alle politiche linguistiche adottate durante la Seconda guerra mondiale nello Stato Indipendente Croato e più
in generale tipica dei regimi totalitari quali sono stati quelli
nazista e fascista. Al tempo stesso, vi sono intellettuali croati
come Ivan Lovrenović e Mile Stojić che rifiutano l’adozione
della variante di Zagabria in quanto tradizionalmente estranea alla popolazione croata della Bosnia-Erzegovina. 47
L’esistenza di tre varianti linguistiche mutualmente intellegibili ora elevate alla dignità di veri e propri idiomi crea
non pochi problemi nell’ambito educativo e pedagogico.
L’affermazione di politiche linguistiche di natura nazionalista ha visto un progressivo allontanamento delle diverse
varianti del serbo-croato dal punto di vista lessicale e fonologico che avrà come conseguenza l’impossibilità per le
future generazioni serbe, croate, bosniache o montenegrine
di comunicare e comprendersi reciprocamente, cosa che ancora oggi avviene con grande facilità essendo ancora le loro
lingue quasi del tutto identiche. Nell’area ex jugoslava come
in Bosnia-Erzegovina non esistevano i presupposti sociolinguistici per la proclamazione di lingue standard separate dal
comune serbo-croato. Tale situazione rappresenta anche un
problema economico, se si considera che nelle istituzioni
bosniaco-erzegovesi tutti i documenti devono essere “tradotti” in tre lingue, nonostante non si vada oltre alcune minime
differenze di carattere lessicale. Per aggirare le controversie
relative al nome della lingua comune, oggi, dopo la dissoluzione della Jugoslavia, nell’area ex jugoslava ci si riferisce
ad essa – soprattutto negli ambienti multiculturali che rifiutano le logiche nazionaliste – con il termine naš jezik, “la
nostra lingua”.
46 Zakon o službenoj upotrebi jezika i pisma, in Službeni glasnik Republike Srpske, 8.6.1996.
47 Sulla kroatizacija (“croatizzazione”) della lingua in Bosnia-Erzegovina si veda H. Vajzović, Jezik i politika: Kroatizacija jezika na prostoru Bosne i Hercegovine – agresija ili ustavno pravo?, in B. Tošović,
A. Wonisch (a cura di), Bošnjački pogledi na odnose između bosanskog,
hrvatskog i srpskog jezika, Institut für Slawistik der Karl-Franzens-Universität Graz-Institut za jezik, 2009, pp. 143-156.