Cap. 2 - Il sole e le stagioni

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Michelangelo Pira
Sardegna tra due lingue
2.
Il sole e le stagioni
Accollu chi faghet die / ponzende riga in su mare. «Ecco fa
giorno / e mette riga sul mare».
Il soggetto sottinteso è il sole; il momento è quello del primo
chiarore che nei dialetti dell'interno si chiama s'arvurìnu, e nei
dialetti dell'area campidanese obrexidròxu, da obrexi, arveschere,
venuti da albescere.
Nelle città moderne ci sfuggono le vicende intermedie del sole,
albe e tramonti, primavere e autunni. Conosciamo solo il pieno
giorno e la notte piena, la piena estate e il pieno inverno. Non
era così per le società rustiche che misuravano il tempo, non con
orologi e calendari, ma col sole e con gli eventi.
A su scampiadroxu, a s'arvurínu l'uomo dei campi era già in
faccende. Le dita di rosa dell'aurora, i primi raggi del sole, sos
chintales o síntsales, da chínta, per lui erano un'esperienza
diretta e quotidiana, non una reminiscenza letteraria. Per
comunicare quell'esperienza egli non aveva bisogno di molte
parole. Il soggetto dell’alba è il sole -abbiamo detto-, non il
poeta che vedendola s'illumina d'immenso. Accollu chi faghet die /
ponzende riga in su mare non è il risultato di una consumata
abilità letteraria: è, semplicemente, il prodotto di un'autentica
e immacolata capacità di esprimersi, che è poi la vera sorgente
della poesia, se questa - come diceva Cesare Pavese - incomincia
quando uno sciocco dice il mare sembra olio».
Senza allontanarci dalla Sardegna e dal sardo prendiamo un'alba
cantata da Sebastiano Satta (cioè da un letterato) nel dialetto di
Nuoro.
Montes, campuras, baddes, in s'istante,
s'ischidana riende e donzi cosa
s'abbìvada in s'aèra ischíntiddante.
«Monti, pianori, valli, all'istante / si svegliano ridenti: ed
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ogni cosa / prende vita nell'aria che scintilla».
Non è un'alba da buttar via; e il giorno che annuncia sembra
buono. Ma è vista alla finestra da un uomo di lettere.
L'essenzialità della poesia autentica è venuta meno. Il breve,
rustico, giornaliero est ponenn'arva dice di più e meglio.
Sa pudda er già raspenne in sa carrera,
sa zovanedda abbande est su giardinu
una musica de sonos est s'aera.
Sono versi della stessa poesia del Satta: «La gallina già raspa
nella via / la giovane innaffia il giardino / una musica di suoni
è l'aria».
Albe e galline - è noto - si incontrano ogni mattina.
Perciò
l'ora che precede il sorgere del sole si chiama in Sardegna anche
s'impuddile.
È ancora presto, chitzo o chitzi da citius; ancora
mangianeddu. Una stella si attarda nel cielo. È Venere istella 'e
obrexi, ma in talune zone semplicemente s'istella, la stella per
eccellenza.
Non risulta che l'astronomia dialettale sarda
conoscesse la differenza tra stelle e pianeti.
All'imbrunire
Venere è chiamata sa stella e boinàrgius, e i bot'àtzusu. «Espero,
riporti la pecora, riporti la capra». Saffo aveva dimenticato il
bue. Da espero attraverso vespero, è venuto il sardo pesperu, che
allude
alle
funzioni
religiose
di
quell'ora.
È
invece
probabilmente da collegare in linea autonoma con Espero un'ispera
che abbiamo trovato in due versi forse viziati da qualche cultismo
d'accatto:
Cando nch'intrat su sole in occidente
pro te er fachenne die ed est ispera.
«Quando il sole tramonta / per te è l'alba, invece è sera ».
Distinguere l'alba dal tramonto, s''essida dae s''intrada ‘e su
sole, era quasi tutto quello che il pastore o il contadino doveva
sapere di astronomia. Diciamo quasi tutto, perché più in là
vedremo qual era la familiarità isolana col cielo stellato.
Ovviamente cercheremmo invano nel lessico sardo una distinzione
tra il moto apparente e il moto reale del sole: si rifiutano di
scontare la rivoluzione copernicana anche lingue di popoli ben più
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evoluti. La vischiosità delle parole, anzi, è tale che ancora non
ci vergognano di dire che il sole tramonta sul mare. È già tanto
quindi se il sardo, tra un sospiro e l'altro, arriva ad ammettere
che il mondo è tondo, non piatto.
Su munn'est tunnu, e il sole
gli gira intorno per motivi che al pastore e al contadino non
interessano. L'importante è che il sole quel lavoretto lo faccia
onestamente, tutti i giorni, perché il contadino ha da esporre
nell'assoliadòrgiu tante cose, che devono assoliare, assoviai o
assorinai.
Il terreno è solianu, carassole o facciassole se è
esposto a sud, è palassole se resta in ombra.
Dunque come il
terreno ha faccia e spalle, cosi non sfugge all'antropomorfismo il
sole, che tanto per cominciare è maschio, può impazzire (sole
maccu) e persino ammalarsi (soli malladiu).
In ogni modo è bello. Dire di uno er bellu che sole significa
infatti assicurare che è proprio bellissimo, senza riserve.
Altrettanto bella è solo la luna, l'altro elemento della coppia
astrale alla quale era forse dedicata la ziggurath di monte
d'Accoddi.
A cercarle bene dovrebbero trovarsi testimonianze di
questo culto anche nella lingua. È difficile però credere che si
invocasse il sole come si invocava la pioggia.
Non dovette mai
sentirsene il bisogno, forse. Tuttavia almeno la paura del sole è
testimoniata dall'esortazione che nelle giornate torride gli
adulti rivolgono ai bambini a restare in casa, per non essere
colti dae sa mama 'e su sole.
Non è difficile spiegare questo
mito con l'esperienza, che non doveva essere rara, di morti da
insolazione: tuttavia ci piacerebbe saperne qualcosa di più.
Finita l'infanzia, per gli adulti il solleone era sa cama nel
logudorese e nel nuorese, meigama nel campidanese; i ripari per il
bestiame, umbragus, si chiamavano anche kamadrorgius; l'ansimare
del cane era camulare. Tutti questi termini derivano da cauma.
Naturalmente non si era in grado di misurare esattamente le
temperature. Nelle giornate infuocate non si stava in attesa dei
bollettini per sapere se il termometro era salito più a Cagliari
che a Sassari. Ci si serviva di nomi generici. Il sole tiepido,
tepiu, poteva anche sembrare bambu, insipido.
Cosi veniva su orta 'e die, la svolta del giorno, il pomeriggio.
Ed era subito sera, iscuricada, iscuricadroxu.
Lasciamo la notte alla prossima conversazione e passiamo alle
stagioni, che sono anch'esse opera del sole.
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Possiamo partire dall'autunno, dal mese di settembre, nel quale
incominciava l'anno agricolo, forse in coincidenza con l'anno
ebraico. Settembre si chiamava perciò capitanni, cioè caput anni.
Era il mese delle grandi feste paesane, del rinnovo dei contratti
e di una certa abbondanza di frutti. Si giustificava così la fama
di ingrassa povero dell'autunno. Ottobre si chiamava mese 'e
ladimini nel Canipidano, Santu Gaini, san Gavino, nel Capo di
sopra. Novembre era invece Dognasantu in Campidano e Sant'Andria
nel Nuorese e nel Logudoro.
Dicembre era Natale o mese e idas.
S'attunzu o attongiu, incominciato in un tripudio di feste, si
estenuava nelle malinconie della terra desolata. Dell'autunno era
amaro persino il miele, su mele attonzinu. Il fico nel cortile di
Montanaru era spoglio
che unu poverítteddu
chi perdidu à sos pannos in caminu.
Su chelu est totu trinu
e minetta de ponner su manteddu
a su nudu terrinu (2).
Insomma ecco l'inverno, s'ivérru, s'iérru. Per Capodanno i
ragazzi dei paesi di montagna vanno di casa in casa a chiedere le
strenne: farina càpute, patate e fagioli. «Arina caputò, patatas e
basó» cantano di porta in porta. L'economia di sussistenza
affronta la sua prova più dura. Tutto si chiude: il cielo sulla
terra, il centro abitato nelle sue case, la famiglia intorno al
focolare, il pastore nella sua pelle. Ascoltiamo ancora Montanaru:
In foras fit su 'entu ei s'iscuru
cun s'abba forte e babbu in mes'istoa
buffènde inu de s'annàda noa
e deo singhinde umbras in su muru.
«Fuori era il vento e il buio / e l'acqua senza fine. Mio padre
sulla stuoia / che beveva il vino nuovo / ed io che seguivo ombre
sul muro».
Gennalzu dannalzu: gennaio fa guai; frealzu falzu: febbraio
falso. A marzo si va a casa di chi sa leggere per sapere che tempo
prevede il «Gran Pescatore di Chiaravalle», un almanacco che alla
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fine del secolo scorso ebbe un'enorme fortuna popolare. In
Sardegna
prese
il
nome
di
ciaravallu,
tsaravallu
e
poi
carravàulas, portatore di bugie.
Ma anche l'inverno, la lunga
notte dell'anno, ha fine. I vecchi se ne stanno nei muraglioni
delle piazzette: a su sole sos ossos iscardende / cumintzende su
frittu a si gatzare (3). Già viene primavera: berànu. Il pastore
buono non cercarlo adesso, perché adesso sono tutti buoni. La
terra ha promesse per tutti; il pascolo è abbondante.
Aprile e
maggio sono aprile e maiu anche in Sardegna.
Primavera e amore
vanno di pari passo. « A mes'aprile non fiorit rosa / colorida che
tue e attraente », canta Paolo Mossa (4).
Ma giugno è làmpadas, il mese del sole che avvampa, del sole
pazzo che porta s'istìu, s'istàdi. Lo stelo del grano si spezza.
Alle dieci del mattino già non si può più mietere; si ricomincia
all'imbrunire, se c'è luna. Luglio è trìulas, mese 'e argiolas.
Buoi e cavalli girano in tondo per giorni e giorni. Il caldo e la
polvere seccano la gola. Le formiche vanno e vengono fameliche.
«Trísta s'alzola chi timet sa frommiya». Triste l'aia che ha paura
delle formiche.
In agosto l'Isola era tutta un rogo. I pastori dicevano: fa
bene, alla prima pioggia l'erba cresce meglio. Di quella che noi
chiamiamo
«stagione
balneare»
s'erano
formata
un'idea
da
salamandra.
Ma quando il rogo minacciava i centri abitati,
suonavano le campane; a su ‘ocu a su 'ocu! (5) E tutti correvano
con roncole e rami a l'istutare, a nde lu mórrere, a spegnerlo,
anzi ad ucciderlo. Magari anche gli apprendisti stregoni che
l'avevano appiccato.
Non avevano mietileghe e trebbiatrici, costume da bagno e aria
condizionata. Ma questo estremo senso di solidarietà ci avverte
che, a loro modo, erano uomini.
Il sole spuntava da punti fissi del loro orizzonte ed era il
giorno; tramontava ed era la notte. Girava alto nel loro cielo ed
era l'estate, si inclinava ed era l'autunno, planava basso ed era
l'inverno, risaliva ed era primavera. Si accontentavano del ruolo
di umili testimoni di queste vicende che non conoscevano né
progressi né recessioni. Solo di recente un poeta li ha invitati
a farsi protagonista dell'aurora.
E soltanto ora hanno
incominciato a mettersi in marcia.
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NOTE
(2) Come un poverellino / che ha perduto i vestiti in viaggio. /
Il cielo è tutto grigio / e minaccia di mettere il mantello / al
nudo terreno »: da Attonzu (autunno) di Montanaru, pseudonimo di
Antioco CasuIa.
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(3) Al sole le ossa riscaldando / incominciando a scacciare il
freddo. Antonio Cubeddu, «Su Etzu» (Il vecchio). un sonetto
diffuso dalla tradizione orale.
(4) A metà d'aprile non fiorisce rosa / colorita come te e
attraente. Da Sa bellesa de Clori (La bellezza di Clori) di Paolo
Mossa.
(5) Al fuoco, al fuoco.
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