Cap. 3. - La notte

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Michelangelo Pira
Sardegna tra due lingue
3.
La notte
S'iscùru o iscurìu (da obscurus), il buio, la notte, in un'isola
solare come la Sardegna, appariva uno stato di povertà cosmica. La
parola che definiva questo stato divenuta aggettivo passò a
significare la povertà o l'infelicità individuale. Dire di uno
s'iscuru, sa scura, iscureddu, iscurieddu significava sottolineare
con pena la sua condizione. A Sassari davanti alle situazioni
disperate si dice è notti di ru duttu: è notte del tutto.
All'estremo opposto basta un chiarore di stella ad accendere
speranze. In Gallura i bambini sono stelle: li steddi. («Li steddi
sendi minori / imparetili a baddà / cá si no so' baddadorí /
taldani a cuyuà (6)»: «i bambini, quando son piccoli /
insegnategli a ballare / perché se non sono ballerini / tardano a
sposarsi»).
Perché anche in Sardegna per lungo volgere di millenni le sole
luci della notte furono quelle della luna, delle stelle e del
fuoco.
«Cand'ipo zovaneddu
liggeri 'e cherveddu
girao chene tener ghíratura
a s'iscuru nieddu
a lampore 'e isteddu
in cherta 'e carcuna congiuntura».
« Quand'ero giovane,
/ con la testa vuota, / vagavo senza
meta, / al buio pesto, / a lume di stella, / a caccia di
occasioni'». Così cantava un poeta di Bitti fatto saggio.
La notte cominciava con l'apparire di Venere, istella ‘e su
boinargiu, come abbiamo già visto, chiamata anche isteddu 'e
kenadorzu (7), perché alla raccolta del bestiame seguiva la cena,
consumata all'aperto e spesso in solitudine. L'uomo seduto su una
pietra estraeva dalla tasca di pelle pane e formaggio di sua
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produzione e ruminava, guardando lontano un nodo che non si
scioglieva. S'isteddu 'e kenadorzu in talune zone era una stella
della costellazione di Orione, chiamata sa ruche de Santu Martine,
o anche is Bastonis come in altre regioni del Mezzogiorno, ma più
comunemente sos Istentales. Quando il pastore aveva finito di
alimentarsi era l'ora de càpude e xena, caput de cena, e del
puskena, del postcena.
Per noi quella è l'ora di «Carosello». Lo «spettacolo» per
l'uomo dei campi variava a seconda della notte. L'audio dava un
perpetuo concerto di campanacci, di grilli e di cani. Sul video,
piuttosto grande, apparivano su rughe de Santu Balentinu, o
Valentinu che era la costellazione del Cigno, chiamata a Dualchi
de Santu Costantinu, forse con allusione alla croce apparsa
all'imperatore Costantino, promosso santo in Sardegna.
Nella
Penisola la costellazione del Cigno prende invece il nome di croce
di San Giovanni o di Sant'Andrea.
C'era poi il grappolo di stelle per eccellenza, su Brutone,
Gudròne, s'Udroi, cioè le Pleiadi, chiamate anche con parola di
etimo incerto borronkèra. Il cielo stellato aveva anche uno
stendardo, su Stendatu.
Le sette stelle dell'Orsa Maggiore in
Sardegna erano sette fratelli sos Sette Frades, ma anche, come
fuori dell'isola, su Garru mannu per distinguerle da su Garru
pitticu. Erano evidentemente carri agricoli nella fantasia di chi
chiamava la Via Lattea, su Caminu 'e sa Pazza o sa 'Ia 'e sa
Palla, la Via della Paglia. Invece nella Gallura, come in Corsica
e in altre regioni della Penisola, anche la Via Lattea portava a
Roma. Se appariva una cometa era un'isteddu coùdu, una stella
caudata.
Il pastore, quando si stancava di questo spettacolo monotono, se
non aveva sonno poteva cambiare «canale» e cercare un filmetto
d'avventura, del quale però, oltre che spettatore, doveva farsi
protagonista. Percorreva qualche chilometro per portare via un
capo al suo vicino, che magari aveva avuto la stessa idea. Se si
incontravano si fermavano a chiacchierare per monosillabi:
- Eh
- Oh.
Era il saluto.
Oppure adiche (ad hic); abòche (ab hoc).
Azzardavano un gai e' sa vita (così è la vita). Finivano magari
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col mettersi d'accordo per festeggiare l'incontro a spese di un
terzo vicino.
Se questi li sorprendeva in tempo riceveva una
visita, altrimenti il giorno dopo era invitato al festino. Doveva
intervenirvi e far buon viso a cattivo gioco, pensando di rendere
il piatto: piattu torradu.
Nelle notti di luna il furto aveva anche il suo bravo canovaccio
di commedia.
Ma se la notte era fosca balenavano nella mente
disegni più ambiziosi, andare lontani a bardanàre, a «far
gualdana». E, se l'esito della spedizione era positivo, al ritorno
passando nei pressi di una chiesa di campagna dedicata ad un santo
locale ci si segnava e si mugugnava qualche ringraziamento. Il
giorno successivo era di abbondanza, e i complici incontrandosi
avevano una parola d'ordine: notte mala / die bona (notte
cattiva / giorno buono).
Talvolta però l'impresa notturna della bardana aveva ben altri
epiloghi. Altrove si dice che la notte porta consiglio, che è
fatta per pensare o nella peggiore delle ipotesi per dormire. In
Sardegna c'è anche il detto «Sa notte est pro 'urare » (la notte è
per rubare).
Ovviamente anche in Sardegna si credeva che gli astri, ma
soprattutto la luna intervenissero nelle vicende umane provocando
fortune e disgrazie. Istellare significava togliere gli agnelli
alle madri; istella era la pecora o la capra privata del figlio o
sterile che del resto è anch'essa parola di origine astrale.
L'influsso della luna era particolarmente rilevato nell'astrologia
isolana che aveva un proverbio iscuru chie naschidi in luna malà,
triste chi nasce sotto cattiva stella. Quando la luna stava vicina
a Venere si diceva: omine nche occhini o cosa sutzedidi (uomo
ammazzano o disgrazia succede).
Le previsioni del tempo nei paesi di montagna si fondavano su
schemi come questi: notte isteddada nie carrada (notte invernale
stellata, neve a carri); sigundu s'ultimu quartu 'e sa luna 'ezza
sighi sa noa (la nuova luna va secondo l'ultimo quarto della
vecchia).
La luna era ritenuta incostante e variabile, insomma
lunatica.
L'antropomorfismo la immaginava molto bella a giudicare dai
paragoni con la donna, frequentissimi nella poesia popolare e
spesso così felici da non lasciare più alcun margine di
distinzione tra i due termini del confronto, come in questi versi:
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Príte non ti cumparis giara luna
in custa terra povera e oscurada?
«Perché non appari chiara luna / in questa terra povera e
buia?»: dove le ansie del poeta sono proprio le stesse del pastore
nelle notti fonde.
Ma spostiamoci dal notturno agreste e lasciamo che il pastore si
addormenti un poco perché prima dell'alba dovrà svegliarsi pro sa
supuzzata, cioè per mettere il gregge in movimento.
Trasferiamoci nel paese. Qui l'uomo, anzi la donna e i bambini
- perché l'uomo ritorna solo ogni 15 giorni sono al riparo e
trascorrono le prime ore della notte intorno al fuoco. Qui la cena
è kena o xena, insomma una cosa seria, non kenadorzu. Il fuoco è
una piccola oasi di luce nel buio. Ma quella del fuoco è una luce
che dà movimento alle ombre. I bambini vedono pupas, spiriti in
agguato, in ogni angolo della cucina ed hanno paura di
allontanarsi dal fuoco che per lungo tempo fu l'unica immagine di
ricchezza nelle notti dei paesi sardi.
Il focolare era su foghile.
Intorno ad esso ruota tutta una
famiglia di vocaboli che ci restituiscono un'immagine autentica
della gente sarda. In campagna il fuoco si accendeva con
l'acciarino (attalzu) sulla pietra focaia (pretarva), facendo
cadere la scintilla (ischintidda) sull'esca morta) conservata in
un cornetto (su corru). Questo modo di accendere il fuoco è ormai
praticato solo dai giovani esploratori. Ma fino a circa un secolo
fa era l'unico che si conoscesse. Ricordo l'aneddoto del primo
pastore del mio paese che, capitato a Cagliari - e il viaggio a
Casteddu era già una enorme avventura scoprì i fiammiferi. Ne
comprò una bisaccia per mostrare il miracolo ai compaesani.
Ma durante il viaggio, per convincere se stesso, ad uno ad uno
consumò tutti i fiammiferi. Tè 'su ocu ‘attu (ecco il fuoco fatto)
diceva tutte le volte che accendeva unu luminu o alluminu. Questa
disavventura probabilmente ritardò di qualche decennio la comparsa
dei fiammiferi nel paese, perché il Marco Polo che per primo li
aveva scoperti non fu creduto.
Nel centro abitato il fuoco lo si accendeva con un po' di brace
chiesta nel vicinato. C'era una paletta apposita per questo e si
chiamava ‘eti-‘ocu,(chiedi fuoco).
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Ma col fuoco siamo già al tema della casa e della famiglia, che
è il tema della prossima conversazione. Fuoco e casa erano
sinonimi, come è facile dimostrare col proverbio: «Chie no hat
cuscienscía in fogu no hat cuscienscia in logu» (chi non è onesto
in casa o in famiglia non lo è con nessuno). Del resto la tassa
famiglia, croce e delizia delle amministrazioni comunali, si
chiama ancora in Sardegna su focaticu, e nei censimenti antichi le
famiglie sono appunto chiamate «fuochi».
NOTE
(6) Si cantava nei balli galluresi.
(7) Sos pastòres ch'inìe cun sas bàmas
a cbenadórzu solene passare
bi ‘iden dùas pàllidas fiàmas
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mòversi in gìru, ispàrrer'e torràre.
Cùssas fiàmas sun'a crèer insòro
s'ànima de Glicèra e de Lindòro».
Cosí PaoloMossa.«I pastori che lí con le greggi / son soliti
passarvi per la cena / vi vedono due pallide fiamme / muoversi
intorno, sparire e tornare. / Quelle fiamme sono - così credono
- / l'anima di Glicera e di Lindoro».
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