La colpa di Alice (Alice’s sin)1 di Davide Rocco Colacrai Alice non parla, se ne sta zitta come un’ombra di margherita in attesa con la bocca in una linea frastagliata d’orizzonte ad impastare un quarto di luna tra dita a ventaglio come a fissare, quasi cesellare, il suo nome nel sovrapporsi incontenibile delle parole. Alice ha un segreto, non le interessa ricomporlo e mostrarlo, lascia a ognuno il suo significato con il suo essere ferma e inafferrabile come la vita dai polsi sul cuore a salvaguardare, quasi definire, i suoi sogni nel formarsi rapida di una dimensione d’avanzo. Alice non conta i giorni che mancano, preferisce gli spazi tra un sasso e l’altro, meno il girovagare di una foglia, un po’ di più nascondersi nel grano, meno i rumori dell’uomo che saturano il contorno, e sempre l’odore che preannuncia la pioggia. Alice ascolta, non si ravvicina, non parla ma sente e ascolta proprio come fa la notte. Il più piccolo poro del nostro respiro la sua terra, la sua àncora, la sua solitudine. 1 Ad un’amica autistica Ma-la-voglia di Davide Rocco Colacrai C'è nella spuma breve di un batticuore un Dio in attesa come crisalide a modellare l'ostia delle onde su cui ozia il mio nome sono polvere d'estate sui fichi, le parole, quando il tramonto li infuoca di polpa al perdono dell'alba dove la salsedine del silenzio, la riva arsa come pelle che profuma di Malvasia le pietre infuocate ai piedi degli ulivi sospirano come gli anelli indomiti del cuore, quando i pescatori al largo sospendono la nostalgia del mare e annullano le distanze da chi abbiamo lasciato andare nella linea dell'orizzonte raccontano tante storie, gli scogli, alcune rimaste impigliate nelle reti, altre accumulate sul bagnasciuga come conchiglie, chi le fiuta è il muso bagnato di un cane o il pianto in cui si è prosciugato un sogno. Dorme la mia città. Il dolore lavato dalle alghe al ventaglio del maestrale. Conto sulla punta del naso le mie felicità, mentre un gabbiano trasporta amori in dialetto, e il segno della croce un portafortuna. Opera all’infinito, di donna (a Claude Monet) di Davide Rocco Colacrai L’equilibrio della parola si prosciuga davanti ad una fiaba che si conserva per sempre, magari è un intrico di note che fluttuano leggere come coriandoli, forse l’incontro con un’anima a cui ci sembra di corrispondere sin da quando esistiamo, più spesso sono case di una stessa storia che ci meravigliano come ci meravigliavamo quando eravamo bambini, un batticuore dopo l’altro, la bellezza che ci pervade e non sazia mai i nostri sensi, un’azzurra nostalgia in un cerchio al cuore, e ogni spazio, anche minimo, di noi saturo, di cosa esattamente non saprei dire. Taccio i nomi, e m’appresto ad affidare al pennello, ai colori nei sinonimi e contrari, al miracolo dell’arte questa terra che si offre a me in una tavolozza all’infinito, di donna, nelle sue orme plurivoche di luce, il silenzio dell’acqua, la morbida forma da conchiglia del ponte, il castello padre che, dall’alto, si cura di ogni pietra del borgo figlio e si nutre all’ultimo filo del tramonto prima che svanisca, e tutto in un sapore che si avvicina incredibilmente all’amore, alla felicità, ad una fiaba d’uomo davanti alla quale la biologia della parola non ha senso, non esiste, e si prosciuga in un brivido di cui non so dire, e il cuore a capo.