1.1 DAL NATURALISMO AL TEATRO EPICO ÉMILE ZOLA (1840-1902)1 «Il vizio e la virtù sono prodotti di natura come il vetriolo e lo zucchero»: questa famosa dichiarazione di Taine (Prefazione all’Histoire de la Littérature anglaise), assurta a formula interpretativa dalla critica positivista, criterio di analisi sperimentale del comportamento umano osservato nelle sue componenti fisiologiche e sociali piuttosto che psicologiche e morali, è posta da Zola come epigrafe al suo romanzo più drammatico e fosco, Thérèse Raquin (1868), esplicita dichiarazione di intenti della nuova estetica naturalista. La regola stabilisce di trattare le passioni dell’uomo con metodo scientifico, di manipolarle come sostanze chimiche, sezionarle come tessuti biologici, nel laboratorio prescelto, con ferri degni di un chirurgo. Progetto di Zola è condurre tale operazione sotto il segno dell’arte, dell’opera letteraria, piegare i canoni del romanzo ad accogliere le fasi di una dettagliata e avvincente cronaca dell’esperimento. O anche, a questa cronaca restituire immediatezza e vita per una dimostrazione in vitro di quelle reazioni. Ammettere il pubblico nel laboratorio dell’artistascienziato, sulle tavole del palcoscenico, mediante l’impianto realistico della scena e la recitazione naturale degli attori, ricostruire l’ambiente, le interazioni, le emozioni dei protagonisti, mostrare in atto la terribile forza dei condizionamenti biologici sulle vicende dell’anima. È questo il senso dei tentativi di riduzione teatrale e di messa in scena di alcuni romanzi, il fine sotteso del teatro naturalista. Ma mentre il romanzo, una volta stampato, può affrontare lo scandalo, la riprovazione, l’incomprensione dei suoi lettori, e vivere intanto come documento per risuscitare integro poi, in tempi migliori, «purtroppo a teatro le condizioni cambiano. Un dramma fischiato è un dramma ucciso... Una folla di millecinquecento, duemila persone, vi chiude brutalmente la bocca» (Prefazione alla riduzione teatrale di Thérèse Raquin, 1873).2 Contro l’incomprensione del pubblico e l’immaturità della critica — impreparati ad affrontare l’impatto violento della tranche de vie, lo spaccato di vita che il progetto naturalista intende riprodurre sulla scena —, all’autore drammatico allora non resta, nell’immediato, che rimettersi all’istituzione letteraria, pubblicare i suoi drammi, affidare a lunghe e meticolose didascalie la cornice ambientale e le coloriture gestuali del dialogo; tramite le prefazioni aggiunte, chiarire, 1 Gli scritti di questa sezione sono tratti da Silvia Carandini, La melagrana spaccata. (L’arte del teatro in Francia dal naturalismo alle avanguardie storiche), Valerio Levi, Roma 1988, pp. 5-17, 55-71. 2 È noto che i fondamenti teorici dell’estetica naturalista si appoggiano sui testi chiave della riflessione positivista, da Taine a Darwin (tradotto in Francia nel 1864) a Claude Bernard (studi di medicina sperimentale), a Prosper Lucas (studi sull’eredità naturale). Su queste basi Zola stabilisce il piano di Les Rougon-Macquart, histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire, ciclo di venti romanzi (pubblicati dall’editore Charpentier fra il 1872 e il 1893) costruiti a partire dall’albero genealogico di una famiglia e dalle sue vicende fra la fine del XVIII e la fine del XIX secolo, nei confronti della quale l’autore si pone come osservatore scientifico, non più come moralista, per questo obiettivo distacco suscitando scandalo. Il romanzo Thérèse Raquin (pubblicato da Charpentier nel 1868 in due successive edizioni, la seconda delle quali contiene un’importante prefazione giustificativa) fa parte di questo ciclo. Nella riduzione teatrale condotta dallo stesso Zola, il dramma viene rappresentato a Parigi al Théâtre de la Renaissance nel 1873 con scarso successo. Lo stesso anno, sempre da Charpentier, con altra prefazione appare l’edizione del dramma. Riferimenti bibliografici essenziali possono essere LÉON DEFFOUX, Le naturalisme, Les Oeuvres Représentatives, Paris 1929; GEORGIJ LUCKÁCS, Il dramma moderno dal naturalismo a Hoffmannsthal, Sugar, Milano 1967; J.A. BEDÉ, Emile Zola, Columbia University Press, New York 1977; YVES CHEVREL, Le naturalisme, Puf, Paris 1982; UMBERTO ARTIOLI, Teorie della scena dal naturalismo al surrealismo. Dai Meininger a Craig, Sansoni, Firenze 1972. Più specificamente sul teatro di Zola, vedi FRANÇOIS GAHIDE, Le naturalisme au théâtre de Zola ou l’ouverture de la crise au théâtre, in «Théàtre Populaire», 31, settembre 1958; LAWSON A. CARTER, Zola and the theater, Yale University Press, New Haven 1963; JAMES B. SANDERS, Busnach, Zola et le drame de L’Assommoir, in «Cahiers Naturalistes», 1978. polemizzare, spiegare la sua poetica e il suo metodo. E poi, in una prospettiva futura, dedicarsi a progettare una riforma completa della scena, volgere l’attenzione allo strumento teatrale stesso, alle condizioni materiali del suo esistere e del suo comunicare, alle convenzioni che regolano il rapporto fra il testo scritto e la sua traduzione nello spazio e nel tempo dell’evento teatrale. Fra il 1880 e il 1881 Zola raccoglie e pubblica tutti i principali scritti teorici: Le roman expérimental, Nos auteurs dramatiques e Le naturalisme au théâtre. Al culmine della sua carriera, già affermato critico e giornalista, caposcuola indiscusso del trionfante movimento naturalista, prova l’esigenza di documentare, vagliare, ampliare la sua poetica, rendere esplicito quel procedimento letterario che viene descrivendo appunto come un «metodo» più che un’«estetica», una vera e propria indagine volta a «risolvere scientificamente la questione di sapere come si comportano gli uomini quando vivono in società» (Le roman expérimental). Se la pittura degli amici impressionisti, più volte difesi negli anni giovanili con brillanti campagne giornalistiche, ha stimolato la riflessione di Zola sulle condizioni della rappresentazione visiva, sull’ipotesi di opera d’arte intesa come «angolo di natura visto attraverso un temperamento», in parallelo con le prime esperienze letterarie e la messa a punto della teoria naturalista del romanzo (il ciclo dei Rougon-Macquart ha inizio nel 1868), anche il teatro, come abbiamo visto, sempre più insistentemente si viene configurando all’attenzione dello scrittore come fondamentale mezzo di sperimentazione e anche di divulgazione. Per diversi anni, su numerose riviste, Zola aveva pubblicato critiche teatrali affinando così la sua polemica contro la sclerosi sempre più evidente della produzione drammatica corrente e l’irrigidimento meccanico delle convenzioni sceniche, allo stesso tempo centrando l’attenzione sul rapporto fra romanzo e teatro, sulla funzione del personaggio, sui concetti di carattere e di temperamento, sulle diverse modalità di interazione di un testo con il pubblico di lettori o di spettatori. È a partire dall’epoca romantica che il teatro, assurto a trasparente metafora globale della società, esercita un fascino crescente e una tentazione irresistibile su poeti, scrittori e artisti, attirati anche dalla straordinaria risonanza pubblica che la letteratura sulle tavole del palcoscenico sembra acquistare, ma i risultati sono spesso deludenti e il pubblico il più delle volte privilegia i ben oleati meccanismi dei drammaturghi più convenzionali e affermati. Primo esempio vero e proprio di drammaturgia naturalista è, nel 1865, Henriette Maréchal dei fratelli Goncourt, accolto male da un pubblico del tutto impreparato alle crudezze della vicenda. Degli adattamenti scenici dei romanzi di Zola, dopo il fiasco clamoroso di Thérèse Raquin nel 1873, seguito nel 1874 da quello di Les héritiers Rabourdin e di Bouton de rose nel 1878, finalmente nel 1879 L’Assommoir, nella riduzione di William Busnach, ottiene il primo grande successo al Théâtre de l’Ambigu. Seguiranno Nana nel 1881, Pot-Bouille nel 1883, Renée nel 1887.3 Zola, in questa fase, ha perciò modo di riflettere a fondo sulle condizioni della scrittura drammaturgica (sempre più spesso comunque demanda ad altri il compito di adattare i romanzi), sulle convenzioni specifiche della scena, sulle difficoltà e i risultati spesso dubbiosi che comunque l’adattamento teatrale comporta, sull’esigenza improrogabile di rifondare lo statuto della scena, consapevole che una nuova drammaturgia ancora non è riuscita ad affermarsi, che l’arte del teatro è terribilmente arretrata rispetto allo sviluppo della pittura e della letteratura e che, in attesa del 3 I primi timidi segnali della nuova drammaturgia si erano avuti con alcuni lavori di Augier, Sardou, Dumas fils (La dame aux camélias è del 1852). Henriette Maréchal dei Goncourt è messo in scena addirittura alla Comédie-Française nel 1865, ma dopo sei rappresentazioni è vietato dalla censura. Nel 1880 il gruppo di scrittori che si riunisce intorno a Zola (Maupassant, Huysmans, Hennique, Alexis, ecc.) pubblica la raccolta-manifesto Les soirées de Médan e un anno dopo Paul Alexis parla di un possibile progetto di Théâtre de Médan che non avrà seguito. Unico grande drammaturgo che si ricollega all’estetica naturalista (pur non riconoscendosi mai nel movimento di Zola, soprattutto nel suo «metodo») è in realtà Henri Becque che porta a soluzione il processo iniziato da Augier e Dumas fils, riuscendo a creare la moderna tragedia di eroi passivi e privi di retorica, immersi nelle consuetudini della vita quotidiana. E grande risonanza ottengono le rappresentazioni nel 1882 di Les corbeaux e nel 1885 di La Parisienne. Vedi in proposito, a cura di Adriano Magli, HENRI BECQUE, Teatro e polemiche, 2 voll., Bulzoni, Roma 1967, con una raccolta di scritti sul teatro, di natura tutti piuttosto estemporanea e occasionale. grande drammaturgo del futuro, è possibile intanto iniziare ad agire, partendo da riforme materiali e concrete. Dalla scenografia, per esempio, e dall’arte dell’attore. Compito del letterato e del critico è allora di intervenire con tutta l’autorevolezza e il potere stabilmente acquisito sui mezzi di comunicazione, per denunciare il decadimento e l’arretratezza dell’arte scenica e indicare un possibile programma di riforme in attesa di una soluzione, comunque demandata al futuro. Il senso di inadeguatezza, la consapevolezza di un compito che trascende le possibilità di una singola generazione, l’eleggere un tempo di là da venire per la rinascita dell’arte nuova, è da questo momento una costante nella riflessione soprattutto di coloro che al teatro guardano dall’esterno, misurandone il potenziale straordinario e l’irrimediabile decadenza. Nel suo principale scritto teorico sull’argomento, Le naturalisme au théâtre, in una prima sezione Zola raccoglie, secondo un modello ormai accreditato, gli scritti giornalistici di critica teatrale sotto forma di Exemples, mentre in una seconda sezione di Théories in modo del tutto inedito e rivoluzionario affronta la questione dei «fondamenti materiali» del teatro — la scena, i costumi, gli attori —, con la straordinaria intuizione che a partire da questi forse è possibile iniziare la riforma. Per prima cosa infatti, a suo giudizio, è necessario fare piazza pulita delle vecchie convenzioni funzionali a formule drammatiche ormai sorpassate, non più corrispondenti alle esigenze della più allargata società contemporanea e della nuova estetica, poiché anche del teatro si può fare storia e ricostruire le tappe di un’irreversibile processo evolutivo, in parallelo progresso con le scienze, alla ricerca continua di quella verità difficile che «costituisce il nostro scopo e il nostro tormento». Il nuovo personaggio della scena naturalista proviene dalle pagine di Balzac, ha bisogno in teatro per vivere della sua cornice naturale «così come una tartaruga ha bisogno del suo guscio», di una scena che «in fin dei conti non è che l’ambiente dove nascono, vivono e muoiono i personaggi», di una scena che «ha preso in teatro l’importanza che la descrizione ha nel romanzo». E questa ricerca della verità, per lo scrittore di teatro, non ha mai fine, perché sempre esisterà uno scarto fra l’opera d’arte e la vita, fra la rappresentazione e il reale. Il principale teorico del naturalismo non manca di sottolineare questo fondamentale divario, questo estetico scarto, che però nella sua visione non è più un dato assoluto ma un perenne processo, l’ansiosa e sempre vitale rincorsa di un fine in sé irraggiungibile. Sono queste le intuizioni essenziali che faranno di Le naturalisme au théâtre, più che non i risultati incerti delle prime messinscene dei romanzi di Zola, il riferimento più importante nel grande rivolgimento teatrale della fine del XIX secolo. Lo stile è eloquente e appassionato, fondato su una retorica persuasiva di matrice anche giornalistica, una scrittura che insiste, ribadisce, vuol farsi intendere, vuole convincere, prefigurando un qualcosa che ancora non esiste, ma che è urgente concepire. Una prosa che si arricchisce di esempi, di immagini — descrizioni o eventuali didascalie — modelli emblematici di possibili nuove ambientazioni drammatiche, come il quadro sovraccarico di quel salotto borghese che a un certo punto tratteggia, o il brulicante scenario della grande metropoli osservato nel cuore commerciale del mercato delle Halles a Parigi. Parlando della scena, dei costumi, del linguaggio teatrale, della dizione, dei movimenti e dei gesti degli attori, delle loro manie, di come dovrebbe compiersi la loro formazione, con notevole competenza Zola si addentra nel meccanismo teatrale, anche con straordinaria precisione e concretezza. Molto presto comunque, poco dopo questa fase di sistemazione teorica, si avvertono nell’ambiente letterario i primi sintomi di una crisi, le prime defezioni, il volgersi del gusto in direzioni opposte, il prevalere di correnti spiritualiste che con crescente fastidio prendono le distanze dai pretesi eccessi e le «volgarità» del naturalismo.4 Nel 1884 Huysmans pubblica A rebours, bibbia dei 4 In tutta Europa gli anni fra il 1879 e il 1888 segnano il culmine del naturalismo con opere come Casa di bambola (1879) e Gli spettri di Ibsen, La camera rossa (1881) e La signorina Giulia di Strindberg, I fratelli Karamazov (1880) di Dostoevskij, La potenza delle tenebre (1886) di Tolstoj. Dello stesso periodo sono i primi drammi di Gerhart Hauptmann. In Italia ricordiamo che del 1879 è Giacinta e del 1880 gli Studi di letteratura contemporanea di Luigi Capuana, del 1881 1 Malavoglia e del 1884 la prima rappresentazione di Cavalleria rusticana di Verga, del 1882 il manifesto Del vero in teatro di Giuseppe Giacosa. Poi ovunque inizia la crisi; lo stesso Zola dopo il 1890 accoglierà in giovani simbolisti, nel 1886 appare il manifesto simbolista di Moréas. Nel 1891 l’inchiesta giornalistica di Jules Huret sulla Évolution Iittéraire («L’Écho de Paris», 15 luglio) sancisce la fine del movimento. Il teatro, come sempre, segue con ritardo e solo in questa ultima fase di crisi arriva a maturare gli stimoli che la riflessione di Zola aveva suscitato. Un grande teatro naturalista in Francia non esisterà mai, ma l’esperienza del Théâtre Libre di Antoine, fra il 1887 e il 1894, frutto tardivo ma fondamentale di quell’ipotesi scenica, realizzerà proprio l’intuizione più importante di Zola, attuando la prima grande riforma dei «fondamenti materiali del teatro» in Francia, e poi sul suo modello in tutta Europa. Prodromo indiscusso delle grandi riforme sceniche del Novecento. ÉMILE ZOLA Il naturalismo in teatro5 La scena e i suoi accessori Voglio parlare del movimento naturalista in teatro dal semplice punto di vista della scena e dei suoi accessori. Conosciamo, al riguardo, due pareri precisi: gli uni vorrebbero conservata la nudità della scena classica, gli altri esigono la riproduzione esatta dell’ambiente, per quanto complessa possa risultare. Io sono evidentemente di questo secondo parere; ho solo le mie ragioni da spiegare. La questione va studiata nella storia stessa del nostro teatro nazionale. Fra pochi stracci, tesi su pertiche, si svolgevano l’antica parata da fiera, il mistero recitato sul palco, tutti quei tipi di spettacoli all’aperto dai quali sono derivate le commedie e le tragedie del XVII secolo, così semplici ed equilibrate. L’immaginazione del pubblico suppliva alla mancanza di scenari. Più tardi, con Molière e con Racine, ogni teatro aveva la sua scena di piazza, il salone, la foresta, il tempio. E credo anche che la foresta venisse poco utilizzata. Era la regola dell’unità di luogo, rigidamente osservata, che rendeva sufficiente una così limitata varietà. Per ogni dramma bastava un tipo di scena; e siccome tutti i personaggi dovevano incontrarsi in quel luogo, inevitabilmente gli autori sceglievano ambienti neutri, in modo che lo stesso salone, la stessa strada, lo stesso tempio si adattassero a tutte le azioni immaginabili. [...] È ormai dimostrato che la scarsa cura per la verità scenica, nel XVII secolo, è una conseguenza del limitato influsso allora attribuito all’ambiente e all’atmosfera naturale sui personaggi e sull’azione del dramma. Nella letteratura dell’epoca la natura conta poco. Solo l’uomo è considerato nobile, ma l’uomo privo della sua umanità, l’uomo astratto, studiato nelle sue funzioni logiche e passionali. Che senso poteva avere allora un paesaggio in teatro? Non si sapevano vedere, a quei tempi, paesaggi reali che al sole o sotto la pioggia si dispiegano. Che senso poteva avere un salotto completamente ammobiliato che la vita riscalda e provvede di un’esistenza reale? I personaggi allora non vivevano, non abitavano, dovevano solo attraversare la scena declamando la loro parte. Da questa formula è derivato il nostro teatro. Non mi è possibile fare una storia delle fasi percorse. Ma è facile constatare come un movimento lento e continuo si sia sviluppato nel tempo, come di giorno in giorno si sia accordata una maggiore importanza all’influenza dell’ambiente. L’evoluzione letteraria dei due ultimi secoli si è svolta per intero nel segno di una tale invasione della natura. L’uomo non è stato più solo, si è cominciato a pensare che le montagne, le città, i cieli, nella loro diversità, meritassero di essere studiati e di essere esposti quale immensa cornice dell’umanità. Si è andati addirittura più lontano, si è preteso fosse impossibile conoscere a fondo parte i nuovi influssi simbolisti, evidenti in alcuni libretti per «pièces lyriques» come Messidor, L’ouragan, L’enfantroi. 5 Cfr. Le naturaliste au théâtre, Charpentier, Paris 1881, pp. 81-165. La sezione riguardante gli Exemples è stata tradotta in italiano a cura di Giuseppe Liotta (ÉMILE ZOLA, Il naturalismo a teatro, Longo, Ravenna 1980); queste pagine invece si riferiscono alle Théories. un uomo senza un’analisi del suo vestiario, della sua casa, del suo paese. Da allora sono scomparsi i personaggi astratti. Si sono presentati invece individui che vivono la nostra vita contemporanea. Inevitabilmente, anche il teatro ha seguito questa evoluzione. [...] Voglio ripetermi, per farmi intendere meglio. Come ho già detto, è sbagliato isolare il teatro, considerarlo un fenomeno del tutto diverso. Senza dubbio il teatro ha un’ottica sua propria. Ma non lo vediamo forse in ogni epoca seguire i movimenti del suo tempo? In questo momento, la scena esatta è una conseguenza diretta di quel bisogno di realtà che ci tormenta. È fatale che il teatro ceda a questo impulso quando lo stesso romanzo è diventato un’inchiesta universale, un processo verbale aperto ad ogni realtà. Quei nostri personaggi moderni, così individualizzati, che agiscono spinti dall’impulso di influssi circostanti, che sul palcoscenico vivono la nostra vita, sarebbero assolutamente ridicoli su di una scena del XVII secolo. Si siedono e hanno bisogno di poltrone, scrivono e hanno bisogno di tavoli, vanno a letto, si vestono, mangiano e hanno bisogno di un completo mobilio. Noi, d’altra parte, studiamo tutti gli ambienti sociali, i nostri drammi ci conducono in tutti i luoghi immaginabili, i quadri più svariati devono necessariamente sfilare alla ribalta. È un’esigenza della nostra attuale formula drammatica.6 [...] Come non accorgersi dell’interesse che una scena esatta aggiunge all’azione? Una scena esatta, un salotto per esempio, con i suoi mobili, le sue piante, i soprammobili, impone immediatamente una situazione, parla dell’ambiente sociale in cui ci si trova, racconta le abitudini dei personaggi. E come vi si trovano a proprio agio gli attori, come vivono bene l’esistenza che gli è assegnata! Si crea un’intimità, un rifugio naturale e incantevole. So che per apprezzare un fatto simile si deve preferire l’attore che il dramma lo vive, più che non lo interpreta. Una nuova formula è contenuta qui per intero. Scribe, per esempio, non ha bisogno di ambienti reali, i suoi personaggi infatti sono di cartapesta. Penso ad una scena esatta solo per quei drammi che hanno personaggi in carne ed ossa, capaci di trascinarsi dietro l’aria che respirano.7 [...] La questione delle scene e degli accessori è un terreno eccellente, circoscritto e nettamente delimitato, per studiare le convenzioni in teatro. In fin dei conti, le convenzioni sono il grande problema. Dicono che le convenzioni sono eterne, che non si potrà mai sopprimere la ribalta, che sempre ci saranno le quinte dipinte, che sempre le ore saranno contate sulla scena come minuti, che sempre le stanze in cui i drammi si svolgono avranno solo tre pareti. Certo! questo è sicuro. È persino puerile addurre tali argomenti. Mi fanno venire in mente le parole di un pittore classico che a proposito di Courbet osservava: «E allora? cosa ha inventato? forse che le sue figure non hanno un naso, due occhi e una bocca come le mie?». Voglio spiegare che esiste, ed è inevitabile, un fondamento materiale in ogni arte. Fare teatro non è un’operazione chimica. È necessario allora un teatro organizzato secondo i criteri dell’epoca in cui si vive, dotato quindi di materiali più o meno perfezionati. È assurda l’ipotesi di trasportare, tal quale, la natura sul palcoscenico, di piantare alberi veri, alzare case vere, illuminate da un sole vero. Ecco allora che le convenzioni si impongono e al posto della realtà si devono accettare illusioni più o meno perfette. Ma questo è un fatto indiscutibile ed è inutile starne a parlare. Si tratta del fondamento stesso dell’arte, senza il quale nessun prodotto è possibile. Certo, non si contestano i colori al pittore, l’inchiostro e la penna al romanziere, all’autore drammatico la ribalta e l’orologio a pendolo che non segna il tempo. Facciamo solo un paragone. Leggiamo per esempio un romanzo di Mlle de Scudéry e un romanzo di Balzac. Tutti e due si servono di carta e di inchiostro, è il limite accettabile della creatività 6 Esplicitamente Zola mette in relazione le nuove esigenze della messa in scena con i contenuti nuovi della poetica e quindi della drammaturgia naturalista. Si tratta di quella progressiva epicizzazione del teatro riscontrabile, come tendenza generale del teatro, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, secondo le modalità validamente descritte da PETER SZONDI, Teoria del dramma moderno, Einaudi, Torino 1962. 7 Eugène Scribe (1791-1861), il prolifico drammaturgo, noto soprattutto per i brillanti vaudevilles, ugualmente inviso ai romantici e alla nuova scuola naturalista, era stato l’interprete per eccellenza della società borghese della Restaurazione. Nella produzione più tarda non aveva mancato di mostrare una maggiore aderenza alla realtà contemporanea introducendo personaggi veri e notazioni attente di costume. Ma in lui Zola colpisce soprattutto l’autore mestierante e di facile successo. umana. Ma con gli stessi strumenti, Mlle de Scudéry compone delle marionette, Balzac dei personaggi in carne e ossa. In primo luogo, è questione di talento; ma è anche questione di epoca letteraria. L’osservazione, lo studio della natura, quasi sconosciuti nel XVII secolo, oggi sono diventati un metodo. Vediamo in questo caso la convenzione superata, quasi mascherata dalla verità potente delle descrizioni.8 Le convenzioni cambiano in continuazione; è possibile che questo possa ancora succedere. Non ci è dato creare di sana pianta esseri viventi, mondi del tutto autosufficienti. La materia che adoperiamo è morta, e ad essa possiamo infondere solo una vita artificiale. Ma quanti stadi in questa vita artificiale, dall’imitazione grossolana che non può ingannare nessuno, fino alla riproduzione quasi perfetta che fa gridare al miracolo! Questione di genio, si dirà; senza dubbio, ma anche questione di secolo. La presenza della vita nell’arte è un’idea del tutto moderna. Siamo trascinati, nostro malgrado, dalla passione per il vero e per il reale. È un fatto innegabile, e numerosi esempi dimostrano che questo movimento tende a crescere di giorno in giorno. Crediamo forse di poterlo arrestare osservando che le convenzioni sussistono anche se si spostano? È proprio perché le convenzioni esistono, barriere fra la verità assoluta e noi, che ci troviamo a lottare per arrivare più vicino possibile alla verità, e assistiamo al prodigioso spettacolo della creazione umana nelle arti. Ogni opera d’arte è una battaglia contro le convenzioni, ed è tanto più grande, quanto più grande è la vittoria nel conflitto. [...] Non c’è la minima traccia di infatuazione in quel che facciamo. Non è una questione di moda, bensì un problema di evoluzione umana e sociale. Non possiamo tornare ai cartelli di Shakespeare così come non possiamo far rivivere il XVI secolo. Ci è proibito. Senza dubbio, da quella convenzione scenica sono nati dei capolavori, poiché crescevano su un terreno naturale; ma quel terreno non è più il nostro, e sfido qualsiasi autore drammatico a creare un’opera viva oggi che non affondi solidamente le sue radici nella terra del nostro secolo decimonono. Come può un uomo dell’intelligenza di Sarcey non tenere conto del movimento che trasforma il teatro? È certo un critico molto colto, molto erudito; meglio di chiunque conosce il nostro repertorio antico e moderno; possiede tutti i documenti per studiare l’evoluzione che c’è stata e che tuttora agisce. Dovrebbe sentirsi stimolato a intraprendere uno studio di filosofia letteraria. Invece di rinchiudersi nei limiti di una retorica ristretta, invece di considerare il teatro come un genere sottomesso a delle leggi, perché non spalanca le sue finestre e non riconosce che il teatro è un prodotto dell’uomo, che varia a seconda delle società, che si estende insieme con le scienze, sempre più rivolto verso quella verità che è nostro scopo e nostro tormento insieme?9 Mi soffermo sul problema della scena. Guardate come la scena astratta del XVII secolo corrisponde alla letteratura drammatica del tempo. L’ambiente ancora non conta. Il personaggio sembra camminare per aria, libero dagli oggetti esteriori; non influisce su di loro e non viene da essi determinato. Resta sempre un tipo, non viene mai analizzato come individuo. Cosa ancora più caratteristica, il personaggio si presenta come un semplice meccanismo cerebrale, il corpo non interviene, solo l’anima funziona, con le sue idee, i sentimenti, le passioni. In una parola, il teatro dell’epoca si occupa dell’uomo psicologico e ignora l’uomo fisiologico. L’ambiente quindi non ha un suo ruolo, la scena diventa inutile. Poco importa il luogo dove si svolge l’azione dal momento che una qualsiasi influenza dei luoghi sui personaggi viene negata. Sarà una camera, un vestibolo, 8 Il barocco prezioso dei romanzi di Mlle de Scudéry è per Zola quindi l’esatto corrispettivo della società e della cultura del XVII secolo, mentre Balzac evidentemente impersona il romanziere tipo del scientifico secolo XIX e la sua opera può essere considerata «il più gran repertorio di documenti sulla natura umana», come nel 1858 aveva decretato Taine nel saggio su di lui. 9 Francisque Sarcey (l827-l899) è l’altro grande bersaglio delle nuove scuole teatrali. Critico drammatico sempre strenuo difensore della tradizione e dei tipici pregiudizi del pubblico borghese, fonda le sue critiche soprattutto sui canoni del buon senso, il culto del mestiere teatrale e l’incondizionato rifiuto di qualsiasi innovazione venga a turbare i ben oleati meccanismi della macchina teatrale ottocentesca, Nel riferirsi alle sue idee, Zola introduce la metafora della finestra da spalancare, dell’aria fresca da introdurre nel teatro. Numerose volte la incontreremo in seguito negli scritti di altri teorici e riformatori, ricorrente segnale, a cavallo del secolo, di un senso di asfissia che accomuna il chiuso del teatro all’opprimente costrizione della metropoli moderna. una foresta, un crocevia; anche un cartello sarà sufficiente. Il dramma risiede unicamente nell’uomo, in quello convenzionale, spogliato del suo corpo, che non è più un prodotto della sua terra, non è più immerso nell’aria natia. Assistiamo solo al lavoro di una macchina intellettuale, isolata, funzionante nell’astrazione. Non voglio discutere, qui, se nella letteratura sia più nobile conservare una tale astrazione dello spirito o, per amore del vero, rendere al corpo il suo posto fondamentale. Si tratta di constatare semplici fatti, per ora. Poco per volta si è prodotta la rivoluzione scientifica e abbiamo visto scomparire il personaggio astratto per cedere il posto all’uomo reale, al suo sangue, ai suoi muscoli. Da quel momento la funzione dell’ambiente si è fatta sempre più importante. Il movimento prodotto nel teatro parte da lì, poiché la scena, in ultima analisi, non è che l’ambiente dove nascono, vivono e muoiono i personaggi. Ma un esempio è necessario per capire un tale cambiamento. Prendete Harpagon di Molière. Harpagon è un tipo, un’astrazione dell’avarizia. Molière non si è sognato di dipingere un avaro particolare, un individuo determinato da circostanze particolari; ha dipinto l’avarizia, liberandola dei suoi connotati esteriori, non ci mostra la casa dell’avaro, si accontenta di farlo agire e parlare. Prendete ora il Père Grandet di Balzac. Abbiamo subito un avaro, un individuo cresciuto in un ambiente speciale; Balzac ha dovuto dipingere l’ambiente e ci ha dato non solo l’astrazione filosofica dell’avarizia, ma soprattutto l’avarizia studiata nelle sue cause e nei suoi effetti, la malattia umana e sociale tutta intera. Ecco a confronto la concezione letteraria del XVII e del XIX secolo: da un lato l’uomo astratto, studiato fuori della natura; dall’altro l’uomo secondo la scienza, nuovamente immerso nella natura, che interpreta rigidamente il suo ruolo, sottoposto ad ogni tipo di influenza. Ebbene! risulta allora evidente che se Harpagon può recitare il suo dramma in qualsiasi luogo, su di una scena qualsiasi, generica e mal dipinta, il Père Grandet, proprio come una tartaruga che non può vivere fuori del suo guscio, non può recitare fuori della sua casa, del suo ambiente. Qui la scena è parte integrante del dramma, partecipa all’azione, la spiega e determina il personaggio. Il problema della scena è tutto qui. La scena ha preso in teatro l’importanza che la descrizione ha nel romanzo. I costumi [...] È vero, i nostri abiti moderni costituiscono un misero spettacolo. Appena si esula dalla tragedia borghese chiusa fra quattro mura, appena si vuole utilizzare la larghezza dei grandi palcoscenici e mostrare una folla, ci si trova molto imbarazzati, disturbati dalla monotonia e dal lutto uniforme della rappresentazione. In questo caso, credo si possa produrre un senso di varietà, mescolando classi e mestieri diversi. Per farmi capire, posso immaginare che un autore ambienti un suo atto nei mercati generali delle Halles di Parigi. La scena sarebbe magnifica, brulicante di vita e ardita d’impianto. Ecco! in questa immensa scena si potrebbe realizzare con molta perfezione un insieme assai pittoresco, mostrando facchini dai grandi cappelli, venditrici dai grembiuli bianchi e i fazzoletti vivaci, clienti vestite di seta, di lana e di tela indiana; signore accompagnate dalle domestiche, vicino a mendicanti che si aggirano per raccogliere gli scarti. Basta andare alle Halles e guardare. Non c’è nulla di più variopinto e interessante. Se realizzata con il necessario grado di esattezza e di ampiezza, tutta Parigi verrebbe a guardare una scena siffatta. E quanti scenari si possono prendere per i drammi popolari! L’interno di una fabbrica, di una miniera, la fiera del pan pepato, una stazione, un viale fiorito, un campo di corse, ecc. Si possono rappresentare tutti i quadri della vita moderna. Si dirà che tali scene già sono state azzardate. Senza dubbio nelle féeries si sono viste fabbriche e stazioni, si trattava però di fabbriche e stazioni immaginarie, voglio dire scene arrangiate in modo da produrre un’illusione più o meno completa.10 Una riproduzione particolarmente minuziosa è invece necessaria. Inevitabilmente allora si troveranno costumi dettati dai diversi mestieri, non costumi ricchi, ma aderenti alla verità e all’interesse del quadro. Dato che tutti si lamentano della morte del dramma, i nostri autori dovrebbero sperimentare questo genere popolare e moderno. Potrebbero così soddisfare il bisogno di spettacolo del pubblico e, insieme, l’esigenza di studi esatti che ogni giorno sempre più viene imponendosi. È solo da augurarsi che i drammaturghi ci mostrino il popolo vero e non gli operai patetici che nei melodrammi del Boulevard recitano parti tanto strane. [...] Altro punto molto importante è la dizione, Certo non siamo più alla melopea e al canto piano del XVII secolo. Ma abbiamo ancora un modo teatrale di parlare, una recitazione falsa, molto enfatica e sgradevole. Il problema è che la maggioranza dei critici erige ancora la tradizione a codice immutabile; hanno trovato il teatro in una data condizione, e invece di guardare al futuro, di giudicare da quelli già raggiunti i progressi che si stanno per compiere o che si compiranno, testardamente difendono ciò che resta delle antiche convenzioni, convinti della loro assoluta necessità. Chiedetegliene una ragione, fate notare loro la strada percorsa; non avranno alcun argomento logico, risponderanno con motivazioni basate appunto sullo stato di cose che sta scomparendo. Per quel che riguarda la dizione, il danno proviene quindi dal fatto che questi critici ammettono l’esistenza di una lingua di teatro. La loro teoria è che sul palcoscenico non si deve parlare come nell’esistenza quotidiana; e per sostenere questo modo di vedere, prendono esempio dalla tradizione, da ciò che succedeva ieri e ancora oggi succede, e non tengono conto del movimento naturalista, i cui progressi si possono constatare nell’opera di Jullien.11 In modo assoluto, allora, dovete capire che non esiste una lingua di teatro; è esistita una retorica che sempre più si è venuta indebolendo e che sta per scomparire: questi sono i fatti. [...] Ahimé! certo che un linguaggio teatrale esiste; sono quei luoghi comuni, quelle vibranti banalità, quelle parole vuote che rotolano come barili, tutta l’insopportabile retorica dei nostri vaudevilles e dei nostri drammi, che adesso comincia a far sorridere. Sarebbe interessante studiare la questione dello stile su autori di talento quali Augier, Dumas e Sardou; avrei molto da criticare, soprattutto nei due ultimi, per come si servono di una lingua convenzionale, una lingua loro particolare che mettono in bocca a qualsiasi personaggio, uomo, donna, bambino, vecchio, tutti i sessi e tutte le età. La cosa mi sembra insopportabile poiché ogni carattere ha un suo linguaggio e se si vogliono creare esseri viventi, bisogna mostrarli al pubblico, non solo con i costumi esatti e nell’ambiente che li determina, ma con il proprio personale modo di pensare e di esprimersi. Ripeto che questa è evidentemente la meta cui tende il nostro teatro. Una lingua di teatro, con un codice che regoli il taglio delle frasi e le sonorità, non esiste; esiste semplicemente un dialogo, sempre più esatto, che, in direzione del naturalismo, segue, o meglio guida, il progresso delle scene e dei costumi. Quando anche i drammi saranno più veri, necessariamente la dizione degli attori sarà più semplice e naturale. Ripeto, per concludere, che la battaglia contro la tradizione è lungi dall’essere conclusa, forse durerà sempre. Oggi più chiaramente intravediamo la direzione da prendere, ma ci troviamo ancora impantanati nel disgelo della retorica e della metafisica. Gli attori 10 Alla féerie, grande spettacolo a effetto, regno di macchinari, trucchi e scenografie fantasmagoriche, molto in voga presso il grande pubblico, Zola dedica un’attenzione particolare negli Exemples. In questo genere, eliminati gli eccessi, vede la possibilità di uno spettacolo poetico nel quale «l’intero mondo dell’arte, la poesia, la musica, la pittura, la scultura, l’autore drammatico, e inoltre la bellezza e la forza si unirebbero». Vedi ÉMILE ZOLA, Il naturalismo a teatro, cit., p. 96 e PAUL GINISTY, La féerie, Michaud, Paris s.d. 11 Aveva poche pagine prima citato l’Histoire du costume di Adolphe Jullien (Charpentier, Paris 1880), esempio limitato ma interessante, a suo giudizio, di come dovrebbe essere una storia generale del teatro fondata sulla metodologia critica positivista, sul modello della Histoire de la littérature anglaise di Taine (Le naturalisme au théâtre, cit., p. 102). [...] Dio solo sa a che punto ancora si trova la verità in teatro, malgrado l’inevitabile compiersi del movimento naturalista. Non voglio stendere una requisitoria vera e propria, citerò solo alcuni esempi. Ho già parlato delle entrate e delle uscite degli attori, eseguite per lo più in barba al buon senso, troppo lente o troppo brusche, intese unicamente a procurare una salve di applausi. Esiste forse qualcosa di più ridicolo dei movimenti che un attore compie nel corso di una scena un po’ lunga? Per ottenere un determinato effetto, in mezzo a un dialogo, l’attore che si trova a sinistra attraversa la scena e si dirige a destra, mentre l’attore che sta a destra si dirige a sinistra, senza alcun motivo. Si dice che il movimento sia gradevole alla vista; è possibile, ma un tale continuo andare e venire non può non risultare comico e puerile. Bisognerebbe parlare ancora del modo di sedersi, di mangiare, di rivolgere alla platea le battute destinate al personaggio vicino, di accostarsi alla buca del suggeritore per declamare le tirate d’effetto che gli altri attori in scena fingono di ascoltare religiosamente. Insomma, un attore non azzarda un passo, non pronuncia una frase, senza che quel passo e quella frase non risultino insopportabilmente falsi. Solo gli artisti di genio che a volte trovano accenti di passione e di verità, fanno eccezione.12 Nulla è immutabile ecco la verità. Le convenzioni sono l’uso che ne facciamo, e hanno forza di legge solo se si subiscono. Gli attori dovrebbero, a mio avviso, seguire più da vicino la vita, senza sentirsi sminuiti per questo. I gesti esagerati, le schermaglie, i colpi di tacco, i tempi solenni fra due frasi, gli effetti ottenuti con esagerazione caricaturale, non sono affatto necessari al lustro della rappresentazione. D’altronde il lustro è inutile, la verità è sufficiente. Ecco dunque cosa mi augurerei di vedere: attori che studiano la vita e la rendono con il massimo di semplicità. Il Conservatorio è anche un luogo utile, se lo si considera come un corso elementare dove si impara la pronuncia; anche se nel Conservatorio la pronuncia è strana, enfatica e disorienta singolarmente l’orecchio. Ma dubito che, una volta appresi i primi elementi, si possa tirare un gran profitto dalle lezioni dei maestri. È proprio come nelle scuole di disegno. Per due o tre anni gli allievi hanno bisogno di disegnare occhi, bocche, nasi, orecchie; dopo, la cosa migliore è metterli davanti alla natura, lasciando che la loro personalità si svegli e si sviluppi. (1881) ANDRÉ ANTOINE (1857-1943) La leggenda di Antoine, semplice impiegato del gas, che il 30 marzo 1887 cambia il destino di una piccola compagnia filodrammatica mettendo in scena, come prima serata del suo Théâtre Libre, alcuni atti unici fra i quali Jacques Damour tratto da una novella di Zola, ampiamente alimentata dai suoi scritti e dai suoi ricordi, si inscrive nel novero delle leggende fondatrici di ogni grande fase innovativa nella storia della cultura. Perché con quella prima serata in una modestissima sala della periferia parigina, seguita due mesi dopo da una seconda — ancora il giorno trenta del mese per pagare le spese con lo stipendio — si inaugura sicuramente un nuovo modo di fare e di concepire il teatro, un esempio da seguire o da avversare, modello comunque imprescindibile per i prossimi decenni. L’esperimento che non avrà lunga vita (si chiude nel 1894), si impone subito all’attenzione della critica, del pubblico, e anche degli altri teatri che in qualche modo dovranno ormai fare i conti con quello che succede nel piccolo teatro à côté. Antoine è un ammiratore di Manet e degli impressionisti, ha frequentato il corso di storia dell’arte di Taine, conosce gli scritti di Zola, ha fatto la comparsa e la claque in alcuni grandi teatri parigini. Con straordinario intuito riesce a cogliere tutte le insofferenze verso il teatro contemporaneo e tutti i nuovi fermenti che nell’ultimo decennio sono venuti coagulandosi su diversi fronti, dando vita al primo importante Teatro d’Arte dell’epoca moderna, un piccolo teatro privato, accessibile solo per 12 Più avanti cita l’esempio di Tommaso Salvini, il grande attore italiano che molto lo aveva colpito nell’interpretazione di Macbeth e di La morte civile di Giacometti al Théâtre-Italien (Le naturalisme au théâtre, cit., pp. 137-143). abbonamento, quindi fuori dal circuito commerciale, in grado perciò di eludere i divieti della censura, con attori per lo più non professionisti e una cerchia di intellettuali che lo segue, lo appoggia e lo sostiene. Fin da subito Antoine presenta opere di giovani scrittori insieme a quelle di autori più affermati, opere di rappresentanti accreditati della scuola naturalista (oltre a Zola, i Goncourt, Paul Alexis), ma anche di poeti e scrittori più tipicamente parnassiani e simbolisti come Théodore de Banville (Le baiser, nel 1887) e Villiers de l’Isle-Adam (L’évasion, sempre nel 1887).13 Fra i giovani scrittori da lui consacrati, Oscar Méténier, Henri Céard, George Ancey, Henri Fèvre, Jean Jullien, Eugène Brieux, Franois de Curel, si rivelano una generazione brillante, di giovani «fabbricanti» come verranno chiamati in seguito, e godranno di un certo successo divulgando su altri palcoscenici una problematica moderna e un impianto drammaturgico naturalista.14 Ma verrà sempre a mancare il grande autore nuovo e originale. Allora, come farà anche Lugné-Poe all’Oeuvre, Antoine, avendo approntato il suo rivoluzionario strumento teatrale, una scena nuova, libera dalle convenzioni e un nuovo, più spontaneo modo di recitare, cerca all’estero autori più audaci: presenta Tolstoj (La potenza delle tenebre, nel 1888), Verga (Cavalleria rusticana, nel 1888), Turgenev (Il pane altrui, nel 1890), Ibsen (Gli spettri, nel 1890 e L ‘anitra selvatica, nel 1891), Hauptmann (I tessitori, nel 1893), Strindberg (La signorina Giulia, nel 1892), per citare solo alcuni nomi e titoli.15 Un repertorio eclettico, sempre di ottimo livello letterario e molto vasto, ben ottantaquattro drammi in sette anni. Come direttore, ma si distingue anche come attore in moltissimi ruoli, Antoine certo instaura la funzione moderna della regia in tutte le sue implicazioni: in quanto organizzatore di cultura al corrente anche delle riforme sceniche già realizzate in Germania e in Inghilterra, intermediario fra il teatro e il suo pubblico, fra l’autore drammatico e gli attori, responsabile assoluto delle scelte ideologiche della sua impresa e della realizzazione pratica di ogni spettacolo, teorico anche interessato a chiarire e sistematizzare le sue posizioni, polemista vivace, attento propagandista delle sue idee e dei suoi progetti. Si occupa di tutto, dei programmi di sala, chiamando a illustrarli pittori conosciuti come Vuillard, Steinlein, Signac, Toulouse-Lautrec, lbels, Rivière, degli opuscoli che in diversi periodi fa stampare e distribuire con il titolo di Théâtre Libre e con i quali si rivolge direttamente al pubblico per raccontare la storia del suo teatro, fare il rendiconto delle diverse stagioni e del bilancio economico, lanciare nuovi progetti, precisare le idee che matura sul teatro, sull’attore, sulla scena, raccogliere alcuni suoi interventi pubblici su diverse questioni (le lettere a Sarcey sui Meininger e su La Parisienne di Becque, la lettera all’attore Le Bargy), raccogliere anche testimonianze, recensioni sulle riforme teatrali in atto e sugli spettacoli del Théâtre Libre. Lo stile è sempre lucido, secco, privo di infiorettature, abile nel secondare la psicologia dei suoi lettori, chiaro nel porre le questioni, modesto sulla sua funzione (parla sempre di sé in terza persona) e al tempo stesso orgoglioso dei risultati, cosciente dell’importanza della sua opera, mai astratto, sempre basando le argomentazioni su esempi concreti, dati controllabili (almeno apparentemente), progetti benissimo studiati e in teoria realizzabili, abilmente in bilico sempre fra ideali utopici e visione pragmatica. Conclusa l’esperienza del Théâtre Libre, Antoine, ormai affermato metteur en scène, dirigerà negli anni seguenti importanti imprese teatrali: il Théâtre 13 Intorno al 1890 si interessa anche di Maeterlinck e pensa di mettere in scena La princesse Maleine, ne viene poi impedito da problemi finanziari, lasciando quindi ai simbolisti il merito di rappresentarlo. Adotta verso la fine dell’esperienza del Théâtre Libre anche alcuni tipici stilemi simbolisti come la figura del recitante che sul proscenio commenta leggendo le pagine di un libro (ruolo che lui stesso ricopre) in Le missionnaire di Luguet (aprile 1894). Vedi ANDRÉ ANTOINE, Mes souvenirs sur le Théâtre Libre, Fayard, Paris 1921, trad. it. a cura di Camillo AntonaTraversi, I miei ricordi sul teatro libero, Mondadori, Milano 1922, p. 286. 14 La definizione è di JEAN RICHARD BLOCH, in Le destin du théâtre, Gallimard, Paris 1930. 15 Si rimanda per maggiori notizie, in particolare a ADOLPHE THALASSO, Le Théâtre Libre, Essai critique, historique et documentaire, Mercure de France, Paris 1901; LUCIEN DUBECH, Le Théâtre Libre, in Histoire générale illustrée du Théâtre, V, Librairie de Franca, Paris 1931, pp. 140-171; MATEI ROUSSOU, Antoine, L’Arche, Paris 1954; FRANCIS PRUNER, Les luttes d’Antoine au Théâtre Libre, Minard, Paris 1964. Antoine fra il 1896 e il 1906, quindi l’Odéon, il secondo teatro nazionale francese, fino al 1914. Su questi palcoscenici proseguirà una pratica realista e allo stesso tempo eclettica della messa in scena, con altri più maturi e tecnici interventi teorici, applicando le sue concezioni sempre più in direzione di quel principio unitario della regia venutosi precisando come nucleo essenziale della sua riforma. Dotato ormai di migliori mezzi finanziari, servito dai più importanti e ufficiali specialisti scenografi, amato e seguito da un pubblico molto più vasto, diluita anche la carica eversiva, certo superato da esperienze che proprio dal Théâtre Libre hanno avuto origine (sia Lugné-Poe che Gémier vi compiono i primi passi nel teatro), raggiunge i risultati migliori nella messa in scena dei classici, di Shakespeare in particolare: memorabile il Re Lear del l904.16 Se la fama di Antoine è sempre stata indiscussa, se ogni uomo di teatro sempre al Théâtre Libre ha guardato per poggiare le basi di ogni seguente riforma, se gli storici del teatro del Novecento sempre dalla sua esperienza e dalle sue teorie sono partiti, la sua pratica teatrale invece, le sue messinscene, sono state pochissimo studiate, quasi che nella storia delle idee di teatro avesse prevalso il valore simbolico della leggenda di Antoine (definita l’«affaire Dreyfus» del teatro) a scapito delle effettive realizzazioni di un uomo che proprio sulla pratica fondava le sue idee. ANDRÉ ANTOINE Il Théâtre Libre17 Premessa Il Théâtre Libre, la cui prima serata risale al 30 marzo 1887, sta per concludere la sua terza stagione. È solo adesso che il tentativo intrapreso tocca il massimo del suo sviluppo. Pur nella forma embrionale, con i mezzi limitati di cui dispone e che allo stato attuale non è possibile allargare, il Théâtre Libre ha raggiunto, anzi superato, tutti i risultati sperati. Dopo tre anni di tentativi e di esperimenti, tutta la stampa (lo vedremo in un documento allegato) riconosce con evidenza l’utilità 16 Non del tutto ingiustificate sono le accuse di avere in parte tradito in questa fase alcuni presupposti della sua riforma. Antoine infatti, alla ricerca di un consenso più vasto, sembra indulgere a certi eccessi di messa in scena, quasi ormai un manierismo «naturalista», ricorrendo anche ai più tradizionalisti e convenzionali pittori scenografi come Jusseaume, Amable, Ménessier. Sulla ricerca artistica il grande direttore privilegia quasi un altissimo mestiere, un perfetto artigianato, un nitido virtuosismo, fedele a se stesso nel progetto di riprodurre la vita sulla scena, anche la vita del teatro, nelle sue più riuscite messinscene di classici (Le Cid a lume di candela). Rivoluzionaria resta comunque la sua proposta di uno Shakespeare rigoroso, presentato (è il caso del Re Lear) con un funzionale e nuovo dispositivo scenico in due parti, che consente rapidi ed essenziali cambiamenti di scena. Non cessa inoltre di cercare nuovi autori, presentando le prime opere di scrittori come Duhamel e Jules Romains, che poi Copeau presenterà al Vieux Colombier. In qualche modo quindi prelude anche alle esperienze teatrali degli anni Venti, iniziando una strada che i registi del Cartel continueranno a seguire. Fondamentale risulterà in questi anni l’attività di Antoine come critico teatrale. Vedi ANDRÉ PAUL ANTOINE, Le naturalisme d’Antoine: une légende, in Réalisme et poésie au théâtre, Cnrs, Paris 1960, pp. 233-240. 1717 Cfr. Le Théâtre Libre, lmp. Eugène Verneau, Paris, maggio 1890, pp. 1-1V, 80-87, 101-107 (ristampato a cura di Martine de Rougemont, Slatkine, Paris-Genève 1972). È il secondo opuscolo distribuito da Antoine, esce in cinquemila copie con copertina scarlatta. Il Théâtre Libre è al culmine della sua vicenda: Antoine sta per mettere in scena Gli spettri (il primo Ibsen presentato in Francia). Pensa sia giunto il momento di allargare la sua impresa, trasformarla in un teatro pubblico per dare un terreno più solido ai nuovi drammaturghi appena lanciati e accogliere un numero maggiore di spettatori. Inizia perciò questo opuscolo con una «Storia» del Théâtre Libre, un resoconto dei «Risultati acquisiti», quindi un capitolo sulle «Cause della crisi attuale» e sulla «Necessità di un nuovo teatro», su «La nuova sala del Théâtre Libre». Quindi presenta il «Programma artistico» (le Opere, gli Attori, la Messa in scena), la «Realizzazione finanziaria». È un progetto articolato ed esauriente con il quale cerca di interessare anche i capitalisti nel tentativo di dimostrare che l’impresa è realizzabile e vantaggiosa. In realtà già numerosi debiti gravavano su quel bilancio trionfalmente mostrato in attivo. Sugli opuscoli del Théâtre Libre vedi in particolare ANDRÉ VEINSTEIN, Du Théâtre Libre au Théâtre Louis Jouvet. Les Théâtres d’art à travers leurs périodiques, Billandot, Paris 1955. del ruolo svolto dal Théâtre Libre, l’esistenza di una nuova generazione di autori drammatici e la necessità assoluta di rinnovare le attuali formule teatrali. Allo stesso tempo, l’acuta crisi che materialmente ha colpito le scene francesi è segno dell’urgente necessità di una sperimentazione pratica dopo i tentativi puramente teorici delle serate del Théâtre Libre. È questa situazione che spinge oggi Antoine a portare avanti la sua opera e a fondare un teatro pubblico nel quale far progredire e completare le stesse esperienze, per sottoporle quindi al giudizio del grande pubblico. Come prima cosa, si tratta di un fatto importante, di utilità pubblica, e il lettore è pregato di crederlo, poiché l’arte drammatica, di cui dobbiamo favorire il pieno sviluppo, costituisce all’estero un nostro incontestato primato. Resti dunque ben inteso, e non voglio più ripetermi: Non si tratta di lanciare un affare; Il promotore, come vedremo, non cerca nell’impresa alcun profitto personale; Allargando il suo compito, egli non fa che seguire necessariamente la direzione segnata dagli avvenimenti; Nella sua nuova forma infine, il Théâtre Libre, come in passato, resterà un’impresa d’interesse generale, lontana dai bassi traffici nei quali è solita invischiarsi «l’industria culturale». Materialmente trasformato, il Théâtre Libre, così come ha fatto negli ultimi tre anni, continuerà a vivere di Arte e per l’Arte. [...] Gli Attori IV. Nella speranza che una nuova generazione di scrittori e di opere drammatiche si stia formando, possiamo affermare intanto che questa rinascita esigerà nuovi mezzi d’espressione. Opere basate sull’osservazione e sullo studio richiederanno infatti interpreti aderenti alla realtà, attori spontanei e veri. Le opere che attendiamo, concepite secondo un’estetica più elastica e più ampia, non più basate sulla caratterizzazione dei personaggi, su cinque o sei tipi già stabiliti, sempre gli stessi sotto diversi nomi, in ambienti e situazioni diversi, metteranno in scena una tale molteplicità e complessità di figure da far senza dubbio nascere anche una nuova generazione di attori abituati a tutto: attori giovani non più tutti d’un pezzo, capaci di volta in volta di apparire buoni, cattivi, stupidi, spiritosi, eleganti, comuni, forti, deboli, coraggiosi e vigliacchi, capaci finalmente di mostrarsi esseri viventi, variabili e diversi. L’arte dell’attore non si baserà più, come nei vecchi trattati, su qualità fisiche, su doni naturali; vivrà di verità, di osservazione, di studio diretto della natura. Ritroviamo qui ciò che si osserva nelle altre arti interpretative, come ad esempio nella pittura, dove il paesaggista non lavora più nel suo studio, si trasferisce in piena natura e in piena vita.18 Nelle scuole non si formeranno più gli artisti drammatici sulla base di pochi ruoli ripetuti, commentati e stabiliti per secoli da molte generazioni di attori illustri. Più cerebrale, il talento dell’attore sarà indirizzato a verità ed esattezza. Dato che lo stile drammatico delle nuove opere tende a farsi più aderente alla parlata quotidiana, l’interprete non dovrà più recitare nel senso stretto e classico del termine, si troverà piuttosto a conversare, e la cosa non sarà poi tanto difficile. [...] VI. Una stessa trasformazione dovranno subire le altre componenti dell’arte drammatica: le scene saranno ridotte alle dimensioni correnti di ambienti della vita contemporanea, i personaggi si muoveranno entro cornici verosimili, senza la preoccupazione continua di fare quadro nel senso 18 Anche Zola si serve dello stesso paragone. La pittura impressionista è un referente continuo, soprattutto a proposito della formazione dell’artista. Nei paragrafi precedenti Antoine aveva messo sotto accusa l’insegnamento del Conservatorio. Nella tradizione dei trattati sull’arte dell’attore, che Antoine mostra di conoscere, è abituale il continuo riferimento all’arte del pittore e dello scultore. abituale del termine. In un dramma intimo lo spettatore apprezzerà i movimenti semplici e giusti, i gesti normali, le azioni abituali di un uomo moderno che vive la nostra stessa vita quotidiana. I movimenti degli interpreti sulla scena saranno modificati: l’attore non abbandonerà più di continuo la sua posizione per posare davanti alla platea; agirà in mezzo a mobili e suppellettili varie, la sua interpretazione si arricchirà di quelle mille sfumature, di quei mille dettagli ormai indispensabili a fissare e logicamente comporre un personaggio.19 Semplificando l’azione teatrale e riportandola alla realtà, spariranno i movimenti meccanici, gli effetti di voce, i gesti empirici e ridondanti, l’attore ritroverà i gesti naturali sostituendo agli effetti di voce la composizione. La sua interpretazione si servirà anche di particolari familiari e reali, una matita, allora, una tazza rovesciata, produrranno sullo spettatore un significato così grande e un effetto così intenso da superare le esagerazioni magniloquenti del teatro romantico.20 VII. È forse necessario osservare, d’altra parte, che questo sconvolgimento apparente non è che un ritorno ai grandi esempi della tradizione e che i più famosi attori del teatro francese hanno ottenuto i loro risultati con i mezzi più semplici. Non abbiamo forse alle spalle l’insegnamento della Clairon, che nell’interpretazione di Racine cercava una maggiore naturalezza rispetto alle attrici che l’avevano preceduta e alle sue rivali?21 Salvini, il grande attore italiano che abbiamo ammirato a Parigi, non ci ha forse profondamente colpiti per la sobrietà dei mezzi adoperati?22 Anche Got, l’attuale decano del nostro grande teatro, non ha forse fissato nel corso di una serie di opere veramente moderne la potenza di un’arte ammirevole per la semplicità e l’originale verità delle sue interpretazioni?23 Non ha cercato e poi trovato, Mounet-Sully, nel suo Amleto, la più elevata e singolare realizzazione della sua carriera, opponendo momenti di semplicità ad altri quasi triviali? (2° e 4° quadro dell’Amleto)? I nostri attori migliori, infine, Réjane, Febvre, Dupuis, St. Germain, non cercano soprattutto di cogliere la natura e la verità? Non ha sentito lo stesso Molière diverse volte il bisogno di ribadire la necessità di recitare così come si parla? E non si beffa il suo Mascarille degli attori che non sanno o non vogliono mettere in risalto i momenti salienti?24 VIII. Malgrado l’apparente paradosso si potrebbe quasi esprimere questo giudizio: per l’attore il mestiere è nemico dell’arte. Ci riferiamo al mestiere sviluppato in modo anomalo, eccessivamente invadente, all’abilità e alla destrezza troppo costanti che soffocano la personalità e dominano la suprema qualità 19 In altri paragrafi Antoine accusa il sistema delle vedettes, del grande attore che monopolizza su di sé l’attenzione circondandosi di attori mediocri, capaci di recitare solo in modo convenzionale e sciatto. Si dichiara fautore di una compagnia d’insieme, senza primi ruoli, sul modello di quella dei Meininger. 20 È noto come l’amore di Antoine per gli oggetti veri in scena, la presenza dei quali veniva a costituire un’efficace e rivoluzionaria intrusione del reale in teatro, abbia particolarmente colpito il suo pubblico. Il massimo scandalo si produce per Les bouchers di Icres, quando Antoine sospende nella bottega del macellaio veri quarti di bue, e per Cavalleria rusticana di Verga quando in una fontana zampilla vera acqua. 21 Hippolyte Clairon (1723-1803) è la grande attrice tragica citata da Diderot nel Paradoxe sur le comédien come modello di recitazione controllata e ragionata. 22 Nel 1878 Tommaso Salvini aveva trionfato a Parigi in La morte civile di Giacometti, molto ammirato anche da Zola. 23 Edmond Got (1822-1901) da quasi mezzo secolo è attore alla Comédie Française; dotato di grande intelligenza critica, imposta il suo lavoro soprattutto sulla ricerca di una verità più umana. 24 Si riferisce alla scena IX di Les précieuses ridicules, quando ironicamente Mascarille esclama: «Bella domanda! Ai grandi attori. Solo loro sono capaci di far valere le cose, gli altri sono ignoranti che recitano così come si parla; non sanno declamare i versi e fermarsi al momento buono; e come riconoscere il bel verso se l’attore non vi si ferma e vi avverte con ciò che dovete applaudire?». dell’interprete: l’emozione, quella specie di sensibilità sdoppiata e speciale che penetra di sé l’attore veramente artista.25 In questa come in tutte le altre arti, del resto, i doni più preziosi sono la sincerità, lo slancio, la convinzione, la febbre particolare che scuote l’interprete. [...] La messa in scena Senza volere adesso sollevare una questione oziosa, l’utilità cioè e la capitale importanza della messa in scena in teatro, dobbiamo riconoscere che il pubblico, incitato in parte dalle fantasie sontuose e irragionevoli di alcuni nostri direttori di scena, sembra aver preso gusto da anni per il lato puramente decorativo dello spettacolo. Perrin, uomo di teatro fra i più avveduti e giudiziosi di quest’epoca, aveva così bene intuito questa predilezione da far ricostruire su nuovi progetti tutte le scenografie del vecchio repertorio della Comédie-Française.26 Si diceva persino che una serie di autori drammatici si fosse ridotta a scrivere dei semplici pretesti per impianti scenografici originali. Abbiamo una scuola di pittori scenografi che si vanta di essere la prima in Europa. I nostri maestri non hanno rivali nel confezionare fondali. Ci domandiamo allora per quale motivo gli allestimenti inglesi o tedeschi, per quanti di noi hanno potuto vederli, suscitano un’emozione artistica tanto profonda, superiore a quella della più perfetta e sontuosa scenografia esibita sulle scene parigine. Tutti i francesi che hanno visto il teatro di Irving a Londra sono tornati meravigliati, avendo visto cose che nemmeno immaginavano. Tutti gli artisti, tutti gli addetti ai lavori, sono unanimi su questo punto.27 Dobbiamo stupirci allora che Parigi, al primo posto nel mondo intero per la sua produzione drammatica, per gli attori migliori e la superiorità della sua arte teatrale, sia rimasta invece da un punto di vista esclusivamente materiale molto al di sotto dei grandi teatri stranieri. Ebbene! Dobbiamo avere il coraggio di dire ad alta voce, mettendo da parte l’amor proprio, che per quel che riguarda l’illusione scenica non abbiamo raggiunto ancora una compiutezza artistica. Non possediamo nemmeno un teatro sufficientemente attrezzato per montare senza intervalli un’opera in dieci quadri. Quando la Comédie-Française ha realizzato Amleto, ispirandosi evidentemente ad allestimenti stranieri, ha dovuto sacrificare metà delle scene per riuscire a mostrare, su otto o dieci quadri, solo tre o quattro piantazioni molto belle e originali. Siamo rimasti ancora ai ridicoli teloni dipinti, senza atmosfera e senza profondità, al riparo dei quali rumorosamente si preparano i quadri successivi (con il rischio di disturbare l’azione) e sui quali ci si azzarda a dipingere una scalinata a tre metri dalla ribalta, in una luce cruda che non lascia dubbi sull’inganno. Nemmeno al Châtelet, il teatro più grande e attrezzato, è possibile preparare un allestimento senza ricorrere a mezzi infantili. I nostri direttori sono costretti ancora, per guadagnare tempo, a dipingere i mobili sulle tele. [...] 25 È apparentemente il rovescio del paradosso di Diderot: «È l’assoluta mancanza di sensibilità che prepara gli attori sublimi». È chiaro poi che per mestiere Antoine intende tutti i difetti del grande attore ottocentesco, che anche in Diderot il concetto di sensibilità è ambivalente e che comunque Antoine è certo vicino all’ideale teatrale di Diderot. Sappiamo che Antoine era attore anche di grande sensibilità; lui ci descrive nei suoi Souvenirs le sensazioni suscitate in lui dall’interpretazione di Osvaldo in Gli spettri di Ibsen (21 maggio 1890): «... a sipario calato, mi sono ritrovato febbricitante, snervato, incapace di tornare in me stesso per un certo tempo» (I miei ricordi, cit., pp. 173-174). 26 Emile Perrin era stato amministratore e direttore della Comédie-Française dal 1871 (muore nel 1885). Molto attento ai problemi della messa in scena, pubblica un Étude sur la mise en scène (Académie des Beaux Arte, Paris 1876). 27 Poche pagine prima Antoine riproduce il testo della sua lettera a Sarcey sui Meininger, pubblicata in «Le Temps» il 23 luglio 1888. A Bruxelles era stato profondamente colpito dagli spettacoli di quella compagnia allora in tournée, dalla profonda unità della messa in scena, dallo stile degli attori, delle comparse, dal tipo di illuminazione e altre qualità tecniche, pur riservando delle critiche per talune ingenuità e mancanze di gusto. Molto apprezzato e conosciuto in Francia era inoltre lo stile teatrale di Henry Irving al Lyceum Theatre di Londra, per le sue straordinarie interpretazioni di Shakespeare e anche per il grande livello tecnico delle messinscene. Si potrà cercare di sviluppare questo programma. Per i drammi del moderno teatro realista dobbiamo introdurre piantazioni irregolari, diverse, conformi alle nostre case, ai nostri interni attuali. Un effetto certamente nuovo produrrebbero i rivestimenti in legno massiccio. Si potrebbero sopprimere, per quanto riguarda gli esterni, le quinte, i celetti e tutte le incorniciature fittizie che restringono il quadro. Alcuni artisti sono convinti che le scene, dipinte con procedimenti diversi da quelli attuali, acquisterebbero un rilievo del tutto nuovo, un’impressione di vita, di natura e di freschezza particolari. In realtà la strada da percorrere è lunga e si possono immaginare le possibilità facilmente ed economicamente attuabili in un teatro vasto come quello qui progettato, dotato di tutte le facilitazioni offerte dalle recenti scoperte scientifiche: la forza idraulica, l’elettricità, ecc. La scena del Théâtre Libre misurerà dodici metri di larghezza. L’apertura potrà essere ampliata o diminuita a seconda delle caratteristiche del quadro. Una considerevole profondità e un particolare macchinario permetteranno la facile realizzazione di tutte le concezioni drammatiche.28 (1890) ANDRÉ ANTOINE Lettera al Signor Le Bargy, membro della Comédie Française29 Caro Signore, nei giorni scorsi, avete voluto gentilmente sottopormi, tramite un comune amico, i vostri dubbi relativi ad una nuova commedia di François de Curel presentata alla Comédie-Française e nella quale avrete l’onore di sostenere il ruolo principale.30 La persona da voi scelta veniva esponendomi i vostri timori circa le possibili reazioni del pubblico. Giudicavate troppo poco simpatico il personaggio da interpretare e pensavate che, senza alcune modifiche, il dramma non sarebbe stato rappresentabile. [...] Mi è facile immaginare la vostra sorpresa nel leggere questa lettera. Certamente pensate che i vostri scrupoli e le inquietudini riguardo a questo ruolo, la preoccupazione per la riuscita della commedia, l’esame e le critiche ai quali l’avete sottoposta insieme ai vostri amici, siano il segno di una coscienza più profonda delle vostre responsabilità. Ritenete in buona fede di esservi mostrato, in questo modo, uomo di teatro accorto, studioso e indagatore. 28 Si tratta del progetto dell’architetto Henri Grandpierre, concepito sul modello del teatro wagneriano di Bayreuth, con la supervisione dell’ingegner Eiffel per la struttura in ferro; Antoine pensava a un teatro in cui tutti i posti avessero assicurata una perfetta visibilità, con speciali poltrone-guardaroba (per evitare le code all’uscita), dotato di tutte le comodità, come sale per fumatori, sale di lettura per i giornali della sera, bar, telegrafo, telefono e sala stampa. Anche in seguito Antoine si interesserà spesso di problemi di edilizia teatrale. Ancora nel 1923 lo troviamo progettare per la rivista «Je sais tout» (15 aprile) un teatro ideale, una vera e propria macchina per spettacoli, con una sala rotonda e un complicato sistema di ascensori e rotaie che permettevano di allestire quattro scene contemporaneamente, come un gioco di scatole. 29 Cfr. Lettre à Monsieur Le Bargy, sociétaire de la Comédie-Française, in «Le Théâtre Libre», 5, 1893, pp. 17-24. L’attore Le Bargy (1858-1936) aveva esordito alla Comédie-Française nel 1880. Uomo colto, era stato critico teatrale su un giornale di Amiens. La sua recitazione riusciva a commuovere con mezzi discreti e semplici. Sempre attento a penetrare il senso dell’opera, a cogliere le sfumature dei personaggi, era spesso ascoltato dagli stessi autori. Qui Antoine, interessato soprattutto ad affermare le funzioni della regia e a proseguire la sua battaglia contro lo strapotere dell’attore-vedette, se la prende un po’ ingenerosamente proprio con queste qualità di Le Bargy, e contraddicendo anche precedenti posizioni arriva, quasi prefigurando Craig, a ipotizzare un attore-tastiera, una marionetta, un manichino in mano all’autore, e certo, anche se esplicitamente non lo dice, al metteur en scène. 30 Le Bargy si era rivolto ad Antoine a proposito di un dramma di Curel (autore scoperto e lanciato da Antoine), L’invitée, che doveva essere presentato alla Comédie-Française. Disgraziatamente state confondendo senza dubbio due arti ben distinte. Vorrei tentare di convincervi, e queste riflessioni non mirano ad altro, che gli attori non capiscono mai niente delle opere che devono recitare. Il loro mestiere consiste solo nel recitarle, nell’interpretare al meglio personaggi la cui essenza sfugge loro. Sono manichini in realtà, marionette più o meno perfezionate, che il talento guida, e che l’autore riveste ed agita secondo la sua fantasia. Dopo lunghi anni, certo, riescono ad acquisire un’esperienza del tutto materiale; possono spiegare all’autore perché un personaggio deve entrare o uscire da destra piuttosto che da sinistra, ma in ogni caso non possono e non devono mai tentare di modificare un carattere o la conclusione di un dramma, se non vogliono rinunciare alla loro peculiare funzione. Talmente insormontabile è il divario fra il poeta e il suo interprete, che il secondo non riesce mai a soddisfare il primo. L’attore si trova sempre a deformare la visione dell’autore e questi finisce per accettare una soluzione approssimativa, il più delle volte rassegnandosi di fronte all’impossibile. Considerate allora che, per quanto perfetto possiate riuscire nel ruolo che tanto vi preoccupa, rappresenterete solo una delle possibili configurazioni del caso, una configurazione che avrebbe anche potuto essere completamente diversa e altrettanto soddisfacente se la commedia fosse stata rappresentata su di un’altra scena. E in qualsiasi caso la commedia resterebbe ugualmente e integralmente la stessa. Ideale assoluto dell’attore sarà fare di sé una tastiera, uno strumento meravigliosamente accordato nelle mani dello scrittore. Un’educazione tecnica molto pratica per sciogliere il corpo, l’espressione, la voce, e un’adeguata educazione intellettuale saranno sufficienti per renderlo in grado di capire ciò che l’autore vuoi fargli esprimere. Quando gli si chiede di mostrarsi triste o allegro, se è bravo attore nel senso esatto del termine, dovrà magistralmente esprimere la tristezza o l’allegria, senza chiedersi per quali motivi gli vengono richieste. Questo è infatti compito dell’autore, il quale sa quello che fa ed è l’unico responsabile di fronte al pubblico. Sarete d’accordo con me nell’ammettere che, anche così ridimensionata, l’arte dell’attore resta ancora singolarmente difficile e onorevole. [...] (1893) ANDRÉ ANTOINE Della messa in scena31 I compiti del «metteur en scène» naturalista Quando mi son trovato per la prima volta a mettere in scena un’opera teatrale, mi sono reso conto bene che il lavoro si divide in due parti distinte: la prima di tipo materiale, e cioè l’allestimento dello scenario destinato a creare l’ambientazione, la disposizione e il modo di raggruppare i personaggi; del tutto spirituale la seconda, cioè l’interpretazione e lo sviluppo del dialogo. Mi è sembrato quindi utile, anzi indispensabile, prima di tutto allestire con cura la scena, l’ambiente, senza preoccuparmi degli avvenimenti che vi si dovranno svolgere. Poiché è l’ambiente che determina i movimenti dei personaggi e non i movimenti dei personaggi che determinano l’ambiente. 31 Cfr. Causerie sur le mise en scène, in «Revue de Paris», 1° aprile 1903. Antoine dirige in questo periodo il Théâtre Antoine ai Menus Plaisirs (nel 1906 sarà direttore dell’Odéon). Nel 1902 ha messo in scena La buona speranza di Heijermans con la scenografia di Cornil che ricostruisce nei minimi dettagli l’interno di una casa di marinai olandesi. In queste pagine espone, nel modo più maturo e compiuto, le sue teorie sulla scenografia, sulla quarta parete (già teorizzata da Jean Jullien, (infra) e sull’attore, a proposito del quale sottolinea in particolare l’importanza dell’immedesimazione e dell’insieme. Se qui non parla più di uno strumento meccanico, di una marionetta, propone l’immagine comunque «docile» di un attore che vive la sua parte, attento a non trasparire mai dietro il personaggio e a subordinare l’azione al ritmo generale dell’opera. Questa semplice frase non sembra dire nulla di originale, eppure è questo il segreto dietro quell’impressione di novità che in genere hanno offerto gli spettacoli del Théâtre Libre. Dato che vige spesso la pessima abitudine di stabilire fin dall’inizio la posizione degli attori, nel teatro vuoto, sulla scena nuda, prima dell’allestimento scenico, si è sempre ricondotti alle quattro o cinque «piantazioni» classiche, più o meno cariche a seconda del gusto dei direttori o del talento degli scenografi, ma in definitiva sempre le stesse. Perché una scena risulti originale, caratteristica, ingegnosa, andrebbe inizialmente stabilita a partire da una cosa vista, un paesaggio o un interno; andrebbe stabilita, se si tratta di un interno, con i suoi quattro lati, le quattro mura, senza preoccuparsi di quale dovrà sparire in seguito per lasciar penetrare lo sguardo dello spettatore. Bisognerebbe disporre poi le uscite naturali tenendo conto della verosimiglianza architettonica, stabilire esattamente, addirittura tracciare fuori della scena le stanze e i corridoi su cui aprono; ammobiliare sulla pianta questi appartamenti destinati a essere solamente intravisti da una porta socchiusa. Progettare, in una parola, l’intera casa intorno al luogo dell’azione. Una volta compiuto tale lavoro preliminare ed esaminato in ogni suo lato questo paesaggio o questo appartamento, non vi rendete conto di come sarà facile e interessante scegliere il punto esatto dove operare la sezione, togliendo quella famosa quarta parete e conservando alla scena il suo aspetto più caratteristico, adeguato all’azione?32 [...] Ora comincia la seconda parte del lavoro. Possiamo far entrare i personaggi, la loro abitazione è pronta, piena di vita e di luce. Ma adesso ritroviamo, sotto forma di tradizione, le abitudini, le resistenze, tutta l’eredità nefasta del passato. Ci presentano delle statue, quando avremmo bisogno di creature umane, in grado di agire. Vogliamo che i personaggi vivano la loro esistenza quotidiana, e abbiamo a che fare con uomini e donne cui è stato insegnato che in teatro non bisogna mai, come nella vita, parlare e insieme camminare, che continuano, come duecentocinquanta anni fa, a rivolgersi al pubblico, a uscire dal personaggio per commentare o sottolineare le parole che l’autore ha scritto per loro. Hanno insegnato a questi attori (sempre lo stile enfatico!) che bisogna accentuare correttamente, gridare secondo le regole, curare tutte le legature, per non correre il rischio di sembrare troppo ordinari o familiari, Hanno imparato a cercare effetti di dettaglio, privi di interesse e senza significato nell’insieme, a sollecitare a tutti i costi l’approvazione del pubblico con ogni trucco del mestiere. Per interpretare l’individuo che devono rappresentare, hanno a loro disposizione solo due strumenti, il viso e la voce: il resto del corpo non partecipa all’azione. Portano i guanti, sono sempre in tenuta di gala e poiché non dispongono più dei costumi maestosi o eleganti di una volta, esibiscono un fiore all’occhiello e tanti anelli. Rigorosamente educati ai movimenti primitivi e rudimentali del nostro teatro classico e per sempre deformati dalle scene di «furore» o di «sogno», ignorano le complicazioni, la varietà, le sfumature, la vita del dialogo moderno, i suoi giri di frase, le intonazioni dirette, i sottintesi, i silenzi eloquenti. Ecco cosa ci offrono quasi tutti i nostri principianti, quelli che hanno completato i loro studi e che ogni anno partono a dozzine e si riversano in provincia con questo bagaglio antiquato che come un peso si portano dietro per tutta la carriera. Il meglio delle nostre compagnie teatrali (esclusi beninteso gli artisti della Comédie-Française unicamente formati, e a ragione, per interpretare i classici) è fatto di attori venuti dalla gavetta, che si sono fatti da soli, a contatto con il pubblico e attraverso le dure fatiche di prove minuziose. Possono anche balbettare come Dupuis, Réjane e Huguenet, ma non «recitano», vivono il loro ruolo, sono i meravigliosi interpreti della letteratura contemporanea. Loro sanno che: 32 Per Les fossiles di Corel nel 1892: «Sebbene i tre atti del lavoro si svolgano nello stesso salotto, è stato necessario, secondo un’indicazione nuova e originale dell’autore, costruire tre scene, affinché l’appartamento, come se girasse intorno a se medesimo, potesse offrire, a ogni atto, un aspetto diverso» (I miei ricordi, cit., p. 265). Il movimento è il mezzo d’espressione più intenso a disposizione dell’attore; tutta la loro persona fisica fa parte del personaggio interpretato e in certi momenti dell’azione le mani, la schiena, i piedi, possono essere più eloquenti di una tirata. Ogni volta che l’attore si scopre dietro il personaggio l’incanto drammatico è interrotto; sottolineando una parola se ne può distruggere l’effetto. Sanno anche che ogni scena in un’opera teatrale possiede un suo ritmo, subordinato al ritmo generale dell’opera e che niente deve ostacolare l’andamento dell’insieme, come il ricorrere al suggeritore o la ricerca di effetti personali. Vivono insomma sotto i nostri occhi il loro personaggio, docilmente ne presentano tutti gli aspetti materiali e morali. Non si preoccupano più dello stile nobile, eterno flagello di tutte le arti, sempre in lotta con la verità e la vita; sono gli indispensabili interpreti del teatro di costume, delle commedie di carattere, dei drammi sociali della nostra epoca. (1903) JEAN JULLIEN (1854-1919) Con Le théâtre vivant di Jean Jullien è la voce di un autore drammatico che si fa sentire, di un rappresentante di quella giovane scuola naturalista affermatasi sul palcoscenico del Théâtre Libre di Antoine e che, dopo i primi successi, tende progressivamente a prendere le distanze da quell’esperienza, a riconsiderarla, ad assumere una posizione autonoma, spesso critica nei confronti del grande metteur en scène. Al Théâtre Libre erano state presentate tre comédies rosses di Jullien, La sérénade (23 dicembre 1887), L’échéance (31 gennaio 1889), Le maître (21 marzo 1890); un altro suo dramma, La mer, in seguito a un certo raffreddarsi dei rapporti con Antoine, era stato messo in scena all’Odéon (30 settembre 1891). Nel 1892 quindi Jullien, che era anche critico teatrale e nel 1889 aveva fondato l’importante rivista «Art et Critique», pubblica tutto il suo teatro, con una lunga prefazione in cui presenta la teoria del Théâtre vivant. Le idee sono in gran parte vicine a quelle di Zola e dei primi manifesti di Antoine; come Zola è essenzialmente uomo di lettere, ma è anche un addetto ai lavori del teatro, conosce molto da vicino le vicende del piccolo teatro sperimentale di Antoine. Ha modo quindi di approfondire, verificare, ripensare i concetti chiave del naturalismo, evidenziare taluni limiti, mitigare alcuni aspetti, alla luce anche delle nuove esperienze culturali e teatrali che vanno affermandosi e che segue da presso (è molto amico di Lugné-Poe, conosce il Théâtre d’Art di Paul Fort e il piccolo gruppo sperimentale degli Escholiers, pubblica su «Art et Critique» testi di Verlaine, di Mallarmé e il manifesto sui pittori neotradizionisti di Maurice Denis), così trovandosi ad operare un anello di congiunzione fra naturalismo e simbolismo. Secondo Jullien il naturalismo in teatro è andato incontro a un fallimento per non essere riuscito a liberarsi di quelle stesse convenzioni che andava combattendo, per non aver saputo in particolare trovare la forma drammatica e il tipo di recitazione adatto a rappresentare la tranche de vie, quello spaccato di vita che l’attore deve «vivere» sulla scena, recitando come se il pubblico non esistesse, dietro lo schermo opaco trasparente della quarta parete, nella sala immersa nel buio. Sono stati cattivi tecnici i naturalisti, si sono comportati come ingegneri sprovveduti che intendessero fornire la corrente elettrica a un edificio servendosi dei vecchi tubi del gas! Niente intrigo quindi, niente caratteri convenzionali, niente trucchi del mestiere, ma personaggi psicologicamente veri, dialoghi naturali e soprattutto azione. Il teatro vivente costituisce un organismo e l’azione è il suo respiro, il suo battito cardiaco. In questo principio sta forse l’intuizione più feconda di Jullien. In quanto organismo vivente il teatro non può essere riproduzione fotografica della natura, ma «sintesi della vita attraverso l’arte», e l’azione, la pantomima, può a volte risultare più efficace della parola nel rendere i movimenti dell’anima. Per realizzare quest’arte del teatro sono necessari attori «viventi»33 in diretto rapporto con l’autore drammatico, il quale dovrà occuparsi di persona della messa in scena eliminando quello che a giudizio di Jullien è sempre la nefasta intrusione del terzo incomodo, il metteur en scène. Qui sembra prendersela soprattutto con i direttori tradizionali di teatro, della Comédie-Française in particolare, ma dietro tanta insofferenza («quei metteurs en scène della malora») traspare evidente l’ombra di Antoine, il primo grande «regista» despota della moderna storia del teatro. JEAN JULLIEN Il teatro vivente34 In cosa consiste il teatro vivente Attualmente, tre sono i generi in cui si dividono le opere destinate alla scena: 1 - La farsa e il vaudeville; sono la forma più elementare di teatro, invenzioni rozze e lascive destinate a suscitare il riso. 2 - La commedia e il dramma; costituiscono il genere serio, sono emanazioni di una filosofia della vita, lo studio dell’essere umano in rapporto ai suoi simili. 3 - La tragedia e la féerie; sono l’espressione artistica più elevata, stanno alla commedia come alla prosa sta la poesia. Eppure la tragedia non è più di moda. La féerie, nata con i poeti, è ora in mano agli acrobati e agli adattatori di Jules Verne.35 Il pubblico è stanco anche di vedere sempre la stessa commedia e lo stesso dramma, ogni volta lo stesso marito tradito, il figlio naturale, l’ingenua che alla fine sposa l’innamorato del cuore, il traditore, sempre inevitabilmente uguali. Il vaudeville poi regna senza rivali, genere all’altezza delle intelligenze più mediocri, si rivolge all’animale rozzo che è nell’uomo piuttosto che allo spirito, a scapito del cervello, viene ad alleggerire l’intestino nelle digestioni difficili. Per risollevare il teatro di genere serio36 sono stati fatti alcuni tentativi; certi autori, seguendo la letteratura nella sua evoluzione, hanno voluto creare un teatro naturalista, ma i loro esperimenti non hanno ottenuto e non potevano ottenere alcun risultato. Il dramma naturalista, infatti, si è servito ancora dei modi, degli accorgimenti e dei «trucchi del teatro convenzionale, non solo nell’allestimento scenico e nei dialoghi, anche nella recitazione e nella messa in scena: come se i nostri ingegneri volessero usufruire dei vecchi tubi del gas per far passare l’elettricità! Introdurre modi brutali nell’azione e parolacce in bocca ai personaggi, servirsi di accessori veri, non costituisce di per sé una riforma. Non vale certo la pena cambiare se poi il dramma, interpretato da attori tradizionali, dopo un’inutile premessa procede verso un incidente qualsiasi per poi raggiungere uno scioglimento felice o tragico, servendosi di tutte le trovate, i sotterfugi, i qui pro quo e le inverosimiglianze del vecchio teatro. Un genere nuovo richiede nel dramma un nuovo taglio compositivo, una nuova messa in scena, nuovi attori e anche giudizi critici basati su di un’ottica nuova. Aggiungo che, come in arte non esiste solo la natura, così in teatro non deve esserci solo la vita. 33 Quindi aggiunge: «Al tipo teatrale noi sogliamo opporre il tipo umano, vogliamo che una compagnia di teatro non sia più intesa come una tastiera in cui ogni nota ripete invariabilmente lo stesso suono, vogliamo che un attore non si accontenti di gesticolare e di articolare suoni, che sia un essere vivente e non una marionetta parlante». Sembrano le stesse parole che un anno dopo, con segno rovesciato, adopererà Antoine rivolgendosi all’attore Le Bargy (supra) invitandolo invece a fare di sé proprio una tastiera. Ma sappiamo che oltre gli intenti polemici, più volte Antoine si riferisce alla recitazione come arte di vivere il personaggio. 34 Cfr. Le théâtre vivant I. Essai théorique et pratique, Charpentier, Paris 1892, pp. 8-21. Nel vol. II sono raccolte le critiche teatrali. 35 Ricordiamo l’amore di Zola per la féerie. A partire dagli anni Settanta, lo spettacolo di avventure e di fate era andato alla ricerca di un altro genere di meraviglioso, più legato all’esotico e al mondo della scienza. Del 1875 è un Voyage dans la lune e del 1882 un Voyage à travers l’impossible da Jules Verne, seguito da Le tour du monde. Vedi PAUL GINISTY, La féerie, cit., pp. 212-215. 36 Era stato Diderot a definire per il teatro il «genere serio», tipo intermedio di dramma a metà strada fra tragedia e commedia. Il teatro serio è immagine vivente della vita Fine principale del nuovo teatro è interessare lo spettatore e soprattutto commuoverlo, per questo deve seguire la vita il più vicino possibile. I personaggi sono esseri umani e non creature di fantasia, gli interpreti sono persone che parlano semplicemente come nella vita reale (alzando tuttavia un po’ il tono) e non attori portati ad esagerare gli spunti grotteschi, declamatori che pronunciano conferenze o illustrano una tesi mostrando ambiziose velleità di dizione. Per raggiungere il suo scopo questo teatro dovrà eliminare qualsiasi sfumatura ricordi il mestiere o la bottega, qualsiasi elemento riveli il lavoro dell’autore o la presenza dell’attore; anche a scapito dello stile del primo e degli effetti del secondo, tutto deve fondersi nel personaggio; un attore infatti può interessare, un uomo invece impressiona. Bisogna che il pubblico possa perdere per un momento la coscienza di essere a teatro, per questo credo necessario, all’alzarsi del sipario, creare il buio in sala; la scena risalterà allora con maggior vigore, lo spettatore resterà attento, non oserà più chiacchierare, potrà quasi sembrare intelligente. È questa l’unica maniera per mettere in scena un teatro serio.37 A parte le indispensabili concessioni di tempo, luogo e distanza, poiché non è possibile contenere entro tre mura l’infinito, non esistono convenzioni delle quali non ci si possa liberare. Citerò alcuni esempi tra mille. Dall’epoca dei palchi e dei candelabri abbiamo conservato il pregiudizio della ribalta, per il quale gli artisti devono essere illuminati dal basso, mentre nella vita la luce viene sempre dall’alto: perché non eliminare le luci di ribalta e aumentare invece i proiettori e l’illuminazione della scena? Mi sembra giusto anche, come fanno gli inglesi, vietare l’uso di accessori dipinti, ridicola e grottesca cornice per un dramma vero; un fondale neutro è preferibile a quelle imbrattature infantili che non illudono più nessuno. E irrazionale, infine, far convergere tutta la messa in scena e la recitazione degli attori verso la buca del suggeritore. Anche se l’attore deve stare sempre attento a seguire le impressioni della sala, non lo deve dare a vedere, deve recitare come se fosse a casa sua, senza preoccuparsi dell’emozione che suscita, degli applausi e dei dissensi; al posto del sipario deve trovarsi una quarta parete, trasparente per il pubblico, opaca per l’attore.38 Un’opera drammatica è uno spaccato di vita messo in scena con arte Ci si affanna a ripetere che il teatro è l’arte del preparare e che per prima cosa il pubblico deve essere messo al corrente in modo confidenziale: giudico falso il principio e cattivo il procedimento. Il teatro è azione; lo spettatore è molto più colpito da ciò che vede che da ciò che sente, il dialogo di azione lo avvince, il racconto in genere lo annoia, e ha ragione, il racconto si adatta piuttosto al libro. È l’azione che dall’inizio alla fine deve far vibrare l’opera drammatica, come suo respiro, battito delle vene, sua vita. Ben inteso, non è sempre necessaria un’azione serrata, intensa, violenta (non si ha continuamente il respiro ansimante né il polso batte sempre con velocità); ci sia un minimo di azione, ma ci sia sempre, ad ogni replica, e di atto in atto aumenti di intensità.39 Quanto a informare il pubblico in anticipo, è cosa che non va mai fatta; lo spettatore 37 Sarà il Théâtre de l’Oeuvre di Lugné-Poe a realizzare il buio in sala durante gli spettacoli, come anche ad adottare il «fondale neutro». Nel capitolo dedicato a «Les effets de Théâtre», Jullien descrive una serie di esperimenti da lui condotti sul pubblico, dall’interno della cabina del «gasista» misurando, cronometro alla mano, le risposte del pubblico e le sue reazioni. 38 È la prima definizione rigorosa del concetto di quarta parete. Antoine la riprenderà in Causerie sur la mise en scène (supra). 39 Mentre Zola aveva posto l’accento sull’importanza dell’ambiente, Jullien invece insiste sull’azione. Più avanti si riferisce più esplicitamente all’importanza della pantomima quale fondamento del dramma. Due anni prima su «Art et Critique» aveva scritto La comédie-mime, parlando di un tipo di dramma composto di scene mimate che si alternano a scene dialogate, vicino all’ipotesi di teatro-circo formulata da G. Kahn [...]. Alcune lettere di Lugné-Poe a Jullien, vuole essere sorpreso, perché la vita sempre è sorpresa: non sembra a volte eludere tutte le nostre previsioni? L’interesse di un’opera drammatica, io credo, risiede soprattutto in questa incognita. Come diavolo volete fissare l’attenzione dello spettatore se fin dal primo atto può prevedere ciò che accadrà nei successivi? [...] Solo uno spaccato di vita ci è dato mettere in scena; l’azione stessa farà da esposizione e la conclusione significherà solo un arresto facoltativo dell’azione, oltre l’opera lasciando campo libero alle riflessioni dello spettatore; poiché nostro fine non è suscitare il riso, ma soprattutto provocare il pensiero.40 [...] Sono quei direttori di scena della malora, capaci solo di insegnare in modo falso l’arte della recitazione, di forzare la voce e i gesti, di avvicinarsi alla buca del suggeritore per pronunciare frasi stupide che giudicano d’effetto, sono loro che ordinano alle comparse quei ridicoli movimenti di insieme, loro che fanno recitare le opere a controsenso, contro ogni buon senso, loro che hanno inventato questa famosa frottola dell’ottica teatrale di cui sostengono di possedere, soli, la teoria e la pratica; quell’ottica teatrale che tanti servizi rende ai critici sprovvisti di argomenti! Per un autore che voglia produrre un teatro vivente, quindi, è indispensabile sbarazzarsi di questo signore, far muovere i suoi personaggi così come parlano, occuparsi personalmente di tutto ciò che la messa in scena comporta: dei costumi, che non siano lo sfoggio di un sarto alla moda, degli accessori, dello scenario, senza fidarsi del direttore che a tutto risponde sempre «Non si preoccupi, funzionerà», e che alle ultime prove tira fuori dal suo magazzino il giardino a padiglioni o l’inevitabile salotto rosso, con le porte mal dislocate, per cui si è obbligati non dico a cambiare completamente, ma almeno a modificare la messa in scena, secondo le sacrosante leggi della tradizione e dell’ottica. [...] (1892) inoltre, accennano ad un progetto mai realizzato di Pantomimes modernes, vedi JACQUES ROBICHEZ, Le symbolisme au théâtre: Lugné-Poe et les débuts de l’Oeuvre, L’Arche, Paris 1957, pp. 66-79. 40 È questa una delle principali caratteristiche della drammaturgia naturalista: l’apertura e la chiusura del sipario non fanno che mettere in mostra un qualcosa che si presuppone in atto prima dell’inizio e che prosegue dopo la conclusione, la quale quindi non è che un arresto provvisorio dell’azione. Vedi YVES CHEVREL, Le naturalisme, cit., pp 134-142.