3 bis. Quali casi possono essere considerati come giustificato moti

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La cessazione del rapporto di lavoro
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fatti e comportamenti estranei alla sfera del contratto e diversi dall’inadempimento, purchè idonei a produrre effetti riflessi nell’ambiente di lavoro ed a far venir meno la fiducia che impronta di sé il rapporto: si pensi
ad un impiegato di banca di cui si accerti in giudizio l’affiliazione alla criminalità organizzata.
Ricorre, invece, il giustificato motivo soggettivo, secondo l’art. 3 L.
604/1966, qualora vi sia un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro.
Poiché la norma parla esplicitamente di inadempimento, i fatti che possono integrare il giustificato motivo soggettivo possono essere costituiti esclusivamente da comportamenti attinenti al rapporto contrattuale, non
quindi fatti anche esterni al rapporto di lavoro, come invece nell’ipotesi di
giusta causa.
L’inadempimento costituente giustificato motivo è caratterizzato da una minore gravità quantitativa rispetto all’inadempimento integrante la giusta
causa di recesso, ma deve essere pur sempre notevole, altrimenti l’inadempimento degli obblighi contrattuali potrà essere sanzionato esclusivamente con misure disciplinari meno gravi.
Inoltre, l’inadempimento deve essere dovuto a colpa del prestatore, in quanto altrimenti si
tratterebbe di impossibilità sopravvenuta della prestazione per fatto attinente al lavoratore.
Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ai sensi dell’art. 3 della
L. 604/1966, è legato a fatti inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
Quando il motivo del licenziamento è oggettivo (sia che riguardi l’azienda
sia il lavoratore) è ormai riconosciuta, per la legittimità del licenziamento,
la necessità per il datore di lavoro di verificare preventivamente la possibilità di un’altra proficua utilizzazione del lavoratore, anche in mansioni diverse (cd. obbligo di repechage): in pratica, il licenziamento deve risultare come extrema ratio rispetto alle circostanze verificatesi.
3 bis. Quali casi possono essere considerati come giustificato motivo oggettivo?
Possono essere ricondotti alla nozione di giustificato motivo oggettivo:
—tutte quelle situazioni aziendali che possono condurre alla soppressione di un posto di lavoro, dall’ipotesi di fattori eccezionali o determinati da cause contingenti e imprevedibili (una crisi di mercato o l’ob-
234
Parte Quindicesima
solescenza di una merce) alle scelte imprenditoriali concernenti le strategie produttive o organizzative (ad es. l’automazione di un processo
produttivo o il mutamento del modulo organizzativo);
—fatti attinenti alla sfera del lavoratore, ma a lui non imputabili a titolo di colpa, che hanno una ricaduta sull’organizzazione aziendale e
che legittimano l’interruzione del rapporto: si pensi alla perdita di titoli professionali necessari per lo svolgimento di un’attività oppure alla
sopravvenuta inidoneità fisica permanente alla mansione a seguito della quale il datore eserciterà il recesso.
3 ter.Se il contratto collettivo definisce il fatto addebitato al lavoratore giusta causa di licenziamento, il giudice è vincolato a tale
inquadramento?
Sì. A seguito della L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato lavoro, la giusta causa ed il giustificato motivo rientrano nell’ambito delle cd. clausole generali, rispetto alle quali il giudice deve limitarsi ad accertare il presupposto di legittimità, senza poter sindacare il merito delle valutazioni tecniche,
organizzative e produttive che spettano al datore di lavoro.
In particolare, nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento,
il giudice deve tener conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro (stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi) o nei contratti individuali di lavoro purché certificati secondo la procedura prevista dal D.Lgs. 276/2003
(art. 30, co. 3, L. 183/2010).
3 quater.Quali sono le principali differenze tra giusta causa e giustificato motivo soggettivo?
La differenza più importante tra i due concetti sussiste sotto il profilo quantitativo, poiché la giusta causa consiste in fatti di maggiore gravità rispetto a quelli che identificano il giustificato motivo soggettivo.
Altro elemento di distinzione è dato dalle conseguenze della diversa imputazione: nell’ipotesi di giusta causa, il recesso sarà immediato ed il lavoratore non avrà diritto al preavviso lavorato; in caso di giustificato motivo soggettivo, il prestatore lavorerà normalmente durante il periodo di preavviso e avrà diritto alla relativa retribuzione.
La cessazione del rapporto di lavoro
235
Infine, è opportuno ricordare che la giusta causa, a differenza del giustificato motivo soggettivo, non viene integrata esclusivamente da notevoli inadempienze degli obblighi contrattuali, ma è ravvisabile anche in
fatti e comportamenti estranei alla sfera del contratto e diversi dall’inadempimento, idonei a far venire meno il rapporto fiduciario con il datore
di lavoro.
3 quinquies.Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo che
investe una pluralità di lavoratori in cosa si differenzia
dal licenziamento collettivo per riduzione di personale
di cui alla L. 223/1991?
Si tratta di fattispecie differenti, a fondamento delle quali, tuttavia, vi sono
le stesse ragioni aziendali (riduzione della produzione, riorganizzazione
e ristrutturazione aziendale etc.).
Se ricorrono determinati presupposti (5 licenziamenti in 120 giorni) si applica la disciplina sui licenziamenti collettivi per riduzione di personale di
cui alla L. 223/1991.
In caso contrario, il recesso intimato per fatti organizzativi dell’impresa,
anche quando coinvolge più lavoratori, è considerato licenziamento individuale e non collettivo: si parla in tale ipotesi propriamente di licenziamento individuale plurimo per giustificato motivo oggettivo.
In effetti, non esiste una differenza intrinseca tra le due fattispecie (licenziamento collettivo e licenziamento plurimo), se non per il fatto che, quando il licenziamento coinvolge un certo numero di lavoratori (5 lavoratori
in 120 giorni), si determina un ragionevole clima di allarme sociale tale da
richiedere il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali e la ricerca di
soluzioni alternative con le procedure della L. 223/1991.
4. In quali ipotesi sussiste un vero e proprio divieto di licenziamento?
Riferimenti normativi: artt. 2110-2111 c.c.; art. 51 Cost.; L. 370/1955; L.
300/1970; art. 54 D.Lgs. 151/2001; art. 35, D.Lgs. 198/2006.
Disciplina: il licenziamento è vietato:
— in caso di matrimonio del lavoratore;
— in caso di stato di gravidanza e di puerperio;
236
Parte Quindicesima
— per infortunio o malattia professionale;
— per malattia generica;
— in caso di richiamo alle armi;
— per i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali, per i candidati ed i
membri di commissione interna;
— per i lavoratori eletti a svolgere pubbliche funzioni;
— per i lavoratori che partecipano a scioperi.
Domande consequenziali: periodo di comporto; ammissibilità del licenziamento
per giusta causa nel periodo di comporto.
Articolazione della risposta
Il recesso del datore di lavoro è vietato nei seguenti casi:
—matrimonio del lavoratore: il licenziamento non può essere intimato
nel periodo compreso dal giorno della richiesta delle pubblicazioni fino
ad un anno dopo la celebrazione del matrimonio;
—stato di gravidanza e di puerperio: il divieto opera dall’inizio dello
stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino;
—fruizione dei congedi previsti dalla legge: è nullo il licenziamento del
lavoratore causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia da parte della lavoratrice e del lavoratore; è altresì
vietato il licenziamento intimato al lavoratore che abbia fruito del congedo di paternità;
—infortunio o malattia professionale: il divieto dura per tutto il periodo previsto dalla legge o dai contratti collettivi (art. 2110 c.c.);
—malattia generica: il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto
per un periodo, di regola stabilito dai contratti collettivi, che varia in dipendenza dell’anzianità di servizio e della categoria di appartenenza;
—richiamo alle armi: il lavoratore richiamato alle armi ha diritto alla conservazione del posto per il periodo del richiamo e non può essere licenziato prima che siano trascorsi tre mesi dalla ripresa dell’occupazione;
—per i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali, per i candidati ed i membri di commissione interna, per i quali il divieto di licenziamento sussiste per un anno dalla cessazione dell’incarico (tre mesi
dalle elezioni, per i candidati non eletti) (artt. 18 e 22 St. lav.);
—i lavoratori eletti a svolgere pubbliche funzioni (art. 51 Cost.);
—i lavoratori che partecipano a scioperi, i quali non possono essere licenziati per espressa previsione dell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori.
La cessazione del rapporto di lavoro
237
4 bis. Cos’è il periodo di comporto?
L’arco di tempo durante il quale opera il divieto di licenziamento per
una delle ragioni previste dalla legge è chiamato periodo di comporto e la
sua durata è generalmente definita dalla contrattazione collettiva.
Il licenziamento intimato durante il periodo di comporto è considerato illecito ed è inefficace. Se, a seguito di impugnazione da parte del lavoratore,
viene accertata l’invalidità del recesso, allora il rapporto di lavoro si considera come mai interrotto e il lavoratore deve essere reintegrato nell’originario posto di lavoro, oltre ad avere diritto ad un risarcimento del danno.
4 ter.Durante il periodo di comporto è ammesso il licenziamento
per giusta causa?
Sì: il divieto di licenziamento nel periodo di comporto non si applica nel
caso sussista una giusta causa: in tale ipotesi, infatti, il rapporto di lavoro
non può proseguire neanche provvisoriamente (art. 2119 c.c.), sicché il recesso non è inibito dalla sospensione del rapporto di lavoro per il periodo
di comporto.
Ad esempio, può costituire giusta causa di licenziamento la situazione del
lavoratore ammalato che durante il periodo di comporto svolge attività lavorativa autonomamente o presso terzi, se, in tal modo, pregiudica o ritarda la guarigione e la conseguente ripresa dell’attività lavorativa presso il
datore (Cass. sent. 10706/2008).
5. Quali sono i requisiti procedurali per l’intimazione del licenziamento?
Riferimento normativo: art. 2 L. 604/1966.
Disciplina: evidenziare la sussistenza di requisiti sostanziali (giusta causa e
giustificato motivo) e requisiti procedurali, quali:
— immediatezza dell’intimazione del licenziamento;
— forma scritta del licenziamento;
— comunicazione scritta dei motivi del licenziamento contestuale o entro 7 giorni dalla richiesta del lavoratore.
Domande consequenziali: momento di produzione degli effetti del licenziamento; conseguenze dell’illegittimità del licenziamento per violazione dei requisiti
procedurali.
238
Parte Quindicesima
Articolazione della risposta
Il rispetto dei requisiti sostanziali — cioè l’esistenza di una giusta causa
o di un giustificato motivo, oggettivo o soggettivo che sia — è condizione
necessaria, ma non sufficiente perché il licenziamento possa dirsi legittimo.
Occorre, infatti, che il licenziamento venga esternato con modalità ben precise, a garanzia del lavoratore.
La procedura per l’intimazione del licenziamento, disciplinata dall’art. 2
L. 604/1966, come modificato dalla L. 108/1990, si articola nelle seguenti fasi:
—il licenziamento deve essere intimato dal datore di lavoro in forma scritta (la forma orale è ammessa solo per i licenziamenti dei lavoratori domestici e dei lavoratori in prova);
—la motivazione del recesso non deve necessariamente essere enunciata
nell’atto di intimazione del licenziamento ma il prestatore di lavoro può
chiederla, entro 15 giorni dalla comunicazione del licenziamento;
—il datore di lavoro, nei 7 giorni dalla richiesta del lavoratore, deve comunicare per iscritto i motivi che, una volta enunciati in modo preciso ed analitico, sono immutabili;
—l’intimazione del licenziamento deve avvenire con immediatezza rispetto al verificarsi della causa che lo giustifica.
5 bis.Il licenziamento determina l’interruzione immediata del rapporto di lavoro?
No. Fatta eccezione per l’ipotesi di giusta causa, il licenziamento non determina immediatamente l’interruzione del rapporto, in quanto nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato la parte recedente deve dare all’altra
preavviso del recesso stesso (art. 2118 c.c.).
Pertanto, dopo la comunicazione del licenziamento, per tutto il periodo di
preavviso deve essere normalmente resa la prestazione da parte del lavoratore che continuerà a percepire la retribuzione.
Se il datore di lavoro vi rinuncia, deve pagare al lavoratore l’indennità di
mancato preavviso, d’importo pari alle retribuzioni di cui il lavoratore
avrebbe altrimenti beneficiato.
Se, invece, è il lavoratore a non voler proseguire l’attività con il datore recedente, l’inosservanza del preavviso lavorato impone al lavoratore l’onere di pagare l’indennità di mancato preavviso lavorato al datore.
La cessazione del rapporto di lavoro
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5 ter. Quali sono le conseguenze a seguito della pronuncia di inefficacia di un licenziamento intimato senza forma scritta?
Le conseguenze della dichiarazione di inefficacia sono diverse a seconda che
il licenziamento intimato senza forma scritta avvenga nell’area della stabilità
reale (imprese con più di 15 dipendenti) o al di fuori di essa, ed in particolare:
—nell’area della stabilità reale (oltre 15 dipendenti), troverà applicazione l’art. 18 St. lav. e, conseguentemente, il lavoratore avrà diritto alla
reintegrazione nel posto di lavoro (o, in alternativa, all’indennità sostitutiva) e al risarcimento del danno di almeno 5 mensilità;
—al di fuori dell’area della stabilità reale (fino a 15 dipendenti), sempre
che non si tratti di licenziamento di natura disciplinare — nel cui caso
è prevista la tutela obbligatoria (riassunzione o risarcimento) —, si applicherà il regime di diritto comune: in pratica, il lavoratore avrà diritto ad essere riammesso al lavoro e a percepire le retribuzioni maturate dal momento del recesso illegittimo fino a quello della sua riammissione, in quanto il licenziamento, essendo inefficace, non sarebbe in
grado di produrre la risoluzione del rapporto, che continuerebbe giuridicamente senza alcuna interruzione (GALANTINO).
Va detto, inoltre, che se il licenziamento è inefficace per vizi di forma, il datore di lavoro
può procedere ad un secondo licenziamento sulla base degli stessi motivi del primo. In
quest’ultimo caso, però, l’estinzione del rapporto di lavoro, che è l’effetto del recesso, si
verifica soltanto a seguito del nuovo licenziamento.
6. Cosa si intende per “licenziamento disciplinare”?
Riferimenti normativi: L. 604/1966; art. 7 L. 300/1970.
Nozione: evidenziare che si tratta della più grave sanzione disciplinare adottabile
dal datore di lavoro.
Disciplina: la procedura prevista dalla L. 604/1966 è integrata con il regime più
garantistico dell’art. 7 St. Lav. (co. 1, 2, 3) per cui il datore di lavoro:
— deve preventivamente contestare al lavoratore l’addebito;
— dargli il tempo di presentare le sue difese e di essere sentito;
— poi potrà intimargli il licenziamento.
Domande consequenziali: applicabilità delle garanzie procedimentali ai
lavoratori licenziabili ad nutum; conseguenze del licenziamento disciplinare
intimato in violazione del procedimento; differenze procedurali tra licenziamento
disciplinare e non.
240
Parte Quindicesima
Articolazione della risposta
Il licenziamento motivato dall’inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore, cioè quello per giusta causa o giustificato motivo soggettivo (a seconda della gravità), può anche qualificarsi come disciplinare: si tratta, in questo caso, della più grave sanzione disciplinare
adottabile dal datore di lavoro.
In tal caso, la legittimità del licenziamento è subordinata all’osservanza sia
dei requisiti stabiliti dalla L. 604/1966 (procedura per il licenziamento
individuale), sia di quelli dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori (L.
300/1970) (adozione di sanzioni disciplinari).
La procedura prevista dalla L. 604/1966 viene infatti integrata con il regime più garantistico dell’art. 7 St. Lav. (co. 1, 2, 3): il datore di lavoro deve
preventivamente contestare l’addebito al lavoratore, dargli il tempo di
presentare le sue difese e di essere sentito, eventualmente anche con l’assistenza di un membro sindacale. Poi potrà intimargli il licenziamento.
A tali conclusioni si è giunti in seguito all’intervento della Corte costituzionale (sent. 204/1982) che partendo dal presupposto che il licenziamento è la più grave delle sanzioni disciplinari perché espulsiva, ha ritenuto
che ad esso debbano applicarsi le garanzie previste dall’art. 7 St. lav. per
l’adozione delle sanzioni disciplinari (in genere conservative), perché altrimenti si avrebbe il paradosso che per l’applicazione, ad esempio, di una
semplice multa, si pretende il rispetto dell’intero iter procedurale previsto
dal predetto art. 7 St. lav., mentre per l’intimazione del licenziamento per
motivi disciplinari è sufficiente l’osservanza delle sole formalità, meno rigorose, della L. 604/1966.
In particolare, la Corte ha ritenuto doversi applicare i commi 1, 2 e 3 del
citato art. 7 in quanto sono costituzionalmente illegittimi se interpretati
nel senso che siano inapplicabili ai licenziamenti disciplinari (sent.
204/1982).
A seguito di tale intervento, il licenziamento disciplinare è legittimo se:
—è formalmente contestato l’addebito al lavoratore;
—è consentito al lavoratore di essere ascoltato e quindi di difendersi;
—è data facoltà al lavoratore di farsi assistere da un rappresentante del
sindacato.
Per quanto riguarda, invece, la garanzia della predeterminazione delle
sanzioni disciplinari (art. 7, co. 1, St. lav.), prevale sia in dottrina che in
La cessazione del rapporto di lavoro
241
giurisprudenza la tesi per cui il licenziamento disciplinare è legittimo anche in assenza di previsione del licenziamento tra le sanzioni nel codice disciplinare aziendale.
Secondo questo orientamento, l’obbligo di pubblicità del codice disciplinare (mediante affissione in luogo accessibile a tutti) si applica soltanto quando il licenziamento disciplinare sia intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo previste dalla normativa collettiva o validamente poste dal datore di lavoro, non anche quando la violazione riguardi norme di legge, l’etica sociale o comunque doveri fondamentali del lavoratore
(sentt. Cass. 6974/2002, Cass. 4778/2004).
6 bis. Le garanzie procedimentali di cui all’art. 7, co. 2 e 3, St.
lav. si applicano anche in caso di licenziamento disciplinare di un lavoratore soggetto alla libera recedibilità da parte del datore?
Sì. La Corte costituzionale (sent. 427/1989) ha sancito l’estensione delle
garanzie dell’art. 7, co. 2 e 3, St. lav. anche ai lavoratori della cd. area
della libera recedibilità, con il diritto degli stessi ad essere preventivamente informati delle motivazioni del provvedimento di recesso e a potersi difendere.
Tuttavia, per quanto riguarda, in particolare, il licenziamento disciplinare
dei dirigenti, c’è da registrare una divergenza di posizioni nella giurisprudenza della Cassazione: le sezioni unite con sent. 6041/1995 hanno affermato che il licenziamento disciplinare del dirigente dipenderebbe da una
sostanziale perdita di fiducia e non tanto da un comportamento colpevolmente inadempiente, che giustificherebbe il diritto al contraddittorio di cui
all’art. 7, co. 2 e 3, St. lav.; per contro, più recentemente, i giudici di legittimità hanno sancito l’applicazione delle garanzie procedimentali (art. 7,
co. 2 e 3, St. lav.) anche ai dirigenti, pur subordinandola alla dimostrazione, da parte del dirigente, che il licenziamento ad nutum sia stato in realtà
determinato da un presunto inadempimento (Cass. 5213/2003).
6 ter. Quali conseguenze comporta l’inosservanza delle garanzie
procedimentali del licenziamento disciplinare?
Nel caso in cui il licenziamento disciplinare sia adottato senza il rispetto
delle garanzie previste dall’art. 7 dello St. lav., esso dovrà considerarsi sostanzialmente ingiustificato con conseguente applicabilità del regime di
242
Parte Quindicesima
tutela reale (reintegrazione e risarcimento) od obbligatoria (riassunzione
o risarcimento), secondo la dimensione aziendale.
6 quater.Quali sono le differenze tra la procedura di intimazione di
un licenziamento disciplinare e quella di un licenziamento
non disciplinare?
Mentre per il licenziamento non disciplinare l’indicazione dei motivi
può seguire o essere contestuale alla comunicazione del recesso, per il licenziamento disciplinare la contestazione dei fatti deve precedere l’adozione del provvedimento espulsivo.
Solo dopo aver comunicato al lavoratore inadempiente tempestivamente e
con precisione le ragioni che inducono l’impresa ad adottare un provvedimento disciplinare e solo dopo che questi abbia esposto, anche con l’assistenza di un sindacato, le proprie controdeduzioni, il datore può legittimamente adottare la sanzione del licenziamento nel rispetto delle ulteriori modalità previste dalla L. 604/1966 (forma scritta dell’atto e comunicazione
dei motivi se richiesti dal prestatore) (MAZZIOTTI).
7. A seguito della L. 183/2010 entro quale termine si deve impugnare il licenziamento?
Riferimento normativo: art. 6 L. 604/1966; art. 32 L. 183/2010.
Disciplina: il licenziamento deve essere impugnato entro 60 giorni dalla comunicazione del recesso da parte del datore di lavoro e entro i successivi 270 giorni
deve essere depositato il ricorso giudiziale.
Domande consequenziali: ambito di applicazione dei termini per impugnare;
tempestività dell’impugnazione; regime dell’onere della prova.
Articolazione della risposta
La L. 604/1966 disciplina le modalità di impugnazione del licenziamento
che il lavoratore deve seguire se intende contestarne la legittimità.
La L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato lavoro, ha riformulato i primi due
commi dell’art. 6 della L. 604/1966, delineando un nuovo sistema di impugnazione da applicare a tutti i casi di invalidità del licenziamento.
Il lavoratore, nel termine di decadenza di 60 giorni dalla ricezione della
comunicazione in forma scritta del licenziamento, ovvero dalla comunica-
La cessazione del rapporto di lavoro
243
zione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, se non contestuale, deve impugnare il licenziamento con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale,
idoneo a rendere nota la sua volontà.
Entro i successivi 270 giorni, a pena di inefficacia dell’impugnazione, il
lavoratore deve depositare il ricorso giudiziale ovvero comunicare alla
controparte la richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato (art. 6,
co. 2, L. 604/1966, come modif. dalla L. 183/2010).
In tale seconda ipotesi, se la conciliazione o l’arbitrato sono rifiutati o non
è stato raggiunto l’accordo, entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo deve essere depositato, a pena di decadenza, il ricorso giudiziale.
Il D.L. 225/2010 conv. in L. 26-2-2011, n. 10 ha comunque disposto che
l’entrata in vigore di tali termini, introdotti dalla L. 183/2010, sia posticipata al 31-12-2011.
7bis.I termini fissati dall’art. 6, co. 1 e 2, L. 604/1966 si applicano
soltanto per l’impugnazione del licenziamento?
No. La L. 183/2010, cd. collegato lavoro, oltre a modificare il regime di
impugnazione del licenziamento previsto dalla L. 604/1966, ne ha esteso
l’applicabilità anche a fattispecie diverse dal licenziamento, quali:
—legittimità del termine apposto al contratto;
—recesso del committente nei rapporti di co.co.co., anche a progetto;
—trasferimento del lavoratore da un’unità produttiva ad un’altra ex art.
2103 c.c. (il termine decorre dalla ricezione della comunicazione del
trasferimento);
—nullità del termine apposto al contratto di lavoro ex artt. 1, 2 e 4 D.Lgs.
368/2001 (il termine decorre dalla scadenza del medesimo);
—cessione del contratto di lavoro avvenuta in caso di trasferimento di azienda ex art. 2112 c.c. (il termine decorre dalla data del trasferimento);
—richiesta di costituzione o di accertamento di un rapporto di lavoro in
capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto (compresa l’ipotesi di somministrazione irregolare ex art. 27 D.Lgs. 276/2003).
Oltre alle suddette ipotesi, i termini di cui al novellato art. 6 L. 604/66 si applicheranno anche ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati:
—in base al D.Lgs. 368/2001 (artt. 1, 2 e 4) ed in corso di esecuzione alla
data di entrata in vigore della L. 183/2010 (24-11-2010), con decorrenza dalla scadenza del termine;
244
Parte Quindicesima
—anche in base alla normativa previgente al D.Lgs. 368/2001 e già conclusi alla data di entrata in vigore della L. 183/2010, con decorrenza da
tale data.
7 ter. Per valutare la tempestività dell’impugnazione del licenziamento
si può fare riferimento alla data di consegna all’ufficio postale?
Sì. Sul punto la Corte di Cassazione (sez. civ., sent. 4-9-2008, n. 22287) ha
affermato che l’impugnazione del licenziamento individuale è tempestiva, ossia impedisce la decadenza di cui all’art. 6 L. 604 /1966, qualora la lettera raccomandata sia, entro il termine di 60 giorni ivi previsto, consegnata all’ufficio postale anche se viene recapitata dopo la scadenza di quel termine.
In effetti, è stato recepito l’orientamento elaborato dalla Corte Costituzionale (sent. 12
-3-2004, n. 97), per cui in materia di decadenza processuale da impedire attraverso la notificazione di un atto, il momento di perfezionamento della notifica per il soggetto onerato
dalla comminatoria di decadenza deve distinguersi da quello di perfezionamento per il destinatario: per il primo la decadenza è impedita attraverso la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario oppure all’agente postale, poiché sarebbe irragionevole imporgli effetti sfavorevoli di ritardi nel compimento di attività riferibili a soggetti diversi.
7 quater.Il lavoratore ha l’onere di provare in giudizio l’infonda­tezza
del licenziamento impugnato?
No: infatti, in base a quanto dispone l’art. 5 L. 604/1966, è il datore di lavoro a dover dimostrare in giudizio la fondatezza del licenziamento impugnato, fermo restando che la sussistenza della giusta causa o del giustificato
motivo può essere rilevata dal giudice anche d’ufficio (Cass. sent. 3961/1996).
Tale regime probatorio trova la sua ragion d’essere nel fatto che oggetto
della domanda giudiziale del lavoratore non è l’invalidazione del licenziamento (nel qual caso l’onere della prova sarebbe stato a carico del prestatore), ma l’esercizio dei diritti collegati con la continuità del rapporto (nel
caso della tutela reale) o la riassunzione o il risarcimento (nell’ipotesi di
tutela obbligatoria).
8. Quali forme di tutela sono approntate dalla legge per il lavoratore licenziato illegittimamente?
Riferimenti normativi: art. 18 L. 300/1970; art. 8 L. 604/1966.
La cessazione del rapporto di lavoro
245
Disciplina: a seconda dei limiti dimensionali del datore di lavoro, per il lavoratore
illegittimamente licenziato è prevista:
— la tutela reale (reintegrazione e risarcimento);
— la tutela obbligatoria (riassunzione o risarcimento).
Domande consequenziali: criteri per l’applicazione della tutela reale o obbligatoria; nozione di unità produttiva; onere della prova sui requisiti dimensionali;
differenza tra licenziamento nullo e annullato; diritto al risarcimento in caso di
rifiuto della riassunzione; differenza tra reintegrazione e riassunzione; tutela nelle
organizzazioni di tendenza; tutela nel lavoro pubblico.
Articolazione della risposta
Alla sentenza del giudice che dichiara l’illegittimità del licenziamento consegue, a seconda dei limiti dimensionali del datore di lavoro, l’attribuzione al lavoratore di una tutela cd. reale oppure obbligatoria.
Se si tratta di licenziamento nullo, si applica la tutela reale indipendentemente dalle dimensioni del datore di lavoro.
Si distingue dunque tra:
—tutela reale, che è prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori,
così come modificato dall’art. 1 L. 108/1990.
In tal caso, il giudice ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di
lavoro e condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno patito dal
dipendente, liquidando un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (nonché al versamento dei contributi previdenziali). In ogni caso
la misura dell’indennità non potrà essere inferiore alle 5 mensilità.
È facoltà del lavoratore chiedere al datore di lavoro, invece della reintegrazione, la corresponsione di un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità, che si aggiunge a quanto dovuto a titolo di risarcimento;
—tutela obbligatoria, che è prevista dall’art. 8 L. 604/1966, così come
modificato dall’art. 2 L. 108/1990.
In questa ipotesi, il datore di lavoro è condannato a riassumere il lavoratore entro 3 giorni oppure a risarcire il danno da questi patito, versandogli
un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di
6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (l’indennità è maggiorata fino a 10 o 14 mensilità per dipendenti di elevata anzianità di servizio).
La scelta tra riassunzione o indennità spetta al datore: dunque, anche
dopo la dichiarazione di invalidità del licenziamento, il datore può co-
246
Parte Quindicesima
munque ottenere l’effetto risolutivo semplicemente pagando l’indennità. È evidente che il regime obbligatorio garantisce una tutela più debole al lavoratore illegittimamente licenziato.
8 bis. Qual è il criterio per stabilire se al lavoratore illegittimamente licenziato spetti la tutela reale o quella obbligatoria?
Per determinare se al lavoratore illegittimamente licenziato spetti la tutela
reale (reintegrazione o indennità sostitutiva e risarcimento) o quella obbligatoria (riassunzione o risarcimento), si fa riferimento ai requisiti dimensionali del datore di lavoro: in pratica, il tipo di tutela dipende dal numero dei lavoratori che costituiscono l’organico aziendale.
Dalla lettura dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e della L. 604/1966
è possibile evincere che la tutela reale, cioè reintegrazione e risarcimento
del danno, si applica nei seguenti casi:
1) datore di lavoro che occupa più di 15 dipendenti (o più di 5 se imprenditore agricolo) in ciascuna unità produttiva od ufficio;
2) datore di lavoro che occupa più di 15 dipendenti (o più di 5 se imprenditore agricolo) nello stesso Comune, sebbene in più unità produttive od uffici;
3) datore di lavoro che occupa più di 60 dipendenti dovunque essi si trovino (indipendentemente quindi dal numero di occupati in ciascuna unità produttiva o nello stesso Comune).
La tutela obbligatoria, che prevede riassunzione o risarcimento del danno, si applica, per esclusione, in tali ipotesi:
1) datore di lavoro che occupa fino a 15 dipendenti per ogni unità produttiva, o se imprenditore agricolo, fino a 5 dipendenti;
2) datore di lavoro che occupa fino a 60 dipendenti ovunque si trovino
(sempre però che non ne occupi più di 15 nello stesso Comune).
8 ter. Che cosa si deve intendere per “unità produttiva”?
Con il termine unità produttiva va intesa qualunque articolazione dell’intera impresa, che costituisca sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto
autonomo.
La cessazione del rapporto di lavoro
247
8 quater.A chi spetta l’onere della prova sui requisiti dimensionali
del datore di lavoro?
La Cassazione a sezioni unite, con sent. 141/2006, ha affermato che spetta al datore di lavoro l’onere di dimostrare il numero dei dipendenti dell’unità produttiva o dell’impresa, dal quale discenda l’applicabilità del regime
obbligatorio in luogo di quello reale.
8 quinquies.Che differenza c’è tra licenziamento nullo e licenziamento annullato?
Si ha la nullità del licenziamento, indipendentemente dalla motivazione
addotta, allorché esso sia stato discriminatorio, cioè determinato da ragioni di credo politico, fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato
etc., oppure determinato da altro motivo illecito, ad es. perché intimato in
periodo di congedo per le lavoratrici madri.
Il giudice dichiara, invece, l’annullamento del licenziamento, qualora esso
sia stato intimato senza giusta causa o giustificato motivo.
Per quanto riguarda la tutela del lavoratore licenziato, la differenza tra le
due ipotesi è netta: in caso di licenziamento nullo si applica sempre la tutela reale, a prescindere dalle dimensioni del datore di lavoro; nell’ipotesi
di licenziamento annullato si applicherà, invece, la tutela reale oppure quella obbligatoria a seconda delle dimensioni dell’organico aziendale.
8 sexies.Nel regime di tutela obbligatoria, se il lavoratore rifiuta la
riassunzione proposta dal datore ha diritto al risarcimento
del danno?
Sì: la Corte costituzionale, infatti, ha chiarito che il lavoratore cui è applicata la tutela obbligatoria ha diritto al risarcimento del danno subito anche
se ha rifiutato la riassunzione offerta dall’azienda.
In tale regime, la scelta tra riassunzione e risarcimento spetta al datore
di lavoro ed essendo i due obblighi alternativi, se il datore opta per la riassunzione e il lavoratore rifiuta, verrebbe doppiamente danneggiato dal licenziamento illegittimo: non sarebbe riassunto e non avrebbe diritto ad alcun risarcimento per il danno subito. Ciò spiega la ratio della decisione
della Consulta che equipara in tal modo, sotto il profilo risarcitorio, la situazione dei dipendenti delle piccole imprese (area della tutela obbligatoria) a quella dei dipendenti delle imprese di maggiore dimensione (area
248
Parte Quindicesima
della tutela reale), i quali hanno sempre diritto al risarcimento del danno, anche se rifiutano la reintegrazione (Corte cost. sent. 44/1996).
8 septies.Qual è la differenza tra la reintegrazione e la riassunzione?
In caso di reintegrazione (tutela reale), non si ha interruzione né del rapporto di lavoro né di quello assicurativo e previdenziale, tant’è che al lavoratore spettano i contributi anche per il periodo tra il licenziamento e la
reintegrazione.
In caso di riassunzione (tutela obbligatoria), invece, il rapporto di lavoro
culminato nel licenziamento, anche se questo è risultato illegittimo, si è comunque risolto, e con la riassunzione nasce un nuovo rapporto lavorativo e previdenziale: al lavoratore, quindi, nulla spetta per il periodo intercorso tra il licenziamento e il rientro in azienda.
In entrambe le ipotesi, dunque, il licenziamento è invalido, ma mentre nel
primo caso è anche inefficace, nel secondo produce comunque i suoi effetti sul rapporto di lavoro che, infatti, si considera risolto.
8 octies. Quale tutela si applica al dipendente di un sindacato o di
un partito politico nel caso di licenziamento illegittimo?
Nei casi di illegittimità del licenziamento a tali lavoratori si applica sempre il regime di tutela obbligatoria (riassunzione o risarcimento), indipendentemente dal numero dei lavoratori in forza (Cass. 7837/2005 e
6191/1997).
La tutela reale, infatti, non si applica ai dipendenti di enti o organizzazioni di tendenza, cioè di datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione,
di religione o di culto (art. 4 L. 108/1990).
L’esclusione si spiega in considerazione dell’inopportunità di imporre la
reintegrazione nel posto di lavoro, prevista dall’art. 18 St. lav., anche alle
organizzazioni la cui attività richiede uno speciale rapporto di fiducia
(MAZZIOTTI). Per questo stesso motivo, l’esclusione riguarda però soltanto i lavoratori per i quali, in ragione della natura delle mansioni svolte,
la fedeltà ideologica è dedotta espressamente nell’obbligazione contrattuale di lavoro (GALANTINO) (es. il personale docente di un istituto religioso), e non i dipendenti cd. neutrali, cioè coloro che non svolgono mansioni funzionali a caratterizzare la tendenza dell’ente (es. il personale am-
La cessazione del rapporto di lavoro
249
ministrativo dell’istituto religioso) ed ai quali deve essere applicata la tutela reale.
8 novies.La tutela obbligatoria si applica anche ai dipendenti delle
pubbliche amministrazioni?
No: ai rapporti privatizzati di lavoro alle dipendenze di una pubblica amministrazione si applica sempre l’art. 18 St. lav., cioè la tutela reale, a prescindere dal numero dei dipendenti (art. 51, co. 2, D.Lgs. 165/2001).
9. Quando il licenziamento si definisce discriminatorio?
Riferimenti normativi: art. 4 L. 604/1966; art. 15 L. 300/1970; art. 3 L. 108/1990.
Nozione: definire il licenziamento discriminatorio come il recesso determinato
dai seguenti motivi:
— credo politico o fede religiosa; appartenenza ad un sindacato e partecipazione ad attività sindacali; ragioni razziali, di lingua, di sesso, di handicap, di
età o per orientamento sessuale o convinzioni personali.
Disciplina: è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta dal datore di
lavoro; si applica sempre la tutela reale.
Domande consequenziali: onere della prova; carattere discriminatorio del
licenziamento nelle cd. organizzazioni di tendenza; differenza tra licenziamento
discriminatorio e licenziamento ingiustificato.
Articolazione della risposta
È discriminatorio il licenziamento determinato da motivi di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali, nonché da ragioni razziali, di lingua, di sesso, di
handicap, di età o per orientamento sessuale o convinzioni personali.
Si tratta di un’ipotesi particolare di illegittimità del licenziamento disciplinata dall’art. 3 L. 108/1990, che sancisce espressamente la nullità del licenziamento intimato per motivi discriminatori, indipendentemente dalla
motivazione addotta dal datore di lavoro (ai sensi degli artt. 4 L. 604/1966
e 15 L. 300/1970).
La gravità del licenziamento discriminatorio, che lede beni di particolare
valore quali la dignità e la libertà dell’individuo, comporta che a seguito
della pronuncia di invalidità si applichi sempre la tutela reale, a prescin-
250
Parte Quindicesima
dere dalla dimensione aziendale, con diritto del lavoratore ad essere reintegrato nel posto di lavoro, a ricevere le retribuzioni maturate fino al ripristino del rapporto ed al risarcimento del danno.
In caso di licenziamento discriminatorio, hanno diritto alla tutela reale tutti
i lavoratori, compresi quelli licenziabili liberamente, senza necessità di motivazione (ad nutum), come i dirigenti, i domestici, i lavoratori in prova etc.
9 bis.In un giudizio avente ad oggetto un licenziamento discriminatorio, a chi spetta l’onere della prova?
In tale ipotesi, in giudizio spetta al lavoratore provare l’esistenza di un motivo discriminatorio alla base dell’atto di recesso del datore, fornendo la
dimostrazione del nesso di causalità tra i fatti contestati e l’intento discriminatorio.
Siffatta prova risulta, in realtà, così ardua da essere definita diabolica, essendo estremamente difficile da fornire, dal momento che nessun licenziamento discriminatorio è dichiaratamente tale, ma, al contrario, è immancabilmente accompagnato da motivazioni in apparenza validissime (GALANTINO).
Per questo motivo, la legislazione in materia di discriminazioni per motivi di sesso (L. 125/1991, ora confluita nel D.Lgs. 198/2006) ha previsto
una presunzione di discriminazione, ponendo l’onere della prova dell’insussistenza della discriminazione a carico del datore di lavoro che dovrà
dimostrare l’oggettività del recesso.
Tale agevolazione sul piano probatorio non è però estesa in generale.
9 ter. Quale rilevanza assume il carattere discriminatorio del licenziamento nelle organizzazioni di tendenza?
Nelle cd. organizzazioni di tendenza (che svolgono attività di natura
politica, religiosa, culturale, sindacale etc.) quando a base del licenziamento è posto un motivo relativo all’opinione politica, sindacale, religiosa etc. del lavoratore, la legge esclude che esso possa essere considerato di per sé discriminatorio. Ciò perché l’incompatibilità ideologica tra
il dipendente e l’organizzazione è considerata una legittima motivazione
per il licenziamento (si pensi al caso, ad esempio, di un esponente apicale
di un partito che manifesti con atti inequivocabili un credo politico difforme o, ancora, alla scuola cattolica che abbia tra i propri docenti un ateo).
La cessazione del rapporto di lavoro
251
L’orientamento prevalente, in dottrina e in giurisprudenza, è però nel senso di limitare la rilevanza di tali fattori extraprofessionali esclusivamente per quei lavoratori che, nell’ambito dell’organizzazione, svolgono mansioni strettamente funzionali a caratterizzarne la tendenza (sarebbe, ad esempio, da considerare discriminatorio il licenziamento di un portiere
per le sue opinioni politiche da parte di un partito politico).
9 quater.Qual è la differenza tra licenziamento discriminatorio e licenziamento ingiustificato?
Il licenziamento ingiustificato è semplicemente un licenziamento privo
di una giusta causa o di un giustificato motivo, rispetto al quale cioè il
datore di lavoro non ha saputo o potuto allegare alcuna motivazione congrua ed adeguata.
Il licenziamento discriminatorio ha qualcosa in più; non è semplicemente ingiustificato, ma è aggravato dalla ricorrenza di un movente ulteriore che lo rende particolarmente odioso e, proprio per questo, meritevole di
un trattamento diverso e più severo (GALANTINO).
Questa differenza si riflette sul piano delle conseguenze: mentre, infatti, il
carattere discriminatorio vizia in radice l’atto di recesso, rendendolo nullo, e fa sì che si applichi in ogni caso la tutela reale; la semplice mancanza di una ragione giustificatrice comporta, invece, l’applicazione della tutela reale o obbligatoria, a seconda delle dimensioni del datore di lavoro, a
seguito dell’annullamento da parte del giudice.
10. Cosa si intende per recesso “ad nutum”?
Riferimenti normativi: artt. 1, 4,10 L. 604/1966; art. 4 L. 91/1981.
Nozione: area di non applicazione della disciplina limitativa del licenziamento
individuale che può essere intimato senza necessità di alcuna motivazione.
Ambito di applicazione: specificare che si tratta di ipotesi limitate, riguardanti:
— i dirigenti;
— i lavoratori con contratto a termine;
— i lavoratori in prova;
— gli sportivi professionisti;
— i lavoratori domestici;
— i lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici.
Domande consequenziali: tutela dei dirigenti ad opera della contrattazione
collettiva.
252
Parte Quindicesima
Articolazione della risposta
Il sistema delle garanzie sostanziali e procedurali ed il relativo regime di
tutela della L. 604/1966, poi rafforzato dalla L. 300/1970 con la previsione della stabilità reale ex art. 18, non si applicano a tutti i rapporti di lavoro.
Permane ancora, infatti, nel nostro ordinamento un’area di non applicazione della disciplina limitativa del licenziamento individuale.
Si tratta di ipotesi limitate, in cui è consentito al datore di lavoro di recedere senza necessità di alcuna motivazione: per questi motivi si parla in
proposito di recesso ad nutum, letteralmente con un semplice cenno.
Deve comunque essere osservato il preavviso (art. 2118 c.c.), salvo il caso
di una giusta causa di recesso (art. 2119 c.c.).
La possibilità di licenziamento ad nutum riguarda:
—i dirigenti, espressamente esclusi dal campo di applicazione della L.
604/1966 (anche nei confronti dei dirigenti si applica però l’obbligo di
comunicazione scritta del licenziamento);
—i lavoratori con contratto a termine, anch’essi esclusi dalla L. 604/1966;
—i lavoratori in prova, per tutto il periodo di prova e fino a 6 mesi dall’assunzione;
—gli sportivi professionisti (ex art. 4 L. 91/1981);
—gli assunti con contratto di lavoro domestico;
—i lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici.
10 bis.In che modo la contrattazione collettiva tutela i dirigenti in
caso di licenziamento ingiustificato?
In mancanza di una tutela da parte della legge, la contrattazione collettiva
può prevedere che, in caso di licenziamento ingiustificato, al dirigente sia
corrisposta un’indennità risarcitoria correlata all’età e all’anzianità di
servizio.
Occorre, tuttavia, precisare che la giurisprudenza, assegnando rilevanza
all’elemento fiduciario che contraddistingue il rapporto di lavoro, ritiene
che il licenziamento del dirigente possa essere considerato ingiustificato
soltanto qualora sia privo di qualsiasi motivazione o basato su ragioni
del tutto arbitrarie o pretestuose: in pratica, non è necessario un notevole inadempimento perché il licenziamento del dirigente possa dirsi giustificato (si parla, a tal proposito, di giustificatezza, che è concetto di maggior
La cessazione del rapporto di lavoro
253
ampiezza e flessibilità rispetto a quello di giustificato motivo) (GALANTINO, PERSIANI, PROIA).
11. Quali sono i presupposti necessari per l’applicazione della
procedura per i licenziamenti collettivi di cui alla L. 223/1991?
Riferimento normativo: art. 24 L. 223/1991.
Presupposti: in generale si applica la procedura prevista per i licenziamenti
collettivi quando il datore a causa di riduzione o trasformazione di attività o lavoro
effettua 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni.
Domande consequenziali: calcolo del requisito numerico.
Articolazione della risposta
Il recesso che colpisce una sola persona è una vicenda che, per quanto traumatica, conserva una dimensione privata. La situazione cambia quando i
licenziamenti sono molteplici. Superata una certa soglia numerica, il licenziamento diventa una vicenda che crea tensioni collettive e allarme sociale (GALANTINO). Da qui la necessità di distinguere le due ipotesi trattandole in modo profondamente diverso.
Al verificarsi, dunque, di determinati presupposti, l’ordinamento considera i licenziamenti programmati dal datore di lavoro nella loro autentica dimensione di fenomeno collettivo e come tale idoneo a determinare l’applicazione di una disciplina ancora più garantista di quella che regola il licenziamento individuale, attraverso il coinvolgimento dei sindacati.
Oltre che nel caso dell’impresa ammessa al trattamento straordinario
di integrazione salariale (C.I.G.S.) che ritenga di non poter reimpiegare
i lavoratori sospesi, la disciplina della materia dei licenziamenti collettivi
può essere attuata purchè ricorrano i seguenti presupposti (art. 24 L.
223/1991):
1) si tratta di un datore di lavoro, imprenditore o non, che occupa più di
15 dipendenti;
2) sia avvenuta una riduzione o trasformazione di attività o lavoro;
3) si intendano effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni;
4) ciò avvenga nell’ambito della medesima unità produttiva o nell’ambito di più unità produttive della stessa Provincia;
254
Parte Quindicesima
5) detti licenziamenti siano conseguenza di una unica causa, consistente
nella riduzione o trasformazione di attività o lavoro ovvero nella cessazione dell’attività.
È opportuno precisare che, poiché il requisito è quello della programmazione di cinque licenziamenti, il licenziamento conserva il carattere collettivo
anche quando, al termine delle procedure di consultazione sindacale, il numero di licenziamenti effettivi scenda al di sotto di cinque (MAZZIOTTI).
11 bis.Ai fini dell’applicazione della disciplina di cui alla L.
223/1991, nel calcolo del requisito numerico rientrano anche
le risoluzioni consensuali o le dimissioni del lavoratore?
Sì. Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, è da includere
nel requisito numerico ogni risoluzione di rapporto e, quindi, anche le risoluzioni consensuali e le dimissioni incentivate, comunque motivate
dall’intento del datore di lavoro di ridurre il personale eccedente.
12. Qual è la procedura prevista dalla disciplina dei licenziamenti collettivi?
Riferimenti normativi: artt. 4 e 24 L. 223/1991.
Disciplina: elencare i diversi adempimenti a cui è tenuto il datore di lavoro
distinguendo tra:
— fase sindacale;
— fase amministrativa.
Domande consequenziali: ammissibilità della deroga al divieto di demansionamento come alternativa al licenziamento collettivo.
Articolazione della risposta
L’art. 4 L. 223/1991 distingue una fase sindacale e una fase amministrativa.
La prima fase (detta sindacale) della procedura prevede l’obbligo per il datore di lavoro di preventiva comunicazione scritta dei previsti licenziamenti alle rappresentanze sindacali aziendali, nonché alle rispettive associazioni di categoria.
La cessazione del rapporto di lavoro
255
La comunicazione deve indicare:
— i motivi che determinano la situazione di eccedenza di personale;
— i motivi tecnici, organizzativi e/o produttivi per i quali si ritiene di non poter evitare i
licenziamenti;
— il numero, la collocazione aziendale e i profili professionali del personale eccedente e
di quello normalmente occupato.
A seguito di tale comunicazione le rappresentanze sindacali aziendali (RSA)
e le associazioni di categoria, eventualmente assistite da esperti, possono
chiedere un esame congiunto della situazione per cercare strade alternative ai licenziamenti.
Qualora non sia possibile evitare la riduzione di personale, è esaminata la
possibilità di ricorrere a misure sociali di accompagnamento intese, in
particolare, a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori
licenziati.
Se non si raggiunge un accordo, la Direzione provin­ciale del lavoro convoca le parti per una nuova discussione sull’argomento. Raggiunto l’accordo sindacale ed esaurita anche la fase amministrativa, l’impresa ha la facoltà di licenziare i lavoratori eccedenti, da individuare applicando i criteri di scelta stabiliti nei contratti collettivi oppure, ove questi manchino,
nel rispetto dei criteri legali, in concorso tra loro (carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative).
12 bis. È legittima l’assegnazione a mansioni inferiori come soluzione alternativa al licenziamento collettivo?
Sì: nel tentativo di individuare misure alternative al licenziamento collettivo, le parti possono anche derogare a quanto disposto dall’art. 2103 c.c.
ovvero adibire i lavoratori da licenziare a mansioni diverse (dunque anche inferiori) a quelle antecedentemente svolte.
Inoltre, le parti possono ricorrere anche ad istituti introdotti dalla contrattazione collettiva, come ad esempio i contratti di solidarietà e la gestione
flessibile dell’orario di lavoro.
13. Nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo, come
vengono individuati i lavoratori da licenziare?
Riferimento normativo: art. 5, co. 1, L. 223/1991.
256
Parte Quindicesima
Disciplina: il datore di lavoro deve attenersi ai criteri stabiliti dal contratto collettivo; in mancanza, ai criteri legali da valutare complessivamente.
Domande consequenziali: ambito di efficacia vincolante del contratto collettivo
che definisce i criteri di scelta.
Articolazione della risposta
Il datore di lavoro, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, deve individuare i lavoratori da licenziare in base a ben precisi criteri di scelta stabiliti nei contratti collettivi. Se però questi mancano, il datore di lavoro deve attenersi ai seguenti
criteri legali precisati nell’art. 5 L. 223/1991, in concorso tra loro:
—carichi di famiglia;
—anzianità;
—esigenze tecnico-produttive ed organizzative.
L’espressione utilizzata dalla norma, in concorso tra loro, sta a significare che non si può dare prevalenza ad uno dei criteri a dispetto degli altri,
ma essi devono essere presi in considerazione complessivamente per formare la graduatoria dei lavoratori da licenziare.
Inoltre, il rinvio dell’art. 5 alla contrattazione collettiva rende prioritari, rispetto a quelli legali, i criteri di scelta individuati in tale sede. Tali criteri
possono essere anche diversi da quelli legali, purchè siano caratterizzati da
astrattezza, impersonalità e non discriminazione.
Una volta individuati i lavoratori, il datore può esercitare il diritto di recesso, che deve essere comunicato per iscritto singolarmente a ciascuno dei
lavoratori e nel rispetto del termine di preavviso.
13 bis.I criteri selettivi definiti nel contratto collettivo devono essere applicati da tutti i datori di lavoro?
No: il contratto collettivo che stabilisce i criteri di scelta vincola il datore
di lavoro iscritto all’associazione sindacale (datoriale) stipulante che li
deve adottare in luogo dei criteri legali, che invece sono validi per gli imprenditori non soggetti all’applicazione del contratto collettivo.
Inoltre, i criteri di promanazione sindacale, se vincolanti per l’imprenditore, saranno applicati a tutti i lavoratori indipendentemente dall’appartenenza o meno all’associazione sindacale stipulante, stante la funzio-
La cessazione del rapporto di lavoro
257
ne derogatoria delle norme di legge (o anche, secondo altri, gestionale)
svolta dall’accordo collettivo in cui sono contenuti detti criteri (MAZZIOTTI).
14. Che cosa si deve intendere per “mobilità”?
Riferimenti normativi: artt. 6 e ss. L. 223/1991.
Nozione: meccanismo attraverso il quale si consente il passaggio dei lavoratori
licenziati da imprese in crisi ad imprese con bisogno di mano d’opera, mediante
iscrizione nella lista di mobilità e godendo nel frattempo dell’indennità di mobilità.
Ambito di applicazione: la L. 223/1991 distingue tra:
— esuberi manifestatisi a causa di un processo di trasformazione o di crisi aziendale per il quale sia stato concesso la C.I.G.S.;
— esuberi dovuti a riduzione o trasformazione di attività o lavoro o cessazione
di attività che sfociano in licenziamenti collettivi.
Domande consequenziali: ambito soggettivo di applicazione delle liste di mobilità; requisiti sostanziali per l’indennità di mobilità; durata dell’indennità; altri
benefici connessi alla mobilità; mobilità lunga; requisiti procedurali per l’indennità
di mobilità; ipotesi di decadenza dal trattamento a sostegno del reddito.
Articolazione della risposta
L’istituto della mobilità, disciplinato dalla L. 223/1991, rientra nell’ambito di quei sistemi messi a punto dal legislatore, noti con il nome di ammortizzatori sociali, per rendere meno gravi sul piano sociale i fenomeni di
crisi occupazionale.
Si tratta, in pratica, di un meccanismo attraverso il quale si consente il passaggio dei lavoratori licenziati da imprese in crisi ad imprese con bisogno di mano d’opera, transitando per una speciale lista di collocamento
(cd. lista di mobilità) e godendo, in attesa della nuova occasione lavorativa, di un sostegno del reddito (cd. indennità di mobilità).
Si può ricorrere all’istituto della mobilità in due circostanze:
1) in caso di licenziamenti collettivi per riduzione o trasformazione di attività o lavoro o per cessazione dell’attività (art. 24 L. 223/1991);
2) nel caso di imprese ammesse al trattamento straordinario di integrazione salariale (C.I.G.S.) che, durante l’attuazione del programma di risanamento, ritengono di non essere in grado di reimpiegare i lavoratori
258
Parte Quindicesima
sospesi o di attuare misure alternative al licenziamento (art. 4 L.
223/1991).
In entrambi i casi dovrà essere esperita la procedura di mobilità (informazione e consultazione sindacale, mediazione amministrativa, rispetto dei
criteri di scelta) al fine di effettuare i licenziamenti nei confronti dei lavoratori in esubero e collocare tali lavoratori in mobilità.
14 bis. Quali lavoratori possono essere iscritti nelle liste di mobilità?
Alle liste di mobilità sono iscritti i lavoratori (operai, impiegati e quadri)
per i quali sia cessato il rapporto di lavoro a seguito di riduzioni di personale ed i lavoratori in Cassa integrazione guadagni straordinaria da
licenziare per impossibilità di reimpiego.
A conclusione della procedura di mobilità, infatti, l’impresa recedente deve
comunicare alla Direzione regionale del lavoro l’elenco dei lavoratori eccedenti che sono stati licenziati, i quali possono chiedere di essere inseriti
nella lista di mobilità.
L’emergenza occupazionale ha spinto il legislatore ad estendere la possibilità di iscrizione nelle liste di mobilità anche al singolo lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo connesso a riduzione, trasformazione
o cessazione di attività o di lavoro da parte di imprese che occupino anche
fino a 15 dipendenti.
14 ter. Tutti i lavoratori iscritti nelle liste hanno diritto alla cd. indennità di mobilità?
No: l’iscrizione nelle liste di mobilità costituisce un presupposto essenziale, ma non sufficiente, per accedere al relativo trattamento economico.
Per avere diritto all’indennità di mobilità, infatti, il lavoratore iscritto nelle liste di mobilità compilate dai centri per l’impiego, deve essere in possesso di determinati requisiti e cioè:
—i lavoratori devono avere un’anzianità aziendale di almeno 12 mesi, di
cui 6 di lavoro effettivamente prestato, con un rapporto a carattere continuativo e comunque non a termine;
—i lavoratori devono essere stati collocati in mobilità da parte di imprese rientranti nell’ambito applicativo della C.I.G.S. ovvero appartenenti a determinati settori produttivi ed aventi specifiche dimensioni occupazionali.
La cessazione del rapporto di lavoro
259
L’indennità di mobilità viene corrisposta, per i primi 12 mesi, nella misura del 100% del
trattamento straordinario d’integrazione salariale spettante al lavoratore collocato in mobilità; dal 13° mese in poi essa è pari all’80% di tale trattamento.
14 quater.Per quanto tempo è possibile percepire l’indennità di mobilità?
L’indennità ha durata variabile in base all’età dei lavoratori e all’ubicazione dell’impresa di appartenenza. In specie essa è corrisposta per un periodo di:
—12 mesi, se il lavoratore ha fino a 39 anni;
—24 mesi, se il lavoratore ha dai 40 ai 49 anni;
—36 mesi, se il lavoratore ha oltre 50 anni.
Nelle aree del Mezzogiorno la durata di 12, 24 e 36 mesi aumenta di 12
mesi (divenendo, rispettivamente, di 24, 36 e 48 mesi).
14 quinquies.Quali altri benefici percepisce il lavoratore iscritto nelle liste di mobilità?
I vantaggi dell’iscrizione nelle liste sono legati, oltre che all’eventuale trattamento economico, anche alla maggiore facilità con cui è possibile accedere a nuove occasioni lavorative: i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità, infatti, hanno un diritto di precedenza nelle assunzioni effettuate dal
medesimo datore di lavoro e rientrano nell’ambito di operatività delle misure per incentivare il reinserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori svantaggiati previste dal D.Lgs. 276/2003.
14 sexies.Cosa si intende per mobilità lunga?
Con tale espressione si fa riferimento alle ipotesi in cui la legge (art. 7, co.
6 e 7, L. 223/1991) dispone che, nelle regioni ove il tasso di disoccupazione è superiore alla media nazionale, è possibile continuare a fruire dell’indennità di mobilità fino al raggiungimento dei requisiti contributivi
per il diritto al pensionamento, prolungando così il trattamento oltre il
periodo previsto in via ordinaria.
260
Parte Quindicesima
14 septies.Se il lavoratore è in possesso dei requisiti di legge, il diritto a percepire l’indennità di mobilità sorge in via automatica?
No: per ricevere il trattamento, il lavoratore deve presentare una domanda all’INPS entro il termine di decadenza di 60 giorni da quello di inizio
della disoccupazione indennizzabile, e cioè dall’ottavo giorno dalla cessazione del rapporto.
14 octies. Cosa accade se il lavoratore che percepisce l’indennità di
mobilità rifiuta un’offerta di lavoro?
In tal caso l’INPS, su segnalazione delle agenzie per il lavoro o del datore
di lavoro, dichiara la decadenza del lavoratore dal trattamento a sostegno del reddito.
Perché si produca la decadenza dall’indennità di mobilità è necessario, però,
che il lavoro offerto (e rifiutato) sia:
—di livello retributivo non inferiore del 20% rispetto a quello delle mansioni di provenienza;
—adeguato alle competenze e alla qualifica possedute dal lavoratore;
—in un luogo mediamente raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici e/o distante non più di 50 km dalla residenza del lavoratore.
Parte Sedicesima
Il trattamento di fine rapporto (TFR)
1. Come si calcola il trattamento di fine rapporto?
Riferimenti normativi: art. 2120 c.c.; L. 297/1982.
Disciplina: si calcola accantonando, al termine di ciascun anno di servizio, una
quota pari, e comunque non superiore, all’importo della retribuzione dovuta per
l’anno stesso, costituita dalla somma di tutte la retribuzioni mensili, diviso per 13,5.
Domande consequenziali: funzione del TFR; disciplina dell’indennità di anzianità; applicazione della disciplina previgente; valutazione dei periodi di cassa
integrazione ai fini del calcolo del TFR; estensione del TFR al lavoro pubblico.
Articolazione della risposta
L’art. 2120 c.c. prevede che in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro, il prestatore di lavoro ha diritto ad un trattamento di fine rapporto (cd. TFR).
Il TFR si matura mediante accantonamento, mese per mese, di una quota
della retribuzione corrisposta al lavoratore. La somma così accumulata
viene liquidata in un’unica volta al termine del rapporto di lavoro.
A partire dal 1°-6-1982 — data di entrata in vigore della riforma della L.
297/1982 — il TFR si calcola sommando per ciascun anno di servizio
una quota pari, e comunque non superiore, all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso (comprensiva di tutte le somme corrisposte
in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale ed esclusi i
rimborsi spese) divisa per 13,5. In pratica ogni anno si accantona circa una
mensilità di retribuzione a titolo di TFR.
Al 31 dicembre di ogni anno, tale trattamento, con esclusione della quota
maturata nell’anno, è rivalutato con l’applicazione di un tasso costituito
dall’1,5% in misura fissa e dal 75% dell’aumento dell’indice dei prezzi al
consumo per le famiglie di operai ed impiegati, accertato dall’ISTAT rispetto al mese di dicembre dell’anno precedente.
1 bis.I lavoratori assunti con contratto di inserimento hanno diritto
al TFR?
Sì. Il TFR spetta indipendentemente dalla tipologia di contratto con cui
è stato assunto il lavoratore subordinato (a tempo indeterminato, a termi-
262
Parte Sedicesima
ne, apprendistato etc.) e in ogni caso di risoluzione del rapporto, compresa l’ipotesi del licenziamento per colpa del lavoratore (giusta causa o giustificato motivo soggettivo).
1 ter. Qual è la funzione del TFR?
La funzione del TFR è stata per molto tempo esclusivamente quella di garantire al lavoratore una somma di cui potesse disporre al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
A partire dall’introduzione, con il D.Lgs. 124/1993, della previdenza
complementare, al TFR viene riconosciuta anche un’altra possibile funzione dato che lo stesso provvedimento prevede la possibilità per i lavoratori
di destinare il TFR al finanziamento dei cd. fondi pensione per ottenere,
all’atto del pensionamento, una pensione integrativa di quella pubblica.
1 quater.Come si calcolava l’indennità di anzianità nella disciplina
previgente?
L’art. 2120 c.c., nella formulazione originaria (prima delle modifiche della L. 297/1982), prevedeva, in caso di cessazione del rapporto di lavoro a
tempo indeterminato, la corresponsione al prestatore di lavoro di un’indennità di anzianità proporzionale agli anni di servizio, salvo il caso di licenziamento per giusta causa o di dimissioni volontarie.
In particolare, ai fini della determinazione dell’importo dell’indennità dovuta al lavoratore si moltiplicava l’ultima retribuzione mensile per il numero di anni di servizio.
1 quinquies.A quali rapporti continua ad applicarsi la disciplina previgente?
Il meccanismo di calcolo, previsto dall’originario art. 2120 c.c., continua ad essere applicato per i rapporti iniziati prima del 1° giugno 1982
(seppure limitatamente al periodo antecedente a tale data). A tali rapporti
si applica, infatti, un sistema misto basato sui seguenti criteri di calcolo:
1) per gli anni di lavoro prestati anteriormente al 1° giugno 1982 si applica il meccanismo di calcolo precedente la L. 297/1982: in pratica, si
moltiplica la retribuzione di maggio 1982 per gli anni di servizio prestati fino al 31 maggio 1982. La somma così ottenuta viene poi rivalu-
Il trattamento di fine rapporto (TFR)
263
tata, anno per anno, con un tasso costituito dall’1,5% in cifra fissa, più
il 75% dell’aumento dei prezzi ISTAT;
2) per gli anni di lavoro prestati dopo il 1° giugno 1982 si applica il vigente criterio di calcolo di cui alla L. 297/1982.
Il TFR spettante al lavoratore sarà dunque costituito dalla somma degli importi così ottenuti.
1 sexies.Ai fini del calcolo del TFR, come devono essere considerati i periodi di Cassa integrazione?
Nella retribuzione dovuta annualmente (da dividere poi per 13,5 per ottenere la quota da accantonare a titolo di TFR) vengono compresi anche i periodi di Cassa integrazione guadagni, dovendosi considerare,
però, la retribuzione che sarebbe stata corrisposta al lavoratore in caso
di svolgimento della prestazione e non il trattamento di integrazione salariale percepito per la contrazione dell’attività aziendale (MAZZIOTTI).
1 septies.I lavoratori pubblici hanno diritto al TFR?
Sì: a seguito della cosiddetta privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico, si è previsto, anche per l’istituto del TFR, una progressiva parificazione tra lavoratori pubblici e privati.
In particolare, in base al D.P.C.M. 118/2001, per i dipendenti pubblici assunti dopo il 31 dicembre 2000 l’applicazione delle regole del TFR è automatica, mentre per i dipendenti assunti prima del 31 dicembre 2000 il passaggio dal trattamento di fine servizio al TFR è facoltativo, con la contestuale
adesione però ad un fondo pensione al momento dell’opzione per il TFR.
Il termine per poter esercitare tale facoltà è stato di volta in volta prorogato, da ultimo fino
al 31 dicembre 2015 dall’accordo stipulato il 1°-12-2010 tra l’Aran e i sindacati.
2. Quando il lavoratore può chiedere un’anticipazione del TFR?
Riferimento normativo: art. 2120, co. 6-11, c.c.
Disciplina: illustrare le condizioni per ottenere l’anticipazione; evidenziare che
la richiesta deve essere giustificata da:
— spese sanitarie per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche;
264
Parte Sedicesima
— acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli;
— spese da sostenere durante i periodi di fruizione dei congedi parentali e per
formazione del lavoratore.
Domande consequenziali: limiti alla concessione di anticipazioni sul TFR.
Articolazione della risposta
La legge consente al lavoratore un certo margine di disponibilità anticipata del TFR.
È previsto, infatti (art. 2120, co. 6-11, c.c.), che il lavoratore, con almeno
8 anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro, possa chiedere, in costanza di rapporto di lavoro, un’anticipazione non superiore al 70% sul
TFR maturato, cioè quello cui avrebbe diritto nel caso di cessazione del
rapporto alla data della richiesta.
La richiesta deve essere giustificata da:
—spese sanitarie per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle
competenti strutture pubbliche;
—acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli;
—spese da sostenere durante i periodi di fruizione dei congedi parentali (cioè durante il periodo di congedo facoltativo, fruibile fino a 8 anni
di età del bambino) e per formazione del lavoratore.
L’anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto
di lavoro.
2 bis.Il datore di lavoro è tenuto ad accogliere tutte le richieste di
anticipazione del TFR che gli pervengono?
No: l’anticipazione del TFR deve essere accordata nei limiti del 10% degli aventi titolo e del 4% del numero totale dei dipendenti (art. 2120,
co. 7, c.c.).
3. Che cosa si intende per indennità a causa di morte del lavoratore?
Riferimento normativo: art. 2122 c.c.
Nozione: è il TFR maturato e spettante al lavoratore alla data del decesso corrisposto sotto forma di indennità sostitutiva ai suoi superstiti.
Il trattamento di fine rapporto (TFR)
265
Disciplina: ne hanno diritto:
— il coniuge, i figli e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo;
— in difetto spetta agli altri eredi secondo le regole della successione testamentaria o legittima.
Domande consequenziali: natura giuridica dell’indennità sostitutiva del TFR;
disponibilità dell’indennità mortis causa.
Articolazione della risposta
L’art. 2122 c.c. stabilisce che, in caso di morte del lavoratore, il TFR maturato e spettante al lavoratore alla data del decesso, sia corrisposto sotto forma di indennità sostitutiva ai suoi superstiti (cd. indennità mortis causa).
Ne hanno diritto il coniuge, i figli e, se vivevano a carico del prestatore di
lavoro, anche i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo.
La ripartizione dell’indennità, se non vi è accordo tra gli aventi diritto, deve essere fatta dal
giudice secondo il bisogno di ciascuno.
In mancanza di tali soggetti, l’indennità spetta agli altri eredi secondo le
regole della successione testamentaria o legittima.
3 bis. Che natura ha l’indennità a causa di morte?
Secondo la dottrina l’indennità prevista dall’art. 2122 c.c., sostitutiva del
TFR, ha natura diversa a seconda che si tratti dei prossimi congiunti indicati dalla legge o degli altri successibili.
Ai primi essa spetta iure proprio, indipendentemente dal fatto che siano
o meno chiamati all’eredità. Per essi ha quindi natura previdenziale, non
successoria, come mostra anche l’anomalo criterio di ripartizione secondo
il bisogno.
Per gli altri successibili l’indennità ha, invece, natura di normale acquisto
iure successionis, mancando, oltretutto, per loro quel rapporto di natura alimentare con il de cuius che lo legava ai primi (SANTORO PASSARELLI).
3 ter. È valido il patto con il quale il lavoratore si accorda con il coniuge per attribuirgli in via esclusiva l’indennità in caso di
morte?
No: in base all’art. 2122, co. 4, c.c., è nullo ogni patto anteriore alla morte
del prestatore di lavoro circa l’attribuzione e la ripartizione dell’indennità.
266
Parte Sedicesima
Si tratta di una previsione coerente con il divieto di patti successori sancito dall’art. 458 c.c.
e basata sull’inderogabilità della disciplina legislativa volta alla tutela di interessi primari
dei componenti della famiglia del lavoratore.
4. Quando interviene il Fondo di garanzia del TFR?
Riferimento normativo: art. 2 L. 297/1982.
Disciplina: il Fondo di garanzia interviene a tutela dei lavoratori per il pagamento
del TFR nel caso in cui il datore di lavoro sia insolvente.
Domande consequenziali: intervento del Fondo di garanzia nelle situazioni
transnazionali.
Articolazione della risposta
Il Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto, istituito presso l’INPS dalla L. 297/1982, ha la funzione di sostituirsi al datore di lavoro in caso
di insolvenza nel pagamento del TFR.
L’intervento del Fondo di garanzia è, quindi, subordinato al verificarsi di
una situazione che determina l’incapacità del datore di lavoro di pagare
il TFR ai lavoratori.
Tale situazione è accertata giuridicamente dall’esistenza del credito di TFR rimasto insoluto a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata o dalla sottoposizione del datore di
lavoro ad una procedura concorsuale (fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria).
Il Fondo, alimentato con un contributo a carico dei soli datori di lavoro, interviene in favore dei lavoratori subordinati, compresi gli apprendisti e i
dirigenti di aziende industriali, e dei loro aventi diritto, nonché in favore
dei soci delle cooperative di lavoro.
La tutela del Fondo di garanzia non riguarda solo il TFR, ma anche il pagamento delle ultime retribuzioni e il versamento dei contributi alle forme pensionistiche complementari.
4 bis. Nel caso di insolvenza di un’impresa operante in due o più
Stati membri della UE, come si individua l’organismo di garanzia per i crediti dei lavoratori?
La direttiva 2002/74/CE ha provveduto all’individuazione dell’organismo
di garanzia applicando il criterio della lex loci, in base al quale quando
Il trattamento di fine rapporto (TFR)
267
un’impresa avente attività sul territorio di almeno due Stati membri si trovi in stato d’insolvenza l’organismo di garanzia competente per il pagamento dei diritti non pagati dei lavoratori è quello dello Stato membro sul
cui territorio essi esercitano o esercitavano abitualmente il loro lavoro.
L’attuazione della dir. 2002/74/CE, avvenuta con il D.Lgs. 186/2005, ha
comportato l’estensione dell’intervento del Fondo di garanzia della L.
297/1982 anche nei confronti dei lavoratori assunti da imprese che operano in più Stati membri della UE quando questi abbiano prestato abitualmente la loro attività in Italia.
5. Quale fonte normativa disciplina la devoluzione del TFR alla
previdenza complementare?
Riferimenti normativi: D.Lgs. 124/1993; L. 243/2004; D.Lgs. 252/2005.
Evoluzione normativa: evidenziare il percorso normativo che dall’istituzione
della previdenza complementare con il D.Lgs. 124/1993 è giunto alla integrale
devoluzione del TFR ai fondi pensione con il D.Lgs. 252/2005.
Domande consequenziali: meccanismo del silenzio-assenso; ricaduta sul
regime del TFR dell’adesione alla previdenza complementare.
Articolazione della risposta
Con il D.Lgs. 124/1993 è stata introdotta la disciplina dei fondi pensione
privatistici, cioè di quelle forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio pubblico, aventi lo scopo di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale.
Dopo numerosi ma vani tentativi legislativi di incentivarne lo sviluppo, la
L. 243/2004 (cd. riforma Maroni) ha modificato la disciplina della previdenza complementare, unitamente a quella della previdenza pubblica, con
l’obiettivo di pervenire ad una struttura del sistema previdenziale in cui,
tenuto conto dell’esigenza di rendere sostenibile la spesa pensionistica a
carico dello Stato, siano garantiti al lavoratore trattamenti pensionistici
adeguati in rispondenza dell’art. 38 Cost.
A tal fine, la L. 243/2004 si prefigge lo sviluppo su larga scala della previdenza complementare favorendone il finanziamento mediante la devoluzione del TFR, modalità che, sebbene prevista anche in precedenza, aveva
trovato scarsissimo seguito tra i lavoratori.
268
Parte Sedicesima
Il D.Lgs. 252/2005, in attuazione della L. 243/2004, stabilisce che l’adesione alle forme pensionistiche complementari comporta, dal 1°-1-2007,
il conferimento del TFR maturando al fondo pensione prescelto dal lavoratore.
5 bis. Quale meccanismo regolamenta la devoluzione del TFR ai fondi pensione?
La scelta del lavoratore in merito all’adesione o meno ai fondi pensione è
regolato secondo il meccanismo del silenzio-assenso. Tutti i lavoratori del
settore privato che si occupano dopo il 1°-1-2007 devono scegliere se aderire o meno alla previdenza complementare entro 6 mesi dalla data dell’assunzione.
Qualora il lavoratore lasci passare inutilmente i 6 mesi di tempo previsti dalla legge, l’adesione al fondo pensione categoriale avviene automaticamente, e comporta la devoluzione integrale e obbligatoria del TFR maturando
(silenzio-assenso). Il datore di lavoro è obbligato a trasferire il TFR maturando del dipendente al fondo pensione individuato secondo i criteri definiti dalla legge.
5 ter. Quali conseguenze comporta per i lavoratori la scelta di conferire il TFR ai fondi pensione?
L’adesione alla previdenza complementare implica inevitabilmente una trasformazione del regime concernente il TFR.
Infatti, se il lavoratore aderisce, volontariamente o per effetto del silenzioassenso, alla previdenza complementare, al termine del rapporto non gli
sarà erogato il TFR. Egli riceverà, invece, a decorrere dalla data di maturazione dei requisiti per il diritto al trattamento pensionistico pubblico, una
pensione integrativa nella forma di una rendita periodica.
Parte Diciassettesima
Organizzazione e attività sindacale
1. Quale nozione si può dare di sindacato?
Nozione: evidenziare l’inesistenza di una definizione normativa di sindacato.
Disciplina: in virtù della mancata attuazione dell’art. 39 Cost. i sindacati sono
enti di fatto soggetti alla normativa di diritto comune.
Domande consequenziali: ragioni della mancata attuazione dell’art. 39 Cost.;
disciplina applicabile ai sindacati come enti di fatto.
Articolazione della risposta
Nel nostro ordinamento non esiste una nozione normativa di sindacato.
Secondo la ricostruzione dottrinale e giurisprudenziale, il sindacato è un’associazione libera e spontanea di singoli individui nel particolare status
di prestatori di lavoro subordinato o in quello di datori di lavoro.
È un’associazione che rappresenta, attraverso i suoi organi elettivi interni,
tutti gli individui che la compongono nella loro qualità di soci.
Il sindacato è un’associazione che agisce collettivamente al fine di tutelare i comuni interessi professionali nei confronti degli stessi soci, delle altre associazioni, di altri soggetti giuridici (MAZZONI).
La posizione giuridica dei sindacati è delineata dai commi 2, 3 e 4 dell’art.
39 Cost., i quali prevedono la figura del sindacato cosiddetto registrato.
Tale norma dispone infatti che:
—ai sindacati non può essere imposto altro obbligo oltre a quello della registrazione (presso uffici centrali o periferici) (2° co.);
—condizione per ottenere la registrazione è che i sindacati abbiano un ordinamento interno a base democratica (3° co.);
—con la registrazione i sindacati acquistano personalità giuridica di diritto pubblico e la capacità di stipulare, attraverso rappresentanze unitarie, contratti collettivi con efficacia erga omnes (4° co.).
In virtù della mancata attuazione dell’art. 39 Cost., nel nostro ordinamento i sindacati sono configurabili come associazioni prive di personalità giuridica, cioè enti di fatto a cui si applica la normativa di diritto
270
Parte Diciassettesima
comune: in specie gli artt. 36, 37 e 38 del codice civile recanti la disciplina delle associazioni non riconosciute.
1 bis. Quali sono le ragioni della mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione?
I fattori della mancata attuazione dell’art. 39 Cost. sono di varia natura.
La principale motivazione è derivata dal timore che il procedimento di registrazione, con i relativi controlli sul numero degli iscritti e soprattutto
sulla democraticità dell’organizzazione, diventasse uno strumento di intromissione dello Stato nella vita interna del sindacato (GIUGNI).
A tale motivazione si sono sovrapposte poi circostanze storiche che hanno avuto l’effetto di ridimensionare la funzione, e quindi la valenza, del
meccanismo di riconoscimento dei sindacati progettato dal legislatore costituzionale.
In specie, è oramai consolidata la tendenza giurisprudenziale alla generale applicazione dei contratti collettivi, a prescindere dall’esperimento di
formalità pubblicistiche (come la registrazione del sindacato stipulante)
volte a riconoscerne l’efficacia erga omnes.
Inoltre, a partire dagli anni ’60, si è diffuso un sindacalismo di fatto, caratterizzato da enorme forza contrattuale e politica, che il legislatore ha riconosciuto, seppur indirettamente, dotandolo di una normativa di sostegno
piuttosto che di una legge attuativa dell’art. 39 Cost.
Esiste, al riguardo, un dato di fatto difficilmente controvertibile: lo Statuto dei lavoratori
nel suo testo fa riferimento all’organizzazione sindacale così come è nella realtà attuale e
ciò in pratica ha reso superflua la realizzazione del sistema di riconoscimento giuridico previsto dall’art. 39 Cost.
1 ter. Quali conseguenze comporta la configurazione dei sindacati
come enti di fatto?
Dall’inquadramento dei sindacati tra gli enti di fatto deriva l’applicabilità della normativa dettata dal codice civile (artt. 36, 37 e 38 c.c.) per le
associazioni non riconosciute. In particolare, consegue che:
a) l’ordinamento interno e l’amministrazione sono regolati dagli accordi degli associati (art. 36 c.c.);
b) i contributi dei soci ed i beni acquistati costituiscono il fondo comune
che appartiene a tutti i soci, a titolo di comproprietà. Il fondo comune
Organizzazione e attività sindacale
271
non può essere diviso finchè dura l’associazione, e i soci recedenti hanno diritto alla propria quota solo allo scioglimento dell’associazione
(art. 37 c.c.);
c) il fondo comune è dotato di autonomia patrimoniale, in quanto i creditori del sindacato non possono far valere i loro diritti sul patrimonio
dei singoli associati ma solo sul fondo comune e, a loro volta, i creditori dei singoli soci non possono agire sul fondo comune.
Tale autonomia è però imperfetta, in quanto delle obbligazioni assunte
dal sindacato rispondono anche, personalmente e solidalmente, le persone che hanno agito in nome e per conto del sindacato stesso (art. 38
c.c.);
d) il sindacato può stare in giudizio nella persona di coloro ai quali sono
state conferite la presidenza o la direzione (art. 36, co. 2, c.c.).
2. Quali sono i principali criteri di associazionismo sindacale dal
lato dei lavoratori?
Nozione: i criteri di associazionismo sindacale sono individuati:
— dalla base professionale dei lavoratori;
— dell’attività dell’impresa.
Organizzazione: evidenziare che attualmente l’organizzazione dei sindacati è
strutturata sia su base verticale che orizzontale.
Articolazione della risposta
L’organizzazione sindacale dei lavoratori può avvenire in due modi:
a) su base professionale (cd. organizzazione orizzontale o per mestiere) quando il sindacato raccoglie tutti coloro che esercitano uno stesso
mestiere, indipendentemente dall’impresa in cui lavorano. Tale sistema
associativo comporta quindi la sussistenza di più sindacati nell’ambito
della stessa azienda, e per questo motivo è poco diffuso nel nostro Paese, rilevando solo per alcune professionalità quali dirigenti di azienda,
giornalisti professionisti, piloti dell’aviazione civile, primari ed aiuto
ospedalieri etc.;
b) sulla base dell’attività dell’impresa (cd. organizzazione verticale)
quando il sindacato raggruppa tutti coloro che prestano la loro opera in
imprese del medesimo settore produttivo o merceologico (ad esem-
272
Parte Diciassettesima
pio, sindacato dei lavoratori della gomma, sindacati dei lavoratori tessili, sindacato dei lavoratori delle imprese di trasporto); questo criterio
di aggregazione sindacale è il più diffuso in Italia (cd. sindacato di categoria).
Attualmente, l’organizzazione sindacale dei lavoratori è strutturata sia su
base verticale che su base orizzontale.
Su base verticale abbiamo i sindacati organizzati per categoria economica (es. metalmeccanici, tessili etc.), i quali, a loro volta, confluiscono nel
sindacato provinciale di categoria; da quest’ultimo si passa alle Federazioni nazionali che, a loro volta, danno vita alla Confederazione. Il livello
verticale svolge prevalentemente compiti di contrattazione.
I sindacati provinciali, però, si organizzano anche in linea orizzontale,
unendosi nella Unione territoriale, che prende nomi diversi a seconda della centrale sindacale cui fa capo (ad esempio: Camera del Lavoro nella
CGIL; Unione sindacale provinciale nella CISL; Camera sindacale provinciale nella UIL). Il livello orizzontale, che ha carattere intercategoriale
e intersettoriale, svolge funzioni di natura strategica e politica.
3. Come si manifesta concretamente il principio di libertà sindacale?
Riferimento normativo: art. 39, co.1, Cost.
Nozione: il principio della libertà sindacale deve essere inteso come la facoltà
di coalizione e di azione per la difesa di interessi collettivi professionali; essa ha
una molteplicità di esplicazioni, tra cui:
— libertà organizzativa;
— libertà dell’azione contrattuale;
— libertà sindacale positiva;
— libertà sindacale negativa.
Domande consequenziali: rapporto tra libertà sindacale e libertà di associazione.
Articolazione della risposta
L’art. 39, co. 1, della Costituzione sancisce la libertà di organizzazione sindacale, definita come la facoltà di coalizione e di azione per la difesa di
interessi collettivi professionali (VALLEBONA).
Organizzazione e attività sindacale
273
La previsione costituzionale vale ad affermare che alla base dell’organizzazione, della funzione e della stessa azione sindacale vi è la libertà intesa come diritto soggettivo assoluto.
Così concepita, la libertà sindacale, che è un principio normativo di immediata applicazione, ha una molteplicità di esplicazioni, sia nei confronti
dello Stato che delle stesse organizzazioni sindacali e dei singoli lavoratori e datori di lavoro.
In relazione alle organizzazioni sindacali, la libertà sindacale deve essere
intesa non solo come mera libertà organizzativa, cioè di scegliere le forme di aggregazione e le regole che ne disciplinano l’assetto interno, ma soprattutto come libertà dell’azione contrattuale, conferendo, in tal modo,
legittimità costituzionale ai comportamenti negoziali dei sindacati.
In tal senso, l’espressione più importante dell’autonomia e della libertà sindacale è rappresentata dalla contrattazione collettiva, ossia dalla complessa attività attraverso cui le contrapposte organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori determinano le condizioni di lavoro e risolvono i loro
conflitti di interesse.
La libertà sindacale, inoltre, è disposta non solo a garanzia dei gruppi sindacali ma anche dei singoli individui, liberi sia di partecipare alle organizzazioni sindacali (libertà sindacale positiva), sia di scegliere di non iscriversi o di recedere dal sindacato (libertà sindacale negativa).
3 bis. Che rapporto c’è tra il principio di libertà sindacale (art. 39
Cost.) e la libertà di associazione (art. 18 Cost.)?
La libertà di organizzazione sindacale viene considerata come una autonoma e specifica manifestazione del generale principio di libertà di
associazione sancito dall’art. 18 Cost.
Tra la libertà di associazione e quella sindacale non esiste, tuttavia, una relazione di genere a specie: l’associazione presuppone, infatti, una rappresentanza di volontà formalizzata nel mandato conferito dai soci all’associazione stessa; l’organizzazione sindacale, invece, è basata su una rappresentanza di interessi di tutti i lavoratori (anche non soci) appartenenti alla
categoria, il che fa sì, nel caso del sindacato dei lavoratori, che esso divenga portatore di un autonomo potere negoziale (MAZZIOTTI).
Peraltro, se il Costituente avesse identificato l’organizzazione sindacale con il più generale concetto di associazione, sarebbe stato inutile dedicare una norma ad hoc (quale appunto l’art. 39 Cost.) alla libertà di organizzazione sindacale.
274
Parte Diciassettesima
4. Cosa prevede lo Statuto dei lavoratori in tema di libertà sindacale?
Riferimenti normativi: artt. 14, 15, 16, 17 L. 300/1970.
Disciplina: lo Statuto dei lavoratori prevede una serie di norme che impongono
all’imprenditore di rispettare la sfera di libertà dei lavoratori e del sindacato, quali:
— il diritto a svolgere liberamente attività e propaganda sindacale nei luoghi di
lavoro (art. 14);
— il divieto di patti ed atti discriminatori in relazione all’attività sindacale (art. 15);
— il divieto di concedere trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio (art. 16);
— il divieto di costituzione e sostegno da parte dei datori a sindacati di comodo (art. 17).
Domande consequenziali: poteri del giudice nell’ipotesi di sindacati di comodo.
Articolazione della risposta
Le norme dello Statuto dei lavoratori che mirano a conferire effettività al
principio di libertà sindacale sono contenute negli artt. 14, 15, 16 e 17. Queste norme impongono all’imprenditore un obbligo di rispetto della sfera
della libertà dei lavoratori e del sindacato, nell’ambito della quale questi
soggetti devono essere liberi di autodeterminarsi.
In particolare:
—l’art. 14 prevede il diritto a svolgere liberamente attività e propaganda sindacale nei luoghi di lavoro. Non si tratta di una inutile ripetizione di quanto già previsto nell’art. 39, co. 1, Cost., poiché, con tale disposizione, viene imposta l’efficacia della norma costituzionale non
solo nella sfera dei rapporti cittadino-Stato, ma anche nella sfera dei
rapporti interprivati (GIUGNI);
—l’art. 15 vieta patti ed atti discriminatori in relazione all’attività sindacale dei prestatori e contro la loro personalità e dignità: sono ricompresi nel divieto, quindi, sia gli atti o patti diretti a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad
un’associazione sindacale, ovvero che cessi di farne parte; sia quelli diretti a licenziare un lavoratore, a discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o
recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività
sindacale o della sua partecipazione ad uno sciopero;
Organizzazione e attività sindacale
275
—l’art. 16 sancisce il divieto di concedere trattamenti economici di
maggior favore — aventi carattere discriminatorio ai sensi dell’art. 15
— ad una pluralità di lavoratori. Si tratta di un modo più sottile di discriminare i lavoratori che non tengano un determinato comportamento, condizionandoli nell’esercizio della libertà sindacale.
Un tipico esempio è costituito dai premi che vengano corrisposti ai lavoratori che non
abbiano partecipato ad uno sciopero;
—l’art. 17 vieta espressamente la costituzione ed il sostegno da parte dei
datori (e delle loro organizzazioni sindacali) a sindacati di comodo ossia controllati, anche occultamente, dai datori stessi.
Importante poi è la disciplina garantistica del licenziamento contenuta
nell’art. 18 St. lav. che prevede la reintegrazione nel posto di lavoro del
prestatore illegittimamente licenziato.
4 bis. Nel caso in cui sia stato costituito un sindacato di comodo, il
giudice può ordinarne lo scioglimento?
No. Il comportamento illegittimo tipizzato dalla norma, infatti, è l’atto del
datore di lavoro o della sua associazione di costituire o sostenere il sindacato di comodo (detto anche giallo), non l’esistenza di questo. In caso di
violazione, pertanto, il giudice vieterà al datore di lavoro l’azione di sostegno, ma non potrà ordinare lo scioglimento dell’associazione (GIUGNI).
5. Come è disciplinato il diritto di assemblea dei lavoratori?
Riferimento normativo: art. 20 L. 300/1970.
Nozione: diritto dei lavoratori di riunirsi nell’unità produttiva in cui prestano la
loro opera per discutere argomenti di interesse sindacale e del lavoro.
Disciplina: i lavoratori possono riunirsi al di fuori dell’orario di lavoro o anche
durante l’orario di lavoro nel limite di 10 ore annue (e anche di più se previsto
dalla contrattazione collettiva) senza perdere la retribuzione.
Domande consequenziali: potere di convocazione dell’assemblea da parte del
singolo componente la RSU; partecipazione di sindacalisti esterni.
276
Parte Diciassettesima
Articolazione della risposta
L’art. 20 St. lav. sancisce il diritto dei lavoratori di riunirsi nell’unità
produttiva in cui prestano la loro opera per discutere argomenti di interesse sindacale e del lavoro.
I lavoratori hanno il diritto di riunirsi in assemblea durante l’orario di lavoro, senza perdere la retribuzione, nel limite massimo di 10 ore annue
(fermo restando che la contrattazione collettiva può stabilire un numero di
ore superiore).
Non sono previsti limiti, invece, per lo svolgimento di assemblee fuori
dell’orario di lavoro.
Lo svolgimento dell’assemblea implica la collaborazione del datore di lavoro: questi, infatti, deve mettere a disposizione dei lavoratori quanto è necessario affinché l’assemblea possa svolgersi, come ad esempio il locale o
lo spazio idoneo, consentire il libero accesso ad esso, fornire l’illuminazione.
Il datore deve, inoltre, consentire l’accesso in azienda, per la partecipazione alle assemblee,
anche ai lavoratori sospesi e collocati in Cassa integrazione guadagni a zero ore (Cass.
7859/1986) e ai lavoratori in sciopero (Cass. 11352/1995).
Anche il datore di lavoro può partecipare all’assemblea, naturalmente solo
se invitato dai lavoratori (Cass. 1366/1976).
Il potere di convocare l’assemblea spetta ad ogni singola RSA o, dove esistente, alla RSU.
La convocazione deve essere comunicata al datore di lavoro nel rispetto
dei termini di preavviso stabiliti dai contratti collettivi, al fine di consentirgli di predisporre le misure organizzative necessarie a far fronte alla sospensione dell’attività lavorativa.
5 bis. L’assemblea può essere indetta dal singolo componente della
RSU?
Sì: la giurisprudenza, infatti, ha recentemente affermato che il diritto di indire l’assemblea è riconosciuto al singolo componente della RSU e non
già a quest’ultima come organismo a funzionamento necessariamente collegiale.
La previsione dell’art. 4 dell’Accordo Interconfederale del 1993, che reca il riconoscimento del diritto di indire singolarmente o congiuntamente l’assemblea dei lavoratori, riprende la duplice modalità di convocazione stabilita dallo statuto dei lavoratori, escludendo che
Organizzazione e attività sindacale
277
questa possa essere solo ed unicamente congiunta, ossia riferita all’intera rappresentanza
sindacale unitaria (Cass. 1892/2005; Trib. Roma 9 luglio 2008).
5 ter.Alle assemblee possono partecipare anche sindacalisti esterni?
Sì: l’art. 20 St. lav. prevede, infatti, che alle riunioni possono partecipare
dirigenti esterni del sindacato cui fa capo la RSA che convoca l’assemblea.
Unica condizione per tale partecipazione è il preavviso al datore di lavoro.
Si è ritenuto che i dirigenti esterni cui fa riferimento la norma possano essere membri di organi direttivi di sindacati provinciali, di organizzazioni
orizzontali provinciali e di confederazioni, ma anche i dirigenti di rappresentanze sindacali di altre unità produttive (GIUGNI).
6. Chi può indire il referendum?
Riferimento normativo: art. 21 L. 300/1970.
Nozione: strumento di consultazione dei lavoratori che ne consente la partecipazione alle decisioni ed alle politiche contrattuali dei sindacati.
Disciplina: ha ad oggetto materie inerenti all’attività sindacale, deve svolgersi
fuori dell’orario di lavoro e deve essere indetto da tutte le RSA congiuntamente.
Domande consequenziali: tutela giudiziaria in caso di lesione del diritto allo
svolgimento del referendum.
Articolazione della risposta
Ai sensi dell’art. 21 St. lav., il referendum, a differenza dell’assemblea,
deve essere indetto da tutte le RSA congiuntamente, ovvero dalla RSU,
intesa come organismo collegiale, nei luoghi in cui è costituita. Esso deve
svolgersi fuori dell’orario di lavoro e deve riguardare materie inerenti
all’attività sindacale.
Anche se lo svolgimento del referendum è previsto fuori dall’orario di lavoro, esso, come l’assemblea, richiede la necessaria collaborazione del
datore di lavoro per la disponibilità dei locali, l’accesso ad essi o l’uso dei
servizi.
Si tratta di uno strumento di consultazione dei lavoratori che ha avuto notevole diffusione all’interno delle aziende: è una prassi, infatti, il ricorso a
278
Parte Diciassettesima
referendum in occasione delle trattative contrattuali, sia nella fase iniziale (per l’elaborazione della piattaforma), sia nel momento finale (per la
conclusione dell’accordo).
6 bis. Quali sanzioni prevede l’ordinamento contro il datore di lavoro che nega l’accesso ai locali aziendali per lo svolgimento del
referendum?
Il datore di lavoro che limita od ostacola lo svolgimento del referendum (così
come dell’assemblea), ad esempio negando la disponibilità dei locali aziendali, incorre in condotta antisindacale. Si tratta di un comportamento cd.
plurioffensivo, in quanto lesivo non solo dell’interesse collettivo delle RSA
titolari del diritto di indizione del referendum, ma anche, indirettamente,
dell’interesse individuale del lavoratore a partecipare alla consultazione.
In tal caso, quindi, potrà applicarsi lo speciale procedimento, previsto
dall’art. 28 St. lav., per far cessare la condotta antisindacale del datore di
lavoro e per rimuoverne gli effetti.
7. Che cosa sono le Rappresentanze sindacali aziendali (RSA) e
che differenza c’è con le Rappresentanze sindacali unitarie
(RSU)?
Riferimenti normativi: art. 19 L. 300/1970; Accordo interconfederale 20-12-1993.
Nozione: le RSA si sostanziano nelle organizzazioni attraverso cui il sindacato è
presente in azienda, esse sono state generalmente sostituite dalle RSU previste
e disciplinate dagli accordi interconfederali.
Differenze: elencare le differenze relative alla costituzione delle rappresentanze
sindacali.
Articolazione della risposta
L’art. 19 St. lav., nel testo vigente a seguito dell’esito del referendum del
1995, garantisce la possibilità di costituire Rappresentanze sindacali
aziendali (RSA), definibili come centrali sindacali nel luogo di lavoro.
Le RSA possono essere costituite, in ogni unità produttiva che abbia più
di 15 dipendenti, su iniziativa dei lavoratori nell’ambito delle associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo di lavoro applicato
nell’azienda.
Organizzazione e attività sindacale
279
Il requisito dell’iniziativa dei lavoratori sta a significare che la designazione dei componenti della RSA non può essere imposta unilateralmente dal sindacato; mentre, il ricorso al
concetto di ambito sindacale indica che, pur escludendosi un legame rigido, deve comunque esserci una sorta di riconoscimento della RSA da parte del sindacato.
Le RSA, comunque, sono destinate ad essere sostituite dalle Rappresentanze sindacali unitarie (RSU), introdotte dal Protocollo d’intesa del 237-1993, sulla base delle indicazioni contenute nell’Accordo quadro del
1991 e disciplinate dall’Accordo Interconfederale del 20-12-1993 che ne
regola la costituzione, i compiti e il funzionamento.
La RSU è un organismo rappresentativo unitario eletto, ogni 3 anni, da
tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, iscritti e non iscritti, addetti all’unità produttiva.
Alle elezioni dei componenti della RSU possono candidarsi tutti i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, inseriti in liste presentate dai singoli sindacati.
Sono abilitati alla presentazione delle liste elettorali soltanto i sindacati
che hanno aderito all’Accordo Interconfederale del 1993, o che partecipano al contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’unità produttiva, oppure ancora che rappresentino almeno il 5% dei lavoratori dipendenti dell’unità produttiva.
Una volta costituita la RSU, i suoi componenti sono titolari, come le RSA
e i relativi dirigenti dei diritti, permessi, libertà sindacali e tutele, compreso il diritto di indire l’assemblea sindacale.
Parte Diciottesima
Il diritto di sciopero
1. Come è definito il diritto di sciopero nell’attuale ordinamento giuridico?
Riferimento normativo: art. 40 Cost.
Nozione: individuare lo sciopero come astensione totale e concertata dal lavoro
da parte di più lavoratori subordinati per la tutela dei loro interessi collettivi.
Disciplina: secondo il dettato costituzionale lo sciopero si esercita nell’ambito
delle leggi che lo regolano.
Elementi da evidenziare: si tratta di un diritto soggettivo fondamentale e irrinunciabile di immediata applicazione attribuito ai soli prestatori di lavoro qualificabile
secondo la dottrina come:
— diritto al conflitto;
— diritto soggettivo pubblico di libertà;
— diritto potestativo.
Domande consequenziali: evoluzione storica dello sciopero; titolarità del
diritto di sciopero; sussistenza del diritto di sciopero per i lavoratori autonomi;
sussistenza del diritto di sciopero per le forze di polizia; astensione dalle udienze
degli avvocati.
Articolazione della risposta
Lo sciopero viene definito come l’astensione totale e concertata dal lavoro da parte di più lavoratori subordinati per la tutela dei loro interessi collettivi.
L’art. 40 della Costituzione solennemente sancisce che il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano.
La previsione costituzionale vale a riconoscere il diritto di sciopero non
come semplice libertà, ma come vero e proprio diritto soggettivo fondamentale ed irrinunciabile che garantisce l’effettiva attuazione del principio di libertà sindacale.
Si tratta, inoltre, di un diritto di immediata applicazione dato il carattere
precettivo dell’art. 40 Cost. e attribuito come tale ai soli prestatori di lavoro, non essendoci infatti un analogo riconoscimento costituzionale per
la serrata del datore di lavoro.
Il diritto di sciopero
281
Da ciò emerge la natura del diritto di sciopero come diritto al conflitto,
volto alla realizzazione del principio di uguaglianza sostanziale ex art. 3
Cost. nell’ambito dello scontro sociale che caratterizza il rapporto tra prestatori e datori di lavoro.
La dottrina ha comunque qualificato lo sciopero come diritto soggettivo
pubblico di libertà: ciò sta a significare che il diritto di sciopero esplica i
suoi effetti non solo nei rapporti intersoggettivi privati, inibendo al datore
di lavoro la possibilità di compiere atti diretti a ostacolare l’esercizio del
diritto, ma anche nel rapporto tra Stato e cittadino, nel senso di stabilire
che non può essere emanato alcun provvedimento legislativo, amministrativo o giurisdizionale che contrasti con il diritto di sciopero (GIUGNI).
Occorre, inoltre, rilevare che parte della dottrina (SANTORO PAS­
SARELLI) configura lo sciopero come un diritto potestativo del lavoratore, perché dà luogo ad una modifica unilaterale del rapporto, e cioè il venir meno della legittima aspettativa del datore di lavoro a ricevere la prestazione lavorativa.
1 bis. Nel nostro ordinamento lo sciopero è sempre stato legittimo?
Nel nostro ordinamento positivo lo sciopero ha avuto un’evoluzione particolare, passando da una fase di repressione durata fino al 1889 (codice
Zanardelli) e ripresa nel periodo fascista nel codice Rocco (lo sciopero era
punito come reato), ad una fase di tolleranza dal 1890 al 1926 (lo sciopero, non più punito come reato, era tollerato come forma di manifestazione dell’attività sindacale) giungendo infine, con l’avvento della Costituzione repubblicana, ad una fase di riconoscimento.
La dottrina (CARINCI, DE LUCA TAMAJO, TOSI, TREU) distingue quindi tra:
— sciopero come reato, la cui attuazione dava luogo all’applicazione di sanzioni sia detentive che pecuniarie;
— sciopero come libertà, non sanzionato dal legislatore ma soggetto soltanto al potere
disciplinare del datore di lavoro (codice Zanardelli);
— sciopero come diritto di rango costituzionale, il cui esercizio è regolamentato dalle
leggi dello Stato.
1 ter.A chi compete la titolarità del diritto di sciopero?
Immediatamente dopo l’entrata in vigore della Costituzione, parte della
dottrina identificò il sindacato come il soggetto esclusivamente titolare del
282
Parte Diciottesima
diritto di sciopero (SICA) o, quantomeno, come uno dei soggetti contitolari, insieme al singolo lavoratore, di tale diritto (CALAMANDREI).
Attualmente, invece, si ritiene, sia in dottrina che in giurisprudenza, che la
titolarità del diritto di sciopero è attribuita al singolo prestatore di lavoro (sia pubblico che privato), il quale lo può esercitare senza il bisogno
di alcun benestare sindacale.
Se però si tiene conto della realtà sindacale si deve convenire che, in sostanza, tale diritto si configura come individuale quanto alla sua titolarità, ma collettivo quanto al suo esercizio e innanzitutto alla sua proclamazione (cd. dimensione collettiva del diritto di sciopero) (MAZZIOTTI).
Solo l’abbandono collettivo del posto di lavoro da parte di una pluralità di lavoratori (sufficientemente consistente), può qualificarsi come esercizio del diritto di sciopero; ciò in
quanto solo un’astensione collettiva e concordata dal lavoro può consentire di realizzare
quei fini collettivi al raggiungimento dei quali è preordinato lo sciopero.
1 quater.Anche ai lavoratori autonomi è riconosciuto il diritto di
sciopero ex art. 40 Cost.?
No. Il diritto di sciopero è storicamente strumento di lotta di lavoratori in
condizione di inferiorità che tramite l’esercizio del diritto di sciopero mirano a riequilibrare il loro deficit di forza sociale.
A tale principio deve ricondursi il mancato riconoscimento della titolarità del diritto di sciopero ai lavoratori autonomi tout court, che non
godono, quindi, della tutela dell’art. 40 Cost., ma solo di quella dell’art.
18 Cost. (libertà di associazione) nel cui ambito sono ricondotte le loro
forme di protesta.
Da ciò scaturisce che anche per quanto riguarda le conseguenze derivanti dalla sospensione delle attività a cui sono tenuti, i lavoratori autonomi, a differenza dei lavoratori subordinati che esercitano il diritto di sciopero, sono soggetti a responsabilità per inadempimento contrattuale.
1 quinquies.Le forze di polizia possono scioperare?
No: lo sciopero dei militari e delle forze di polizia è inammissibile soprattutto per il fatto che la loro astensione dal lavoro verrebbe a ledere altri
beni costituzionalmente protetti, come la tutela della libertà, della integrità fisica, la difesa della Nazione etc.
Il diritto di sciopero
283
Il ricorso all’esercizio del diritto di sciopero è, comunque, espressamente
escluso:
a) per i militari dalla L. 382/1978;
b) per gli appartenenti alla Polizia di Stato dalla L. 121/1981.
1 sexies.Si può qualificare come sciopero l’astensione dalle udienze degli avvocati?
No: la giurisprudenza, infatti, pur estendendo a questa forma di lotta i vincoli posti dalla L. 146/1990 in tema di sciopero nei servizi pubblici essenziali, si è espressa in senso contrario configurando tali sospensioni dall’attività forense come mere astensioni collettive (Corte Cost. 171/1996).
2. È legittimo lo sciopero politico?
Riferimento normativo: art. 503 c.p.
Nozione: è lo sciopero attuato per fini politici.
Disciplina: a seguito della pronuncia giurisprudenziale è sanzionato penalmente
solo lo sciopero politico volto a sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero ad
impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime
la sovranità popolare.
Elementi da evidenziare: lo sciopero è legittimo quando è finalizzato alla tutela
degli intersessi dei lavoratori riferiti ai beni riconosciuti e tutelati nella disciplina
costituzionale dei rapporti economici.
Domande consequenziali: sciopero di solidarietà; sciopero di protesta.
Articolazione della risposta
Sì: la Corte costituzionale con la sentenza 290/1974, ha ritenuto legittimo
lo sciopero per finalità politiche.
Già in passato, comunque, si era ritenuto che nell’attuale ordinamento giuridico, lo sciopero costituisce esercizio legittimo di un diritto, senza possibilità di discriminazione fra scioperi economici, politici, di solidarietà e di protesta (Corte di Assise di Lucera, 5-4-1953; ed
in dottrina GIUGNI).
Con la sentenza citata la Consulta ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 503
c.p. che punisce come delitto lo sciopero attuato per fini non contrattuali.
284
Parte Diciottesima
Pertanto, attualmente, anche al lume della prassi giurisprudenziale, è opinione prevalente che lo sciopero, inteso come totale astensione dal lavoro, si legittimi pienamente tutte le volte che sia finalizzato alla tutela degli
interessi dei lavoratori, interessi che non vanno riferiti alle sole rivendicazioni retributive, ma coinvolgono e ricomprendono quel vario complesso
di beni riconosciuti e tutelati nella disciplina costituzionale dei rapporti
economici (artt. 35-47 Cost.).
Resta, invece, la sanzione penale dell’art. 503 c.p. nel caso di sciopero politico volto a sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime
la sovranità popolare.
2 bis. Che cos’è lo sciopero di solidarietà?
Lo sciopero di solidarietà ricorre quando i prestatori si astengono dal lavoro per appoggiare uno sciopero già intrapreso da altri lavoratori, di
diversa categoria o di diversa impresa, al solo fine di aumentare la forza
di pressione, senza avere nella controversia alcun interesse diretto.
Tale tipo di sciopero è legittimo quando la protesta avanzata dai primi scioperanti abbia carattere professionale e vi sia affinità tra gli interessi degli
scioperanti per solidarietà e la pretesa avanzata dai primi scioperanti (in tal
senso, Corte Cost. 123/1962).
2 ter. Quando ricorre lo sciopero di protesta?
Si parla di sciopero di protesta quando i lavoratori scioperano per ritorsione contro un provvedimento preso da un singolo o più datori di lavoro
nei confronti di un singolo o di più prestatori (diversi da quelli che scioperano) ovvero per protestare contro atteggiamenti vessatori del datore di lavoro (ad es. rifiuto di iniziare o proseguire le trattative).
Tale sciopero, sempre secondo la sentenza 123/1962 Corte Cost., è da ritenersi lecito quando ricorre la natura professionale dell’interesse leso dal
provvedimento del datore di lavoro contro cui si protesta e la comunanza
di interessi tra gli scioperanti e il lavoratore o i lavoratori colpiti dal provvedimento del datore.
Il diritto di sciopero
285
3. Cosa si intende per sciopero articolato?
Nozione: evidenziare che si tratta di astensioni collettive dal lavoro attuate con
modalità anomale e particolari come lo:
— sciopero a singhiozzo;
— sciopero a scacchiera;
— sciopero parziale.
Disciplina: sono astensioni collettive considerate legittime a seguito dell’intervento della Cassazione.
Elementi da evidenziare: non esistendo una definizione legislativa di sciopero,
essa deve essere ricavata dalla prassi delle relazioni industriali.
Domande consequenziali: corrispettività dei danni e danno ingiusto; sciopero
dello straordinario; picchettaggio.
Articolazione della risposta
Con l’espressione sciopero articolato si fa riferimento ad alcune modalità
anomale e particolari con le quali vengono attuate le astensioni collettive dal lavoro.
Tra le forme di sciopero articolato si distingue:
—lo sciopero a singhiozzo: caratterizzato dal fatto che l’astensione dal
lavoro è frazionata nel tempo in brevi periodi;
—lo sciopero a scacchiera: consistente nell’astensione dal lavoro in reparti alternati e in tempi successivi;
—lo sciopero parziale: realizzato in settori o durante fasi lavorative la cui
interruzione comporta un notevole ritardo (fino all’intera giornata lavorativa) nella ripresa dell’attività.
Si tratta di forme di sciopero in passato ritenute illegittime in quanto attuate con modalità differenti rispetto alla definizione canonica di sciopero quale astensione concertata e continuativa dal lavoro di tutti i dipendenti.
Con la sentenza 30-1-1980, n. 711, la Cassazione ha mutato il proprio
orientamento, affermando che la nozione di sciopero deve essere desunta
dal comune linguaggio adottato nell’ambiente sociale: non esistendo una
definizione legislativa di sciopero, essa deve essere ricavata dalla prassi
delle relazioni industriali, per cui se non tutte le forme di lotta possono essere ritenute legittime, per gran parte di esse, pur non rientranti nella no-
286
Parte Diciottesima
zione consolidata di sciopero, va ammessa l’applicazione diretta dell’art.
40 che ne legittima la pratica.
Conseguentemente a tale pronuncia, è da ritenersi legittimo lo sciopero
articolato, nelle sue varie forme: a singhiozzo, a scacchiera o parziale.
3 bis. È ancora valida la distinzione tra corrispettività dei danni e
danno ingiusto ai fini del riconoscimento della legittimità dello sciopero?
No. In passato per dimostrare l’illegittimità di alcune forme di sciopero
dottrina e giurisprudenza hanno utilizzato i concetti di corrispettività dei
danni e di danno ingiusto, affermando che gli scioperanti non dovrebbero
mai produrre alla sfera giuridica del datore un danno maggiore di quello
necessario per perseguire la finalità cui lo sciopero tende: in sostanza, la
legittimità dello sciopero dipendeva dalla sussistenza di una corrispettività tra il danno arrecato all’impresa e la sospensione della retribuzione
ai lavoratori scioperanti.
Se il danno eccedeva la pura e semplice sospensione del lavoro e quindi della produzione
integrava gli estremi di un danno ingiusto (GHEZZI), da cui discendeva l’illegittimità delle forme articolate di sciopero.
A seguito della sentenza 711/1980 della Cassazione con cui si è riconosciuta la legittimità dello sciopero articolato, i limiti all’esercizio del diritto di sciopero possono derivare soltanto dal confronto con norme costituzionali che tutelano interessi contrastanti con quello protetto dall’art. 40
Cost., e non più da un’astratta definizione di sciopero (superamento della
distinzione tra limiti interni e limiti esterni al diritto di sciopero), per cui
in virtù di tale orientamento sono stati enucleati i concetti di danno alla
produzione e danno alla produttività.
Se si considera, infatti, che l’art. 41 Cost. tutela la libertà di iniziativa economica, intesa come garanzia dell’attività imprenditoriale che sostiene il diritto al lavoro, allora lo sciopero è illegittimo quando determina un danno alla produttività, cioè una lesione duratura
della capacità produttiva dell’impresa (distruzione degli impianti o alterazione della loro
funzionalità, deperimento delle materie prime etc.) con il rischio dell’impossibilità per l’imprenditore di poter continuare nell’esercizio dell’impresa. Diversamente, invece, non è illegittimo lo sciopero che, pur attuato in forme anomale, comporta un danno alla produzione, cioè l’impossibilità temporanea di ottenere un risultato produttivo.
Il diritto di sciopero
287
3 ter. È legittimo lo sciopero dello straordinario?
Sì. Lo sciopero dello straordinario consiste nel rifiuto collettivo di prestare lo straordinario richiesto dal datore di lavoro ai sensi del contratto collettivo.
La giurisprudenza, dopo iniziali incertezze, ritiene tale sciopero legittimo,
in quanto consiste in una astensione dal lavoro, sia pure limitata alle ore
eccedenti l’orario normale (Cass. 28-6-1976, n. 2840).
3 quater.Che cos’è il picchettaggio?
Consiste in un’attività dei lavoratori scioperanti volta a impedire l’ingresso in azienda dei lavoratori che non aderiscono allo sciopero.
Il picchettaggio è considerato illegittimo solo se l’attività è realizzata con
modalità violente, diverse dalla persuasione svolta pacificamente.
4. Quali sono le conseguenze dell’esercizio del diritto di sciopero sul rapporto di lavoro?
Nozione: sottolineare che lo sciopero costituisce un fatto giuridicamente lecito
per cui non può comportare la insorgenza di alcuna responsabilità nei rapporti
tra le parti.
Disciplina: evidenziare che l’esercizio dello sciopero determina la sospensione
bilaterale delle due prestazioni fondamentali del rapporto di lavoro:
— la prestazione lavorativa da parte dei dipendenti;
— la corresponsione della retribuzione da parte dei datori di lavoro.
Elementi da evidenziare: è nullo il licenziamento determinato dall’esercizio di
sciopero.
Articolazione della risposta
L’effettuazione di uno sciopero, stante la garanzia costituzionale, costituisce un fatto giuridicamente lecito e non una ipotesi di inadempimento
contrattuale, per cui non può comportare la insorgenza di alcuna responsabilità nei rapporti tra le parti (GIUGNI).
Unico effetto dell’esercizio del diritto di sciopero sarà la sospensione bilaterale delle due prestazioni fondamentali del rapporto di lavoro e cioè
della prestazione lavorativa da parte dei dipendenti e della corresponsione
288
Parte Diciottesima
della retribuzione da parte dei datori di lavoro. Al di fuori delle anzidette
conseguenze, durante l’esercizio del diritto di sciopero, il rapporto di lavoro resta in vigore ed operante ad ogni altro possibile fine: ad es. per le prestazioni degli enti previdenziali che vengono regolarmente erogate al lavoratore anche durante il periodo di astensione dal lavoro.
I principi di cui sopra hanno trovato conferma nella stessa legislazione dapprima con la L. 15-7-1966, n. 604 che, all’art. 4, ha dichiarato nullo il licenziamento determinato dalla partecipazione ad attività sindacale (ivi compreso lo sciopero) e, successivamente, con lo Statuto dei Lavoratori che,
agli artt. 15, 16 e 28 vieta e punisce ogni comportamento del datore di lavoro inteso a impedire o limitare l’esercizio del diritto di sciopero.
5. È legittimo il cd. crumiraggio?
Nozione: si fa riferimento alla sostituzione temporanea da parte del datore di
lavoro dei dipendenti in sciopero con altri lavoratori.
Distinzioni: si differenzia dal crumiraggio indiretto con cui si indicano i lavoratori
che non aderiscono allo sciopero.
Disciplina: evidenziare che:
— è legittima la sostituzione degli scioperanti con altri dipendenti (crumiraggio
interno);
— è illegittima l’assunzione di lavoratori esterni per la sostituzione degli scioperanti (crumiraggio esterno).
Elementi da evidenziare: il legislatore vieta la somministrazione per la sostituzione dei lavoratori che esercitano il diritto di sciopero.
Articolazione della risposta
Il crumiraggio consiste nella sostituzione temporanea da parte del datore di lavoro dei dipendenti in sciopero con altri lavoratori.
Tale attività di sostituzione è denominata crumiraggio indiretto e si distingue dal crumiraggio diretto, costituito dal comportamento di quei lavoratori che non ritengono di aderire allo sciopero da altri proclamato. Il
crumiraggio diretto, a differenza del primo, non dà origine a problemi di
legittimità, in quanto può considerarsi espressione del principio di libertà
sindacale, e in particolare della libertà sindacale cd. negativa.
Per quanto concerne il crumiraggio indiretto occorre distinguere tra crumiraggio interno (sostituzione di scioperanti con altri dipendenti sposta-
Il diritto di sciopero
289
ti provvisoriamente dal loro normale lavoro) e crumiraggio esterno, che
si attua con l’assunzione di personale estraneo all’impresa per la sostituzione dei lavoratori in sciopero.
Il primo è da ritenersi legittimo in quanto il datore, senza incidere sui diritti degli scioperanti, cerca di limitare le conseguenze dannose dello sciopero, ricorrendo ad altri lavoratori che non aderiscono allo stesso.
In tal senso la Cassazione (sent. 9-5-2006, n. 10624) ha stabilito che a
fronte dell’astensione dei lavoratori, il datore di lavoro conserva il diritto di continuare a svolgere la propria attività aziendale anche mediante il contingente affidamento delle mansioni, svolte da lavoratori in sciopero, a dipendenti non in sciopero, che è legittimo nella misura in cui si
svolga nei limiti normativamente previsti dalla legge o da una norma collettiva.
Secondo la giurisprudenza (Cass. 3-6-2009, n. 12811), infatti, è consentito sostituire i lavoratori scioperanti con lavoratori della stessa qualifica o
con qualifica inferiore, purchè, in quest’ultimo caso, agli stessi vengano riconosciuti i diritti previsti dall’art. 2103 ed in ogni caso senza che vi sia
alcuna lesione dei diritti dei sostituiti.
Al contrario, qualora l’azienda si avvalga di dipendenti con qualifica superiore, i quali, pertanto, vengono utilizzati per lo svolgimento di mansioni
inferiori, vi è violazione della predetta norma che consente un’eventualità
del genere solo se le mansioni inferiori sono marginali e complementari a
quelle di competenza del lavoratore. In tal caso, il crumiraggio non è legittimo ed il comportamento datoriale si configura come condotta antisindacale.
La legittimità del crumiraggio esterno è invece generalmente negata dalla giurisprudenza (Cass. 16-11-1987 n. 8401).
A conferma dell’orientamento negativo, comunque, va osservato che il D.Lgs. 10-9-2003,
n. 276 all’art. 20, co. 5, lett. a) vieta espressamente la stipulazione del contratto di somministrazione per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero.
6. La serrata può essere configurata come diritto?
Nozione: è la chiusura, da parte del datore di lavoro, del luogo di lavoro per
impedire le azioni di protesta dei lavoratori.
Disciplina: evidenziare che non è previsto un diritto di serrata che può essere
considerata una semplice libertà.
290
Parte Diciottesima
Elementi da evidenziare: la serrata e lo sciopero non costituiscono mezzi di
lotta simmetrici.
Domande consequenziali: la serrata come illecito civile; la serrata per fini
contrattuali; la serrata per ritorsione.
Articolazione della risposta
No. La serrata è la chiusura, da parte del datore di lavoro, dei normali
luoghi di lavoro, in modo da rendere impossibile lo svolgimento dell’attività lavorativa da parte dei prestatori (MAZZONI) e ciò allo scopo di impedire prevedibili (o addirittura minacciate) azioni di protesta dei prestatori medesimi (occupazioni di fabbrica, danneggiamenti, boicottaggi
etc.) ovvero di indurre gli stessi a recedere da un determinato comportamento (PROSPERETTI).
La nostra Costituzione, mentre riconosce lo sciopero come diritto fondamentale del lavoratore (art. 40), tace per quanto concerne la serrata.
Da tale dato normativo fondamentale la dottrina deduce che il Costituente
ha volutamente evitato di porre la serrata sullo stesso piano dello sciopero
in quanto essi non costituiscono mezzi di lotta simmetrici.
Il legislatore costituzionale, quindi, non è rimasto neutrale nell’ambito del conflitto sociale: ha cioè operato una scelta a favore di una delle parti, conferendo rilevanza giuridica alla
disuguaglianza tra lavoratori e datori di lavoro, mediante l’attribuzione ai primi, e non ai
secondi, del potere di sospendere il rapporto di lavoro e le obbligazioni che ne discendono
(GIUGNI).
Conseguenza di tale impostazione è che la serrata non può essere qualificata come un diritto, ma come una semplice libertà.
6 bis. Come è configurabile sotto il profilo civilistico la serrata?
Sotto il profilo civilistico l’interruzione totale o parziale dell’attività aziendale, come strumento di autotutela del datore di lavoro, costituisce un illecito: la serrata configura, infatti, un’ipotesi di mora del creditore ai sensi
dell’art. 1206 c.c.
Con la serrata, invero, il creditore della prestazione di lavoro, e cioè il datore di lavoro, rifiuta la prestazione offertagli dal lavoratore-debitore, legittimando così una richiesta di risarcimento dei danni subiti (art. 1207 c.c.)
coincidenti con le retribuzioni non corrisposte.
Il diritto di sciopero
291
6 ter. È vietata la serrata per fini contrattuali?
No: la Corte costituzionale, con sentenza n. 29 del 4-5-1960, ha dichiarato la incostituzionalità del divieto di serrata per finalità contrattuali di
cui all’art. 502 c.p., considerando tale incriminazione in contrasto con
l’ispirazione democratica della Costituzione.
Pertanto, la serrata per fini economici costituisce esercizio di una libertà
da parte del datore di lavoro, anche se tale libertà non può qualificarsi come
diritto al pari dello sciopero ed esaurisce i suoi effetti nella non perseguibilità penale della serrata (GIUGNI, Galantino).
È illegittima, e quindi penalmente perseguibile, la serrata per fini diversi da quelli contrattuali, come la serrata politica, nonché la serrata a scopo di solidarietà o di protesta e quella per coazione alla pubblica autorità (Corte Cost. sent. 141/1967 e 53/1986).
6 quater.In quali ipotesi è da ritenersi legittima la serrata per ritorsione?
Sulla base dell’art. 1206 c.c., per cui il creditore non è in mora se per un
motivo legittimo rifiuta la prestazione, la Cassazione ha esplicitamente
ammesso la legittimità della serrata per ritorsione con cui il datore di lavoro reagisce a forme anomale di sciopero.
Bisogna, però, rilevare che non esiste un orientamento univoco su quando
sussista il motivo legittimante il rifiuto del datore di lavoro a ricevere la
prestazione.
Sul punto, autorevole dottrina (GIUGNI) ritiene che la sospensione dell’attività produttiva da parte del datore di lavoro sia legittima solo in 2 casi:
—in risposta ad uno sciopero a singhiozzo attuato secondo modalità tali
da rendere le prestazioni di lavoro rese inutili o comunque diverse da
quelle richieste;
—nel caso di uno sciopero a scacchiera in cui l’astensione dei lavoratori sia ostativa alla prestazione lavorativa dei dipendenti non scioperanti che diviene quindi impossibile.
7. Cosa disciplina la L. 146/1990?
Riferimento normativo: L. 146/1990.
292
Parte Diciottesima
Nozione: la L. 146/1990 disciplina l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi
pubblici essenziali contemperando la salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati.
Elementi da evidenziare: è il primo intervento normativo che da attuazione al
dettato costituzionale dell’art. 40 Cost.; è stata riformata dalla L. 83/2000.
Domande consequenziali: servizi pubblici essenziali; possibilità di individuare
altri servizi essenziali oltre a quelli indicati dal legislatore; lavoratori soggetti alla
L. 146/1990.
Articolazione della risposta
Benché l’art. 40 della Costituzione prevedesse l’esercizio del diritto di sciopero “nell’ambito delle leggi che lo regolano”, tale previsione è stata disattesa fino all’emanazione della L. 146/1990 che ha dato, per la prima volta, concreta attuazione al precetto costituzionale anche se limitatamente in
quanto disciplina l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici
essenziali.
La L. 146/1990 si prefigge lo scopo di “contemperare l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione” (art. 1, co. 1 e 2).
La tecnica utilizzata dal legislatore della L. 146/1990, per realizzare quella difficile mediazione tra diritto di sciopero, costituzionalmente garantito,
e altri diritti della persona pure costituzionalmente affermati, è quella del
sistematico rinvio alla fonte negoziale, dal quale si determina il formarsi
di una pluralità di fonti di disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali: disposizioni di legge, accordi collettivi, delibere della Commissione di garanzia, ordinanze di precettazione.
Dopo circa un decennio di operatività, con la L. 83/2000, sulla scorta degli indirizzi della dottrina e della giurisprudenza, nonché degli stessi orientamenti della Commissione di garanzia, la disciplina originaria della L.
146/1990 è stata sostanzialmente riformata, in particolare potenziando il
metodo preventivo (negli accordi sui servizi indispensabili devono essere
previste procedure di conciliazione e di raffreddamento) rendendo più rigoroso l’apparato sanzionatorio e conferendo maggiori poteri alla Commissione di garanzia, sia sotto il profilo della prevenzione, sia sotto quello della repressione degli scioperi illegittimi.
Il diritto di sciopero
293
7 bis. Quali sono i servizi pubblici essenziali?
La L. 146/1990 definisce, essenziali i servizi che, indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto di lavoro, sono finalizzati a garantire i diritti della persona costituzionalmente tutelati.
Tali diritti in relazione ai quali è possibile individuare i servizi essenziali sono espressamente menzionati dalla legge (art. 1 co. 1), nel: diritto alla vita, alla salute, alla libertà ed
alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione.
I servizi sono, poi, espressamente individuati (art. 1, co. 2):
—per quanto concerne la tutela della vita, della salute, della libertà e sicurezza della persona, dell’ambiente e del patrimonio storico artistico:
i servizi che garantiscono la sanità, l’igiene, la protezione civile, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti urbani e di quelli speciali, tossici e nocivi, l’approvvigionamento di energie, di prodotti energetici, di risorse
naturali e beni di primaria necessità;
—per quanto concerne la tutela della libertà di circolazione: i trasporti
pubblici urbani ed extraurbani, ferroviari, aerei e di collegamento con
le isole;
—per quanto concerne l’assistenza e la previdenza sociale: i servizi che
garantiscono quanto economicamente necessario al soddisfacimento
delle necessità della vita attinente i diritti della persona (pagamento delle retribuzioni e delle pensioni);
—per quanto riguarda l’istruzione pubblica: i servizi che garantiscono la
continuità del servizio negli asili nido, scuole materne ed elementari
nonché lo svolgimento degli scrutini finali e degli esami conclusivi dei
cicli di istruzione;
—per quanto riguarda la libertà di comunicazione: le poste, le telecomunicazioni e l’informazione radiotelevisiva pubblica.
7 ter. È possibile individuare altri servizi essenziali oltre a quelli indicati dalla L. 146/1990?
Sì. Mentre, infatti, l’individuazione dei diritti della persona nell’art. 1, co.
1, L. 146/1990 è considerata tassativa, nel senso che devono essere reputati essenziali soltanto i servizi destinati a garantire il godimento dei diritti della persona espressamente menzionati nel comma 1: diritto alla vita,
294
Parte Diciottesima
alla salute, alla libertà etc.; l’elencazione dei servizi pubblici essenziali
contenuta nel comma 2 è, invece, considerata prevalentemente esemplificativa.
Pertanto, sarebbe possibile includere in tale elenco nuovi servizi a tutela, però, dei diritti di rilevanza costituzionale individuati tassativamente,
allorché essi siano avvertiti come “essenziali” nella comune coscienza
(MAZZIOTTI, SANTONI).
7 quater.Quali sono i lavoratori soggetti all’applicazione della L.
146/1990?
La L. 146/1990 originariamente limitava il proprio campo di applicazione
soltanto ai lavoratori subordinati.
Con le modifiche apportate alla L. 146/1990, ad opera della L. 83/2000,
anche «l’astensione collettiva dalle prestazioni, ai fini di protesta o di rivendicazione di categoria, da parte di lavoratori autonomi, professionisti
o piccoli imprenditori» è subordinata all’osservanza delle procedure e delle modalità definite nei codici di autoregolamentazione.
Attualmente, quindi, la L. 146/1990 afferma il principio della garanzia dei
diritti fondamentali nel settore dei servizi pubblici indipendentemente
dalla qualificazione giuridica del lavoratore. Di conseguenza, la disciplina della L. 146/1990 si applica ai:
—lavoratori subordinati (art. 2094 c.c.);
—liberi professionisti e lavoratori autonomi (art. 2222 c.c.);
—piccoli imprenditori, ovvero coltivatori diretti, artigiani e piccoli commercianti (art. 2083 c.c.).
In pratica, la L. 146/1990 opera nei confronti di tutti i lavoratori la cui attività lavorativa si collochi nel campo dei servizi pubblici essenziali di cui
all’art. 1 della legge e le cui astensioni collettive dal lavoro incidano sulla
funzionalità dei servizi.
8. Quali sono le condizioni imposte dal legislatore per l’esercizio
dello sciopero nei servizi pubblici essenziali?
Riferimento normativo: art. 2 L. 146/1990.
Il diritto di sciopero
295
Disciplina: illustrare le condizioni poste all’esercizio dello sciopero nei servizi
pubblici essenziali, quali:
— adozione di misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili;
— osservanza di un preavviso minimo;
— obbligo di dare alle utenze informazioni circa lo sciopero;
— esperimento di procedure di raffreddamento e di conciliazione.
Domande consequenziali: divieto del cd. effetto annuncio; ruolo della contrattazione collettiva; Commissione di garanzia.
Articolazione della risposta
Nei servizi essenziali l’esercizio del diritto di sciopero è consentito (art.
2, co. 1­­, L. 146/1990) nel rispetto delle seguenti condizioni:
—adozione di misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili per garantire le finalità che la legge stessa si prefigge. Tali prestazioni devono essere definite e concordate dalle amministrazioni pubbliche e dalle imprese erogatrici di servizi, nei contratti
collettivi (art. 2, co. 2). Mentre, per i lavoratori autonomi e i liberi professionisti le prestazioni indispensabili sono individuate attraverso appositi codici di autoregolamentazione;
—osservanza di un preavviso minimo, non inferiore a 10 giorni, al fine
di predisporre l’erogazione di prestazioni indispensabili e per attivare
tentativi di composizione dei conflitti. La comunicazione del preavviso, che i contratti collettivi possono fissare anche in un periodo superiore a 10 giorni, deve avvenire in forma scritta e deve altresì indicare
la durata e le modalità di attuazione dello sciopero, nonché le motivazioni di esso.
La comunicazione deve essere data sia alle amministrazioni o imprese che erogano il
servizio, sia all’autorità precettante e da questa immediatamente trasmessa alla Commissione di garanzia (art. 2 co. 1 e 5, modif. dall’art. 1 L. 83/2000);
—obbligo di dare alle utenze informazioni circa lo sciopero da parte delle amministrazioni o delle aziende erogatrici di servizi pubblici essenziali che sono tenute a dare comunicazione agli utenti, nelle forme adeguate, almeno 5 giorni prima dell’inizio dello sciopero, dei modi e dei
tempi di erogazione dei servizi nel corso dello sciopero e delle misure
per la riattivazione degli stessi.
296
Parte Diciottesima
L’onere della tempestiva diffusione di tali comunicazioni grava sui giornali quotidiani
e sulle emittenti radiofoniche e televisive pubbliche e private (art. 2, co. 6);
—esperimento, prima della proclamazione dello sciopero, di procedure
di raffreddamento e di conciliazione, vincolanti e obbligatorie per le
parti (datore di lavoro e sindacati).
8 bis.In cosa consiste il divieto del cd. effetto annuncio?
La L. 146/1990 vieta il cd. effetto annuncio (o anche sciopero virtuale),
stabilendo che la revoca spontanea dello sciopero proclamato dopo che
ne sia stata data informazione all’utenza costituisce una forma sleale
di azione sindacale.
Tale comportamento è oggetto di valutazione da parte della Commissione
di garanzia ai fini sanzionatori ed è quindi assolutamente vietato, salvo
che sia intervenuto un accordo tra le parti ovvero vi sia stata una richiesta
in tal senso da parte della Commissione o dell’autorità precettante.
8 ter. Qual è il ruolo svolto dalla contrattazione collettiva nella regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali?
Gli accordi o contratti collettivi tra amministrazioni pubbliche (o imprese private che gestiscono il servizio collettivo) e associazioni sindacali dei
lavoratori integrano la disciplina di legge che, quale norma astratta e generale, non specifica in ciascun ambito quante e quali prestazioni debbano
essere assicurate all’utenza, demandando tale compito alla contrattazione
collettiva.
A tal fine, nei contratti o accordi collettivi, devono essere individuate:
—le prestazioni indispensabili assicurate in caso di sciopero e le modalità e le procedure di erogazione e le altre misure necessarie al raggiungimento delle finalità della legge;
—gli intervalli minimi da osservare tra un’astensione e quella successiva;
—le procedure di raffreddamento e di conciliazione, obbligatorie per
entrambe le parti, da esperire prima della proclamazione dello sciopero (art. 2 co. 2).
Il diritto di sciopero
297
8 quater.Qual è l’organismo che ha il compito di giudicare l’idoneità dei contratti collettivi che individuano le prestazioni indispensabili?
I contratti collettivi che individuano le prestazioni indispensabili, nonché
i codici di autoregolamentazione per le categorie di lavoratori autonomi,
liberi professionisti e piccoli imprenditori, che erogano servizi di pubblica
utilità, devono essere sottoposti al vaglio della Commissione di garanzia
(art. 13 co. 1 lett. a, sostituito dall’art. 10 L. 83/2000), ente super partes,
composto da 9 membri, designati dai presidenti della Camera e del Senato, tra esperti in materia di diritto costituzionale, del lavoro e di relazioni
industriali e nominati dal Presidente della Repubblica.
Tale organismo è deputato all’attuazione della L. 146/1990 ed, in primis,
a valutare l’idoneità delle misure volte ad assicurare il contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona indicati nell’art. 1 della stessa legge.
Le parti devono, infatti, tempestivamente comunicare alla Commissione gli accordi collettivi, i regolamenti di servizio e i contratti aziendali (cioè gli atti che traspongono a livello di
singola amministrazione/impresa il contenuto degli accordi collettivi) e i codici di autoregolamentazione e di condotta (ma la Commissione può agire anche di propria iniziativa).
8 quinquies.Che succede se la Commissione di garanzia valuta negativamente l’accordo collettivo?
Qualora le previsioni degli accordi collettivi siano giudicate non idonee
sulla base di specifica motivazione la Commissione elabora una proposta sull’insieme delle misure da assicurare. Tale atto non ha natura vincolante, sebbene costituisca una base di negoziazione che rappresenta il “minimo di prestazioni” accettabile.
È poi previsto che:
—le parti devono pronunciarsi sulla proposta entro 15 giorni dalla notifica e possono anche predisporre un nuovo testo negoziale su cui comunque dovrà aversi il giudizio della Commissione;
—in caso di dissenso (o di “silenzio” delle parti) sulla proposta, la Commissione effettua, nel termine di 20 giorni, delle audizioni per verificare la possibilità di giungere ad un accordo;
298
Parte Diciottesima
—decorso invano il termine di 20 giorni, la Commissione adotta con propria delibera la provvisoria regolamentazione delle prestazioni indispensabili.
8 sexies.Qual è la funzione della provvisoria regolamentazione?
La provvisoria regolamentazione, emanata dalla Commissione, ha carattere vincolante ed è mirata a garantire le finalità della legge in caso di mancanza di regole collettive oppure quando esse siano giudicate non idonee (art. 2, co. 2, L. 146/1990, come modif. dall’art. 7 L. 83/2000).
La disposizione sulla provvisoria regolamentazione, che ha validità fino
alla realizzazione di un testo negoziale valutato idoneo, acquista in tal
modo il valore di una norma di chiusura del sistema delineato dalla legge, una norma cioè che garantisce, anche in caso di carenza di disposizioni
pattizie, l’individuazione delle prestazioni indispensabili da garantire
all’utenza, e quindi in sostanza la realizzazione degli scopi della L. 146/1990.
8 septies.Secondo quali criteri la Commissione dispone la regolamentazione provvisoria?
Nell’adozione della provvisoria regolamentazione delle prestazioni indispensabili, la Commissione deve tenere conto di quanto stabilito nei codici di autoregolamentazione vigenti nel settore o in settori analoghi e degli accordi
già esistenti predisposti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative.
Inoltre, le prestazioni indispensabili devono essere individuate in modo da
essere contenute in misura non eccedente mediamente il 50% delle prestazioni normalmente erogate (con esclusione di servizi erogati entro determinate fasce orarie, garantiti totalmente) e riguardare quote strettamente necessarie di personale, non superiori mediamente ad 1/3 del personale normalmente utilizzato per la piena erogazione del servizio.
Si deve comunque tenere conto dell’utilizzabilità di servizi alternativi o forniti da imprese
concorrenti.
8 octies.In quale ipotesi la Commissione di garanzia può indire un
referendum tra i lavoratori?
Qualora si determini un dissenso tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori su clausole del contratto collettivo concernenti l’individuazio-
Il diritto di sciopero
299
ne o le modalità di effettuazione delle prestazioni indispensabili, la Commissione di garanzia ha la facoltà di indire una consultazione mediante referendum tra i lavoratori interessati (art. 14 L. 146/1990).
L’esito del referendum non è vincolante. A seguito dello stesso la Commissione è tenuta a
formulare una sua proposta sulle prestazioni da assicurare alle utenze, sia nell’ipotesi di
persistente disaccordo, sia nel caso in cui valuti non adeguate le misure individuate nel contratto od accordo eventualmente stipulato dopo la consultazione.
9. Che cos’è la precettazione?
Riferimento normativo: art. 8 L. 146/1990.
Nozione: ordinanza adottata da un organo del potere esecutivo a tutela dei diritti
costituzionalmente tutelati dall’art. 1 L. 146/1990.
Disciplina: può disporre lo sciopero sia posticipato, che ne sia ridotta la durata
o che avvenga con modalità diverse, tali da garantire le finalità della legge.
Elementi da evidenziare: non può mai comprendere il divieto puro e semplice
di scioperare.
Domande consequenziali: procedimento; impugnazione dell’ordinanza; sanzioni in caso di inottemperanza all’ordinanza di precettazione.
Articolazione della risposta
La precettazione consiste in un provvedimento, più precisamente un’ordinanza, adottata da un organo del potere esecutivo (il Presidente del Consiglio, o un Ministro da lui delegato, se il conflitto ha rilevanza nazionale
o interregionale, ovvero dal Prefetto negli altri casi) che dispone le misure
necessarie a prevenire il pregiudizio ai diritti della persona costituzionalmente tutelati.
Lo sciopero — o l’astensione collettiva dei lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori — può provocare, infatti, l’interruzione o almeno un’alterazione del funzionamento di uno dei servizi pubblici essenziali generando il fondato pericolo di un pregiudizio grave ed imminente
ai diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui all’art. 1, co. 1, L.
146/1990 (GIUGNI).
L’ordinanza di precettazione può disporre che lo sciopero sia posticipato, che ne sia ridotta la durata o che avvenga con modalità diverse, tali da
garantire le finalità della legge.
300
Parte Diciottesima
Essa, dunque, non può mai comprendere il divieto puro e semplice di scioperare (GIUGNI).
9 bis. Cosa prevede il procedimento di precettazione?
Il procedimento di precettazione può essere attivato:
—su segnalazione della Commissione di garanzia, che ha il compito di
adire le autorità competenti quando dallo sciopero possa derivare un pericolo grave per le utenze. Ciò può verificarsi particolarmente quando
lo sciopero rischia di aver luogo in carenza di un accordo collettivo e in
difformità dalla provvisoria regolamentazione disposta dalla Commissione;
—autonomamente e direttamente dalle autorità competenti (Presidente del Consiglio dei ministri o il prefetto, secondo la rilevanza nazionale o locale del conflitto) in casi di necessità e urgenza, dandone preventiva informazione alla Commissione.
Le autorità precettanti, a seguito della segnalazione, emanano una ordinanza affinché le parti desistano dai comportamenti contrari alla disciplina di legge o pattizia e promuovono l’esperimento di un tentativo di conciliazione.
Solo se tale tentativo non dia esito positivo, viene emanata l’ordinanza di
precettazione che deve essere portata a conoscenza di tutti i soggetti (sindacati, datori di lavoro e lavoratori) interessati dallo sciopero e, attraverso
i mass media, alle utenze.
Il provvedimento deve essere adottato entro 48 ore dallo sciopero, eccetto che sia in corso
il tentativo di conciliazione o vi siano urgenze particolari.
9 ter. L’ordinanza di precettazione può essere impugnata?
Sì: l’ordinanza può essere oggetto di contestazione in sede giudiziaria.
Tutti i soggetti destinatari del provvedimento che ne abbiano interesse possono promuovere ricorso al TAR entro 7 giorni dalla comunicazione, ma
la proposizione del ricorso non sospende l’immediata esecutività della precettazione.
Il diritto di sciopero
301
9 quater.Quali sanzioni sono previste in caso di inottemperanza
all’ordinanza di precettazione?
L’inadempimento a quanto prescritto nell’ordinanza di precettazione è punito con sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’autorità precettante e applicate dalla sezione ispettiva della Direzione provinciale del
lavoro.
La possibilità di applicare sanzioni è estesa, oltre che ai lavoratori subordinati e autonomi, anche ai piccoli imprenditori e ai professionisti.
10. Quali poteri sanzionatori sono attribuiti alla Commissione
di garanzia per le ipotesi di scioperi illegittimi?
Riferimento normativo: art. 13 L. 146/1990.
Disciplina: la Commissione può:
— deliberare la generalità delle sanzioni previste nei confronti dei sindacati e
delle PP.AA. o imprese erogatrici di servizi;
— prescrivere al datore di lavoro di applicare le sanzioni nei confronti dei lavoratori.
Elementi da evidenziare: la Commissione esercita il potere sanzionatorio
direttamente anche se per mezzo del datore di lavoro.
Domande consequenziali: vincoli procedurali al potere sanzionatorio; sanzioni
ai soggetti inadempienti.
Articolazione della risposta
La riforma operata con la L. 83/2000 è intervenuta significativamente sul
sistema delle sanzioni poste a presidio della legge, allo scopo di renderlo
più equilibrato ed efficace.
L’art. 13, co. 1, lett. i), L. 146/1990 conferisce alla Commissione di garanzia i seguenti poteri sanzionatori:
—di deliberare la generalità delle sanzioni previste dall’art. 4 della legge (sanzioni nei confronti dei sindacati e delle PP.AA. o imprese erogatrici di servizi);
—di prescrivere al datore di lavoro di applicare le sanzioni nei confronti dei lavoratori.
Il potere sanzionatorio configurato dalla legge spetta quindi, alla Commissione ed è da essa esercitato direttamente, anche se per mezzo del datore
302
Parte Diciottesima
di lavoro in qualità di detentore dei beni oggetto della sanzione (permessi
e contributi sindacali), ovvero per mezzo dei servizi ispettivi delle Direzioni provinciali del lavoro, per le nuove sanzioni amministrative.
10 bis.A quali vincoli procedurali è sottoposto il potere sanzionatorio della Commissione?
La procedura per l’irrogazione delle sanzioni è stabilita al comma 4 quater dell’art. 4 L. 146/1990 (introdotto dalla L. 83/2000):
—il procedimento si apre ad iniziativa della Commissione, o dei sindacati dei lavoratori e dei datori, o delle associazioni di rappresentanza
delle varie utenze e delle autorità nazionali e locali interessate;
—il contraddittorio si svolge entro 30 giorni dalla notifica dell’apertura del procedimento alle parti che, entro detto termine, possono presentare osservazioni e chiedere audizione alla Commissione;
—decorso il termine, la Commissione deve esprimere la propria valutazione circa il comportamento delle parti del conflitto sindacale e contestualmente, in caso di giudizio negativo, deliberare le sanzioni.
La vincolatività delle sanzioni è presidiata da un’apposita sanzione amministrativa che si
applica ai dirigenti delle PP.AA. e ai legali rappresentanti delle imprese erogatrici di servizi pubblici in concessione (da e 206 a e 516) in caso di mancata esecuzione delle sanzioni
deliberate dalla Commissione o di mancata comunicazione della loro applicazione.
10 ter. Quali sanzioni si applicano ai soggetti inadempienti?
La gamma delle sanzioni è individuata con riferimento ai vari soggetti imputabili dell’inadempienza o della violazione, come segue:
—nei confronti dei lavoratori, la sanzione è di natura disciplinare, con
l’applicazione delle garanzie dell’art. 7 St. lav. (esclusione di sanzioni
che comportino modificazioni definitive del rapporto come, ad esempio, il licenziamento);
—nei confronti delle associazioni sindacali, le sanzioni possono consistere nella perdita del beneficio dei contributi sindacali e/o dei permessi sindacali retribuiti per la durata dell’astensione sindacale e comunque per un ammontare economico complessivo compreso tra 2.582
e 25.822 euro. Altro tipo di sanzione applicabile a tali organizzazioni è
l’esclusione dalle trattative sindacali per un periodo massimo di due
mesi;
Il diritto di sciopero
303
—nei confronti delle PP.AA. o delle imprese erogatrici di servizi essenziali, sono applicabili sanzioni amministrative di importo variabile,
tenendo conto di vari fattori quali un’eventuale recidiva, il danno arrecato alle utenze etc. Soggetti passivi sono i dirigenti responsabili delle
PP.AA. e i legali rappresentanti delle imprese;
—sono previste sanzioni amministrative per le associazioni rappresentative dei lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, applicabili con ordinanza della Direzione provinciale del lavoro.
Parte Diciannovesima
La tutela dei diritti del prestatore di lavoro
1. Cosa indicano i principi di inderogabilità delle norme e di indisponibilità dei diritti?
Nozione: l’inderogabilità impedisce alla contrattazione collettiva di derogare in
senso peggiorativo; l’indisponibilità assicura l’effettività di tale principio impedendo
al lavoratore di disporre illimitatamente dei diritti indisponibili.
Elementi da evidenziare: l’inderogabilità della norma si riferisce al momento
genetico del diritto, l’indisponibilità riguarda invece il momento funzionale.
Domande consequenziali: indisponibilità dei diritti inderogabili; individuazione
dei diritti assolutamente indisponibili.
Articolazione della risposta
L’inderogabilità delle norme che attribuiscono diritti al lavoratore sta a significare che né le singole parti del rapporto né le organizzazioni sindacali possono inserire nel contratto di lavoro (rispettivamente, individuale e collettivo) clausole che deroghino in senso peggiorativo a norme
di legge che riconoscono diritti al lavoratore.
La tutela del lavoratore è poi attuata tramite il meccanismo di sostituzione della norma viziata con quella inderogabile violata.
Così una clausola contrattuale che non dovesse riconoscere il diritto del lavoratore, ad esempio, al riposo settimanale sarebbe nulla e verrebbe sostituita di diritto, in base all’art. 1419, co. 2, c.c., dalla norma violata che verrebbe automaticamente applicata in luogo della clausola viziata da nullità.
Il principio dell’inderogabilità delle norme che riconoscono diritti al lavoratore sarebbe svilito se poi, il legislatore non avesse previsto il principio
di indisponibilità, per cui acquisito il diritto, il lavoratore non può disporre illimitatamente o, anche privarsene, attraverso una atto di rinunzia o
transazione.
Secondo la prevalente dottrina (GALANTINO, SMURAGLIA, MAZZIOTTI), inoltre, inderogabilità e indisponibilità, pur perseguendo il medesimo fine
— ovvero ristabilire l’equilibrio fra le parti del rapporto di lavoro — si riferiscono a momenti diversi: l’inderogabilità delle norme attiene alla fase
costitutiva del rapporto di lavoro; l’indisponibilità, invece, attiene alla fase
La tutela dei diritti del prestatore di lavoro
305
successiva alla costituzione del rapporto, in cui i diritti sorti per effetto
delle norme inderogabili sono ormai entrati nella sfera giuridica del lavoratore e quindi egli potrebbe accettarne la limitazione o la soppressione per
mezzo di rinunzie o transazioni.
1 bis. Tutti i diritti inderogabili sono anche indisponibili?
No: l’inderogabilità della norma non comporta necessariamente l’indisponibilità del diritto, ma piuttosto consente che il diritto venga acquisito dal
lavoratore, pertanto, ben possono esservi diritti disponibili derivanti da
norme inderogabili.
L’art. 2113 c.c., infatti, non preclude del tutto la negoziazione delle parti sui diritti del lavoratore derivanti da norme inderogabili, ma li assoggetta ad un meccanismo che dovrebbe tutelare il lavoratore nell’atto di disposizione.
1 ter. Quali sono i diritti assolutamente indisponibili?
I diritti del lavoratore previsti da norme imperative di legge, ossia da quelle norme poste a tutela di un interesse superiore a quello del soggetto
al quale sono attribuiti sono indisponibili (Cass., Sez. Un., 2697/1972).
In particolare, non possono formare oggetto di atti di disposizione i diritti
attribuiti da norme di legge che vietano ogni patto contrario e, comunque,
ne sanciscono la nullità (es. artt. 2103, comma 2, c.c., in tema di potere di
variazione delle mansioni; 2115, comma 3, c.c., in tema di obblighi previdenziali e assistenziali; o l’art. 36, comma 3, Cost., sul diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite). Si tratta dei diritti che esprimono i valori della sicurezza, della libertà e della dignità umana, appartenenti alla
categoria dei cd. diritti della personalità e in generale in tutti quelli che
il legislatore definisce intransigibili, incedibili, irrinunciabili, imprescrittibili.
I diritti assolutamente indisponibili si sottraggono all’operatività dell’art.
2113 c.c. e determinano sempre la nullità dell’atto dispositivo.
Il carattere dell’indisponibilità si desume comunque dalla natura del diritto stesso o da espressa indicazione del legislatore.
306
Parte Diciannovesima
2. Qual è il regime di invalidità a cui soggiacciono le rinunce e le transazioni del lavoratore?
Riferimento normativo: art. 2113 c.c.
Nozione: sottolineare che la rinunzia è un atto unilaterale tendente alla dismissione di un diritto soggettivo da parte del titolare, mentre la transazione (art. 1965
c.c.) è il contratto mediante il quale le parti, facendosi reciproche concessioni,
pongono fine ad una lite esistente o prevengono una lite futura.
Disciplina: precisare che:
— il regime di invalidità di cui all’art. 2113 c.c. si applica solo agli atti dispositivi aventi ad oggetto diritti già maturati dal lavoratore;
— l’invalidità della rinunzia o della transazione costituisce un’ipotesi di annullabilità;
— il lavoratore ha l’onere di impugnare l’atto di disposizione entro il termine di
decadenza di 6 mesi dalla data di cessazione del rapporto o, se successiva, dalla data della rinunzia o della transazione, pena la sanatoria dell’atto
invalido.
Domande consequenziali: inoppugnabilità delle rinunzie e transazioni; quietanza a saldo.
Articolazione della risposta
In base all’art. 2113, co. 1, c.c., la rinunzia e la transazione che hanno ad
oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti collettivi non sono valide.
Si tratta comunque di diritti entrati a far parte del patrimonio del lavoratore (PERSIANI,
PROIA) in quanto la rinunzia non può avere ad oggetto diritti futuri, cioè non ancora maturati e quindi non acquisiti: ad esempio, non costituisce una vera e propria rinuncia quella avente ad oggetto una retribuzione non ancora maturata, che assume invece il valore di
una clausola derogatoria, come tale non invalida ai sensi dell’art. 2113 c.c., ma nulla, con
sostituzione automatica, perché in contrasto con norma imperativa, quale l’art. 36, co. 1,
Cost., ed impugnabile quindi anche dopo la scadenza del termine semestrale previsto dal
suddetto articolo.
La rinunzia è un negozio giuridico unilaterale volto alla dismissione di
un diritto soggettivo da parte del titolare. La transazione (art. 1965 c.c.)
è invece il contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che
può sorgere fra di loro.
La tutela dei diritti del prestatore di lavoro
307
La rinunzia e la transazione possono assumere qualsiasi forma e, in particolare, possono risultare anche da comportamento concludente del lavoratore.
Le rinunzie e le transazioni invalide possono essere impugnate dal lavoratore, con qualsiasi atto scritto (anche stragiudiziale) idoneo a renderne
nota la volontà, entro il termine di decadenza di 6 mesi decorrente dalla
data di cessazione del rapporto ovvero dalla data della rinunzia o della
transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima.
Scaduto il termine, l’atto invalido è sanato, consentendosi, così, una forma indiretta di disposizione dei propri diritti da parte del lavoratore (ritenuta costituzionalmente legittima da Corte cost. n. 77/1974).
L’invalidità della rinunzia o della transazione costituisce un’ipotesi di annullabilità (e non di nullità), in quanto può essere fatta valere in un breve
termine di decadenza e soltanto dal lavoratore.
2 bis. Le rinunce e le transazioni del lavoratore sono sempre invalide?
No. In base all’art. 2113 c.c., gli atti dispositivi del lavoratore sono invalidi ma la stessa norma prevede, però, alcune moda­lità per rendere efficaci
le rinunce e le transazioni del lavoratore.
A tal fine è indispensabile che la transazione o la rinuncia avvenga me­
diante conciliazioni concluse presso le sedi stabilite dalla legge: in tal caso
la presenza di terzi soggetti garantisce l’effettiva volontà del lavoratore.
Pertanto, ai sensi dell’art. 2113, co. 4, c.c., come modificato dalla L. 4-112010, n. 183, cd. collegato lavoro, non possono essere impugnate le ri­
nunzie e le transazioni intervenute in base agli artt. 185, 410, 411, 412ter
e 412quater c.p.c.
L’inoppugnabilità delle rinunzie e transazioni è riconosciuta, tra l’altro, in
sede di tenta­tivo di conciliazione innanzi alle apposite commissioni presso le DPL (art. 410 c.p.c.), nonché in caso di conciliazioni ed arbitrati svolti con le modalità stabilite dai contratti collettivi (art. 412ter c.p.c.) o innanzi ad un collegio di conciliazione ed arbitrato irrituale (art. 412quater
c.p.c.).
Inoltre, sono inoppugnabili anche le rinunzie e le transazioni certificate
presso le apposite commissioni di certificazione del rapporto di lavoro (art.
82 D.Lgs. 276/2003).
308
Parte Diciannovesima
2 ter. Che rilevanza giuridica hanno le cd. quietanze a saldo sottoscritte dal lavoratore?
Le quietanze a saldo sono i documenti che il lavoratore firma, di regola alla
cessazione del rapporto, dichiarando di aver ricevuto una certa somma (ratei di retribuzione, tredicesima mensilità, indennità varie, trattamento di
fine rapporto etc.), di ritenersi soddisfatto di ogni suo credito e di non avere più nulla a pretendere.
Secondo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza, una quietanza formulata in termini così generici rappresenta una mera dichiarazione di scienza e di opinione, priva di ogni efficacia negoziale, in quanto non manifesta una precisa rinuncia ad alcun diritto ben determinato.
Da ciò consegue che il prestatore potrà promuovere, nell’ordinario termine di prescrizione
(senza il vincolo cioè del termine di decadenza semestrale previsto dall’art. 2113 c.c. per
la rinuncia e la transazione), l’azione per i crediti derivanti dal rapporto di lavoro, anche
dopo aver firmato tale quietanza (Cass. 10-3-1981, n. 1365; 4-3-1981, n. 1267).
La quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore può assumere valore di rinuncia o di transazione, con riferimento alla prestazione di lavoro subordinato ed alla conclusione del relativo rapporto, sempre che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi (Cass. 25-1-2008, n. 1657).
3. In quanto tempo si prescrivono i diritti del lavoratore?
Riferimenti normativi: artt. 2946, 2948 nn. 4 e 5 c.c.
Nozione: la prescrizione è un modo di estinzione del diritto non esercitato entro
l’arco di tempo previsto dalla legge.
Disciplina: si distingue tra:
— prescrizione ordinaria decennale;
— prescrizione breve quinquennale.
Domande consequenziali: prescrizione presuntiva; decorrenza della prescrizione; stabilità del rapporto di lavoro ai fini della decorrenza della prescrizione.
La tutela dei diritti del prestatore di lavoro
309
Articolazione della risposta
La prescrizione determina l’estinzione dei diritti quando il titolare non
li esercita entro l’arco di tempo previsto dalla legge. Tale prescrizione è
detta estintiva, in quanto comporta il venir meno del diritto del lavoratore
per effetto della sua inerzia.
In materia di lavoro è possibile distinguere:
a) prescrizione ordinaria decennale (art. 2946 c.c.) che si applica ai diritti non retributivi (es. diritto alla qualifica superiore) e alle ipotesi di
risarcimento del danno per omissione contributiva, da demansionamento e in generale derivante da responsabilità contrattuale;
b) prescrizione breve quinquennale (art. 2948, nn. 4 e 5, c.c.) che si applica a tutte le prestazioni periodiche quale è, appunto, la retribuzione
(n. 4) e alle indennità spettanti al lavoratore per la cessazione del rapporto di lavoro (n. 5).
3 bis. Cosa determina la prescrizione presuntiva?
Solo per i crediti retributivi, il decorso del tempo può determinare anche la
presunzione dell’avvenuto pagamento del credito. In tal caso si parla di prescrizione presuntiva poiché i crediti si presumono soddisfatti se non sono
rivendicati dal lavoratore entro il periodo di tempo indicato dal legislatore.
Si tratta di una presunzione non assoluta ma relativa, la quale peraltro ammette una limitata prova contraria: il giuramento decisorio e la confessione giudiziale del lavoratore.
Si distingue tra:
a) prescrizione presuntiva triennale (art. 2956, n. 1, c.c.) per le retribuzioni corrisposte per i periodi superiori al mese (es. tredicesima mensilità);
b) prescrizione presuntiva annuale (art. 2955, n. 2, c.c.) per le retribuzioni corrisposte a periodi non superiori al mese (es. compensi per lavoro straordinario).
3 ter.Da quando inizia a decorrere la prescrizione?
Secondo la regola generale la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in
cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.). Di conseguenza, la prescrizione dei diritti del lavoratore decorrerebbe dal momento in cui viene
310
Parte Diciannovesima
eseguita la prestazione della quale costituiscono il corrispettivo e, dunque,
anche in costanza del rapporto di lavoro. Tuttavia, la disciplina di diritto
comune non tiene conto della debolezza economica e sociale che caratterizza la posizione del prestatore di lavoro subordinato e, soprattutto, non
considera il fatto che questo, finchè il rapporto prosegue, è esposto al timore delle ritorsioni che il datore di lavoro potrebbe mettere in atto per reagire alle sue rivendicazioni, in particolare licenziandolo.
Proprio la considerazione di queste situazioni ha indotto la Corte costituzionale a distinguere l’inizio della decorrenza dei termini prescrizionali relativi ai crediti retributivi, in base alla maggiore o minore tutela di cui
gode il lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro (sentt. n. 63 del 10-61966 e n. 174 del 12-12-1972).
Esistono, dunque, due regimi:
a) se il rapporto di lavoro risulta stabile, o per l’applicazione alla fattispecie delle garanzie di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, oppure
perchè la stabilità è garantita da altre norme di legge (es. pubblico impiego) o di contratto, la prescrizione dei crediti retributivi decorre in
corso di rapporto (secondo le regole generali, stante la maggior tutela di cui gode il lavoratore in tali casi);
b) ove invece non esista la stabilità, per legge o per contratto, la prescrizione dei crediti retributivi resta sospesa nel corso del rapporto ed il
suo decorso inizia solo dopo la cessazione del rapporto stesso. Questa regola, che si discosta da quella generale, costituisce uno dei mezzi
offerti al lavoratore a tutela dei suoi diritti retributivi.
3 quater.Cosa si intende per stabilità del rapporto di lavoro?
I termini di prescrizione relativi, invece, a diritti non retributivi (ad esempio, diritto al riconoscimento delle mansioni superiori) decorrono sempre
e comunque durante il rapporto di lavoro secondo il principio generale
dell’art. 2935 c.c.
Secondo la giurisprudenza della Cassazione è da considerare stabile ogni
rapporto di lavoro che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato, sia tutelato da una disciplina che, sul piano sostanziale, subordini la
legittimità della risoluzione alla sussistenza di circostanze oggettive e
predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il potere di sindacare su tali circostanze e di rimuovere gli effetti del licenziamento.
Parte Ventesima
La vigilanza in materia di lavoro
e legislazione sociale
1. Quali finalità persegue l’attività di vigilanza?
Riferimenti normativi: artt. 35, 117 Cost.
Nozione: deve intendersi per vigilanza l’insieme di attività, poste in essere dallo
Stato, mirate alla prevenzione e alla promozione dell’osservanza delle norme di
legislazione sociale e del lavoro, ivi compresa l’applicazione dei contratti collettivi
di lavoro e della disciplina previdenziale.
Domande consequenziali: competenza legislativa delle Regioni in materia di
vigilanza.
Articolazione della risposta
Gran parte delle disposizioni di diritto del lavoro e di legislazione sociale
ha carattere inderogabile in quanto basata su norme imperative e, spesso,
coercitive, tali, cioè, da non poter essere modificate in senso peggiorativo
dall’autonomia collettiva (contrattazione collettiva) né da quella individuale (accordo delle parti del singolo rapporto di lavoro).
In ciò si manifesta la più importante concretizzazione del principio della
tutela del lavoratore quale contraente più debole.
Per la effettiva attuazione di tale principio lo Stato svolge un’attività di vigilanza allo scopo di prevenire le infrazioni e accertare le eventuali violazioni della normativa.
All’attività di vigilanza può seguire un’attività repressiva al fine di comminare al trasgressore le sanzioni previste dalle leggi speciali in materia di
lavoro e legislazione sociale (sanzioni che possono essere civili, amministrative e penali).
Oggetto della vigilanza è tutta la materia dei rapporti di lavoro e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali, l’osservanza complessiva della normativa di legislazione sociale e del lavoro, compresa l’applicazione dei contratti collettivi e della disciplina previdenziale.
La vigilanza concerne tutti i rapporti di lavoro, a prescindere dal luogo
in cui è prestata l’attività e dallo schema contrattuale, tipico o atipico, utilizzato.
312
Parte Ventesima
Gli organi di vigilanza hanno competenza non solo in relazione alla generalità dei rapporti di lavoro subordinato, compresi i cd. contratti speciali, ma anche per le forme di lavoro parasubordinato, autonomo e associativo.
La parte più consistente dell’attività di vigilanza è rappresentata proprio dalla verifica della genuinità dei vari rapporti di collaborazione e, ora, di lavoro a progetto, oltre che naturalmente della stessa sussistenza e regolarità del rapporto (si pensi al fenomeno del lavoro nero o sommerso).
1 bis.Le Regioni hanno competenze in materia di vigilanza sul lavoro?
No: la vigilanza è materia di competenza statale, che non rientra nella
competenza legislativa attribuita a Regioni e enti locali dal D.Lgs. 469/1997
e dalla riforma del Titolo V della Costituzione (art. 117 in particolare).
Ciò è previsto al fine di garantire livelli di tutela omogenei su tutto il territorio nazionale, in conformità al principio di eguaglianza di cui all’art.
3 Cost., esigenza che sarebbe irrimediabilmente frustrata da un assetto decentrato o regionale della vigilanza.
La competenza esclusiva dello Stato è stata affermata dalla Corte Costituzionale che, con sentenza 14-10-2005, n. 384, ha escluso che la materia sia
ascrivibile nell’ambito della “tutela e sicurezza del lavoro” di pertinenza
delle Regioni ex art. 117 Cost. e ha sancito che la vigilanza sul lavoro e le
funzioni ispettive appartengono all’area di competenza dello Stato, così
come pure la determinazione delle sanzioni per le violazioni in materia di
lavoro e legislazione sociale.
2. Quale organo o ente è investito del più ampio potere di vigilanza in materia di diritto del lavoro e legislazione sociale?
Riferimenti normativi: artt. 2-7 D.Lgs. 124/2004.
Disciplina: evidenziare che il centro istituzionale dell’attività di vigilanza è il
Ministero del Lavoro, che opera mediante propri organi centrali e periferici (DRL
e DPL).
Domande consequenziali: organismo che esercita la funzione di coordinamento
a livello centrale; altri organi ed enti con compiti di vigilanza.
La vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale
313
Articolazione della risposta
L’esercizio dell’attività di vigilanza sulla corretta applicazione di buona
parte delle norme in materia di lavoro e legislazione sociale compete al Ministero del Lavoro che esercita l’attività di vigilanza mediante propri organi centrali e periferici.
A livello periferico i compiti di vigilanza, prima affidati all’Ispettorato del
lavoro, sono esercitati, a decorrere dal 14-2-1997, dal Servizio ispezione
del lavoro (in seguito S.isp.Lav.) delle Direzioni regionali e provinciali
del lavoro (DRL e DPL).
La Direzione regionale del lavoro (DRL) svolge, tra l’altro, funzioni di
indirizzo, coordinamento e vigilanza sulle attività delle Direzioni provinciali del lavoro.
La Direzione provinciale del lavoro (DPL) svolge attività di vigilanza tecnica e ordinaria sull’osservanza della disciplina di legge, coordinando la
propria attività con quella degli altri soggetti investiti di analoghe competenze (principalmente INPS e INAIL).
L’attività ispettiva del lavoro rientra nell’attività di polizia amministrativa,
nota come polizia di sicurezza, ed ha lo scopo di impedire e prevenire violazioni di legge nel campo specifico dei rapporti di lavoro.
Nell’esercizio delle funzioni di vigilanza gli ispettori del lavoro rivestono
la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria con il compito di compiere determinati atti secondo quanto prescritto dal codice di procedura penale.
2 bis. Quale organismo esercita la funzione di coordinamento della
vigilanza a livello centrale?
Presso il Ministero del Lavoro è istituita la Direzione generale con compiti direttivi e di coordinamento delle attività ispettive che abbraccia
l’attività ispettiva dei diversi organi con funzioni di vigilanza al fine di assicurare l’esercizio unitario sul territorio nazionale dell’attività ispettiva e l’uniformità nei diversi contesti territoriali.
Sempre a livello nazionale opera la Commissione centrale di coordinamento dell’attività di vigilanza quale “sede permanente di elaborazione
di orientamenti, linee e priorità dell’attività di vigilanza”.
Di essa fanno parte, tra l’altro, il Ministro del lavoro, il Direttore generale
della Direzione Generale di coordinamento delle attività ispettive, i Direttori generali di INPS ed INAIL, rappresentanti dei datori di lavoro e quat-
314
Parte Ventesima
tro dei lavoratori designati dalle organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative a livello nazionale.
2 ter. Quali altri organi esercitano l’attività di vigilanza?
Anche se il Ministero del Lavoro e il servizio ispettivo delle Direzioni regionali e provinciali sono certamente in una posizione di centralità nello
svolgimento dell’attività di vigilanza, un ruolo importante è svolto anche
da:
—gli enti previdenziali, quali l’INPS, l’INAIL e tutti gli enti gestori di
forme di assicurazioni sociali obbligatorie che sono investiti di un potere di vigilanza in materia di norme di legislazione sociale. Il potere
di vigilanza di detti organi si distingue da quello dei Servizi ispettivi del
lavoro in quanto è limitato alla vigilanza sull’assolvimento degli obblighi contributivi ai fini dell’erogazione delle prestazioni previdenziali o,
più in generale, in materia di previdenza ed assistenza sociale;
—le Aziende sanitarie locali (ASL), organi investiti della competenza ad
esercitare la vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia
di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro. La ripartizione delle funzioni di vigilanza in materia di igiene e sicurezza sul lavoro è ora disciplinata nel T.U. 81/2008 che, all’art. 13, ribadisce il principio della competenza generale alle ASL e della competenza settoriale al Ministero
del Lavoro (solo per attività comportanti rischi particolari);
—altri organi statali o enti pubblici competenti in via residuale per settori specifici e limitati (es. Vigili del fuoco, Istituto superiore per la
prevenzione e la sicurezza del lavoro).
3. Che funzione ha il diritto di interpello?
Riferimento normativo: art. 9 D.Lgs. 124/2004.
Nozione: è la facoltà di porgere quesiti di ordine generale onde pervenire ad
un chiarimento istituzionale.
Caratteristiche: l’interpello dà luogo ad un atto che apporta elementi di novità
(interpretativa) rispetto alla precedente prassi amministrativa.
Domande consequenziali: conseguenze del comportamento adesivo del
datore di lavoro.
La vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale
315
Articolazione della risposta
L’interpello è la facoltà, riconosciuta a soggetti pubblici e privati nei confronti dell’Amministrazione, di porre “quesiti di ordine generale sull’applicazione delle normative di competenza del Ministero del Lavoro”, onde
pervenire ad un chiarimento.
Esso ha quindi una funzione di prevenzione e di promozione dell’osservanza della disciplina lavoristica e previdenziale, in quanto il chiarimento fornito ne agevola la corretta applicazione e previene, in tal modo, eventuali comportamenti illeciti.
L’interpello deve essere proposto su problematiche attuali, cioè su questioni sulle quali non sia ancora intervenuto alcun chiarimento da parte dell’Amministrazione mediante circolare o in risposta ad un precedente interpello
(circ. Min. Lav. 49/2004) in ciò differenziandosi dalla semplice attività informativa svolta dal personale ispettivo.
Secondo il dettato normativo dell’art. 9 D.Lgs. 124/2004 possono attivare il
diritto di interpello: gli organismi associativi a rilevanza nazionale degli
enti territoriali, gli enti pubblici nazionali nonché, le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative
sul piano nazionale e i consigli nazionali degli ordini professionali.
Tali soggetti di propria iniziativa o su segnalazione dei propri iscritti inviano quesiti alla Direzione Generale per l’attività ispettiva del Ministero del
Lavoro, esclusivamente tramite posta elettronica.
La Direzione Generale provvede a fornire i relativi chiarimenti d’intesa
con le competenti Direzioni Generali del Ministero del Lavoro e, qualora
interessati dal quesito, sentiti gli enti previdenziali.
3 bis. Quale effetto ha il “comportamento adesivo” del datore di lavoro alla soluzione interpretativa fornita dall’Amministrazione in risposta all’interpello?
L’adeguamento del datore di lavoro (cd. comportamento adesivo) alle indicazioni fornite dal Ministero del Lavoro, mediante interpello, esclude
l’applicazione delle relative sanzioni penali, amministrative e civili (art.
9 D.Lgs. 124/2004 come modificato dall’art. 21 del D.L. 262/2006 conv. in
L. 286/2006).
316
Parte Ventesima
4. In cosa consiste l’ispezione?
Riferimento normativo: D.Lgs. 124/2004.
Nozione: l’ispezione è il fulcro dell’attività di vigilanza e consiste nella visita
presso la sede produttiva del soggetto sottoposto a controllo, verificando l’osservanza delle normativa di legge e negoziale e riscontrando le informazioni e
la documentazione in possesso dell’Amministrazione.
Disciplina: evidenziare che l’ispezione consta di più momenti e che implica
l’esercizio di diversi poteri e prerogative da parte degli ispettori.
Domande consequenziali: rilievo della denunzia anonima; la disposizione
dell’ispettore; il verbale; il libro unico del lavoro; provvedimento adottabile in
caso di lavoro nero.
Articolazione della risposta
L’accertamento di eventuali inosservanze della legislazione lavoristica e
previdenziale presuppone che gli organi di vigilanza, nei rispettivi ambiti
di competenza, pongano in essere un’attività conoscitiva dei luoghi e delle attività produttive in cui si svolge la prestazione lavorativa dei privati,
e che si sostanzia, appunto, nell’ispezione.
In particolare, nell’esercizio delle funzioni di vigilanza gli ispettori sono
legittimati ad accedere a tutti i locali delle imprese al fine di raccogliere
documenti e assumere dai datori di lavoro, dai lavoratori, dalle rispettive
rappresentanze sindacali e dagli istituti di patronato, dichiarazioni e notizie per l’accertamento di eventuali inosservanze delle norme.
L’ispezione si sostanzia, quindi, in un’attività di accertamento che può
consistere in:
—assunzione di informazioni da datori e lavoratori, nel rispetto del diritto alla riservatezza e della libertà di espressione, al fine di raccogliere
la notizia dell’illecito;
—ispezione di cose e luoghi diversi dalla dimora privata. Non possono essere compiute, però, perquisizioni se non dagli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria e previa autorizzazione motivata del giudice del luogo
ove le perquisizioni dovranno essere effettuate;
—acquisizione di rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici ed ogni altra
operazione tecnica che possa essere utile ad assicurare la prova del fatto;
La vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale
317
—sequestro cautelare delle cose che, essendo servite a commettere l’illecito o essendone il prezzo, il prodotto od il profitto, possono successivamente formare oggetto di confisca amministrativa.
Le ispezioni devono, comunque, essere condotte secondo i principi di collaborazione e di reciproco rispetto, in modo da arrecare la minore turbativa possibile allo svolgimento delle attività dei soggetti ispezionati.
4 bis. Che valore hanno le disposizioni impartite dagli ispettori?
Le disposizioni (art. 14 D.Lgs.124/2004) sono atti amministrativi, immediatamente esecutivi, impartiti dagli ispettori in tutti quei casi in cui essi
sono abilitati ad integrare le norme in materia di lavoro e di legislazione
sociale, con un proprio apprezzamento discrezionale.
La disposizione comporta, quindi, per il datore di lavoro “un obbligo nuovo, che viene a specificare quello genericamente previsto dalla legge” (circ.
Min. Lav. 24/2004), in particolare quando essa non stabilisca precise e puntuali modalità di adempimento.
5. Cosa ha previsto la L. 183/2010 in materia di verbalizzazione
delle ispezioni?
Riferimento normativo: art. 13 D.Lgs. 124/2004, art. 33 L. 183/2010.
Nozione: gli ispettori devono dare conto dell’attività svolta illustrandola nel verbale che costituisce fonte di prova degli elementi di fatto acquisiti e documentati.
Disciplina: si distingue tra:
— verbale di primo accesso ispettivo;
— verbale unico di accertamento e notificazione:
Articolazione della risposta
Il personale di vigilanza deve rendere nota l’attività ispettiva compiuta mediante la redazione del verbale che costituisce fonte di prova relativa­mente
agli elementi di fatto acquisiti e documentati e può essere utilizzato per
l’adozione di eventuali provvedimenti sanzionatori, amministrativi e civili, dalle Amministrazioni interessate (art. 10, co. 5, D.Lgs. 124/2004).
La redazione del verbale avviene mediante l’utilizzo di un modello unificato, predisposto al fine di garantire uniformità nella rilevazione degli il-
318
Parte Ventesima
leciti da parte di tutti gli organi ispetti­vi. Il modello di verbale è adottato,
infatti, unitariamente dal personale ispettivo del Ministero del Lavoro,
dell’Inps e Inail.
La L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato lavoro, disciplina i contenuti del
verbale di primo accesso ispettivo redatto nel corso del primo intervento
ispet­tivo.
Il verbale deve essere rilasciato al datore di lavoro o alla persona presente all’ispezione, con
l’obbligo alla tempestiva consegna al datore di lavoro.
Esso contiene tra l’altro: l’identi­ficazione dei lavoratori trovati intenti al lavoro; la specificazione delle attività compiute dal personale ispettivo; le
eventuali dichiarazioni rese dal datore di lavoro o da chi lo assiste.
È inoltre previsto il verbale unico di accertamento e notificazione, notificato al trasgressore e all’eventuale obbligato in solido a conclusione
dell’accertamento ispettivo. Esso contiene gli esiti dettagliati dell’accertamento con le fonti di prova degli illeciti riscontrati.
Mediante tale verbale il trasgressore viene a conoscenza di tutti gli illeciti a lui addebitati
mediante un unico atto contenente anche l’eventuale diffida a regolarizzare. Il verbale inoltre vale già come atto di notificazione degli illeciti amministrativi riscontrati.
La prassi amministrativa prevede inoltre la redazione di un verbale interlocutorio, che attesta formalmente l’attività di accertamento espletata nella singola giornata di ispezione e contiene le ragioni per cui c’è stato un
rinvio dell’ispezione.
6. A cosa serve il libro unico del lavoro?
Riferimento normativo: artt. 39, 40 D.L. 112/2008 conv. in L. 133/2008.
Nozione: documentazione obbligatoria contenente le informazioni relative alla
gestione dei rapporti di lavoro, ed in particolare quelle relative alle presenze dei
lavoratori e quelle di natura prettamente economico-retributive.
Domande consequenziali: funzione del libro unico.
Articolazione della risposta
Il libro unico del lavoro sostituisce gli «storici» libri aziendali, di matricola e paga, apportando una significativa semplificazione degli adempimenti relativi alla gestione del rapporto di lavoro.
La vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale
319
Il libro unico ha un duplice contenuto:
—informazioni di natura economico-retributiva, quali le dazioni in danaro o in natura corrisposte o gestite dal datore di lavoro, comprese le
somme a titolo di rimborso spese, le trattenute a qualsiasi titolo effettuate, le detrazioni fiscali, i dati relativi agli assegni per il nucleo familiare, le prestazioni ricevute da enti e istituti previdenziali;
—informazioni relative alle presenze, mediante un calendario delle presenze, da cui risulti, per ogni giorno, il numero di ore di lavoro effettuate da ciascun lavoratore subordinato, nonché l’indicazione delle ore di
straordinario, delle eventuali assenze dal lavoro, anche non retribuite,
delle ferie e dei riposi.
Con la consegna al lavoratore di copia delle scritturazioni effettuate nel libro unico del lavoro il datore di lavoro può adempiere anche agli obblighi
relativi al pagamento della retribuzione con apposito prospetto scritto (cd.
busta paga) di cui alla L. 4/1953.
6 bis. A quale funzione assolve il libro unico del lavoro?
Mentre i tradizionali libri obbligatori hanno rappresentato il mezzo più importante per attestare la regolarità del lavoratore, la funzione del libro unico è, invece, quella di uno strumento gestionale per il corretto adempimento degli obblighi retributivi, assicurativi, previdenziali e fiscali, documentando a ogni singolo lavoratore lo stato effettivo del proprio rapporto di lavoro e agli organi di vigilanza lo stato occupazionale dell’impresa (circ. Min. Lav. 21-8-2008, n. 20).
Come per i precedenti libri aziendali, l’istituzione del libro unico è obbligatoria per tutti i datori di lavoro privati di qualunque settore, soggetti o
meno all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, ad eccezione del datore di lavoro domestico (circ. Min. Lav. 20/2008).
7. A seguito della L. 183/2010 quando si applica la maxisanzione amministrativa?
Riferimento normativo: art. 3 D.L. 12/2002 conv. in L. 73/2002.
Disciplina: la maxisanzione amministrativa si applica qualora sia riscontrato
l’impiego di lavoratori per i quali il datore di lavoro non ha effettuato la preventiva
comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro al centro per l’impiego.
320
Parte Ventesima
Elementi da evidenziare: si applica solo per il lavoro in nero dei lavoratori
subordinati.
Domande consequenziali: provvedimento di sospensione dei lavoratori.
L’ordinamento prevede per l’impiego di lavoratori in nero una sanzione
amministrativa pecuniaria, cd. maxisanzione, che, a seguito della L. 4-112010, n. 183, cd. collegato lavoro, si applica esclusivamente quando sia riscontrato l’impiego di lavoratori subordinati per i quali non risulti effettuata la preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato al centro per l’impiego, ad eccezione dei lavoratori domestici.
La sanzione non si applica se dagli adempimenti di carattere contributivo precedentemente assolti (ad es. attraverso l’invio dei documenti previdenziali di
tipo contributivo), risulta comunque la volontà del datore di lavoro di non occultare il rapporto di lavoro (anche se risulta differentemente qualificato).
Prima dell’intervento della L. 183/2010, la maxisanzione amministrativa
poteva essere attuata per qualunque tipologia di lavoratore in nero, quindi
anche per l’impiego irregolare di lavoratori autonomi soggetti a precisi obblighi di formalizzazione documentale da parte del committente (ad es. collaborazioni coordinate e continuative e lavoro a progetto) (circ. Min. Lav.
4-7-2007).
L’importo della sanzione è pari ad una somma di denaro compresa tra un minimo di @ 1.500
e un massimo di @ 12.000 per ciascun lavoratore irregolare, maggiorata di @ 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo (art. 3 D.L. 12/2002 conv. in L. 73/2002, modif. dall’art.
4 L. 183/2010).
Con la L. 183/2010 è stata altresì prevista una sanzione ridotta che si applica quando il rapporto di lavoro risulta regolare al momento dell’ispezione, ma venga accertato lavoro nero relativo
a periodi antecedenti all’accertamento ispettivo nel limite massimo di 5 anni precedenti. In tale
ipotesi l’importo è compreso tra un minimo di @ 1.000 e un massimo di @ 8.000, maggiorato
di @ 30 per ciascuna giornata di lavoro irregolare (circ. Min. Lav. 12-11-2010, n. 38).
7 bis Quale altro provvedimento può essere adottato nel caso in cui
l’ispettore riscontri lavoratori in nero?
Nell’ambito di una serie di provvedimenti volti a contrastare il lavoro nero
e a garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, il
legislatore ha introdotto una speciale misura di natura cautelare che si
sostanzia nell’ordine, impartito dall’organo di vigilanza, di sospensione
dell’attività lavorativa.
La vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale
321
Il D.Lgs. 81/2008 (T.U. in materia di tutela della salute e sicurezza del lavoro) che (art. 14) ne prevede l’adozione, nei confronti dei datori di lavoro che rivestono la qualifica di imprenditori, nel caso in cui dall’accertamento ispettivo risulti:
—lavoro irregolare, cioè l’impiego di personale non risultante dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria in misura pari o superiore
al 20% del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro;
—gravi e reiterate violazioni della disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, individuate nell’allegato I al
D.Lgs. 81/2008.
In base alla dir. Min. Lav. 18-9-2008 l’efficacia del provvedimento di sospensione decorre
normalmente dalle ore 12 del giorno successivo all’accesso ispettivo.
L’organo di vigilanza che ha adottato il provvedimento di sospensione può
revocarlo quando il datore di lavoro provvede alla regolarizzazione dei lavoratori trovati in nero e al pagamento di una somma aggiuntiva unica.
Il datore di lavoro che non ottempera al provvedimento di sospensione è
punito con l’applicazione di sanzioni penali.
8. Quale finalità persegue l’istituto della conciliazione mono­
cratica?
Riferimento normativo: art. 11 D.Lgs. 124/2004.
Nozione: strumento di carattere deflativo del contenzioso introdotto dal D.Lgs.
124/2004, così denominato per il fatto che la conciliazione avviene dinanzi ad
un unico funzionario della DPL (e non dinanzi ad un organo collegiale).
Disciplina: evidenziare che la conciliazione monocratica può essere preventiva
o contestuale all’ispezione ed è finalizzata al raggiungimento di un accordo tra
le parti risultante da un apposito verbale che ha efficacia di titolo esecutivo ed
è inoppugnabile.
Caratteristiche: la conciliazione monocratica è di esclusiva competenza delle
Direzioni del lavoro.
Domande consequenziali: casi in cui è inapplicabile la conciliazione monocratica; diffida accertativa per crediti patrimoniali.
322
Parte Ventesima
Articolazione della risposta
L’istituto della conciliazione monocratica (art. 11 D.Lgs. 124/2004) è stato introdotto dal legislatore al fine di prevenire l’insorgenza di controversie tra le parti del rapporto di lavoro nel caso in cui l’inadempimento del
datore sia di tipo civile o amministrativo e riguardi diritti patrimoniali
del lavoratore ovvero crediti di lavoro derivanti dal mancato rispetto degli obblighi retributivi e contributivi.
La conciliazione può essere contestuale, quando viene attivata direttamente, previo consenso delle parti, dall’ispettore nel corso dell’espletamento
di un accesso ispettivo (vi è stato l’accesso nei locali aziendali ma non sono
stati acquisiti ancora elementi di prova di violazioni).
La conciliazione può avere anche carattere preventivo, quando la DPL
competente, a seguito di una richiesta di intervento da parte del lavoratore o dell’organizzazione sindacale che lo rappresenta, verificata l’esistenza di elementi per una soluzione conciliativa, convoca gli interessati ed effettua un tentativo di conciliazione fra prestatore e datore di lavoro.
Il tentativo di conciliazione può portare ad un accordo cui dovrà seguire il
pagamento delle somme dovute al lavoratore, nella misura concordata, e
il versamento dei contributi previdenziali e assicurativi.
Il pagamento, da parte del datore di lavoro, delle somme dovute al lavoratore e il versamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi
estingue il procedimento ispettivo e fa sì che non sia applicata alcuna sanzione.
Se la procedura si risolve negativamente (le parti non raggiungono un accordo oppure se
con il loro comportamento non consentono di effettuare il tentativo di conciliazione monocratica), si fa seguito all’accertamento ispettivo.
L’accordo tra le parti deve comunque essere formalizzato mediante apposito verbale che rende inoppugnabile le transazioni e le rinunce avve­nute
in sede amministrativa. La L. 183/2010, cd. collegato lavoro ha precisato
che il verbale è dichiarato esecutivo con decreto dal giudice competente,
su istan­za della parte interessata (art. 11, co. 3bis, L. 124/2004, introdotto
dall’art. 38 L. 183/2010).
La vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale
323
8 bis.In quali casi non può essere attivata la conciliazione monocratica?
La procedura di conciliazione può essere attivata solo se le violazioni siano di tipo civile o amministrativo.
La conciliazione monocratica non può applicarsi quando emergono evidenti e chiari indizi di violazioni penalmente rilevanti, in quanto in tal
caso è necessario procedere comunque all’accertamento ispettivo.
Un’altra ipotesi in cui non è possibile praticare la conciliazione monocratica è quando le questioni attengano a rapporti di lavoro che siano stati
oggetto di certificazione ai sensi del D.Lgs. 276/2003 (in tal caso l’esperimento di procedure di conciliazione deve avvenire presso la stessa commissione che ha provveduto alla certificazione del contratto).
8 ter.In cosa consiste la diffida accertativa per crediti patrimoniali?
Oltre alla conciliazione monocratica, il D.Lgs. 124/2004 ha introdotto e disciplinato un altro istituto con specifiche finalità deflattive, ovvero la diffida accertativa per crediti patrimoniali.
Il potere di diffida accertativa per crediti patrimoniali è esercitato in sede
di indagine ispettiva a seguito di accertamento di violazione da cui derivano crediti patrimoniali in favore dei lavoratori.
Presupposto operativo per l’esercizio della diffida accertativa è che tali
somme siano certe, sia sotto l’aspetto del diritto del lavoratore, sia sotto
l’aspetto quantitativo.
In presenza dei presupposti indicati dal D.Lgs. 124/2004, l’ispettore diffida il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore le somme dovute entro il termine di 30 giorni.
A seguito della notifica dell’atto di diffida, il datore può corrispondere le
somme al lavoratore o promuovere un tentativo di conciliazione presso
la DPL.
Nel caso di adempimento, il pagamento della somma al lavoratore fa sì che
la diffida perda efficacia.
Anche in caso di esito positivo del tentativo di conciliazione, cioè di accordo, risultante da apposito verbale sottoscritto dalle parti, il provvedimento di diffida perde efficacia.
Nel caso di esito negativo (mancato accordo), o nel caso in cui il datore abbia fatto decorrere inutilmente il termine per la proposizione del tentativo
324
Parte Ventesima
di conciliazione senza avere adempiuto, la diffida accertativa acquista, con
apposito provvedimento del direttore della DPL, valore di accertamento
tecnico, con efficacia di titolo esecutivo.
9. Qual è l’istituto a disposizione degli organi di vigilanza per
l’estinzione degli illeciti amministrativi accertati durante
l’ispezione?
Riferimento normativo: art. 13 D.Lgs. 124/2004.
Nozione: permette al datore di lavoro di regolarizzare la violazione, mediante
ammissione al pagamento di una sanzione ridotta rispetto a quella ordinaria ed
estinzione dell’illecito rilevato dall’ispettore.
Caratteristiche: può essere attivata solo in caso di illeciti amministrativi sanabili.
Domande consequenziali: presupposto della sanabilità dell’illecito; carattere
obbligatorio della diffida; istituto per l’estinzione dell’illecito in campo penale.
Articolazione della risposta
Si tratta della diffida obbligatoria. Il potere di diffida disciplinato dall’art.
13 D.Lgs. 124/2004 è volto ad incentivare il datore di lavoro alla regolarizzazione della violazione, mediante ammissione al pagamento di una sanzione ridotta rispetto a quella ordinaria ed estinzione dell’illecito rilevato.
L’istituto della diffida è esercitabile per gli illeciti amministrativi sanabili conseguenti a violazioni in materia di lavoro e di legislazione sociale riscontrate dal personale ispettivo delle DPL e degli enti previdenziali nel
corso delle ispezioni.
In presenza dei presupposti previsti dalla legge il personale delle DPL e
degli enti previdenziali, per i profili di competenza, deve provvedere a diffidare il datore di lavoro alla regolarizzazione delle inosservanze, fissando
un congruo termine per l’adempimento.
In caso di ottemperanza, e cioè di regolarizzazione entro il termine fissato dall’ispettore, il datore di lavoro è ammesso al pagamento di una sanzione ridotta, pari al minimo fissato dalla legge, in caso di sanzione compresa tra un minimo e un massimo, oppure ad 1/4 dell’importo della sanzione, se stabilita in misura fissa. L’adempimento da parte del datore di lavoro estingue il procedimento sanzionatorio, facendo venire meno le sanzioni per gli illeciti rilevati.
La vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale
325
Se, invece, il datore di lavoro non ottempera alla diffida, il procedimento sanzionatorio riprende il suo corso.
9 bis. Cosa si intende per sanabilità dell’illecito amministrativo ai
fini dell’adozione della diffida?
La sanabilità dell’illecito — fattispecie i cui elementi devono desumersi
direttamente dalla materia penalistica — ha costituito uno degli aspetti del
potere di diffida più problematici e dagli incerti esiti giurisprudenziali.
La prassi amministrativa è intervenuta precisando che l’inadempienza risulta ancora sanabile nel caso di adempimenti omessi, in tutto o in parte,
che possono ancora essere materialmente realizzabili.
La sanabilità delle violazioni, quale presupposto per l’adozione della diffida, si concretizza, pertanto, nel solo fatto che l’adempimento sia ancora materialmente realizzabile, “indipendentemente dalla istantaneità o
meno della condotta oggetto della fattispecie sanzionatoria” (circ. Min.
Lav. 9/2006).
È stata poi esclusa l’applicabilità della diffida per la regolarizzazione di illeciti che pregiudicano definitivamente la possibilità di tutelare l’interesse o il bene protetto dalla norma violata. Caso tipico è quello della violazione di norme poste a diretta tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, escluse espressamente dall’ambito di applicazione della diffida dalla
prassi amministrativa (circ. Min. Lav. n. 9/2006).
9 ter. Cosa indica il carattere dell’obbligatorietà della diffida?
La diffida è obbligatoria in quanto condizione di procedibilità per l’applicazione delle sanzioni: quindi, in caso di illeciti amministrativi che risultino accertati e provati, l’organo di vigilanza non ha alcun potere discrezionale circa la sua adozione o meno.
9 quater.Per gli illeciti penali esiste un istituto simile alla diffida?
Sì: si tratta dell’istituto della prescrizione obbligatoria.
La prescrizione è una forma di estinzione degli illeciti penali di natura
contravvenzionale in materia di lavoro e legislazione sociale, disciplinata dal D.Lgs. 124/2004 e dal D.Lgs. 758/1994. La sua funzione è quella di
ottenere in un tempo ragionevole l’adempimento del datore di lavoro ed
eliminare la violazione.
326
Parte Ventesima
La prescrizione consiste nell’emanazione, da parte dell’organo di vigilanza, di apposite direttive per rimuovere o far cessare la violazione.
Il trasgressore deve adempiere entro il termine stabilito e successivamente pagare una somma di denaro a titolo di penale (cd. oblazione), beneficiando in tal modo dell’estinzione del reato.
La prescrizione è obbligatoria: costituisce, al verificarsi dei presupposti di
legge, un preciso dovere del personale ispettivo, che assume il valore di
condizione di procedibilità dell’azione penale (il mancato esercizio della
prescrizione impedisce l’azione penale).
Il procedimento si articola nelle seguenti fasi:
—accertamento della contravvenzione: l’organo di vigilanza dotato di
funzioni di polizia giudiziaria constata l’illecito contravvenzionale;
—prescrizione, provvedimento con il quale l’ispettore intima al trasgressore l’adempimento specifico richiesto per eliminare l’illecito. Per la regolarizzazione è concesso un termine non superiore a 6 mesi, prorogabile al massimo di altri 6 mesi;
—informazione all’autorità giudiziaria: a seguito dell’accertamento
dell’illecito, l’organo di vigilanza è tenuto a trasmettere per iscritto la
notizia di reato al Pubblico Ministero che ne effettua l’iscrizione nell’apposito registro delle notizie di reato (artt. 347, 335 c.p.p.);
—sospensione del procedimento penale: dal momento dell’iscrizione
della notizia di reato nel registro il procedimento penale è sospeso di
diritto;
—verifica dell’adempimento, da parte degli stessi organi di vigilanza entro 60 giorni dalla scadenza del termine concesso al contravventore.
Nel caso di positivo riscontro, l’ispettore ne dà comunicazione all’autorità giudiziaria e ammette il trasgressore al pagamento di una sanzione pecuniaria in sede amministrativa pari ad 1/4 dell’importo massimo dell’ammenda previsto dalla norma penale;
—estinzione del reato, in quanto, a seguito dell’adempimento alla prescrizione e del pagamento della sanzione, il giudice deve dichiarare
estinto il reato.
In caso di mancato adempimento, l’organo di vigilanza ne darà comunicazione al P.M. ed il procedimento penale riprenderà il suo corso.
Parte Ventunesima
Il processo del lavoro
1. Quali sono i tratti di specialità del processo del lavoro?
Riferimenti normativi: L. 533/1973; artt. 409 e ss. c.p.c.
Elementi da evidenziare:illustrare le caratteristiche del processo del lavoro,
quali:
— l’oralità;
— l’immediatezza;
— la massima concentrazione;
— gli ampi poteri istruttori del giudice.
Domande consequenziali: ambito di applicazione; giudice competente; competenza in caso di controversie riguardanti la P.A.
Articolazione della risposta
La L. 533/1973, sostituendo il titolo IV del Libro II del codice di procedura civile, ha inteso delineare un procedimento ispirato a criteri di snellezza e semplicità, poco costoso e soprattutto più breve rispetto a quello ordinario.
Al fine di garantire dunque una tutela effettiva e più celere dei diritti del lavoratore, il processo del lavoro si caratterizza per:
—l’oralità: soltanto gli atti introduttivi devono essere redatti per iscritto;
—l’immediatezza: fra il deposito del ricorso e l’udienza di discussione
non devono decorrere più di 60 giorni; sono vietate le udienze di mero
rinvio etc.;
—la massima concentrazione degli atti processuali: al termine della discussione orale, il giudice pronuncia la sentenza con cui definisce il giudizio dando in udienza la lettura del dispositivo;
—l’ampliamento dei poteri istruttori del giudice, il quale può, in qualsiasi momento, disporre d’ufficio l’ammissione di ogni mezzo di prova.
328
Parte Ventunesima
1 bis. Qual è l’ambito di applicazione del rito del lavoro?
Il rito speciale del lavoro si applica alle controversie individuali riguardanti i rapporti di (art. 409 c.p.c.):
—lavoro subordinato privato anche se non si svolge nell’ambito di un’impresa (come, ad esempio, il lavoro domestico);
—lavoro agricolo (mezzadria, colonia, affittanza);
—agenzia, rappresentanza e collaborazione che si concretino in una
prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato (es. co.co.co., lavoro a progetto etc.);
—dipendenti di enti pubblici economici;
—pubblico impiego, per i quali le leggi speciali non prevedano la giurisdizione di altro giudice.
Ai sensi dell’art. 63 D.Lgs. 165/2001 sono devolute al giudice del lavoro tutte le
controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, comprese le controversie relative a comportamenti antisindacali della P.A.
1 ter. Qual è il Giudice competente per le controversie di lavoro?
Le controversie individuali di lavoro sono di competenza:
—in primo grado, del Tribunale in funzione di giudice del lavoro che
decide in composizione monocratica;
—in secondo grado (in appello), della Corte di appello in funzione di
giudice del lavoro che decide in composizione collegiale.
Per individuare l’autorità giudiziaria territorialmente competente, occorre
tener conto dei criteri indicati dall’art. 413 c.p.c., secondo cui è competente per territorio il giudice nella cui circoscrizione:
—è sorto il rapporto di lavoro;
—si trova l’azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine
del rapporto.
Si tratta di fori tra loro alternativi, per cui può essere liberamente scelto
uno fra quelli indicati dalla norma.
Per le controversie riguardanti i rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale e di
collaborazione, di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c., è territorialmente competente il giudice nella
Il processo del lavoro
329
cui circoscrizione si trova il domicilio dell’agente, del rappresentante di commercio ovvero del titolare del rapporto di collaborazione.
1 quater.Quale giudice è competente per le controversie relative a
rapporti di lavoro con la P.A.?
Competente per territorio per le controversie relative ai rapporti di lavoro
alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è il giudice nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto.
2. A seguito della L. 183/2010 il tentativo di conciliazione è ancora obbligatorio?
Riferimenti normativi: artt. 410 e ss. c.p.c.
Nozione: il tentativo di conciliazione non è più obbligatorio ma facoltativo.
Disciplina: può essere proposto:
— avvalendosi delle procedure di conciliazione previste dai contratti o accordi
collettivi (conciliazione sindacale);
— ricorrendo alla apposita Commissione di conciliazione presso la Direzione
provinciale del lavoro (conciliazione amministrativa);
— presso le commissioni di certificazione.
Domande consequenziali: tentativo obbligatorio in caso di contratto certificato;
tentativo di conciliazione nella P.A.
Articolazione della risposta
No. La L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato lavoro (art. 31) ha reso facoltativo il tentativo di conciliazione che, di conseguenza, non è più condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria (gli artt. 410bis e 412bis c.p.c.
sono stati infatti abrogati dalla L. 183/2010).
Prima della L. 183/2010, invece l’azione giudiziaria doveva essere preceduta obbligatoriamente da un tentativo di conciliazione extragiudiziale (art. 410 c.p.c.), che ne costituiva
condizione di procedibilità: infatti, in mancanza, il giudice doveva sospendere il giudizio,
fissando alle parti un termine perentorio per proporre il tentativo.
Chi intende agire in giudizio, ha facoltà di promuovere, prima dell’azione
giudiziaria, anche tramite l’associazione sindacale alla quale aderisce o
330
Parte Ventunesima
conferisce mandato, un tentativo di conciliazione (art. 410 c.p.c., sostituito dalla L. 183/2010) che può svolgersi:
—in sede amministrativa presso l’apposita commissione di conciliazione della DPL;
—in sede sindacale, con le procedure previste dai contratti collettivi;
—presso le commissioni di certificazione ex art. 76 D.Lgs. 276/2003.
2 bis. Il tentativo di conciliazione è sempre facoltativo?
No. Quando il ricorso giudiziario ha ad oggetto l’atto di certificazione del
contratto di lavoro, il tentativo di conciliazione è obbligatorio e deve svolgersi dinanzi alla stessa commissione che ha adottato l’atto di certificazione (art. 80, co. 4, D.Lgs. 276/2003).
2 ter.Le nuove modalità di conciliazione previste dalla L. 183/2010
valgono anche per le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni?
Sì. La L. 183/2010 ha di fatto realizzato l’unicità del sistema di conciliazione tra settore pubblico e privato.
Pertanto, anche per le controversie di lavoro del settore pubblico trovano
applicazione gli artt. 410, 411, 412, 412ter e 412 quater c.p.c. con le novità introdotte dalla L. 183/2010 (di conseguenza sono stati abrogati gli artt.
65 e 66 D.Lgs. 165/2001 che disciplinavano, rispettivamente, il tentativo
obbligatorio di conciliazione e la procedura di conciliazione da svolgere
innanzi al collegio in tale ambito).
3. Quale forma è prevista per domanda giudiziale?
Riferimento normativo: art. 414 c.p.c.
Disciplina: la domanda si propone con ricorso.
Elementi da evidenziare: illustrare il contenuto del ricorso.
Domande consequenziali: fissazione dell’udienza di discussione; questione
pregiudiziale sull’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un
contratto collettivo; lettura della motivazione.
Il processo del lavoro
331
Articolazione della risposta
La domanda giudiziale si propone con ricorso (art. 414 c.p.c.) al quale
vanno allegati tutti i documenti che si intendono produrre.
Il ricorso, in particolare, deve contenere:
—l’indicazione del giudice e delle parti;
—l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si fonda la domanda;
—la determinazione dell’oggetto;
—l’indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi ed
in particolare dei documenti che offre in comunicazione.
Salvo eccezioni rigorose, previste dall’art. 420 c.p.c., non sono, infatti, ammesse le produzioni di documenti in corso di causa, così come non è ammessa la formulazione di nuove
domande o eccezioni rispetto a quelle contenute nel ricorso stesso.
3 bis.Dopo quanto tempo è fissata l’udienza di discussione?
Depositato il ricorso in cancelleria, il giudice, entro 5 giorni, fissa l’udienza di discussione (che deve cadere entro 60 giorni dalla data di deposito
del ricorso) con decreto da notificarsi, a cura dell’attore, al convenuto.
L’udienza di discussione costituisce il fulcro di tutto il procedimento e serve a creare il primo contatto fra le parti e il giudice.
3 ter. Cosa accade nel caso in cui sorga una questione pregiudiziale concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle
clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale?
Qualora per la definizione della controversia è necessario risolvere una questione pregiudiziale concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione
delle clausole di un contratto o accordo il giudice si pronuncia con sentenza sulla questione pregiudiziale, che ha od oggetto il contratto collettivo, per poter poi ritornare ad esaminare e decidere la controversia. È infatti previsto che una volta pervenuto alla decisione della questione pregiudiziale, il giudice dispone con distinti provvedimenti la prosecuzione
della causa vertente sulla controversia principale fissando una successiva
udienza in data non anteriore a 90 giorni (art. 420bis, inserito dal D.Lgs.
40/2006).
332
Parte Ventunesima
3 quater.Il giudice è tenuto a leggere in udienza la motivazione della sentenza?
Sì. Il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia in udienza la sentenza con cui definisce il giudizio dando
lettura del dispositivo ed esponendo le ragioni di fatto e di diritto della
decisione (art. 429, co. 1, c.p.c.).
La sentenza completa di motivazione viene depositata successivamente ed in caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a 60 giorni, per il deposito medesimo.
4. Cosa ha previsto la L. 183/2010 in materia di arbitrato?
Riferimenti normativi: art. 5 L. 533/1973; artt. 412, 412 ter, 806 e ss. c.p.c.;
art. 31 L. 183/2010
Nozione: si tratta di una forma di risoluzione stragiudiziale delle controversie.
Disciplina: le parti decidono di devolvere la risoluzione di una controversia tra
loro insorta (mediante compromesso) o che potrebbe in futuro sorgere (mediante
clausola compromissoria) ricorrendo al potere decisionale di un arbitro, dotato
di competenze specifiche e in posizione di terzietà rispetto alle parti.
Elementi da evidenziare: la L. 183/2010 amplia naturalmente l’istituto dell’arbitrato consentendo la scelta tra diverse opzioni e modalità.
Domande consequenziali: clausola compromissoria.
Articolazione della risposta
In alternativa alla tutela giurisdizionale, le parti possono decidere di devolvere la risoluzione di una controversia tra loro insorta (o che potrebbe
in futuro sorgere) ricorrendo al potere decisionale di un privato cittadino,
cd. arbitro, dotato di competenze specifiche e in posizione di terzietà rispetto alle parti.
Le controversie di lavoro sono arbitrabili a seguito di una convenzione di
arbitrato, in cui rientrano: il compromesso, in virtù del quale le parti devolvono agli arbitri controversie già insorte, e la clausola compromissoria che inserita nel contenuto pattizio di un contratto vale a stabilire la competenza degli arbitri per tutte le possibili controversie future nascenti dal
contratto stesso.
Il processo del lavoro
333
Tale istituto è stato innovato dalla L. 183/2010, cd. collegato lavoro, che
consente la scelta fra diverse opzioni e modalità.
Innanzitutto, le parti possono affidare alla commissione di conciliazione
presso la DPL (art. 412 c.p.c., sostituito dalla L. 183/2010) il mandato a
risolvere in via arbitrale la controversia, durante lo svolgimento del tentativo di conciliazione o al suo termine in caso di mancata riuscita.
Le parti possono indicare alla commissione la soluzione sulla quale concordano, riconoscendo, se possibile, il credito spettante al lavoratore e pertanto accordarsi per risolvere la
lite.
È possibile altresì avvalersi dell’arbitrato presso le sedi sindacali, da svolgere secondo le modalità previste dai contratti collettivi (art. 412ter c.p.c.,
sostituito dalla L. 183/2010).
La L. 183/2010, ha previsto infine un’ulteriore possibilità di risoluzione
stragiudiziale delle controversie di lavoro da svolgere innanzi ad un collegio di conciliazione e arbitrato irrituale (art. 412quater c.p.c., sostituito
dalla L. 183/2010), composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro, in funzione di presidente, scelto di comune accordo.
Le parti possono altresì decidere di definire le controversie innanzi alle apposite camere arbitrali costituite dagli organi di certificazione (art. 31,
co. 12, L. 183/2010).
4 bis. Quando può essere prevista la clausola compromissoria?
La clausola può essere inserita nel contratto di lavoro solo se sussistono le
seguenti condizioni:
—deve essere prevista da accordi interconfederali o contratti collettivi
di lavoro;
—deve essere certificata, a pena di nullità, innanzi alle commissioni di
certificazione.
A garanzia del lavoratore, la clausola compromissoria non può riguardare
le controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro e non può
essere pattuita né sottoscritta prima che sia concluso il periodo di prova,
se previsto, e, in tutti gli altri casi, se non sono trascorsi almeno 30 giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro.
Indice
Parte Prima
Le fonti del diritto del lavoro
1. Come possono essere classificate le fonti del diritto del lavoro?................. 2. A seguito della L. cost. 3/2001 come sono ripartite le competenze legisla tive in materia di lavoro tra Stato e Regioni?............................................... 3. Che cosa indica il principio della territorialità?............................................. 4. Cosa s’intende per equità e per “principio del favor prestatoris”?................ 5. Qual è l’efficacia delle direttive emanate dalle istituzioni dell’Unione Euro pea sull’ordinamento nazionale in materia di lavoro ?................................. 6. Qual è il significato del principio della “libera circolazione dei lavoratori”?.. Pag.
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Parte Seconda
Il lavoro subordinato
1. Come si definisce il lavoro subordinato?...................................................... 2. Ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quale rilievo
assume la denominazione attribuita dalle parti al contratto?....................... 3. Quali sono i caratteri essenziali del lavoro parasubordinato?...................... 4. Che cos’è il lavoro a progetto?..................................................................... 5. Il rapporto di lavoro subordinato è compatibile con l’associazione in parte cipazione con apporto di lavoro?................................................................. 6. Il rapporto di lavoro svolto dal socio d’opera può essere considerato come
lavoro subordinato?...................................................................................... 7. Nelle cooperative di lavoro quale tipo di rapporto si instaura tra socio e
società?........................................................................................................ Parte Terza
Il contratto collettivo
di lavoro
1. Che cos’è il contratto collettivo di lavoro?.................................................... 2. Cosa prevede la Costituzione in tema di contratto collettivo di lavoro?....... 3. Cosa si intende per contratto collettivo di diritto comune?........................... 4. Il contratto individuale può derogare alle disposizioni del contratto collettivo?.........
5. Qual è l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune?................ 6. Quali sono i principali livelli della contrattazione collettiva?......................... 7. A chi compete l’interpretazione del contratto collettivo di diritto comune?... 338
Indice generale
Parte Quarta
Il contratto individuale di lavoro
1. Qual è la fonte del rapporto di lavoro?......................................................... 2. Cos’è la capacità giuridica speciale e perché è definita così? .................... 3. Quando il minore acquista la capacità di agire per stipulare un contratto di
lavoro?......................................................................................................... 4. Come è disciplinata l’ipotesi in cui le parti simulano di dare vita ad un certo rapporto di lavoro ma in realtà intendono costituire e danno esecuzione
ad un rapporto di tipo diverso?..................................................................... 5. Quale regola vige in tema di forma del contratto di lavoro?......................... 6. Qual è la tutela prevista per il lavoratore nel caso di una prestazione di
fatto?............................................................................................................ 7. A seguito della L. 183/2010 cosa serve la procedura di certificazione del
contratto di lavoro?....................................................................................... 8. Che cos’è il patto di prova?.......................................................................... Pag. 41
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Parte Quinta
La mediazione pubblica e privata,
le modalità di assunzione del lavoratore
e gli interventi sul mercato del lavoro
1. Come era disciplinato originariamente il collocamento della manodopera?...
2. A quale competenza legislativa, regionale o statale, appartiene l’organiz zazione e la gestione del collocamento?..................................................... 3. Quali sono le tipologie di attività, previste e disciplinate dalla legge, che
possono essere svolte dai collocatori privati o pubblici?.............................. 4. Quale funzione svolge la Borsa continua nazionale del lavoro?.................. 5. Come avviene l’assunzione dei lavoratori?.................................................. 6. Che cosa si intende per “politica attiva del lavoro”?..................................... 7. In che modo l’ordinamento promuove l’occupazione delle persone disabi li sul mercato del lavoro?............................................................................. 8. Come avviene l’assunzione di lavoratori provenienti da uno Stato non ap partenente all’Unione Europea?................................................................... Parte Sesta
Decentramento produttivo,
somministrazione di lavoro e appalto
1. In che cosa consiste la somministrazione di lavoro?................................... 2. Quali sono le ipotesi in cui la somministrazione è vietata?.......................... 3. Durante lo svolgimento della somministrazione da quale soggetto è esercitato nei confronti del lavoratore il potere direttivo e di controllo della
prestazione?................................................................................................. 4. Che differenza c’è tra somministrazione fraudolenta e irregolare?.............. 5. Quali sono i requisiti dell’appalto previsti dalla legge?................................. 339
Indice generale
6. In che cosa consiste il distacco del lavoratore?........................................... 7. Cosa si intende per trasferimento d’azienda?.............................................. Pag. 76
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Parte Settima
Il rapporto di lavoro:
struttura e contenuto
1. Che cosa sono le mansioni?........................................................................ 2. Il datore di lavoro può modificare le mansioni del lavoratore?..................... 3. In cosa consistono gli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà gravanti
sul lavoratore?.............................................................................................. 4. Come vengono normalmente classificati i “diritti dei lavoratori”?................. 5. Che cos’è il mobbing ?................................................................................. 6. In presenza di invenzioni del lavoratore come sono regolati i diritti e gli ob blighi delle parti del rapporto di lavoro?....................................................... 7. Quali sono i poteri del datore di lavoro e quale limite di ordine generale è
previsto dallo Statuto dei lavoratori?............................................................ 8. Quali sono i limiti posti dalla legge al potere direttivo e di controllo spettan te al datore di lavoro?................................................................................... 9. Quali sono i requisiti di legittimità della sanzione disciplinare?.................... 10. Quali sono i presupposti formali e procedimentali per la legittima irrogazio ne delle sanzioni al lavoratore?.................................................................... 11. Quali sono gli obblighi del datore di lavoro?................................................ 12. Come viene tutelata nel nostro ordinamento la riservatezza dei lavoratori?......
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Parte Ottava
La retribuzione
1. Che cos’è la retribuzione e quali sono i principi costituzionali in materia?... 2. Quali tipi di retribuzione sono previsti dalla legge?...................................... 3. Quali elementi compongono la retribuzione?............................................... 4. Che cosa si intende per onnicomprensività della retribuzione?................... 5. A chi compete concretamente la determinazione della retribuzione?.......... 6. Come viene tutelato il credito di lavoro?...................................................... »
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Parte Nona
Il luogo della prestazione
e l’organizzazione dell’orario di lavoro
1. Il datore di lavoro può trasferire il lavoratore da un’unità produttiva ad un’al tra?............................................................................................................... 2. Qual è la funzione dell’orario di lavoro e quali sono le fonti normative in
materia?....................................................................................................... Che cosa si deve intendere per orario di lavoro?......................................... 4. Qual è la durata massima della giornata lavorativa?................................... » 122
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Indice generale
5. Che cos’è il lavoro straordinario?................................................................. 6. Come è disciplinato dalla legge il diritto del lavoratore alle ferie annuali?.... 7. Che cos’è il lavoro notturno?........................................................................ 8. Che cosa sono i permessi e i congedi e quali sono le principali ipotesi pre viste dalla legge?......................................................................................... 9. A seguito della L. 183/2010, come sono disciplinati i congedi a tutela del le persone disabili?...................................................................................... Pag. 129
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Parte Decima
La tutela della salute
e della sicurezza del lavoratore
nei luoghi di lavoro
1. Quali sono le più importanti fonti normative in materia di salute e sicurez za del lavoratore nei luoghi di lavoro?.......................................................... 2. Come deve essere attuata la prevenzione?................................................. 3. Come si individua la figura di datore cui compete la massima responsabi lità in materia di sicurezza?.......................................................................... 4. I compiti del datore di lavoro in materia di sicurezza possono essere dele gati?............................................................................................................. 5. Quali sono gli obblighi del lavoratore in materia di sicurezza?.................... 6. In caso di pericolo grave e immediato il lavoratore può allontanarsi dal po sto di lavoro?................................................................................................ 7. Chi è il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e quali funzioni svolge?.. 8. A chi compete la vigilanza sull’applicazione della normativa in materia di si curezza sul lavoro?...................................................................................... 9. In cosa consiste la sorveglianza sanitaria dei lavoratori e da chi è effettuata?..
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Parte Undicesima
Tutela del lavoro minorile
e della genitorialità.
Parità, pari opportunità
e tutela contro le discriminazioni
nel rapporto di lavoro
1. Come è tutelato il lavoro minorile nel nostro ordinamento?......................... 2. Che cos’è il congedo di maternità?.............................................................. 3. Quali garanzie e diritti attribuisce la legge alla lavoratrice in stato di gravi danza?......................................................................................................... 4. Che cos’è il “Codice delle pari opportunità” tra uomo e donna?.................. 5. Quale tutela giudiziaria è accordata alle lavoratrici vittime di discriminazio ni di genere sul lavoro?................................................................................ 6. Come viene tutelato in giudizio il lavoratore discriminato sul lavoro per mo tivi religiosi o razziali?.................................................................................. » 155
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Indice generale
Parte Dodicesima
Rapporti di lavoro speciali
1. Quando è legittima la stipulazione di un contratto di lavoro a termine?....... 2. Le parti possono recedere dal contratto a termine prima della scadenza?... 3. È possibile prorogare un contratto di lavoro a termine?............................... 4. È legittima la riassunzione a tempo determinato di un lavoratore già assun to in precedenza dal medesimo datore di lavoro con contratto a termine?... 5. Cosa ha previsto la L. 183/2010 in materia di contenzioso sul lavoro a termine?...
6. Come è disciplinato il diritto di precedenza dei lavoratori assunti a termine?..... 7. Quale funzione svolge il contratto di apprendistato?................................... 8. Quali sono le tipologie di apprendistato previste dalla legge?..................... 9. Qual è la disciplina comune alle tre tipologie di apprendistato?.................. 10. Quali finalità persegue il contratto di inserimento?...................................... 11. Quali agevolazioni sono previste per i datori di lavoro che stipulano con tratti di inserimento?..................................................................................... 12. Con il tirocinio o stage si instaura un rapporto di lavoro subordinato?......... 13. Cos’è il lavoro a tempo parziale ed in quali tipologie si può articolare?....... 14. Il contratto di lavoro a tempo parziale deve essere stipulato in forma scritta?...
15. Che cosa sono le clausole flessibili e le clausole elastiche?....................... 16. Un lavoratore a tempo parziale ha gli stessi diritti di un lavoratore a tempo
pieno?.......................................................................................................... 17. Esiste un diritto del lavoratore part-time alla trasformazione del rapporto a
tempo pieno?............................................................................................... 18. Che cos’è il lavoro ripartito?......................................................................... 19. In cosa consiste il lavoro intermittente?....................................................... 20. Quali sono le principali caratteristiche del lavoro a domicilio?..................... 21. Che cos’è il lavoro domestico?.................................................................... Pag. 170
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Parte Tredicesima
Il lavoro
alle dipendenze
delle Pubbliche Amministrazioni
1. Quali sono le principali norme della Costituzione che riguardano il pubbli co impiego?.................................................................................................. 2. Un lavoratore può essere assunto nella P.A. con contratto di lavoro a tem po determinato?........................................................................................... 3. Qual è la disciplina della contrattazione collettiva nel pubblico impiego?.... 4. Come avviene l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni?.................... 5. Come è disciplinato il potere datoriale di variazione delle mansioni nel pub blico impiego?.............................................................................................. 6. Qual è la disciplina della dirigenza pubblica?.............................................. 7. A quale giudice sono devolute le controversie relative ai rapporti di lavoro
pubblico?...................................................................................................... » 203
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Indice generale
Parte Quattordicesima
Le integrazioni salariali
ed altre cause di sospensione
del rapporto di lavoro
1. Che cosa s’intende per sospensione del rapporto di lavoro?...................... 2. Che cos’è la cassa integrazione guadagni ordinaria?.................................. 3. In quali casi è possibile richiedere l’intervento straordinario di cassa inte grazione guadagni (C.I.G.S.)?..................................................................... 4. Cosa sono i contratti di solidarietà?............................................................. 5. Cosa sono le cd. misure anticrisi?............................................................... 6. Quali conseguenze produce la malattia del lavoratore?.............................. 7. Il lavoratore può trasferire il proprio contratto di lavoro in capo ad un altro
lavoratore?................................................................................................... Pag. 216
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Parte Quindicesima
La cessazione
del rapporto di lavoro
1. Quali sono le principali cause di estinzione del rapporto di lavoro?............. 2. Come sono disciplinate le dimissioni del lavoratore?................................... 3. Quali sono i limiti al potere di licenziamento?.............................................. 4. In quali ipotesi sussiste un vero e proprio divieto di licenziamento?............ 5. Quali sono i requisiti procedurali per l’intimazione del licenziamento?........ 6. Cosa si intende per “licenziamento disciplinare”?........................................ 7. A seguito della L. 183/2010 entro quale termine si deve impugnare il licen ziamento?..................................................................................................... 8. Quali forme di tutela sono approntate dalla legge per il lavoratore licen ziato illegittimamente?.................................................................................. 9. Quando il licenziamento si definisce discriminatorio?.................................. 10. Cosa si intende per recesso “ad nutum”?.................................................... 11. Quali sono i presupposti necessari per l’applicazione della procedura per
i licenziamenti collettivi di cui alla L. 223/1991?........................................... 12. Qual è la procedura prevista dalla disciplina dei licenziamenti collettivi?..... 13. Nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo, come vengono in dividuati i lavoratori da licenziare?............................................................... 14. Che cosa si deve intendere per “mobilità”?.................................................. »
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Parte Sedicesima
Il trattamento
di fine rapporto (TFR)
1. Come si calcola il trattamento di fine rapporto?........................................... 2. Quando il lavoratore può chiedere un’anticipazione del TFR?.................... 3. Che cosa si intende per indennità a causa di morte del lavoratore?........... 4. Quando interviene il Fondo di garanzia del TFR?........................................ »
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Indice generale
5. Quale fonte normativa disciplina la devoluzione del TFR alla previdenza
complementare?.......................................................................................... Pag. 267
Parte Diciassettesima
Organizzazione
e attività sindacale
1. Quale nozione si può dare di sindacato?..................................................... 2. Quali sono i principali criteri di associazionismo sindacale dal lato dei la voratori?....................................................................................................... 3. Come si manifesta concretamente il principio di libertà sindacale?............. 4. Cosa prevede lo Statuto dei lavoratori in tema di libertà sindacale?........... 5. Come è disciplinato il diritto di assemblea dei lavoratori?............................ 6. Chi può indire il referendum?....................................................................... 7. Che cosa sono le Rappresentanze sindacali aziendali (RSA) e che diffe renza c’è con le Rappresentanze sindacali unitarie (RSU)?........................ » 269
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Parte Diciottesima
Il diritto di sciopero
1. Come è definito il diritto di sciopero nell’attuale ordinamento giuridico?....... 2. È legittimo lo sciopero politico?.................................................................... 3. Cosa si intende per sciopero articolato?...................................................... 4. Quali sono le conseguenze dell’esercizio del diritto di sciopero sul rappor to di lavoro?.................................................................................................. 5. È legittimo il cd. crumiraggio?...................................................................... 6. La serrata può essere configurata come diritto?.......................................... 7. Cosa disciplina la L. 146/1990?................................................................... 8. Quali sono le condizioni imposte dal legislatore per l’esercizio dello scio pero nei servizi pubblici essenziali?............................................................. 9. Che cos’è la precettazione?......................................................................... 10. Quali poteri sanzionatori sono attribuiti alla Commissione di garanzia per
le ipotesi di scioperi illegittimi?..................................................................... » 280
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Parte Diciannovesima
La tutela dei diritti
del prestatore di lavoro
1. Cosa indicano i principi di inderogabilità delle norme e di indisponibilità dei
diritti?............................................................................................................ 2. Qual è il regime di invalidità a cui soggiacciono le rinunce e le transazioni
del lavoratore?............................................................................................. 3. In quanto tempo si prescrivono i diritti del lavoratore?................................. » 304
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Indice generale
Parte Ventesima
La vigilanza in materia
di lavoro e legislazione sociale
1. Quali finalità persegue l’attività di vigilanza?................................................ 2. Quale organo o ente è investito del più ampio potere di vigilanza in mate ria di diritto del lavoro e legislazione sociale?.............................................. 3. Che funzione ha il diritto di interpello?......................................................... 4. In cosa consiste l’ispezione?....................................................................... 5. Cosa ha previsto la L. 183/2010 in materia di verbalizzazione delle ispe zioni?............................................................................................................ 6. A cosa serve il libro unico del lavoro?.......................................................... 7. A seguito della L. 183/2010 quando si applica la maxisanzione amministra tiva................................................................................................................ 8. Quale finalità persegue l’istituto della conciliazione mono­cratica?.............. 9. Qual è l’istituto a disposizione degli organi di vigilanza per l’estinzione de gli illeciti amministrativi accertati durante l’ispezione?................................. Pag. 311
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Parte Ventunesima
Il processo del lavoro
1. Quali sono i tratti di specialità del processo del lavoro?.............................. 2. A seguito della L. 183/2010 il tentativo di conciliazione è ancora obbliga torio?............................................................................................................ 3. Quale forma è prevista per domanda giudiziale?......................................... 4. Cosa ha previsto la L. 183/2010 in materia di arbitrato?.............................. » 327
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Vol. 1/2 • Compendio di Diritto del Lavoro
2011 • XV ed. • pp. 384 • e 15,00
Un quadro completo e organico del Diritto del Lavoro, aggiornato al cd.
Collegato lavoro (L. 183/2010) e a tutte le più recenti novità legislative.
La disciplina della materia è esposta con un linguaggio semplice e chiaro
e si avvale di diversi corpi e caratteri di stampa (più piccolo per gli approfondimenti, in colore per i concetti-chiave) che consentono di graduare la
preparazione e facilitare la memorizzazione.
Allo scopo di permettere una corretta impostazione delle questioni giuridiche più importanti ed attuali, il testo riporta, in appositi riquadri, gli
orientamenti dottrinali e giurisprudenziali più autorevoli e consolidati.
Ogni capitolo è corredato di un questionario riepilogativo sugli argomenti
più ricorrenti in sede di esame.
Per le sue caratteristiche il volume risponde alle esigenze dei corsi universitari, costituendo, al contempo, un valido e collaudato sussidio per corsi
di formazione e preparazione ai concorsi pubblici.
Vol. 10 • Compendio di Diritto Sindacale
2010 • XV ed. • pp. 272 • e 16,00
Una trattazione completa e organica del diritto sindacale, aggiornata alle
novità intervenute sul piano giurisprudenziale, legislativo e negoziale.
Il testo dà, inoltre, adeguatamente conto della riforma degli assetti contrattuali con cui, dopo anni di attesa, sono state completamente rivisitate le
regole della contrattazione collettiva previste dal precedente Accordo del
1993. Anche in questa XV edizione gli argomenti sono esposti con linguaggio
semplice e chiaro, mentre appositi box riportano gli orientamenti dottrinali
e giurisprudenziali più recenti e consolidati, per interpretare le questioni
giuridiche più importanti ed attuali. Ad ogni capitolo fa seguito un questionario che permette la verifica, passo dopo passo, degli argomenti studiati.
Il testo, mirato alle esigenze dei corsi universitari costituisce al contempo un
valido e collaudato sussidio per la formazione e la pratica sindacale (membri RSU, dirigenti sindacali, associazioni di categoria, enti bilaterali etc.).
Vol. 1 • Diritto del lavoro
2010 • XXVII ed. • pp. 688 • @ 26,00
Un quadro organico e completo del Diritto del Lavoro, aggiornato alle più
recenti novità ed in particolare alla L. 4 novembre 2010, n. 183, cd. collegato
lavoro, con cui è stata operata una significativa riforma della disciplina del
lavoro. Il provvedimento tocca, infatti, aspetti quali, tra l’altro, i congedi e
i permessi, il mercato del lavoro, la vigilanza e le misure contro il lavoro
sommerso, il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni ed
interviene in materia di controversie di lavoro, introducendo importanti
modifiche alla disciplina prevista dal codice di procedura civile (artt. 409
ss.) per lo svolgimento del processo del lavoro e portando a compimento
un articolato sistema di procedure conciliative e di arbitrato.
Per tali caratteristiche, il volume costituisce un approfondito testo di
studio indirizzato ai corsi universitari ed alla formazione specialistica,
rappresentando al contempo un valido strumento di consultazione per tutti
i professionisti del settore.
Vol. 16 • Legislazione e Previdenza Sociale
2010 • XXII ed. • pp. 736 • @ 30,00
Un’analisi chiara e puntuale della Legislazione sociale e degli istituti previdenziali,
alla luce degli orientamenti dottrinali e della prassi amministrativa, arricchita di
numerosi schemi esemplificativi ed esplicativi, nonché di tavole sinottiche.
I contenuti di carattere tecnico-pratico sono evidenziati in appositi riquadri e tabelle,
per selezionare agevolmente il tipo d’informazione di interesse del lettore.
La trattazione è aggiornata ai più recenti interventi, tra cui il D.Lgs. 5/2010 in materia antidiscriminatoria, la legge finanziaria 2010 (L. 191/2009), il regolamento sul
coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale negli Stati membri, entrato in vigore
il 1°-5-2010 (reg. CE 988/2009), e, per gli aspetti più tecnico-pratici, la circolare
INPS 69/2010 sui livelli di reddito per l’assegno al nucleo familiare dal 1°-7-2010.
Apposite schede illustrano le novità del collegato lavoro 2010 e della manovra
economica per il 2010 (D.L. 31-5-2010, n. 78).
Per le citate caratteristiche, il volume costituisce un manuale di riferimento per i corsi
universitari e per la formazione specialistica, rappresentando al contempo un valido
strumento di consultazione per tutti i professionisti dell’area lavoristico-previdenziale
(consulenti del lavoro, commercialisti, avvocati, patronati, personale ispettivo etc.).
Vol. 54A/1 • I Quaderni dell’aspirante avvocato. Diritto del lavoro
2010 • II ed. • pp. 272 • @ 15,00
Un manuale di nuova concezione per la preparazione alla prova orale,
organizzato in maniera originale al fine di fornire al candidato, che già
possiede una conoscenza di base della materia, ulteriori spunti per dare
risposte convincenti ed efficaci in sede d’esame.
I Quaderni dell’aspirante Avvocato, facendo tesoro della pluriennale esperienza delle Edizioni Simone, presentano in maniera piana e sistematica
l’intera disciplina, privilegiando argomenti e istituti che maggiormente
potrebbero costituire oggetto di domanda. A tal fine, in appendice è proposto
un elenco alfabetico dei quesiti più frequentemente posti dagli esaminatori.
Questo Quaderno di Diritto del Lavoro, pertanto, da solo o in affianco al
vecchio e fedele manuale istituzionale, persegue il fine di aggiornare l’aspirante Avvocato e condurlo brillantemente al superamento della prova orale.
Vol. Ip1 • Ipercompendio di Diritto del lavoro
2011 • VII ed. • pp. 240• @ 15,00
Questi manuali di ultima generazione, in linea con le più avanzate metodologie didattiche, si avvalgono di una nuova e più attenta impostazione:
• un’avanzata tecnica redazionale che, al contrario dei manuali tradizionali,
consente al lettore di leggere, organizzare mentalmente e memorizzare
la disciplina in tempi brevi;
• un’accattivante grafica che fa uso del secondo colore per fissare e memorizzare parole e concetti cardine;
• un’esposizione sintetica ed esaustiva che consente di arrivare al “cuore”
delle problematiche di base e di cogliere la corretta consequenzialità
degli istituti;
• una mirata scelta qualitativa e quantitativa delle tematiche fondamentali,
potenzialmente oggetto di domanda d’esame.
In appendice un glossario dei termini specialistici e dei principali argomenti
d’esame.
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