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Percorso 1
La socializzazione
La socializzazione ha inizio nei primi anni di vita e si sviluppa attraverso fasi
successive e con il concorso di diverse agenzie di socializzazione, esercitando una sensibile influenza sugli individui.
Il primo testo che presentiamo, L’influenza della socializzazione primaria
sulle funzioni dell’organismo, mostra che quasi ogni aspetto della vita del
bambino, comprese le sue funzioni fisiologiche, è condizionato dalla sua
esperienza sociale.
Dell’importanza della socializzazione per lo sviluppo individuale tratta anche
il secondo testo, Il carattere sociale del Sé, opera del filosofo e psicologo
sociale George Herbert Mead. In esso si segue il processo di formazione
del sé, che si sviluppa a partire da un’esperienza sociale: ciascuno di noi
conosce se stesso solo attraverso le relazioni con altri.
Se il processo di socializzazione è comune a tutte le epoche, esso assume connotati diversi nelle varie società. Su questo tema, con particolare
riguardo all’attualità, è incentrato il terzo testo, Aspetti problematici della
socializzazione nella società contemporanea: al centro della riflessione ci
sono da un lato l’indebolimento delle forme tradizionali dell’autorità e dall’altro i conflitti tra le agenzie di socializzazione.
Uno dei rischi della società contemporanea, legato soprattutto alla specializzazione dei ruoli, è che l’individuo, avendo affidato diversi ambiti della
sua attività a persone competenti, tende a demandare loro decisioni fondamentali, rinunciando all’esercizio della propria libertà. È questa la tesi
sostenuta nell’ultimo testo del percorso, La libertà è una disciplina, dello
psicologo e pedagogista Bruno Bettelheim.
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ITINERARIO DI LETTURA
T1
L’influenza della
socializzazione
primaria sulle
funzioni
dell’organismo
T2
Il carattere sociale
del Sé
T3
Aspetti problematici
della socializzazione
nella società
contemporanea
T4
La libertà è una
disciplina
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La socializzazione
T1
L’influenza della socializzazione primaria
sulle funzioni dell’organismo
Peter Berger e Brigitta Berger
Ciò che percepiamo come «realtà sociale» varia da cultura a cultura ed è
prodotto, trasmesso e conservato attraverso processi sociali. Di questa
realtà ognuno di noi fa esperienza sin dalla nascita: il mondo del neonato
è popolato da altre persone, con le quali egli interagisce. L’esperienza sociale infantile è qualcosa che pervade totalmente la biografia individuale, o,
per dirla con le parole degli autori del brano seguente, «quasi ogni aspetto
della vita del bambino coinvolge altri esseri umani: la sua esperienza degli
altri è determinante per tutta la sua esperienza». Anche gli aspetti non sociali del comportamento sono in qualche misura oggetto dell’intervento di altre
persone, compresi quelli che potremmo pensare essere esclusivo dominio
delle funzioni fisiologiche dell’organismo: «così, sono gli altri che stabiliscono i modelli secondo i quali viene soddisfatta la richiesta di cibo del
bambino [...] per dare un’immagine concreta, la società non soltanto impone i suoi modelli sul comportamento infantile, ma arriva fin dentro il bambino, ad organizzare le funzioni del suo stomaco».
Alcuni di questi modelli imposti socialmente possono dipendere da
caratteristiche individuali, proprie di singoli adulti che entrano in contatto con
il bambino. Per esempio, una madre può far mangiare il suo bambino tutte le
volte che questi piange, al di fuori di qualsiasi orario, perché i suoi timpani sono
molto sensibili, o perché gli è così affezionata che non può sopportare di vederlo star male neanche per un minuto. Ma, generalmente, la decisione se dar da
mangiare al bambino tutte le volte che piange o se imporgli un preciso orario
non è una decisione particolare della madre come individuo, ma è un modello
assai più esteso della società in cui vive la madre: essa l’ha appreso come il più
adatto per risolvere quel determinato problema.
Tutto ciò ha una conseguenza molto importante: nelle sue relazioni
con gli altri, il bambino impara a conoscere un microcosmo strettamente circoscritto e solo molto più tardi si rende conto che questo microcosmo ha sullo sfondo un macrocosmo infinitamente più vasto. Forse, […] noi invidiamo
il bambino per questa sua ignoranza. Cionondimeno, questo invisibile macrocosmo, che gli è ignoto, ha modellato e prefissato quasi ogni cosa di cui egli
abbia esperienza nel suo microcosmo.
Se una madre, ad esempio, passa da una rigida ripartizione dei pasti
ad un nuovo regime per cui il bambino può mangiare tutte le volte che piange, questo non potrà assolutamente pensare che questo piacevole cambiamento delle sue condizioni possa essere opera di altri se non della madre. Ciò che
egli non può sapere è che la madre ha mutato il suo comportamento seguendo
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il parere di alcuni esperti, i quali possono rispecchiare, ad esempio, le nozioni
in auge – in quel momento – diciamo, presso la borghesia colta. In definitiva,
non è tanto la madre, quanto codesta invisibile entità collettiva quella che ha
(in questo caso piacevolmente) invaso il sistema fisiologico del bambino. C’è
tuttavia un’ulteriore implicazione. Nel caso in cui la madre appartenesse ad
un’altra classe, ad esempio alla classe operaia, con modelli di comportamento
meno influenzati dalle teorie prevalenti in materia, il bambino starebbe ancora
piangendo per la fame. In altre parole, i microcosmi dell’esperienza infantile
differiscono l’uno dall’altro a seconda dei macrocosmi in cui essi sono inseriti.
Il mondo in cui l’infanzia viene vissuta varia a seconda della sua collocazione
complessiva nella società. Lo stesso principio di relatività può applicarsi alla tarda fanciullezza, all’adolescenza e ad ogni altro stadio biografico.
A questo proposito, le pratiche connesse con la nutrizione possono
costituire un caso significativo. Vi è infatti una lunga serie di possibili variazioni in proposito: un’alimentazione del bambino secondo un orario regolare,
oppure un’alimentazione fornita, per così dire, a richiesta; l’allattamento al seno
oppure quello artificiale; le diverse età di svezzamento, e così via. In questo campo, non solo vi sono grandi differenze tra le società, ma ve ne sono anche tra le
classi di una stessa società. Per esempio, l’allattamento artificiale in America,
come in Europa, è stato introdotto dalle madri della classe media. Più tardi furono ancora le madri della classe media quelle che cominciarono ad abbandonarlo
in favore dell’allattamento al seno. Perciò, praticamente, era il livello di reddito dei genitori quello che decideva se, quando il bambino aveva fame, gli veniva offerto il seno della madre o il poppatoio.
In questo campo, le differenze tra le diverse società sono veramente
notevoli. Nelle famiglie occidentali della media borghesia, prima che gli esperti divulgassero le varie teorie correnti sull’alimentazione «a richiesta», vigeva un
regime duro, quasi industriale, per l’orario dei pasti. Il bambino mangiava a
determinate ore e soltanto in quelle; negli intervalli lo si lasciava piangere, e questa usanza era giustificata in vari modi: sia in termini di praticità, sia in vista di
un supposto beneficio per la salute del bambino.
Per contrasto può essere interessante considerare come si comportano
i Gusii del Kenia. Tra i Gusii non esistono assolutamente orari per i pasti. La
madre dà da mangiare al bambino tutte le volte che piange. La notte la madre
dorme nuda sotto una coperta con il bambino tra le braccia e il bambino gode
di un immediato e continuo accesso al seno materno. Quando la madre lavora,
porta il bambino legato alla schiena oppure qualcun altro lo tiene accanto a lei:
anche in queste occasioni, quando incomincia a piangere, il bambino viene allattato il più presto possibile: in linea di massima non passano mai più di cinque
minuti tra il momento in cui il bambino comincia a piangere e quello in cui viene allattato. Paragonato alla maggior parte dei modelli di allattamento della società occidentale, questo dei Gusii ci appare davvero molto «permissivo».
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Vi sono però altri aspetti delle pratiche alimentari dei Gusii che possono dare un’impressione del tutto diversa. Per esempio, pochi giorni dopo la
nascita, al bambino viene data una pappetta oltre al latte della madre. Sembra
anche, dalle notizie riportate, che il bambino non partecipi con molto entusiasmo a questo pasto; ma non per questo riesce ad evitarlo: egli viene imboccato
a forza. Questa alimentazione forzata viene attuata in un modo piuttosto antipatico dalla madre, che stringe il naso al bambino e gli versa la pappa in bocca
quando egli la apre per respirare. Inoltre, anche se è possibile che altri si comportino in modo diverso, la madre sembra dimostrare ben poco affetto, e in
realtà è raro che coccoli il suo bambino. Questo viene fatto probabilmente per
non far nascere gelosie nei presenti, ma in pratica ciò significa che il bambino
percepisce di più l’affetto degli altri che non quello della madre. Vi sono altri
aspetti, oltre a questi, nell’educazione dei primi anni di vita dei bambini Gusii
che, paragonati ai modelli occidentali, ci colpiscono per la loro particolare
durezza. D’altro canto, per quanto riguarda lo svezzamento, i Gusii dimostrano ancora una volta un grado molto elevato di «permissività» rispetto alle società occidentali. Così, mentre nelle società occidentali la stragrande maggioranza
dei bambini passa dal seno al poppatoio all’età di sei mesi, i bambini Gusii vengono allattati fino all’età di ventidue mesi.
(P. Berger e B. Berger, Sociologia. La dimensione sociale della vita quotidiana,
Bologna, il Mulino, 1995, pp. 55-60)
Comprensione del testo
Rielaborazione e produzione
1. Individua la tesi sostenuta dagli autori sul rapporto tra ambiente sociale e modelli di nutrizione.
2. Spiega in quali modi l’appartenenza a un certo
ambiente sociale (classe borghese, classe operaia) influisce sulle modalità di allattamento dei
figli.
3. Confronta i principali modelli di allattamento delle società occidentali con quelli in uso presso i
Gusii del Kenia.
4. Sulla base del testo proposto, formula una definizione dei concetti di «macrocosmo» e di «microcosmo» e spiega in che senso vengono usati nel
brano.
5. Dividi il testo in sequenze e a ciascuna attribuisci un titolo. Elabora quindi un breve riassunto
di 20 righe al massimo.
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La socializzazione
T2
Il carattere sociale del Sé
George Herbert Mead
George Herbert Mead (1863-1931), filosofo e psicologo sociale, insegnò
all’Università di Chicago, uno dei centri di origine della moderna ricerca
sociale. La sua opera più celebre, Mente, sé e società, è una trascrizione delle sue lezioni, integrata da appunti e altri materiali, pubblicata postuma dai suoi allievi. Mead è considerato il padre dell’interazionismo simbolico, un indirizzo teorico e di ricerca nell’ambito delle scienze sociali che
si sofferma soprattutto sugli aspetti linguistici e comunicativi dei rapporti
tra gli esseri umani. La parte del suo pensiero che ha influenzato le scienze sociali in modo più duraturo è quella che riguarda la formazione del sé.
Si può parlare dell’esistenza di un sé quando il soggetto umano diventa
oggetto a se stesso; egli allora si guarda e si valuta come se fosse un
esterno: «ecco, io sono fatto così, agisco in questo modo, faccio bene...
faccio male...» . L’attività di autoriflessione è specifica della specie umana, così come la caratterizza la capacità di usare un linguaggio, ossia un
insieme strutturato di segni, ai quali convenzionalmente è assegnato un
significato, condiviso da una comunità di parlanti. Il linguaggio è una condizione fondamentale per l’emergere del sé: poiché esso è per definizione sociale (non ha senso pensare a un linguaggio totalmente privato), ne
deriva che l’emergere del sé è un processo sociale.
La costruzione del sé è uno dei principali prodotti della socializzazione: dapprima ciascuno di noi si confronta con il sé così come viene definito dagli
altri e, successivamente, interiorizza questa immagine di sé. Una definizione che comunque non è mai definitiva né priva di problemi: il soggetto
conserva sempre in qualche misura la capacità di criticare e prendere le
distanze da tale descrizione.
Il «Sé», proprio in quanto può essere oggetto a se stesso, è essenzialmente una struttura sociale, e sorge nell’esperienza sociale. Dopo che un «Sé»
è sorto, esso in un certo senso fornisce a se stesso le proprie esperienze sociali,
e in conseguenza di ciò è possibile concepire un «Sé» perfettamente isolato. È
invece impossibile concepire un «Sé» che sorga fuori dell’esperienza sociale. Una
volta che il «Sé» è sorto lo si può immaginare come una persona che venga segregata per il resto della sua vita, ma che ha ancora come compagno se stesso, ed
è in grado di pensare e conversare con se stesso allo stesso modo in cui prima
ha comunicato con gli altri. Quel processo, al quale mi sono appunto riferito
per il quale si risponde al proprio «Sé» allo stesso modo in cui un altro risponde ad esso, di partecipazione alla propria conversazione con gli altri, di presa di
coscienza di ciò che si sta dicendo e di utilizzazione di quella coscienza per determinare ciò che si dirà in seguito – è un processo con il quale noi tutti abbiamo
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1.
conversazione di gesti:
il gesto è l’atto
elementare
nell’interazione sociale;
è l’adattamento
all’azione dell’altro.
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La socializzazione
familiarità. Noi seguiamo continuamente il nostro discorso con altre persone
mediante la comprensione di ciò che veniamo dicendo, e ci serviamo di quella
comprensione per la continuazione del nostro discorso. Veniamo scoprendo ciò
che stiamo per dire, ciò che stiamo per fare proprio in quanto si parla e si agisce e nel corso del processo veniamo continuamente controllando il processo
stesso […]. Si comincia a dire qualcosa, supponiamo qualcosa di spiacevole, ma
quando si comincia a dirlo ci si accorge che si tratta di una cosa crudele. L’effetto
di quanto stiamo dicendo ci arresta; abbiamo qui una «conversazione di gesti»1
fra l’individuo e se stesso. Noi intendiamo dire che l’azione è qualcosa che
riguarda l’individuo stesso, e che l’effetto sull’individuo fa parte dello svolgimento intelligente della conversazione con gli altri. Ora noi, per così dire, mettiamo da parte questa fase sociale e facciamo a meno di essa, tal che si può parlare con il proprio «Sé» allo stesso modo con cui si potrebbe parlare con un’altra persona.
Questo processo di astrazione non può essere continuato indefinitamente. Inevitabilmente si cerca un uditorio, bisogna proiettarsi su qualcuno.
Nell’intelligenza riflessiva si cerca di agire, e di agire solamente in modo che
l’azione rimanga parte di un processo sociale. Il pensiero diventa momento
preparatorio all’azione sociale. Lo stesso processo del pensare è, naturalmente,
solo il procedere di una conversazione interiore, ma è una «conversazione di
gesti» che nel suo compiersi implica l’espressione pubblica di ciò che uno pensa. Si separa il significato di ciò che si dice ad altri dal discorso effettivo e lo si
prepara prima di dirlo. Si riflette su di esso e magari lo si scrive in un libro;
ma tutto ciò è ancora una parte del rapporto sociale per cui ci si rivolge ad altri
rivolgendosi nel contempo al proprio «Sé», e per cui si controlla il discorso
rivolto ad altri mediante la risposta che si è avuta al proprio «gesto» (gesture).
Che la persona debba rispondere a se stessa è indispensabile per il «Sé», ed è
questo tipo di condotta sociale che determina il comportamento all’interno di
cui quel «Sé» appare. […]
Nella condotta e nell’esperienza quotidiana ci rendiamo conto che un
individuo non ha l’intenzione di dire e di fare tutto ciò che in effetti dice e fa.
Spesso noi diciamo che un tale individuo non è in sé. Veniamo via da un colloquio importante con la coscienza di avere omesso cose importanti, con la
coscienza che vi sono parti del «Sé» che non si sono manifestate in ciò che si è
detto. Il fattore che determina la quantità del «Sé» che entra nel processo di
comunicazione è la stessa esperienza sociale. Naturalmente non occorre che tutto il «Sé» trovi espressione. Noi manteniamo tutta una serie di rapporti diversi
con le diverse persone. Siamo una cosa per l’uno ed un’altra per l’altro. Vi sono
parti del «Sé» che rilevano solo per il «Sé» nel rapporto con se stesso. Noi smembriamo i nostri «Sé» in differenti «Sé», di tutti i generi, in relazione ai nostri
conoscenti. Discutiamo di politica con uno e di religione con un altro. Vi sono
«Sé» differenti, di ogni sorta, corrispondenti a tutti i tipi delle diverse reazioni
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sociali. È il processo sociale stesso a essere responsabile della comparsa del «Sé»;
non esiste un «Sé» disgiunto da questo tipo di esperienza.
[…] Normalmente, all’interno del tipo di comunità come complesso
al quale apparteniamo, esiste un «Sé» unificato, che può essere suddiviso. Per
un soggetto piuttosto instabile di nervi e nel quale esista una predisposizione
alla scissione, certe attività divengono impossibili e quel complesso di attività
può scindere e sviluppare un altro «Sé». […] C’è il caso di un professore di pedagogia che sparì, fu dato per perso, e più tardi riapparve in un campo di taglio
e trasporto del legname nel West. Costui si liberò della sua professione e si mise
a lavorare nelle foreste dove si sentiva, per così dire, più a casa sua. L’aspetto
patologico di questo caso consisteva nell’oblio, nell’omissione del resto del «Sé».
Questo risultato comportò la liberazione da certe memorie corporee che avrebbero identificato l’individuo con se stesso. […]
La struttura unitaria del «Sé» nella sua totalità rispecchia la struttura
unitaria del processo sociale nella sua unità; e ciascuno dei «Sé» elementari, dei
quali esso è composto, rispecchia la struttura unitaria di uno dei molteplici
aspetti di quel processo nel quale l’individuo è coinvolto. In altre parole, i molteplici «Sé» elementari che costituiscono il «Sé» nella sua totalità, o in esso sono
organizzati, costituiscono i vari aspetti della struttura di quel «Sé» globale, corrispondenti ai vari aspetti della struttura del processo sociale nel suo complesso; la struttura del «Sé» nella sua totalità è così un rispecchiamento del processo sociale nella sua totalità. L’organizzazione unificatrice di un gruppo sociale è
identica all’organizzazione unificatrice di ciascuno dei «Sé» che vengono formandosi all’interno del processo sociale nel quale quel gruppo è impegnato o
che quel gruppo sta realizzando.
Il fenomeno di sdoppiamento della personalità2 è causato dallo scindersi del «Sé» intero, unitario, nei «Sé» particolari di cui è composto, che corrispondono rispettivamente ai diversi aspetti del processo sociale in cui il soggetto è implicato e all’interno del quale è sorto il suo «Sé» intiero o unitario.
Percorso 1
2.
sdoppiamento della
personalità: fenomeno
per cui in un singolo
corpo è come
se coesistessero
due persone.
(G. H. Mead, Mente, sé e società [prima edizione: 1934], Firenze, Barbera, 1966, pp. 157-61)
Comprensione del testo
Rielaborazione e produzione
1. In che senso, per l’autore, il Sé «sorge nell’esperienza sociale»?
2. Perché l’autore si sofferma sulla relazione che
ciascuno intrattiene con se stesso? Che cosa
intende dimostrare?
3. Le tesi sostenute nel brano sono supportate da
diversi esempi. Individuane alcuni e sottolineali.
4. Individua le parole chiave del brano.
5. Sintetizza il contenuto del brano elaborando una
mappa concettuale, che comprenda i principali
concetti della teoria di Mead.
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T3
Aspetti problematici della socializzazione
nella società contemporanea
Loredana Sciolla
Nel processo di socializzazione intervengono diverse agenzie a plasmare i
modi con cui gli esseri umani pensano e agiscono: la famiglia, la scuola, il
lavoro, i gruppi dei pari ecc. A fronte di questa molteplicità, che è uno dei
principali tratti distintivi delle società attuali, più modernizzate rispetto a
quelle del passato, viene da chiedersi: queste agenzie operano in modo
coordinato e coerente? Oppure ognuna segue una propria logica d’azione?
E come si pongono gli individui rispetto a eventuali messaggi contraddittori? Accanto a questo problema, Loredana Sciolla ne solleva un secondo,
anch’esso caratteristico della nostra epoca: la progressiva democratizzazione della società, nelle sfere pubbliche come in quelle private, ha indebolito le tradizionali fonti di autorità; in famiglia, a scuola e in molti altri
ambiti, i rapporti basati sul comando lasciano sempre più spazio a quelli
basati sulla libera discussione. Ne consegue che l’individuo, al di là del primo stadio infantile, è sempre più un agente attivo della propria socializzazione. Per le scienze sociali questa evoluzione comporta, peraltro, l’abbandono di vecchi schemi di analisi della socializzazione, che la vedevano
soprattutto come un processo verticale di condizionamento, a favore di
schemi che mettano maggiormente in risalto gli aspetti dell’interazione, della negoziazione, del conflitto tra i ruoli.
1.
gruppo dei pari: agenzia
di socializzazione
formata da individui tra
cui esistano relazioni
paritarie, e non rapporti
gerarchici e di autorità.
Ne sono esempi un
gruppo di amici o di
colleghi, i membri di
un’associazione di
volontariato ecc.
La socializzazione nelle società moderne è dunque un processo molteplice e continuo, che solleva una serie di problemi proprio sull’efficacia della
trasmissione culturale che dovrebbe garantire. Il primo è il problema dei conflitti di socializzazione. Da un lato la presenza di molteplici agenzie di socializzazione, che costituisce una «struttura policentrica», in cui cioè ogni agenzia si
affianca all’altra senza che ve ne sia una davvero dominante, sottopone gli individui ad influenze contrastanti. Si è già fatto cenno, ad esempio, al gruppo dei
pari1 che, accanto alle funzioni di mediazione messe in luce da numerose ricerche, esprimono spesso anche valori e modelli contrastanti rispetto a quelli trasmessi in famiglia (il successo scolastico può essere un valore per i genitori e un
disvalore nel gruppo dei pari, dove è più importante la spavalderia, il coraggio,
il «saper farsi valere» ecc.). Tra gli stessi elementi di fondo acquisiti durante la
socializzazione primaria e quanto appreso nella socializzazione secondaria possono sorgere conflitti. […] Alcune importanti crisi che avvengono dopo l’infanzia sono causate dal fatto di dover riconoscere che il «mondo» dei propri
genitori non è l’unico esistente, ma ha, ad esempio, una collocazione sociale
molto precisa (è, ad esempio, il mondo di un gruppo poco istruito, di ceto socia-
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le inferiore, considerato in maniera negativa in ambienti sociali diversi con cui
l’individuo entra in contatto).
Un secondo problema, su cui si sono concentrate molte ricerche
recenti, è quello dell’erosione delle tradizionali strutture gerarchiche. Nella famiglia come nella scuola ciò provocherebbe un indebolimento delle fonti di autorità. Ciò sarebbe dovuto, almeno in parte, alla progressiva confusione dei ruoli nella famiglia nucleare2 moderna e all’indebolimento del sistema dei ruoli nella scuola (in seguito all’effettivo allargamento dei diritti degli studenti, alla
presenza delle famiglie, all’ingresso di studenti appartenenti a culture molto
diverse). A questa erosione contribuirebbe anche il venire meno delle aspettative pubbliche sui comportamenti dei genitori e degli insegnanti nel senso di un
costante controllo sociale sulla conformità alle norme della nuova generazione.
Se i conflitti di socializzazione e l’erosione delle strutture gerarchiche
segnalano l’emergere di nuove sfide che un mondo in continuo mutamento
pone alla trasmissione culturale nelle nostre società, ciò non significa tuttavia
che non siano già in atto processi interni di adattamento e cambiamenti nei
meccanismi e nei modi di socializzazione per far fronte alla nuova situazione.
In particolare studi recenti, in una relativa convergenza tra psicologia sociale e
sociologia, sottolineano che la struttura verticale di autorità viene sempre più
spesso sostituita da un sistema di scambio fondato sulla negoziazione3 e la regolazione comunicativa in cui ha un’importanza crescente l’elaborazione individuale e riflessiva dell’attore rispetto al controllo coercitivo o interiorizzato.
Percorso 1
2.
famiglia nucleare: famiglia
costituita da una sola
unità coniugale.
3. negoziazione: trattativa.
(L. Sciolla, Sociologia dei processi culturali, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 223-24)
Comprensione del testo
Rielaborazione e produzione
1. Che cosa si intende per «struttura policentrica»?
2. Spiega in quali forme si manifesta l’indebolimento del sistema dei ruoli nel mondo della
scuola.
3. Studi recenti nel campo della psicologia sociale
e della sociologia hanno posto in evidenza un
cambiamento significativo nelle relazioni sociali:
di quale cambiamento si parla?
4. Individua le parole chiave contenute nel testo e
di ciascuna scrivi una breve definizione.
5. Formula cinque domande sul testo da sottoporre ai tuoi compagni.
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La socializzazione
T4
La libertà è una disciplina
Bruno Bettelheim
Libertà, autonomia e capacità di prendere decisioni sono considerati attributi fondamentali della donna e dell’uomo moderni. Uno dei rischi della
società contemporanea, legato soprattutto alla specializzazione dei ruoli, è
che l’individuo, avendo affidato diversi ambiti della sua attività a persone
competenti, tende a demandare loro decisioni fondamentali, rinunciando
all’esercizio della propria libertà. A questo tema ha dedicato interessanti
riflessioni Bruno Bettelheim (1903-90), psicologo e pedagogista. È errato
pensare che gli individui siano portati naturalmente a esercitare la propria
autonomia, ossia «la capacità di autogovernarsi e [...] la coscienziosa ricerca di un significato da dare alla propria vita». Secondo Bettelheim occorre
che gli individui vengano opportunamente educati all’esercizio della libertà. Nell’infanzia l’educazione del soggetto all’autonomia passa per il controllo del proprio corpo e delle proprie funzioni; successivamente, soprattutto a partire dall’adolescenza, egli dovrà essere portato a prendere decisioni, a fare scelte, che progressivamente comportino sempre maggiori
responsabilità verso se stesso e verso gli altri.
1.
la tassazione ... tirannia:
principio del pensiero
politico liberale. Uno
Stato ha il diritto di
imporre le tasse solo
se i cittadini possono
esercitare, attraverso
i propri rappresentanti
politici, un controllo
sullo Stato stesso.
Lo storico motto «la tassazione senza rappresentanza è tirannia»1 ha
in sé una saggezza maggiore di quanto si supponga comunemente. Essa non si
preoccupa di quali tasse debbano essere imposte e come, e neppure si chiede
per quali scopi debba essere speso il denaro così raccolto. […] In superficie esso
sembra tutelare i diritti di proprietà, e può darsi che, sul piano cosciente, questo fosse il suo originario significato. Tuttavia, se andiamo più a fondo, vedremo che la sua importanza consiste nella stretta connessione che esso stabilisce
fra il potere di decidere in cose di importanza essenziale e la tirannia. […]
Il consenso all’imposizione di una tassa è una cosa ben precisa, e in
fondo di poca importanza. Ma il fatto di impedire a un individuo di prendere
parte alle decisioni in materie che lo interessano profondamente tende a creare
quel senso di impotenza che noi chiamiamo «soggezione a una tirannia». Le
azioni o le decisioni particolari che possono far sì che una persona abbia l’impressione di vivere in una società tirannica e di non essere libera di prendere
decisioni mutano col tempo, con la società e con l’individuo. […]
In realtà, si dovrebbe dare una grande importanza a quelle particolari libertà di azione e di decisione che consideriamo necessarie per non sentirci
soggetti a una tirannia, perché esse ci dicono quali punti si debbano considerare decisivi per una determinata società, o per un determinato gruppo all’interno di essa. […] Naturalmente, vi sono diversi gradi di coscienza e, in qualsiasi periodo storico e in qualsiasi regione del mondo, vi sono campi d’azione
in cui la coscienza della libertà è acuta, altri dove essa sonnecchia. Per quanto
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l’importanza da attribuire a determinati ambiti di libertà di scelta possa variare
da individuo a individuo, il senso dell’autonomia dipende dovunque dalla convinzione di poter partecipare alle decisioni più importanti, e di poterlo fare nei
campi più essenziali.
Tanto nell’infanzia quanto nell’età matura, il fatto di non potere dapprima influenzare il proprio ambiente sociale e fisico e, più tardi, di non poter
prendere decisioni su come e quando modificarlo, è nocivo, se non fatale, per
la personalità umana. Ma non tutto quello che si rivelerà poi un bene è fin dall’inizio facile o piacevole. Le decisioni sono una cosa difficile e impegnativa, e
perciò sono evitate, anche là dove sono teoricamente possibili. Tuttavia, per
quanto restrittivo e opprimente possa essere un dato ambiente, anche in questo caso l’individuo conserva un aspetto della sua libertà, la libertà di giudicarlo. Sulla base di questo giudizio egli è anche libero di dare la sua approvazione
interiore oppure di opporre resistenza a ciò che gli viene imposto. È vero che
in un ambiente estremamente oppressivo queste decisioni interiori possono portare a conseguenze pratiche insignificanti o addirittura nulle. Perciò, quanto più
un uomo è inserito in un meccanismo sociale che tende al raggiungimento di
risultati «pratici», tanto più egli tenderà a giudicare il fatto di prendere una decisione interiore che non approda ad alcun risultato pratico come uno spreco di
energie; e quindi eviterà di prendere una simile decisione.
All’altro estremo della scala, quanto più uno vede ogni sua cosa sistemata a proprio vantaggio da altri, tanto meno sembra giustificato ai suoi occhi
il dispendio di energie richiesto dal fatto di dover prendere decisioni. Perciò
tanto il bambino i cui genitori decidono tutto per il suo bene, quanto il bambino che vive in condizioni di totale abbandono, o quello che vive in un
ambiente familiare molto oppressivo, non riusciranno a sviluppare una forte
personalità. […]
Sfortunatamente, la capacità di prender decisioni è una funzione che,
al pari di certi muscoli o di certi nervi, tende ad atrofizzarsi quando non viene
esercitata. […] Se le cose stanno così, allora ogni controllo esterno, benché esercitato per il bene dell’individuo, è indesiderabile se ostacola troppo lo sviluppo
dell’Io, vale a dire, se ostacola dapprima la capacità di prendere decisioni e successivamente la loro attuazione nei campi più importanti per lo sviluppo e la
salvaguardia dell’autonomia.
[…] Quanto più complessa diventa una società, tanto più cresce il
bisogno di autonomia individuale, in quanto entrambi questi aspetti riflettono
stadi più avanzati della «coscienza della libertà». Avviene però che, quando questa complessa società corrode la nostra libertà, sia interiore che esteriore, noi ne
abbiamo una coscienza acuta e immediata; ci rendiamo invece conto meno facilmente e meno rapidamente che è proprio il complicato sviluppo della nostra
società che ci rende capaci di cercare, trovare e amare questi valori, e di temerne così acutamente la perdita. La società non è certo un orco, né l’uomo nasce
libero. Ambedue crescono insieme, se si può usare questa cruda analogia.
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Percorso 1
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25-09-2006
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Percorso 1
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La socializzazione
Naturalmente, gli occidentali moderni non hanno agito senza ragione permettendo che certi aspetti della loro vita venissero curati e controllati dalla società, né hanno agito sventatamente delegando a una scelta schiera di persone la facoltà di prender per loro conto le decisioni più importanti. La tecnica moderna, la produzione e la società di massa hanno recato all’uomo benefici
così numerosi e tangibili che soltanto andando contro i propri interessi egli può
voltar loro le spalle per il semplice fatto che essi comportano dei pericoli per la
sua autonomia personale. D’altro canto, avendo egli ottenuto tanti vantaggi affidando molti campi della sua attività a persone esperte e competenti, forte è la
tentazione di permettere che queste si assumano la direzione di zone sempre più
ampie della sua libertà personale.
Non è che l’uomo moderno sia molto più pronto a cedere la sua libertà alla società, o che ai bei tempi andati egli fosse molto più libero. Il fatto è,
piuttosto, che il progresso scientifico e tecnico lo hanno liberato da molti problemi che una volta egli doveva risolvere da sé se voleva sopravvivere, mentre
l’orizzonte moderno presenta una varietà di scelte molto maggiore di quella alla
quale egli era abituato. L’uomo moderno si trova così davanti a una contraddizione: minore bisogno di sviluppare la sua autonomia perché può sopravvivere
anche senza, e bisogno maggiore di essa se preferisce che non siano altri a prendere decisioni per lui. Quanto minore è il numero di decisioni importanti che
deve prendere per sopravvivere, tanto meno egli sente il bisogno, ovvero l’urgenza, di sviluppare le sue capacità di prendere decisioni. […]
L’uomo, se non adopera e rafforza le sue capacità di prendere decisioni, è incline a cadere in balìa tanto dei suoi desideri istintivi quanto della
società: dei suoi desideri istintivi perché egli non sa armonizzarli e controllarli,
[…] e della società, che regolerà la sua vita per lui, se egli non lo farà da sé.
Ma se l’uomo cessa di sviluppare la propria coscienza della libertà,
questa tende a indebolirsi per mancanza di esercizio.
(B. Bettelheim, Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa [prima edizione: 1960],
Milano, Adelphi, 1988, pp. 81-87)
Comprensione del testo
Rielaborazione e produzione
1. Secondo Bettelheim, qual è il vero significato del
famoso motto «la tassazione senza rappresentanza è tirannia»?
2. In quali situazioni l’individuo rinuncia a esercitare la propria libertà di scelta e quali sono le conseguenze?
3. Nella società moderna occidentale, quali sono i
pericoli per l’autonomia individuale?
4. L’autore utilizza una cruda analogia: individuala
e spiegane il significato.
5. Secondo te, la tendenza dell’uomo moderno a
delegare ad altri (ad esempio i politici) il compito di prendere decisioni per dedicarsi maggiormente ai propri affari privati può limitare le libertà individuali?
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