ESPROPRIO PER PUBBLICA UTILITA` - prima parte

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VOCE:
L’ ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITA’
Autori: Dr Francesco Galanti- Avv. Laura Amaranto
Prima parte:
1 NOZIONE E PRESUPPOSTI
1.1 Il quadro normativo vigente in materia di espropri: le novità
introdotte dal D.P.R. 327/2001 e dal D.lgs. 302/2002.
1.2
I principi desumibili dalla giurisprudenza della Corte
Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
antecedente la riforma.
1.3 .- Gli effetti della riforma del Titolo V della Costituzione:
potestà legislativa concorrente Stato Regioni.i.
1.4 - La situazione della legislazione regionale marchigiana.
1.5 Opera Pubblica e di Pubblica Utilità.
2 I SOGGETTI
2.1 Espropriato, Autorità espropriante, Beneficiario, Promotore
dell’espropriazione.
2.-2.- Competenze delle amministrazioni statali, degli enti locali, degli
altri enti pubblici, e dei soggetti privati.
2.-3.- L’istituzione dell’ufficio per le espropriazioni: natura giuridica e
compiti alla luce del T.U. e della L. 241/90.
3 L’OGGETTO
3.-1.-Beni immobili e diritti relativi a beni immobili.
3.-2.- .-Beni non espropriabili o espropriabili in casi particolari.
L’espropriabilità dei beni pubblici: i beni demaniali, i beni gravati
da usi civici; i beni patrimoniali indisponibili.
4 IL PROCEDIMENTO
4.1 Le fasi del procedimento
4.2 La disciplina del vincolo espropriativo e le nuove prerogative
dei soggetti privati.
4.3 La partecipazione degli interessati
1.- NOZIONE E PRESUPPOSTI
1.-1.- Il quadro normativo vigente in materia di espropri: le novità
introdotte dal D.P.R. 327/2001 e dal D.lgs. 302/2002.
Il D.p.r. 327/2001 contiene il Nuovo testo unico dell’espropriazione per pubblica
utilità, entrato in vigore il 30 giugno 2003. Esso costituisce il primo intervento volto a
riordinare una materia la cui fisiologica complessità è stata aggravata da oltre un
secolo di normazione episodica e scoordinata, da orientamenti non sempre univoci
della giurisprudenza, e da numerose pronunce di incostituzionalità.
Questa caotica situazione ha creato un duplice danno. Primo, ha notevolmente
complicato il compito dell’operatore. Secondo, ha reso più insopportabile la vicenda
espropriativa ai soggetti che l’hanno subita, i quali l’avvertono come incomprensibile
e farraginosa. Ne è derivato un imponente contenzioso che ha riguardato
praticamente ogni fase del procedimento, e una produzione dottrinale spesso
contrastante.
Il D.p.r. 327/2001 si propone dunque di razionalizzare la materia nel quadro della
semplificazione in tt.uu. delineata dalle cosiddette leggi Bassanini, e di riordinare
l’istituto come previsto nell’allegato 1 della legge delega 08/03/99 n. 50, nel testo poi
modificato dalla L. 24/11/2000 n. 340. 1
Com’è noto, prima del D.p.r. 327/2001 l’espropriazione per pubblica utilità era
regolata in via generale dalla L. 2359/1865, e dalla L. 865/1971. La prima, pur
soppiantata in molte parti dalla legislazione successiva, restava ancora la legge
fondamentale in materia, su cui si è innestata la maggior parte delle norme
sopravvenute. Esse hanno dettato le più variegate regole sulle competenze, sui
procedimenti da seguire, sulla determinazione dell’indennità, talvolta senza neppure
precisare i rapporti con la legge originaria, generando insicurezza perfino in ordine
alla disciplina applicabile alle varie fattispecie. Non vigeva un unico modello
espropriativo, quanto diversi procedimenti disciplinati da leggi di settore, da integrare
con le leggi generali per gli aspetti non previsti.
In questo quadro di incertezza, la prima e più importante novità introdotta dal TU
consiste nella reductio ad unitatem dei molteplici modelli dovuti alla frammentazione
legislativa. Nei 59 articoli che lo compongono è stato infatti istituito un unico
procedimento espropriativo, ed attuata l’abrogazione di larghissima parte delle
disposizioni previgenti.
L’operazione non è stata condotta secondo un intento esclusivamente ricognitivo,
ma si è caratterizzata per l’introduzione di alcune disposizioni che incidono sul
tessuto normativo esistente, al fine di adeguarlo all’evolversi dei principi generali e
agli indirizzi interpretativi consolidati. Il TU dell’espropriazione si presenta dunque
come compilativo ed innovativo al tempo stesso, ed altresì come insieme di
disposizioni legislative e regolamentari. Del resto – come precisato dalla Sezione
normativa del Cons. Stato nel parere 10 gennaio 2000 n. 239 – la coesistenza è
1
Cfr. Pauri, L’ambito di applicazione del T.U., i principi informatori, le definizioni, la potestà legislativa e
regolamentare dello Stato e delle Regioni, Contributo al corso residenziale indetto dal Consorzio per l’alta
formazione e lo sviluppo della ricerca scientifica in diritto amministrativo il 27-28 ottobre 2003 sul tema: “Testo unico
in materia di espropriazioni per pubblica utilità”; consultabile sul sito www.diritto.it, nella sezione Osservatorio sulla
giurisprudenza del Tar marche.
ammissibile qualora le norme mantengano, come nel caso in esame, la propria
autonomia. Non lo è invece, quando una singola disposizione è composta da parti di
diverso rango, perché la commistione può comportare problemi in ordine alla
collocazione delle norme “miste” nella gerarchia delle fonti. 2
Da queste tecniche redazionali scaturisce un articolato notevolmente innovativo
della disciplina dell’esproprio. Oltre all’istituzione di un unico procedimento
espropriativo, le novità maggiormente significative sono:
- l’affidamento della competenza procedimentale al soggetto che
realizza l’opera;
- la facoltà del privato espropriato di indicare il valore dell’area per la
determinazione dell’indennità;
- la previsione di un giudizio arbitrale sul quantum della stessa;
l’indennizzabilità del vincolo espropriativo;
- la correlazione dell’espropriazione con la materia urbanistica e la
normativa delle opere e dei lavori pubblici;
- l’eliminazione del controverso istituto dell’accessione invertita.
Un discorso a parte va fatto per l’occupazione d’urgenza che, abolita nella
formulazione originaria del TU, è stata reintrodotta, con alcune varianti, dal D.lgs.
302/2002. Tale decreto apporta importanti modifiche al D.P.R. 327/2001, rese
necessarie da alcuni eventi sopravvenuti prima della sua entrata in vigore. Di esse si
darà conto nel prosieguo, ma occorre evidenziare sin da subito che le più rilevanti,
consistono:
- nel coordinamento della normativa con il nuovo Titolo V Cost.
introdotto dalla L.Cost. 3/2000, che ha ridisegnato l’assetto delle
competenze statali e regionali;
2
Cfr. oltre al citato parere della Sez. normativa, il parere del Cons. Stato 29 marzo 2001, con il quale l’Adunanza
Generale ha approvato lo schema dell’articolato del TU, anche C. Cost. 21 ottobre 1998, n. 354, ove la Corte si è
riservata “ogni valutazione circa l’eventualità di una disposizione composta da elementi risultanti da atti legislativi o atti
aventi valore di legge e da atti aventi valore secondario”.
- nelle procedure speciali per le infrastrutture previste dalla c.d. legge
obiettivo 443/2001;
- nella previsione dell’occupazione di particolare urgenza con congrua
motivazione;
- nella procedura di occupazione di urgenza per le infrastrutture della
legge obiettivo e per gli espropri di massa.
Il fatto che la disciplina dell’espropriazione sia stata sostanzialmente riorganizzata,
e in parte rinnovata, non significa che sia esente da critiche e obiezioni. Restano
ancora dei problemi irrisolti e dei punti sui quali occorre chiarezza. Tra gli altri: le
attribuzioni normative delle leggi regionali secondo il rinnovato dettato
costituzionale, e le occupazioni illecite della PA.
Non bisogna poi dimenticare che le nuove norme sono in larga parte riproduttive
delle precedenti LL. 2359/1865 e 865/1971, e che molti principi elaborati dalla
giurisprudenza pre-TU conservano la loro attualità per non essere sullo specifico
punto mutata la disciplina di settore. E’ dunque indispensabile, in attesa che anche il
TU trovi applicazione giurisprudenziale, tener presenti i precedenti orientamenti che
possono tuttora fungere da criteri guida per la ricostruzione degli istituti.
Vanno infine segnalate alcune recentissime decisioni della Corte Costituzionale e
della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. Ci si riferisce alle sentt. Cost. 25
settembre 2003, n. 303, e 6 luglio 2004, n. 204; e alla sentenza 29 luglio2004 – ric.
36813/97 – della suddetta Corte. La prima si occupa di chiarire la “strumentalità”
dell’espropriazione rispetto al “governo del territorio”, con importanti riflessi sulla
ripartizione di attribuzioni normative fra Stato e regioni. La seconda dichiara la
parziale illegittimità costituzionale dell’ art. 34 comma 1 del D.lgs. 80/1998 in tema
di giurisdizione esclusiva del GA. La terza, sebbene non abbia efficacia diretta nel
nostro ordinamento, sembra porre definitivamente termine alla vicenda dell’art. 5bis
della L. 359/1992 sulla determinazione dell’indennità, asserendo la violazione
dell'art. 6 della Convenzione e dell'art. 1 del Protocollo 1. Di esse si tratterà
diffusamente nelle parti relative alle materie che ne costituiscono oggetto. Per ora, è
sufficiente evidenziare che sembrano avere effetti piuttosto rilevanti sulla disciplina
sostanziale e processuale del nuovo TU.
1.-2.- I principi desumibili dalla giurisprudenza della Corte
Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
antecedente la riforma.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei diritti
dell’uomo ha affermato importanti principi in ordine ad aspetti basilari
dell’espropriazione, rappresentando il riferimento fondamentale degli estensori del
TU.
Iniziando l’analisi dalle pronunce del giudice nazionale, appare evidente che la
Consulta ha rivoluzionato la disciplina inizialmente formulata dal legislatore,
specialmente in tema di rapporti del procedimento ablatorio con la pianificazione
urbanistica e di quantificazione dell’indennità.
Quanto ai primi, la Corte Costituzionale ha emesso le fondamentali sentenze 14
maggio 1966 n. 38, e 29 maggio 1968 n. 55, entrambe aventi ad oggetto questioni di
legittimità dell’art. 7 della L. 1150/1942, che attribuiva alla pa il potere di imporre i
vincoli preordinati all’esproprio.
Il primo dubbio di costituzionalità era stato sollevato in riferimento al secondo
comma dell’ art. 42 Cost., che riserva alla legge la facoltà di limitare la proprietà
privata. Con la sent. 38/1966 la Corte ha dichiarato infondata la questione, sul
presupposto che l’art. 7 avesse determinato con sufficiente precisione i vincoli
urbanistici e i controlli a tutela della proprietà, e ben potesse demandare alla PA il
compito di conformarla. La sentenza ha consentito alla legge di attribuire all’autorità
amministrativa il potere di limitare il diritto dominicale, purché specifichi
adeguatamente i vincoli da imporre e le tutele da garantire.
Fissato questo principio, è però emerso un ulteriore profilo di incostituzionalità.
Fermo il potere conformativo della PA, al cittadino sarebbe spettato un indennizzo
soltanto qualora il Comune avesse attuato la destinazione prevista dal prg mediante
successivi piani particolareggiati, per i quali non era previsto termine di sorta. Così
congegnato, il meccanismo pareva porsi in contrasto con la disposizione del comma 3
dell’art. 42 Cost., poiché la compressione del diritto di proprietà da cui scaturisce il
diritto all’indennizzo deriva immediatamente dall’approvazione del prg, e non dai
successivi piani attuativi.
A fugare ogni dubbio, la sent. Cost. 55/1968, ha dichiarato illegittime le
disposizioni dell’art. 7 e dell’art. 40 della L. 1150/1942, “nella parte in cui non
prevedono un indennizzo per l’imposizione di limitazioni operanti immediatamente e
a tempo indeterminato nei confronti dei diritti reali, quando le limitazioni stesse
abbiano contenuto espropriativo (...).”3
Preso atto di tali incongruenze, la sent. Cost. 55/1968
ha fissato i principi
ispiratori dei rapporti tra pianificazione urbanistica ed espropriazione affermando
che:
1) Il terzo comma dell’art. 42 Cost. non si applica soltanto al procedimento
ablatorio vero e proprio, immediatamente traslativo della proprietà alla PA,
ma anche qualora “singoli diritti (...) vengano compromessi o soppressi
senza indennizzo, mediante atti di imposizione che, indipendentemente dalla
loro forma, conducano tanto ad una traslazione totale o parziale del diritto,
quanto ad uno svuotamento di rilevante entità ed incisività del suo
contenuto, pur rimanendo intatta l’appartenenza del diritto (...)”. Anche tali
atti, infatti, “vanno considerati di natura espropriativa.”
2) Tra i limiti connaturali al diritto proprietà rientrano quelli di
immodificabilità delle aree destinate all’esproprio, previsti dai piani
3
In particolare, la Corte ha rilevato che nel sistema dell’art. 7, si determina “un distacco tra l’operatività immediata dei
vincoli previsti dal prg ed il conseguimento del risultato finale”, il quale coincide con il trasferimento del diritto in capo
alla PA, e si realizza in data incerta e imprevedibile (quella in cui saranno approvati i piani particolareggiati). Inoltre, la
normativa sull’espropriazione non stabilisce “alcun termine decorrente dall’entrata in vigore del piano generale”, né per
la scadenza del vincolo, né per l’avvio della procedura, e non contempla “alcun indennizzo per il vincolo di
immodificabilità cui il proprietario è tenuto a sottostare per il tempo, illimitato, durante il quale rimarrà in attesa del
trasferimento”.
particolareggiati per la “limitata durata” degli stessi. Tuttavia, nelle ipotesi
di “vincoli temporanei” di durata illimitata, non è costituzionalmente
consentito sopprimere senza indennizzo ogni possibilità edificatoria. Ciò si
verifica nel caso di vincoli che, pur non comportando mutamenti immediati
del titolare del diritto, ne incidono effettivamente il contenuto, limitando le
facoltà di godimento sussistenti al momento dell’imposizione.
La sent. 55/1968 non ha invece dichiarato incostituzionale l’art. 11 L. 1150/1942,
che stabilisce la durata illimitata delle previsioni del piano urbanistico. Non ha
dunque imposto al legislatore di apporre un limite temporale ai vincoli preordinati
all’esproprio, imponendo soltanto di corrispondere un indennizzo nel caso di vincoli
di durata indeterminata.
Sullo stesso tema si sono appuntate le sentt. cost. nn. 260 del 1976, 82 e 92 del
1982, 575 del 1989, 141 del 1992, 185 e 186 del 1993, 379 del 1994, e 344 del 1995.
Tali pronunce hanno chiarito che il legislatore avrebbe potuto scegliere tra due
alternative, per adeguare il sistema ai principi enunciati dalla sent. 55/1968. La prima
consistente nell’ attribuire all’autorità urbanistica il potere di apporre vincoli
preordinati all’esproprio di durata illimitata, con la previsione di un congruo
indennizzo; la seconda nell’attribuire alla PA il potere di apporre vincoli
dall’efficacia temporale circoscritta, senza prevedere alcun indennizzo (questa la
scelta operata dal legislatore, con l’art. 2 della L. 1187/1968).
In tal modo, la Corte ha inteso rimediare all’irrazionalità del sistema delineato
dall’art. 7 della L. 1150/1942, la cui illogicità scaturiva dalla disparità di trattamento
tra i proprietari che potevano liberamente edificare, e quelli che avevano subito il
vincolo di durata illimitata, i quali non solo non potevano, ma non percepivano alcun
indennizzo che li compensasse della diminuzione di valore dell’area. 4
4
La succitata sent. 55/1968, ha invece affermato che, se ad alcuni proprietari è consentito edificare, per il principio di
uguaglianza va indennizzato quello a cui tale facoltà è preclusa a tempo indeterminato, e che il sistema deve pertanto
contemplare un indennizzo per i vincoli di durata illimitata. In caso contrario, non può mancare un termine finale entro
il quale avviare il procedimento espropriativo.
I principi espressi nel corso degli anni dalle sentenze della Corte sono stati
efficacemente riassunti e completati nella fondamentale sent. 20 maggio 1999, n. 179,
per la quale:
1) Per “i limiti non ablatori posti normalmente nei regolamenti edilizi o nella
pianificazione e programmazione urbanistica e relative norme tecniche,
quali i limiti di altezza, di cubatura o di superficie coperta, le distanze tra
edifici, le zone di rispetto in relazione a talune opere pubbliche, i diversi
indici generali di fabbricabilità ovvero i limiti e rapporti previsti per zone
territoriali omogenee e simili,” la legge non deve disporre alcun indennizzo.
2) Sono al di fuori dello schema espropriativo i vincoli che importano una
destinazione realizzabile ad iniziativa privata o pubblico-privata, i quali non
comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva
iniziativa pubblica, e siano quindi attuabili anche dal privato e senza
necessità di ablazione del bene.
3) Per il primo periodo di efficacia del vincolo non è necessariamente dovuto
un indennizzo, il quale è invece dovuto a seguito della sua reiterazione. In
altri termini, se il vincolo permane anche dopo il c.d. “periodo di
franchigia” non può prescindersi, in via alternativa all’espropriazione o al
serio inizio della stessa, dalla previsione di un indennizzo che ristori il
proprietario della “diminuzione di valore di scambio o dell’ inutilizzabilità
del bene.”
4) Il quantum dell’indennizzo va rapportato alla “diminuzione di valore di
scambio o utilizzabilità del bene”, da commisurarsi “o al mancato uso
normale del bene, ovvero alla riduzione di utilizzazione, ovvero alla
diminuzione di prezzo di mercato (locativo o di scambio) rispetto alla
situazione giuridica antecedente alla pianificazione che ha imposto il
vincolo.”
Per quanto concerne l’altro aspetto della materia espropriativa maggiormente
interessato dalle pronunce del giudice costituzionale, cioè la quantificazione
dell’indennità di esproprio, occorre in primo luogo rammentare che al criterio del
valore venale del bene, stabilito dall’art. 39 della L. 2359/1865, è stato sostituito
quello del valore agricolo medio, previsto dall’art. 16 della L. 865/1971.
Il nuovo metodo di computo è stato però travolto dalla sent. Cost. del 25 gennaio
1980 n. 5, che lo ha ritenuto in contrasto con il terzo comma dell’art. 42 Cost. Nel
dichiarare l’incostituzionalità la Corte ha affermato che l’indennizzo, “se non deve
costituire una integrale riparazione per la perdita subita (...) non può essere, tuttavia,
fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica ma deve rappresentare un serio
ristoro. Perché ciò possa realizzarsi, occorre far riferimento (...) al valore del bene in
relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione
economica di esso, secondo legge.”
Partendo da questo presupposto, la Corte si è pronunciata per l’illegittimità di tutte
le norme che avevano previsto, anche per le aree edificabili, la commisurazione
dell’indennizzo al valore agricolo medio. Tale metodo di computo ometteva di
considerare lo jus adeificandi, che invece inerisce naturalmente alla proprietà e alle
altre situazioni che comprendono la facoltà di costruire, e costituisce una delle
“caratteristiche essenziali” alle quali deve riferirsi l’indennità di espropriazione. La
mancanza di riferimenti a tali caratteristiche, o alla destinazione economica del bene,
ha determinato l’incostituzionalità del criterio del valore agricolo.5
Come chiarito dalla Corte con le sentt. nn. 231/1984, 355/1985 e 238/1993,
l’ambito della sentenza in esame va limitato alle aree a destinazione edificatoria. Per
le altre, il criterio del valore agricolo medio non lede i suesposti principi, stante il
collegamento della liquidazione dell’indennità con le effettive caratteristiche e con la
destinazione economica del bene.
5
I giudici della sottolineano che, sebbene spetti alla PA stabilire i limiti di edificabilità dei suoli, il proprietario,
“occorrendo ogni altra condizione, ha diritto di ottenere la concessione edilizia, che è trasferibile con la proprietà
dell’area ed è irrevocabile.” La concessione, infatti, “non è attributiva di diritti nuovi ma presuppone facoltà
preesistenti”, svolgendo piuttosto la funzione – propria delle autorizzazioni – di rimuovere gli ostacoli legali
all’esercizio di diritti o facoltà già compresi nella sfera giuridica del proprietario.
Le decisioni del giudice costituzionale hanno poi affermato ulteriori statuizioni di
principio in ordine a diversi aspetti dell’indennità di espropriazione.
La sent., 9 novembre 1988, n. 1022, ha posto in evidenza l’autonomia del diritto
alla percezione dell’indennità aggiuntiva spettante al proprietario diretto coltivatore,
introdotta dall’art. 17 della L. 865/1971, in deroga al principio dell’unicità
dell’indennizzo sancito dalla legge fondamentale.
Le sentt. 22 febbraio 1990, n. 67, e 22 ottobre 1990, n. 470, hanno eliminato gli
ostacoli procedurali all’azione degli interessati, sanciti dagli artt. 19 e 20 della L.
865/1971, stabilendo per gli aventi diritto la possibilità di rivolgersi al giudice
ordinario per la liquidazione dell’indennità di occupazione legittima ovvero, nel caso
di emissione del decreto di esproprio, anche in mancanza della relazione di stima
della competente commissione ai sensi degli artt. 15 e 16 della predetta legge.
La sent. n. 173 del 22 aprile 1991 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 12, comma 5, della L. 865/1971, nella parte in cui non prevede la possibilità,
in capo all’espropriante, di proporre opposizione avverso l’indennità provvisoria
accettata dall’espropriato. La successiva sent. n. 365/1992 ha riconosciuto la stessa
possibilità anche relativamente all’indennità di occupazione.
La sent. 16 giugno 1993, n. 283, ha ad oggetto la normativa sulla quantificazione
dell’indennità di espropriazione per le aree edificabili di cui all’art. 5 bis della L.
359/1992, introdotto per riempire il vuoto legislativo generato dalla sent. 5/1980 con
la declaratoria d’incostituzionalità del criterio del valore agricolo. Al fine di superare
i profili d’illegittimità rilevati dalla Corte in riferimento alla L. 865/1971, l’art. 5 bis
calcolava l’indennità d’esproprio delle aree edificabili o a destinazione edificatoria in
base ad un parametro che teneva conto delle caratteristiche essenziali delle stesse.
Il sistema è stato dichiarato sostanzialmente legittimo, ad eccezione della parte in cui
non prevedeva, in
favore dei soggetti già espropriati e nei confronti dei quali
l’indennità fosse ancora contestabile, il diritto di accettarla senza subire la
decurtazione del quaranta per cento.6
La sentenza n. 369 del 2 novembre 1996 ha dichiarato costituzionalmente
illegittimo il comma 6 del citato art. 5 bis come modificato dall’ art. 1 comma 65
della L. 549/1995, il quale aveva esteso l’applicazione del criterio in esso disposto
per il computo dell’indennità a “tutti i casi in cui non sono stati ancora determinati in
via definitiva il prezzo, l’entità dell’indennizzo e/o del risarcimento del danno (...)”.
La declaratoria di illegittimità ha riguardato la parte di norma che ha esteso il
metodo di calcolo previsto per le aree edificabili al risarcimento del danno derivante
da “occupazione acquisitiva o accessione invertita”, ed ha ribadito l’ontologica
diversità delle fattispecie. 7
Quanto alle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha influito
notevolmente sulla redazione del TU la sentenza 30 maggio 2000, Belvedere, e 30
maggio 2000, Carbonara e Ventura, della sez. II della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo – recentemente richiamata dal TAR Marche nella sent. 20 marzo 2002, n.
4508– che ha dichiarato l’istituto dell’occupazione appropriativa in contrasto con
6
La sent. 283/1993 giunge a questo risultato ripercorrendo la precedente giurisprudenza costituzionale, nella quale
rinviene la costante affermazione di alcuni capisaldi: 1) Se da una parte “l’indennità di espropriazione non garantisce
all’espropriato il diritto ad un’indennità esattamente commisurata al valore venale del bene”, dall’altra “non può essere
(in negativo) meramente simbolica od irrisoria, ma deve essere (in positivo) congrua, seria, adeguata.” 2) E’ tuttavia
legittima la quantificazione dell’indennità in base ad un criterio “mediato” composto da parametri concorrenti, purché
almeno uno di essi “sia agganciato al valore venale” del bene. 3) Nell’individuazione di tali parametri il legislatore gode
di ampi margini discrezionali, al fine di operare un bilanciamento tra l’interesse generale e quello privato, nel rispetto
del canone di adeguatezza sancito dall’art. 42 comma 3 Cost.
7
L’indennità di espropriazione sorge da atto lecito e rappresenta il delicato equilibrio tra l’interesse pubblico alla
realizzazione dell’opera e l’interesse privato alla conservazione del diritto. Il risarcimento del danno da occupazione
acquisitiva sorge invece da illecito extracontrattuale, e deve realizzare l’equilibrio fra l’interesse pubblico al
mantenimento dell’opera realizzata e la tutela della legalità violata.
8
Si legge, al punto 6.1 della citata sentenza: “La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (sedente in Strasburgo), con
sentenza 30 maggio 2000, n. 31524, ha affermato che l’istituto della “accessione invertita” costituisce violazione del
principio di legalità di cui all’art. 1 del protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e che soltanto
ipotesi ablative prefigurate in via generale dall’ordinamento interno e precedute da procedimenti tipici possono essere
compatibili con il protocollo medesimo. Si osserva al riguardo che, nell’ordinamento interno, l’art. 42, 2° e 3° co., della
Costruzione non ha portata e significato contrastante con l’interpretazione data dalla Corte Europea all’art. 1 del
protocollo n. 1 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Entrambe le norme, infatti, enunciano il principio del
rispetto della proprietà privata e contemplano la possibilità delle espropriazioni per causa di pubblica utilità o per motivi
d’interesse generale, “nei casi preveduti dalla legge” e, dunque, nel rispetto del principio di legalità. Vero è che la Corte
Costituzionale (sentenza n. 384 del 31 luglio 1990) ha escluso che la potestà espropriativa riconosciuta dal 3° comma
dell’art. 42 della Costituzione debba necessariamente riferirsi ad ipotesi ablative prefigurate in via generale ed
l’art. 1 del protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo,9 La Corte
era già intervenuta anche sull’istituto dell’occupazione d’urgenza sottolineando, con
sentenza del 7 agosto 1996, n. 613, la necessità di “mantenere un giusto equilibrio fra
l’interesse della collettività e gli imperativi di salvaguardia dei diritti dell’individuo.”
Significativa si rivela anche la sentenza del 2 agosto 2001, Elia srl c. Governo
italiano, della sez. II della Corte, che in tema di vincoli espropriativi ha stigmatizzato
la prassi della reiterazione, affermando che “sussiste la violazione del principio del
rispetto della proprietà (art. 1 del prot. Addizionale 1 alla Convenzione europea dei
diritti dell’uomo) qualora vi sia una continua rinnovazione di vincoli su tali aree.”
E’ appena il caso di ricordare il percorso costituzionale che
ha condotto al
riconoscimento del primato del diritto comunitario sulla legge nazionale (Cost.
170/1984 e 113/1985), e dell’obbligo del giudice e dell’amministratore di
disapplicare la norma interna incompatibile con quella internazionale (Cost.
389/1989). In omaggio a questi principi, può affermarsi che le sentenze della Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo, unitamente ai principi desumibili dal diritto
internazionale pattizio, siano state la fonte e l’ispirazione della riscrittura innovativa
dell’espropriazione per pubblico interesse operata con il TU.
1.-3.- Gli effetti della riforma del Titolo V della Costituzione: potestà
legislativa concorrente Stato Regioni.
Tra le cause cui è imputabile la proroga dell’entrata in vigore del TU –
inizialmente prevista per il primo gennaio 2002 – va annoverato il nuovo assetto delle
accompagnate da sequenze procedimentali costanti ed unitarie; ha anche affermato che la stessa si esplica
legittimamente anche quando si riferisce a concrete fattispecie non usuali, e perfino già realizzate, sempreché sia
sorretta da motivi d’interesse generale e dal giusto indennizzo.
9
Il principale addebito mosso all’ordinamento italiano è quello di aver realizzato un sistema di tutela del diritto di
proprietà caratterizzato da un notevole tasso di incertezza e contraddittorietà, incompatibile con il principio di legalità.
Tale principio, secondo il punto 57 della decisione, non solo impone “l’esistenza di norme di diritto interno
sufficientemente accessibili, precise e prevedibili”, ma vieta altresì l’adozione di soluzioni giurisprudenziali
contraddittorie che potrebbero condurre a risultati imprevedibili o arbitrari, privando gli interessati di un’efficace
protezione dei loro diritti.
attribuzioni normative dello Stato e delle Regioni introdotto con la legge cost. n. 3 del
2001, modificativa del Titolo V della carta fondamentale.
Come già accennato, l’adattamento alle rinnovate disposizioni costituzionali è stato
operato con il D.lgs. 302/02, e specificamente con l’eliminazione del comma 3
dell’art. 1, e la sostituzione dell’art. 5. Il primo stabiliva che i principi desumibili
dalle disposizioni legislative del TU costituivano “norme fondamentali di riforma
economico-sociale”. Tali norme sono caratterizzate dall’incisiva innovatività del
tessuto normativo in settori di primaria importanza nazionale, e sono dunque in grado
di vincolare la competenza legislativa delle Regioni. Il vincolo, tuttavia, non può
derivare dall’autoqualificazione delle norme operata dal legislatore, ma deve
discende dalla natura oggettiva delle stesse. Pertanto, una norma che imponeva alle
Regioni di osservare le prescrizioni poste dal legislatore come inderogabili, appariva
in contrasto con il nuovo comma 4 dell’ art. 117 Cost., che assegna loro la potestà
legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione statale. Per lo stesso motivo, è stato modificato l’art. 5 del TU, che ne
disciplinava l’ambito di applicazione per le regioni e le province autonome di Trento
e Bolzano.
Allo stato, secondo il comma 1 dell’art. 5, le Regioni a statuto ordinario esercitano
la potestà legislativa concorrente per le espropriazioni strumentali alle materie di
propria competenza, con l’obbligo di rispettare i principi fondamentali posti dalla
legge statale e desumibili dal TU. Quelle a statuto speciale, nonché le province
autonome di Trento e Bolzano, esercitano invece la propria potestà ai sensi del
comma 2, nel rispetto dei rispettivi statuti e delle norme costituzionali che
attribuiscono loro spazi di autonomia più ampi rispetto a quelli delle Regioni a statuto
ordinario.
In ogni caso, secondo il comma 3 del suddetto articolo, le disposizioni del TU
operano direttamente finché le Regioni non provvedano ad esercitare la propria
potestà legislativa in materia espropriativa.
Il riferimento operato dall’ art. 5 ai procedimenti “strumentali alle materie di
propria competenza”, rende obbligatoria una precisazione. Come ha rilevato la
dottrina, 10 classificare l’espropriazione come potere strumentale, piuttosto che come
“materia” a sé stante, avrebbe dovuto comportarne l’inserimento tra quelle di
competenza concorrente, se riferita al “governo del territorio” (cfr. art. 117 Cost.
comma 2); tra quelle di competenza esclusiva delle Regioni, se riferita ai “lavori
pubblici” di interesse regionale, (salvo che per le “grandi reti di trasporto e di
navigazione”); tra quelle di competenza esclusiva statale se riferita alla tutela dei
“beni culturali”.
A dissipare le incertezze, è intervenuta la recente sent. Cost. 303 del 25 settembre
2003, che ha chiarito l’ambito delle “materie” propriamente dette e la strumentalità
dell’espropriazione rispetto al “governo del territorio”, e sembra dunque ricondurla
nella sfera della potestà legislativa concorrente Stato-Regioni.
Va infine ricordato che in tale campo, in base al nuovo art. 117 Cost., la potestà
regolamentare è sottratta allo Stato, ed è di competenza in via esclusiva delle Regioni.
1.-4.-La situazione della legislazione regionale marchigiana.
Ad oggi, la Regione Marche non ha esercitato la propria potestà legislativa in
materia espropriativa per cui, ai sensi del terzo comma dell’art. 5, nel suo ambito
territoriale operano direttamente le disposizioni del TU.
Nel previgente regime, l’art. 9 della Legge Regionale n. 17 del 18 aprile 1979
(Legge della Regione Marche in Materia di Lavori Pubblici) delegava ai Comuni le
funzioni espropriative regionali, e la Circolare Regionale n. 17, del 6 ottobre 1989,
conteneva lo schema di procedura da seguire nell’ipotesi che l’esproprio fosse ad essi
richiesto da altri Enti (Province, Consorzi, IACP...). La normativa regionale deve
10
Cfr. Pauri, L’ambito di applicazione del TU, i principi informatori, le definizioni, la potestà legislativa e
regolamentare dello Stato e delle Regioni, cit., punto e).
tuttavia ritenersi implicitamente abrogata a seguito dell’entrata in vigore del nuovo
procedimento espropriativo.
1.-5 Opera Pubblica e di Pubblica Utilità.
Il comma 1 dell’art. 1 limita espressamente il campo di applicazione del TU alle
espropriazioni relative agli immobili per la realizzazione di opere pubbliche o di
pubblica utilità. Non fornisce però direttamente tali definizioni, che devono ancora
ricavarsi dalla classificazione e dai criteri essenziali rinvenibili nell’art. 1 della L. 20
marzo 1865 n. 2248 all. F., oltre che dagli apporti di dottrina e giurisprudenza.
I concetti di opera pubblica e di pubblica utilità accolti nel TU corrispondono
dunque a quelli utilizzati nel regime previgente, per cui si definisce opera pubblica “il
risultato immediato di qualsiasi attività materiale consistente in una modificazione
durevole del mondo reale (elemento oggettivo), di cui lo Stato o altro ente pubblico
risulta titolare (elemento soggettivo), destinato a soddisfare interessi generali della
collettività (elemento teleologico)”.11 In linea con questo orientamento, è stata
qualificata come opera pubblica in senso stretto la realizzazione di un centro merci
intermodale regionale da effettuarsi mediante una spa appositamente costituita, avuto
riguardo alla partecipazione nella realizzazione, in prevalenza, di soggetti pubblici;
alla destinazione ad un servizio d’interesse pubblico; al carattere immobiliare
dell’intervento (cfr. TAR Marche, 22 maggio, nn. 973, 974, 975, 976). 12
L’opera di pubblica utilità, invece, può appartenere ad un privato, ma deve
considerarsi tale perché, pur finalizzata ad interessi privati e talvolta anche a scopo di
lucro, concorre a soddisfare anche un interesse pubblico.
Il comma 2 dell’art. 1 del TU considera opere pubbliche o di pubblica utilità – per
le quali è consentito avvalersi della procedura espropriativa – anche quelle volte a
11
Cfr. Celone, in Sandulli (a cura di), Il testo unico dell’edilizia, nella collana “Le fonti del diritto italiano”, ed.
Giuffrè, 2004, p. 113
realizzare gli interventi necessari affinché la collettività possa utilizzare i beni
espropriati, indipendentemente dalla modificazione materiale degli stessi. E’ chiaro il
riferimento alla realizzazione di zone verdi, aree protette, o di particolare pregio
artistico-culturale. La norma pone fine ai dubbi interpretativi sorti nel previgente
regime, circa la possibilità di effettuare espropriazioni non legate all’esecuzione
materiale di un’opera.
Ai fini della legittimità del procedimento concernente terreni sui quali l’opera
pubblica
deve
essere
realizzata,
non
è
necessaria
la
dimostrazione
dell’indispensabilità dell’opera, bastando la dimostrazione della sua pubblica utilità.
2.- I SOGGETTI
2.-1 Espropriato, Autorità
dell’espropriazione.
espropriante,
Beneficiario,
Promotore
L’art. 3 comma 1 del TU individua quattro parti del procedimento espropriativo:
1) “L’ espropriato”, cioè il soggetto titolare del bene oggetto di ablazione;
2) “L’ autorità espropriante”, vale a dire l’autorità amministrativa titolare del
potere di espropriare e che cura il relativo procedimento, ovvero il soggetto
privato al quale sia attribuito tale potere in base ad una norma. Per le
espropriazioni finalizzate alla realizzazione di opere private, l’art. 6 comma 9
chiarisce che l’autorità espropriante è l’ente che emana il provvedimento
dichiarativo della pubblica utilità;
3) “Il beneficiario dell’espropriazione”, cioè il soggetto in favore del quale è
emesso il decreto di esproprio. Il primo comma dell’art. 1 stabilisce
12
I riferimenti temporali delle sentenze del Tar Marche riguardano la data di emanazione. Si è scelto di seguire questo
criterio non disponendosi, molto spesso, di quella di pubblicazione.
espressamente che le norme del TU si applicano anche alle espropriazioni “a
favore di privati”, per la realizzazione di opere di pubblica utilità;
4) “Il promotore dell’espropriazione” cioè il soggetto che chiede l’espropriazione.
Riguardo all’individuazione del soggetto titolare del bene, la giurisprudenza
antecedente al TU assumeva la legittimità della procedura iniziata e proseguita nei
confronti dei proprietari catastali, a nulla valendo il passaggio di proprietà
intervenuto dopo l’inizio della procedura espropriativa (cfr. Cass., I, 13 ottobre 1992,
n. 11178; Cons. St., IV, 21 ottobre 1988, n. 803).
La stessa giurisprudenza ha poi precisato che ciò valeva fino al momento in cui i
proprietari effettivi non avessero formalmente fatto presente all’autorità espropriante
la propria qualità, poiché da questa comunicazione discendeva l’obbligo
dell’espropriante di riconoscere quale soggetto passivo il proprietario effettivo che
avesse dimostrato di essere tale (cfr. Cass., I, n. 11178/92, cit.; nonché Cons. St., AP,
7 maggio 1982, n. 8; Cons. St., IV, 22 giugno 1976 n. 485).
Il comma 2 dell’art. 3 del TU recepisce tali principi, prevedendo che tutti gli atti
della procedura espropriativa vadano disposti nei confronti del soggetto che risulti
proprietario secondo i registri catastali. Questi, ai sensi del successivo comma 3,
qualora non sia più proprietario del bene e riceva atti o notifiche di un procedimento
espropriativo, è tenuto a comunicarlo all’amministrazione entro 30 giorni dalla prima
notifica. Anche nel nuovo regime, quindi, non vi è l’obbligo dell’amministrazione di
rintracciare dall’inizio i proprietari effettivi dei beni da espropriare.
Quanto all’autorità espropriante, l’art. 3, comma 1, lett. b), definisce tale anche il
“soggetto privato” al quale una norma abbia attribuito il potere espropriativo.
Accantonando per il momento la possibilità di delegarlo al concessionario, la norma
sembra configurare la possibilità che un privato ne sia titolare ex lege, senza
richiedere deleghe a nessuno.
Al riguardo, sono emersi due indirizzi giurisprudenziali contrastanti. Quello più
restrittivo afferma che le opere pubbliche devono essere tali sia dal lato soggettivo
che da quello oggettivo, ovvero vanno realizzate da un soggetto pubblico, quali
organi statali e/o enti territoriali, e devono restare di sua proprietà (Cons. St., IV, 27
ottobre 1998, n. 1389; AP, 16 febbraio 1990, n. 1, e 6 ottobre 1995, n. 26). L’altro
sostiene invece che le s.p.a. derivanti dalla privatizzazione dei precedenti enti
pubblici (Eni, Enel, Ferrovie, ecc.) conservano inalterata la propria connotazione
pubblicistica fino a quando permanga la maggioritaria od esclusiva partecipazione
statale al capitale azionario. Di conseguenza,
le opere da essi realizzate sono
destinate a rimanere pubbliche in quanto di rilevanza strategica o perché
temporaneamente sotto il controllo pubblico, e a mantenere uno spiccato rilievo
pubblicistico (C. Cost., 28 dicembre 1993, n. 466). Per tali società si parla di figure di
“concessionario ex lege a contenuto vincolato” (Cons. St., VI, 20 maggio 1995, n.
498; IV, 5 marzo 2002, n. 1303) o di “organismi di diritto pubblico”; terminologie
che suggeriscono che tali soggetti ricevano direttamente il potere espropriativo
dall’art. 3, comma 1, lett. b), del TU, senza bisogno di deleghe da parte della pa.
Lo stesso accade ai sensi dell’art. 53 del D.P.R. 6 marzo 1978, n. 218 per i
Consorzi (art. 21, co. 5°, L. n. 634 del 1957; art. 5, L. n. 555 del 1959), nei cui
compiti rientra quello di promuovere “l’espropriazione di immobili, oltre che ai fini
dell’attrezzatura della zona, anche allo scopo di rivenderli o cederli in locazione per
l’impianto di nuovi stabilimenti industriali” (cfr. TAR Marche, 22 marzo 2000, nn.
1048 e 1049).
Diversa è l’ipotesi prevista dal comma 8 dell’art. 6, fortemente innovativo della
previgente disciplina. Si tratta del caso in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità
vada realizzata da un concessionario o contraente generale. 13 La norma autorizza
l’autorità espropriante a delegare, in tutto o in parte, l’esercizio dei propri poteri
espropriativi, ma l’effettivo ambito dei poteri delegati dovrà essere chiaramente
13
La figura del contraente generale è stata creata con il d.lgs. 190/2002, relativo alla realizzazione delle infrastrutture
strategiche, che prevede la possibilità di affidare a tali soggetti compiti di progettazione, di direzione e di esecuzione dei
lavori.
esplicitato nell’atto di concessione, i cui estremi dovranno essere specificati in ogni
atto del procedimento espropriativo emanato dal concessionario o contraente generale
delegato.
Per questi soggetti, è possibile avvalersi di società controllate o di società di
servizi, ma in quest’ultimo caso solo per lo svolgimento delle attività materiali e
preparatorie,
escludendo
la
possibilità
di
partecipare
all’emanazione
dei
provvedimenti ablatori.
L’utilizzo delle locuzioni “concessionario” e
“contraente generale” induce a
dubitare della possibilità di delegare le funzioni espropriative ad un appaltatore, al
quale potranno essere affidati compiti meramente tecnici ed operativi, ma non
essergli conferita la capacità di incidere autoritativamente sulla sfera giuridica del
privato. Di conseguenza l’appaltatore, diversamente dal concessionario, non potrà
mai emettere i decreti di esproprio.
2.-2.-Competenze delle amministrazioni statali, degli enti locali, degli
altri enti pubblici, e dei soggetti privati.
Anteriormente all’entrata in vigore del TU, ai sensi dell’art. 106 del D.P.R. 616/1977,
la ripartizione delle competenze era la seguente:
- Allo Stato erano riservate le funzioni relative alle espropriazioni e alle
occupazioni d’urgenza per le opere pubbliche di interesse statale e
ultraregionale. Il Prefetto era competente per le opere realizzate direttamente o
in concessione, e per quelle degli enti strumentali od ausiliari, e delle aziende
autonome.
- Alle Regioni erano riservate le funzioni relative alle espropriazioni e alle
occupazioni per tutte le opere la cui esecuzione non spettava allo Stato,
comprese quelle provinciali e comunali. Titolare del potere era il Presidente
della Giunta, o altra autorità delegata in base all’ordinamento regionale.
- I Comuni non esercitavano alcuna funzione relativa all’espropriazione vera e
propria, neppure nel caso di opere pubbliche o di pubblica utilità di loro
pertinenza. Ad essi erano infatti attribuite, in questo caso, soltanto le funzioni
concernenti le occupazioni temporanee e d’urgenza, e i relativi atti preparatori.
Pertanto, anche nel caso di opere pubbliche la cui esecuzione fosse di loro
spettanza, i Comuni non emanavano autonomamente il decreto di esproprio,
dovendo richiederlo all’autorità regionale competente.
L’art. 32 della L. 3 agosto 1999, n. 265, attribuiva agli enti in parola, in
presenza dei presupposti di cui alla L. 3 gennaio 1978 n. 1 e successive
modifiche, il potere di disporre l’occupazione d’urgenza degli immobili
necessari per la realizzazione di opere e lavori pubblici o di pubblico interesse,
compresi gli interventi di edilizia residenziale pubblica e quelli necessari per
servizi pubblici locali di cui al Capo VII della legge 8 giugno 1990, n. 142.
All’interno dell’organizzazione comunale competeva ai dirigenti, e non al
Sindaco l’emanazione del decreto d’occupazione, in quanto atto attuativo di
scelte compiute in sede di dichiarazione di pubblica utilità, privo di
qualsivoglia contenuto discrezionale perché ogni elemento – ad eccezione della
durata dell’occupazione – veniva definito negli atti presupposti del
procedimento.
- Occorre infine sottolineare che la Regione, con legge regionale, poteva
delegare le proprie funzioni ai Comuni e agli altri enti pubblici, per le opere di
rispettiva competenza, attribuendogli i relativi poteri. In tal caso essi si
occupavano di tutta la procedura ablatoria, in conformità alla delega
conferitagli, ed emanavano direttamente il decreto di esproprio.
Salvo eventuali disposizioni contrarie delle leggi regionali, la competenza dei
dirigenti si estendeva anche alle funzioni amministrative concernenti i
procedimenti delegati dalle Regioni, in quanto l’art. 106 del D.P.R. 616/1977,
secondo lo schema sopra delineato, non radicava la competenza del Sindaco,
limitandosi ad attribuire in linea generale all’Ente le funzioni amministrative
riguardanti le occupazioni d’urgenza.
Riassumendo, l’atto che trasferiva la proprietà del bene veniva generalmente
emanato dal Prefetto per le opere dello Stato o di enti pubblici statali, e dall’autorità
regionale per le altre. In molte Regioni, però, l’esercizio di questa funzione era
delegato ai Comuni o agli altri enti pubblici per le opere di loro spettanza, ed
occorreva individuare caso per caso le norme regionali attributive del potere.
L’autorità espropriante è oggi modificata rispetto a questo sistema, ove a
pronunciare l’espropriazione era generalmente un’autorità terza (Prefetto o Presidente
della Giunta Regionale). L’art. 6 comma 1 del TU, ha infatti attribuito la competenza
all’emanazione degli atti del procedimento alla stessa autorità che intende realizzare
l’opera, dando vita al cosiddetto “principio di simmetria”, secondo il quale
l’esecuzione dell’opera ed il potere ablatorio convergono in capo al medesimo
soggetto; mentre l’art. 58 ha contestualmente abrogato l’art. 106 del D.P.R. 616/1977,
e l’art. 32 della L. 265/1999.
L’art. 7 ha poi assegnato alla competenza dei Comuni quattro fattispecie
espropriative invero piuttosto marginali, riproducendo le disposizioni degli artt. 18,
21, 22, e 23 della legge urbanistica 1150/1942 i quali, ai sensi del citato art. 58, sono
inapplicabili all’espropriazione per pubblica utilità. 14
2.-3.- L’istituzione dell’ufficio per le espropriazioni: natura giuridica e
compiti alla luce del T.U. e della L. 241/90.
Nello stabilire che l’autorità competente alla realizzazione di un’opera pubblica o
di pubblica utilità è anche competente all’emanazione degli atti dell’espropriazione
14
Si tratta delle ipotesi rubricate ai punti a), b), c), e d) della norma, alla lettura della quale si rimanda.
che si renda necessaria, l’art. 6 del TU aggiunge che le amministrazioni statali, gli
enti locali, e gli altri enti pubblici, devono all’uopo individuare al loro interno un
ufficio per le espropriazioni, oppure attribuire i relativi poteri ad un ufficio già
esistente.
A tale ufficio, ai sensi dei commi 5 e 7 dell’art. 6, è preposto un dirigente o, in sua
mancanza, il dipendente con la qualifica più elevata, il quale è competente in via
esclusiva ad emanare ogni provvedimento conclusivo del procedimento o di singole
fasi di esso. In tal senso la norma appare coerente con la disciplina sulla dirigenza
(art. 17 D.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29), ma deroga i principi generali della L.
241/1990, per i quali il dirigente può affidare ad altri anche l’adozione dei
provvedimenti finali. L’unica eccezione a questa regola, è la già considerata ipotesi
della possibilità di delegare il potere espropriativo al concessionario o al contraente
generale, ai sensi del comma 8 dell’art. 6.
Al dirigente dell’ufficio, il comma 6 dell’art. 6 affianca il responsabile del
procedimento, che ne dirige, coordina e cura tutte le operazioni, anche avvalendosi
dell’ausilio di tecnici. Il potere del primo appare comunque assolutamente autonomo
e non vincolato alle proposte del secondo, stante l’univoca formulazione del comma
7, che gli attribuisce espressamente il potere di emanare gli atti conclusivi della
procedura o delle sue singole fasi, anche se non predisposti da quest’ultimo. Egli
potrà dunque dichiarare la pubblica utilità dell’opera; autorizzare all’occupazione;
emanare il decreto di esproprio o l’ordine di pagamento dell’indennità, anche in
assenza delle determinazioni del responsabile.
I compiti che l’art. 6 assegna a quest’ultimo, vanno peraltro ad inserirsi nel più
generale sistema disegnato dall’art. 6 della L. 241/1990, che ne specifica le
attribuzioni nel nuovo procedimento espropriativo. Il responsabile procedimento sarà
quindi tenuto a valutare, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di
legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione del decreto e
degli altri atti dell’esproprio; ad accertare i fatti, disponendo il compimento degli atti
all'uopo necessari, e ad adottare ogni misura per l'adeguato e sollecito svolgimento
dell'istruttoria.
Anche nell’ambito del rinnovato procedimento espropriativo, il responsabile dovrà
svolgere tutti i compiti indicati dall’ art. 6 della L. 241/1990, purché compatibili con
le prescrizioni del TU (ad es., ad indire le conferenze di servizi previste per le opere
non conformi dagli artt. 19 e 10; a curare le comunicazione dell’avvio del
procedimento prevista dall’art. 11, e via dicendo). Egli, ai sensi ai sensi dell’art. 6
comma 6, non è però competente ad emanare i provvedimenti conclusivi
dell’esproprio o delle sue singole fasi. Sicché, dopo aver effettuato le operazioni ad
essi propedeutiche, trasmetterà a tal fine gli atti al dirigente dell’ufficio, secondo
quanto generalmente previsto dall’art. 6, lett. e), della L. 241/1990.
Occorre inoltre tener conto dell’art. 7, comma 1, della L. 109/1994 e successive
modifiche, che stabilisce l’obbligo, in capo alle amministrazioni pubbliche, di
individuare un responsabile del procedimento di attuazione di ogni singolo intervento
previsto dal programma triennale dei lavori pubblici. La norma attribuisce
espressamente al soggetto designato la qualifica di responsabile “unico” per le fasi di
progettazione, affidamento, ed esecuzione dei predetti lavori. Considerando il tenore
della disposizione, e coordinandola con l’art. 6 del TU, appare evidente che, nel caso
di espropri preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche previste dal
programma triennale, il responsabile del procedimento debba coincidere con quello
individuato in base alla L. 109/1994 per le fasi di progettazione ed affidamento dei
lavori, e debba pertanto possedere le caratteristiche ed osservare gli obblighi da essa
imposti, oltre che quelli derivanti dal relativo regolamento attuativo.
Un brevissimo cenno, per quanto attiene alle responsabilità del dirigente
dell’ufficio espropriazioni e del responsabile del procedimento, va riservato ad una
recente decisione della Corte dei Conti che ha condannato al risarcimento del danno
erariale il Sindaco al quale era addebitabile l’emissione di un provvedimento di
occupazione d’urgenza senza accertamento della sussistenza dei presupposti
normativi e di fatto, in seguito al quale è stato riconosciuto il risarcimento dei danni
all’espropriato. Sebbene le considerazioni svolte dai giudici contabili si riferiscano
ad soggetto affatto diverso (il Sindaco), le cause di responsabilità individuate
risultano adattabili al nuovo sistema delle competenze disegnato dall’art. 6 del TU.
Nella specie, la Corte fonda la pronuncia di condanna sulla sottoscrizione del
provvedimento in mancanza di una valida dichiarazione di pu in quanto priva
dell’indicazione dei termini di inizio e compimento dei lavori, e sull’omissione del
riesame dei provvedimenti che hanno dato luogo alla procedura di esproprio in
presenza di ricorso al TAR notificato all’ente privato (C. Conti, II, 29 luglio 2004, n.
275).
3-.L’OGGETTO
3.-1. Beni immobili e diritti relativi a beni immobili.
L’art. 1 comma 1 del TU, stabilisce espressamente che le norme in esso contenute
si applicano alle espropriazioni di beni immobili o di diritti relativi a beni immobili.
Vanno quindi esclusi, come tradizionalmente, i diritti relativi a beni mobili.
L’espressione
ampia
“diritti”,
giova
a
comprendere
nell’oggetto
dell’espropriazione, oltre che i diritti reali diversi da quello di proprietà, anche i diritti
personali di godimento. Tra questi, conformemente a quanto enunciato dalla
giurisprudenza antecedente al TU, vanno ricompresi anche quelli costituiti dallo
stesso ente espropriante (è consentita, ad es., l’espropriazione del diritto di usufrutto
che il Comune stesso abbia costituito su un immobile di sua proprietà, al fine di
liberarlo dall’usufruttuario e realizzarvi un’opera pubblica). (Cons. St., AP, 18 luglio
1983, n. 21.).
3.-2.-Beni non espropriabili o espropriabili in casi particolari.
L’espropriabilità dei beni pubblici: i beni demaniali, i beni gravati
da usi civici; i beni patrimoniali indisponibili.
Ribadendo un orientamento giurisprudenziale consolidato, l’art. 4 comma 1
prevede che non possano essere oggetto di espropriazione i beni appartenenti al
demanio pubblico, a meno che non intervenga la sdemanializzazione (Cons. St., IV,
15 dicembre 1978, n. 1224).
I beni appartenenti al patrimonio indisponibile possono invece essere espropriati,
ai sensi del comma 2, allorquando l’opera da realizzare sia volta a soddisfare un
interesse pubblico ritenuto prevalente rispetto alla destinazione del bene. Anche in
questo caso, la norma recepisce un principio elaborato dalla giurisprudenza pre-TU
(Cons. St., AP, 27 maggio 1983, n. 13).
Con riferimento ai beni appartenenti alla Santa Sede e ai culti acattolici firmatari di
intese con lo Stato, si richiede un previo accordo con i rappresentanti dell’autorità
religiosa. Inoltre, il TU non modifica le regole sull’espropriazione dettate dal diritto
internazionale e dai trattati cui l’Italia aderisce; si è scelto quindi il criterio del rinvio
mobile al diritto internazionale, consuetudinario o pattizio.
Nulla dispone l’art. 4 in ordine all’espropriabilità o non di alcuni beni,
costringendo l’interprete a basarsi sugli orientamenti pretorili, anche risalenti,
formatisi con la previgente normativa. Si tratta, in primo luogo, delle pertinenze dei
beni demaniali, che la giurisprudenza amministrativa assimila in tutto al bene
principale, cui accedono anche in materia espropriativa (Cons. St., IV, 18 settembre
1991, n. 721), e che il giudice ordinario ritiene invece conservino la propria
individualità giuridica, con conseguente applicabilità della inerente disciplina, se
diversa da quella del bene principale (Cass., I, 17 novembre 1995, n. 11918). In
secondo luogo, dei terreni gravati da diritti di uso civico i quali, se sono
originariamente di proprietà di determinate collettività, o alle stesse pervenuti dopo lo
scorporo dalle terre private, sono reputati demaniali e quindi non espropriabili, se non
previa autorizzazione al mutamento di destinazione d’uso. Viceversa, qualora i diritti
di uso civico gravino su terre di proprietà privata, e tali aree vengano assoggettate a
procedura espropriativa, si trasferiscono sull’indennizzo corrisposto al proprietario
(C. Cost., 25 maggio 1957 n. 67; 11 luglio 1989, n. 391; Cass., SU, 11 giugno 1973,
n. 1677).
Per le servitù si pone il problema di stabilire se con la procedura espropriativa si
possano costituire figure non espressamente previste. Un primo orientamento
giurisprudenziale si è attestato su posizioni negative (Cass., II, 25 gennaio 1992, n.
820; Cons. St., IV, 9 novembre 1982, n. 728), tuttavia il Tribunale Superiore delle
Acque Pubbliche sembra propendere per una soluzione favorevole (Trib. Sup. Acque,
5 ottobre 1995, n. 64), ed il problema non è ancora risolto in modo univoco.
Un discorso a parte deve riguardare l’espropriazione di beni appartenenti alla s.p.a.
Ferrovie dello Stato, in precedenza di proprietà dell’omonimo ente. In base all’art. 15
della L. 210/1985, deve escludersi la possibilità di sottrarre alla loro destinazione
beni vocati a pubblico servizio senza il consenso della società, a nulla rilevando il
mutamento di veste giuridica da ente pubblico a soggetto privato, perché la
privatizzazione ha riguardato profili concernenti l’assetto organizzativo e non anche
il regime giuridico dei beni. (Cons. St., IV, 14 dicembre 2002, n. 6923).
4.-IL PROCEDIMENTO
4.-1.- Le fasi del procedimento
L’art. 8 del TU individua tre fasi del procedimento espropriativo, presenti qualora
sullo stesso non si innestino ulteriori vicende (quali, ad esempio, l’occupazione
d’urgenza o la cessione volontaria dalle aree):
1) La sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio;
2) La dichiarazione di pubblica utilità dell’opera;
3) L’emanazione ed esecuzione del decreto di esproprio ove sia stata
determinata, anche in via provvisoria, l’indennità di esproprio.
Ciascuna di esse sarà oggetto di specifica trattazione nei paragrafi successivi. Per
ora, è sufficiente specificare brevissimamente lo scopo di ciascuna fase.
La prima è un’attività di natura tipicamente urbanistica con la quale la pa individua
le aree occorrenti per la realizzazione dell’opera pubblica o di pubblica utilità. Ai fini
della
legittimità
del
procedimento,
il
TU
ha
enunciato
il
principio
dell’indispensabilità del vincolo, apponibile con lo strumento urbanistico generale o
con atto di natura equivalente, recependo l’univoco orientamento giurisprudenziale
secondo cui l’espropriazione poteva essere disposta solo dopo l’effettiva destinazione
urbanistica dell’area alla realizzazione della specifica opera pubblica, da attuare, in
mancanza, con il procedimento di variante stabilito dal quinto comma dell’art. 1 della
legge 3 gennaio 1978, n. 1. (TAR Marche, 19 dicembre 2001, n. 4; cfr. Cons. St., IV,
18 novembre 1990, n. 859; 15 luglio 1992, n. 688).
La seconda è la fase con la quale si determina con esattezza l’opera che verrà
realizzata sull’ area individuata con l’imposizione del vincolo.
L’emanazione del decreto è una fase esclusivamente tecnica nella quale non
residua alcun contenuto discrezionale. Con l’emissione e l’esecuzione del decreto di
esproprio, previa determinazione, anche se in via provvisoria, dell’indennità, la pa
diviene effettivamente proprietaria dell’area, acquisendola al suo patrimonio.
Questa tripartizione del procedimento ricalca e riordina il sistema delineato dalla
L. 2359/1865, e dalle successive leggi in materia, per le quali il provvedimento di
esproprio costituiva l’atto terminale di un terzo procedimento, che seguiva ad altri
due a cui era strettamente collegato.
4.-2.- La disciplina del vincolo espropriativo e le nuove prerogative
dei soggetti privati.
Come già accennato, il principio fondamentale è quello dell’indispensabilità del
vincolo preordinato all’esproprio. Tale fase è stata plasmata da una trentennale
evoluzione della giurisprudenza costituzionale, avviata dalla nota sentenza n.
55/1968, e sfociata nella n. 179/1999. 15
La possibilità di apporre vincoli alla proprietà privata mediante il prg fu introdotta
dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, modificativa della L. 7 agosto 1942, n. 1150, che
riservava l’imposizione ai successivi piani attuativi. Il nuovo sistema presentava però
un rilevante inconveniente, dovuto al fatto che l’efficacia dei piani regolatori
generali, a differenza di quella dei piani attuativi, risultava temporalmente illimitata. I
vincoli da essi previsti erano dotati di una durata potenzialmente indefinita, e si
risolvevano perciò in un’ablazione condotta senza il rispetto delle garanzie
costituzionali.
Investita della questione, la Corte Costituzionale, giudicò illegittime le norme degli
artt. 7 e 40 della legge urbanistica per contrasto con l’art. 42 Cost., incentrando la
propria decisione sull’assenza di un indennizzo a fronte della sostanziale sottrazione
degli immobili (cfr. sent. Cost. 55/1968).
Il legislatore reagì con la L. 1187/1968 (c.d. legge tampone) prevedendo, al posto
dell’indennizzo, la garanzia alternativa della temporaneità dei vincoli preordinati
all’esproprio, la cui durata venne fissata in cinque anni dall’apposizione. La nuova
normativa venne riconosciuta costituzionalmente legittima dalle già citate sentt. Cost.
260/1976, e 82/1982; mentre la successiva
sent. 92/1982 riconobbe carattere
permanente al termine quinquennale di efficacia.
La sent. Cost. 575/1989 affrontò per la prima volta il problema della reiterabilità
dei vincoli scaduti senza che si fosse proceduto all’esecuzione delle opere o
all’esproprio; prevista anch’essa dalla L. 1187/1968.
La questione si prospetta assai complessa e delicata, e verrà meglio approfondita
dopo aver riportato la nuova disciplina dei vincoli contenuta nel TU. Va comunque
sottolineato che l’evoluzione giurisprudenziale si è conclusa con la fondamentale
15
Cfr. il par. 1.2 del presente lavoro.
sent. Cost. 179/1999, che ha portato alle logiche conclusioni i principi espressi dalla
giurisprudenza costituzionale, dichiarando costituzionalmente illegittimi gli artt. 7 e
40 della legge urbanistica, come modificati dalla L. 1187/1968, nella parte in cui
consentivano all’Amministrazione di reiterare i vincoli scaduti senza la previsione di
un congruo indennizzo.
Queste le tappe fondamentali della vicenda normativa e giurisprudenziale dei
vincoli preordinati all’esproprio, di cui il TU si è curato di tenere conto.
Le nuove norme non hanno comunque mutato l’intrinseca natura dei vincoli, che
secondo quanto affermato dalla giurisprudenza, sono idonei ad imprimere una precisa
vocazione edificatoria all’area, ma non realizzano un’immediata compressione del
diritto di proprietà, non comportando alcuno spossessamento, ne tantomeno la
cessazione di tutte le facoltà e le responsabilità ad essa connesse (manutenzione,
obblighi contributivi, ecc.), che avverrà solo con l’espropriazione (Cons. St., V, 27
febbraio 1998, n. 199).
I vincoli non determinano una lesione immediata della posizione del proprietario e,
dal punto di vista processuale, non giustificano l’adozione di misure cautelari, che
esigono l’attualità del pregiudizio. Mancano quindi i presupposti per la sospensione
del provvedimento di approvazione di un prg nella parte in cui impone un vincolo
preordinato all’esproprio, poiché il danno si attualizzerà solo nel momento di
adozione del decreto di esproprio (Cons. St., IV, ord. 25 marzo 1997, n. 640).
Ne discende che il proprietario di un terreno incluso in un PEEP ha interesse ad
ottenere l’annullamento del piano a prescindere dal fatto che dopo l’annullamento
sopravvivano le indicazioni del prg, essendo queste insufficienti da sole a legittimare
l’espropriazione, come invece consente il PEEP. L’approvazione di quest’atto
comporta infatti la dichiarazione di indifferibilità ed urgenza delle opere ivi previste,
ed incide direttamente sul diritto dei proprietari delle aree incluse nello stesso,
determinandone l’affievolimento per il periodo di efficacia del piano (Cons. St., IV,
30 gennaio 1984, n. 35; 6 ottobre 1984, n. 741, e 17 dicembre 1991, n. 1127).
Sussiste pertanto l’interesse dei ricorrenti ad opporsi alla deliberazione di
approvazione definitiva dell’adozione o della riadozione del PEEP, pur in mancanza
della impugnazione delle corrispondenti previsioni del prg (TAR Marche, 20
novembre 2002, n. 468).
Invariata la natura dei vincoli preordinati all’esproprio, nell’analizzare il nuovo
regime viene in rilievo, in primo luogo, la distinzione tra quelli derivanti da piani
urbanistici e quelli derivanti da atti diversi.
I primi sono regolati dall’art. 9 del TU, il cui comma 1 stabilisce che un bene
privato è sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio quando diviene efficace
l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che
prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità. La disposizione
conferma che il prg, pur se vincolato in forza di un piano territoriale di
coordinamento (art. 5 della L. 17 agosto 1150/1942), resta l'unica fonte diretta del
vincolo urbanistico, dovendo escludersi ogni automatica sostituzione delle
disposizioni dei suddetti piani a quelle contrastanti dei piani regolatori generali (TAR
Marche, 7 luglio 2000, nn. 1048 e 1049; cfr. C. Cass., II, 13 novembre 1996, n.
9941).
Per quanto concerne i vincoli derivanti da atti diversi dai piani urbanistici, l’art. 10
prevede che se l’opera non è prevista dal prg, il vincolo preordinato all’esproprio può
essere disposto:
a) ove espressamente se ne dia atto, su richiesta dell’interessato mediante
conferenza di servizi;
b) su iniziativa dell’amministrazione competente all’approvazione del progetto
mediante una conferenza di servizi, un accordo di programma, un’intesa, o un
altro atto che, in base alla legislazione vigente comporti la variante al piano
urbanistico.
c) Con le modalità semplificate stabilite per la variante al piano urbanistico
dall’art. 19 del TU, in base al quale: 1) se l’opera è di competenza comunale
l’approvazione del progetto preliminare o definitivo da parte del Consiglio
comunale comporta la suddetta variante; 2) se l’opera non è di competenza
comunale l’atto di approvazione del progetto preliminare o definitivo è
trasmesso al Consiglio comunale, che può disporre l’adozione della variante. In
entrambi i casi le delibere adottate dal Consiglio comunale si intendono
approvate trascorsi novanta giorni dalla loro ricezione da parte della regione, o
dell’ente delegato all’approvazione del piano comunale (nella Marche, la
Provincia, ex senza che tali enti abbiano manifestato il loro dissenso. Dopo
questo periodo, il Consiglio comunale dispone l’efficacia della variante in una
successiva seduta.
Il comma 2 dell’art. 9 ribadisce la durata quinquennale del vincolo, già prevista
dall’art. 2 della L. 1187/1968. Entro questo termine deve essere emanata la
dichiarazione di pu, e la sua scadenza comporta l’automatica decadenza del vincolo,
con conseguente impossibilità di concludere legittimamente il procedimento
ablatorio. Se non è dichiarata la pu dell’opera, il vincolo decade e trova applicazione
l’art. 9 del TU sull’edilizia (d.p.r. 380/2001). Il richiamo necessita di un
approfondimento, posto che quest’articolo si riferisce esclusivamente ai Comuni
totalmente sforniti di strumenti urbanistici generali, e la questione costituisce oggetto
di un annoso dibattito giurisprudenziale e dottrinale.
Rifacendosi all’art. 9 del TU sull’ edilizia, l’art. 9 del TU sull’espropriazione rende
applicabili alle aree con vincolo scaduto la disciplina della c.d. “zone bianche”,
conformemente alla consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, per cui la
decadenza non implica la revivescenza della disciplina urbanistica preesistente al
vincolo (la decisione che ha dato la stura a questo indirizzo è Cons. St., AP, 2 aprile
1984, n. 7; cfr. tra le più recenti Cons. St., V, 25 agosto 1998, n. 1326; 31 dicembre
1998, n. 1974). La disciplina in parola prevede l’impossibilità di edificare sulle
suddette aree se non entro strettissimi limiti, ma la sua estensione alle aree con
vincolo decaduto è criticata dalla Corte di Cassazione, la quale ha rilevato che in tal
modo si priverebbe definitivamente il proprietario di una facoltà – lo jus aedificandi –
connaturale al suo diritto (cfr. C. Cass., II, 3987/1975). Soluzione condivisa anche
dalla Corte Costituzionale, la quale nella sent. 92/1982, ha statuito che una volta
scaduto il vincolo il titolare del bene viene a trovarsi nella medesima situazione di
tutti gli altri aventi un diritto reale sui beni; ragion per cui la decadenza del vincolo ha
l’effetto di riespandere le previsioni pianificatorie che le presenza del vincolo stesso
aveva reso inapplicabili, facendo cessare soltanto lo specifico onere ad esso relativo.
In definitiva, secondo dette impostazioni, l’area liberata dal vincolo dovrebbe
godere dello stesso regime delle aree consimili ed omogenee del territorio comunale
(c.d. criterio di zona urbanistica omogenea), e non essere ulteriormente caratterizzata
da un’artificiosa inedificabilità, come invece accade ex artt. 9, comma 2, del TU
sull’espropriazione, e 9, comma 1, del TU sull’edilizia. Così facendo la posizione dei
proprietari risulta indubbiamente peggiorata, aggiungendosi l’assenza di recupero di
edificabilità all’onere di sopportare il vincolo per un quinquennio.
Da questa impostazione derivano rilevanti conseguenze processuali. Infatti, se la
decadenza del vincolo preordinato all’esproprio non comporta il ripristino della
potestà edificatoria in capo al proprietario, l’annullamento giurisdizionale dell’atto in
cui esso è contenuto ne produce invece l’eliminazione ab origine, con conseguente
ristabilimento della destinazione dell’area prima dell’apposizione del vincolo (Cons.
St., V, 9 dicembre 1996, n. 1486; 23 settembre 1997, n. 1008). Ciò comporta che in
caso di impugnazione dell’atto di imposizione del vincolo, lo scadere del termine
quinquennale di efficacia non fa cessare l’interesse alla pronuncia di merito, perché
solo attraverso l’annullamento può essere rimosso il giudizio negativo sulla
precedente
destinazione
edificatoria
dell’area,
espressa
contestualmente
all’imposizione (Cons. St., V, 9 dicembre 1996, n. 1486; contra Cons. St. IV, 5
maggio 1997, n. 477).
Una delle questioni più dibattute in tema di vincoli espropriativi è quella della loro
reiterabilità dopo il periodo quinquennale di efficacia. Sulla falsariga della L.
1187/1969, l’art. 9 comma 4 del TU prevede tale possibilità, purché venga esercitata
con provvedimento motivato, rinnovando i procedimenti previsti per l’approvazione
del piano urbanistico generale o di una sua variante, e tenendo conto delle esigenze di
soddisfacimento degli standard. La norma si rifà al consolidato indirizzo pretorio
secondo il quale la reiterazione dei vincoli può avvenire solo con una nuova
pianificazione dell’area, disposta, qualora il Comune intenda realizzarvi un’opera
pubblica, con la procedura di variante urbanistica prevista dall’art. 1, V comma, della
L. 1/1978 (TAR Marche 242/2002).
La reiterabilità dei vincoli era pacifica nella giurisprudenza antecedente al TU, che
affermava essere propria della potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare
illimitatamente nel tempo i vincoli su beni individuati (C. Cost. 575/1989). Tuttavia,
per essere legittima deve rispettare due parametri costituzionali: la riserva di legge
dell’art. 42 comma 2 Cost., con riguardo al momento all’imposizione dei limiti alla
proprietà privata, e la previsione dell’indennizzo di cui comma 3 dello stesso articolo.
Per entrambi il riferimento imprescindibile è la citata sent. Cost. 179/1999, con la
quale la giurisprudenza successiva ha dovuto più volte confrontarsi.
Quanto al primo parametro (la riserva di legge dell’art. 42 comma 2 Cost.), il
giudice costituzionale ha affermato che la reiterazione dei vincoli decaduti mediante
procedimento amministrativo è di per sé costituzionale, poiché “possono esistere
ragioni giustificative accertate attraverso una valutazione procedimentale (con
adeguata motivazione) dell’Amministrazione preposta alla gestione del territorio”;
precisando che: “la giurisprudenza amministrativa, a proposito della reiterazione dei
vincoli, ha delineato un diritto vivente (…) secondo cui la reiterazione dei vincoli
urbanistici decaduti per effetto del decorso del termine può ritenersi legittima sul
piano amministrativo se corredata da una congrua e specifica motivazione
sull’attualità della previsione, con nuova ed adeguata comparazione degli interessi
pubblici e privati coinvolti, e con giustificazione delle scelte urbanistiche di piano,
tanto più dettagliata e concreta quante più volte viene ripetuta la reiterazione del
vincolo” (C. Cost. 179/1999).
L’accento viene dunque posto sulla motivazione del provvedimento di reiterazione,
in linea con l’orientamento giurisprudenziale che aveva già evidenziato come essa
debba essere particolarmente stringente (cfr. Cons. St., IV, 13 novembre 1998, n.
1520), 16
in
alcuni
casi
addirittura
affermando
che
la
discrezionalità
dell’amministrazione sia limitata rispetto all’ambito riconosciutole in sede di prima
imposizione, e debba quindi svilupparsi una motivazione ulteriore e più approfondita
(cfr. Cons. St., IV, 20 febbraio 1998, n. 312). 17
Sebbene una recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria si discosti dal precedente
indirizzo, aprendo scenari a dir poco vantaggiosi per le pa (Cons. St., AP, 22
dicembre 1999, n. 24),18 gli orientamenti immediatamente antecedenti all’emanazione
del TU hanno confermato l’obbligo dell’amministrazione di evidenziare in maniera
puntuale ed esaustiva l’attualità dell’interesse pubblico da soddisfare, poiché si incide
sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio è stato suscettibile
di dichiarazione di pubblica utilità, e successivamente di esproprio (cfr. Cons. St., IV,
13 dicembre 2001, n. 531). E ciò soprattutto quando il provvedimento di reiterazione
imponga degli standards urbanistici superiori al minimo, e comunque diversi rispetto
al primo vincolo (in tal senso, Cons. St., IV, 25 settembre 2002 n. 4907; IV, 6 ottobre
2003, n. 5869). In questi casi il Consiglio di Stato ha sempre preteso – tranne nella
menzionata decisione – una
motivazione particolarmente specifica, accurata, e
rigorosa (cfr. Cons. St., V, 1 dicembre 1999, n. 2020; IV, 13 novembre 1998, n. 1520;
IV, 20 febbraio 1998, n. 312). Nel silenzio dell’art. 9 comma 4, che parla
16
Il Comune ha il potere di reiterare i vincoli scaduti, purché la relativa determinazione sia sorretta da una specifica
motivazione, che non può esaurirsi nella mera rappresentazione grafica, richiedendo, invece, una puntuale valutazione
sulla persistenza della specifica esigenza pubblica dell’area, comparata con l’interesse del privato già gravato dal
vincolo quinquennale rimasto inattuato.
17
Si legge nella decisione: “(…) la limitazione temporale prevista dall’art. 2, comma 1, legge 19 novembre 1968, n.
1187, per i vincoli imposti dagli strumenti urbanistici, richiede che l’amministrazione, ove intenda reiterare i vincoli
decaduti, sia limitata nella propria discrezionalità rispetto all’ambito riconosciutole in sede di prima imposizione degli
stessi vincoli, per cui essa deve procedere ad una specifica valutazione, ulteriore rispetto a quella generale risultante dai
criteri di ordine tecnico-urbanistico tenuti presente nell’intervento di pianificazione, per quanto concerne l’attuale
sussistenza di preminenti ragioni di pubblico interesse che giustifichi la riproposizione del vincolo, la mancanza di
soluzioni alternative, le prospettive di concreta utilizzabilità nel quinquennio dei relativi piani attuativi.”
18
Per una critica a tale sentenza cfr. Lavitola, Urbanistica e tutela della proprietà tra Corte Costituzionale,
Consiglio di Stato, e Testo Unico sull’espropriazione, in Rivista giuridica dell’Edilizia, III, 2002, pp. 59 ss.
semplicemente di provvedimento motivato, questi principi costituiscono tuttora il
principale punto di riferimento per interpreti ed operatori.
Passando al secondo parametro di costituzionalità – quello dell’ indennizzo ex art.
43 comma 3 Cost. – si è gia chiarito che la sent. 179/1999 ha consacrato il principio
dell’obbligatorietà della corresponsione di un indennizzo in alternativa alla decadenza
del vincolo.19 L’obbligo di indennizzo opera dunque una volta superato il periodo
ordinario quinquennale di durata fissato dalla legge (c.d. periodo di franchigia), e non
anche per la prima imposizione. Oltrepassato questo periodo, se il vincolo permane a
seguito di reiterazione, non può essere disgiunto dalla previsione di un indennizzo, a
meno che non si avvii l’espropriazione o le attività ad essa preordinate mediante
approvazione dei piani attuativi. Infatti, se non vi è spazio temporale tra la
reintroduzione del vincolo e l’adozione e lo svolgimento delle attività per renderlo
operativo – e il rinnovo si rivela dunque associato all’adozione di atti finalizzati
all’avvio dell’espropriazione – non si realizza il presupposto di uno svuotamento
incisivo sulla proprietà dovuto alla non definitività e indeterminatezza del vincolo, e
l’indennizzo non è dovuto (TAR Marche, 22 maggio 2002, n. 977).
L’obbligo sussiste invece nel caso di protrazione di fatto del vincolo, che si
verifica nel caso in cui l’amministrazioni resti inerte nel procedere alla tempestiva
reiterazione del vincolo decaduto mediante variante. Come sopra rilevato, in tali casi
il comma 3 dell’art. 9 rimanda all’art. 9 del TU sull’edilizia, recependo
l’orientamento della giurisprudenza amministrativa che propende per l’applicabilità
della disciplina delle c.d. “zone bianche” (art. 4, ult. comma, L. 10/1977). Ne
consegue un ulteriore vincolo di sostanziale inedificabilità, ed anzi una
regolamentazione ancor più compressiva e limitativa dello jus aedificandi, la quale
non può che far concludere anche in questo caso per l’insorgenza dell’obbligo
indennitario o, rectius, risarcitorio, stante il comportamento illecito della pa, che
avrebbe dovuto attivarsi al fine di fronteggiare “il vuoto determinatosi nella disciplina
19
Cfr. il cap. 1, par. 1.2, del presente lavoro.
di piano per effetto della scadenza dei vincoli espropriativi” (Cons. St., IV, 5 luglio
1995, n. 541).
Il TU dell’espropriazione disciplina la corresponsione dell’indennizzo per
reiterazione dei vincoli espropriativi all’art. 39, che prevede che il proprietario possa
proporre opposizione alla stima della pa innanzi alla corte d’appello in cui si trova
l’area. In ogni caso, secondo la Corte Costituzionale, l’entità dell’indennizzo non è
rapportabile a perdita di proprietà (ed in ciò sta la differenza con l’indennità di
esproprio), ma deve essere commisurata al “mancato uso normale del bene, ovvero
alla riduzione di utilizzazione, ovvero alla diminuzione di prezzo di mercato (locativo
o di scambio) rispetto alla situazione giuridica anteriore alla pianificazione che ha
imposto il vincolo” (C. Cost. 179/1999). Ai sensi del comma 5 dell’art. 39,
dell’indennità liquidata a fronte della reiterazione del vincolo espropriativo, non si
tiene conto in caso di successiva espropriazione dell’area.
Altra questione che merita di essere approfondita è quella delle conseguenze
ricollegabili all’annullamento dei vincoli reiterati. Come sopra rilevato, la
giurisprudenza amministrativa è consolidata nel senso di distinguere l’ipotesi
dell’annullamento da quella della semplice decadenza, di cui si è poc’anzi detto.
Mentre questa – ora anche ai sensi dell’art. 9 comma 3 del TU – comporta
l’applicabilità della disciplina delle c.d. “zone bianche”, l’annullamento, in virtù del
suo effetto retroattivo, ha per conseguenza la revivescenza della destinazione
preesistente (Cons. St., AP, 7/1984 e 7/1985). E’ solo quando un vincolo urbanistico
perde efficacia ex nunc, per decorrenza del termine quinquennale di cui all’art. 2 della
L. 1187/1968 (ora dell’ art. 9 del TU), che la destinazione impressa all’area dal piano
precedente deve ritenersi cancellata dal nuovo piano o dalla variante rimasta legittima
per cinque anni, e la cui efficacia è venuta meno solo in seguito (Cons. St., IV,
491/1988).
Si tratta di fare applicazione di questi principi nel caso di annullamento non del
primo vincolo, ma di quello reiterato. E’ evidente che l’annullamento di questo non
può produrre gli stessi effetti dell’annullamento del vincolo originario. E ciò
innanzitutto perchè l’annullamento di un atto di conferma (la reiterazione) implica
l’annullamento anche dell’atto confermato (il primo vincolo) anche se a suo tempo
non impugnato (Cfr. Cons. St., V, 685/1981 e 147/1988); e in secondo luogo perché
se l’annullamento del vincolo reiterato non avesse gli stessi effetti di quello del
primo, non avrebbe senso proporre azione giurisdizionale, in quanto il ricorrente
vittorioso si vedrebbe comunque opporre quest’ultimo, nel caso non siano ancora
passati cinque anni dalla sua imposizione, o l’inedificabilità derivante dalla disciplina
delle “zone bianche”, qualora la procedura per la reiterazione sia stata tardivamente
avviata (cfr., a favore della tesi prospettata, Cons. St., V, 1008/1997).
Apposito spazio va riservato alla distinzione tra vincoli meramente conformativi e
vincoli espropriativi, già delineata in modo sufficientemente specifico dalla Corte
Costituzionale con la sentenza n. 179/1999, ed oggetto di differenti interpretazioni da
parte di Consiglio di Stato e Cassazione.
La mancanza del vincolo preordinato all’esproprio, secondo la giurisprudenza
amministrativa, comporta il difetto del necessario presupposto della conformità
urbanistica dell’opera pubblica alle previsioni del piano urbanistico, con la
conseguenza che l’approvazione del progetto dell’opera pubblica risulta priva della
necessaria conformità urbanistica. Dunque, conformità urbanistica e vincolo
coinciderebbero (cfr. Cons. St., IV, 8 giugno 2000, n. 3248). 20
La soluzione non è però condivisa dalla Cassazione, secondo la quale può aversi
una conformità urbanistica dell’opera pubblica che non coincide con la presenza del
vincolo preordinato all’esproprio (cfr. Cass., SS.UU., 23 aprile 2001, n. 173).
Non essendo possibile in questa sede soffermarsi sulla natura della potestà
conformativa e di quella espropriativa, è sufficiente sottolineare che la giurisprudenza
20
La sentenza ritiene che vincolo e conformità urbanistica coincidano. Per un intervento critico sul punto cfr. Calzolaio,
Le fasi dell’apposizione del vincolo e della dichiarazione di pubblica utilità, Contributo al corso residenziale indetto
dal Consorzio per l’alta formazione e lo sviluppo della ricerca scientifica in diritto amministrativo il 27-28 ottobre 2003
sul tema: “Testo unico in materia di espropriazioni per pubblica utilità”; consultabile sul sito www.diritto.it, nella
sezione Osservatorio sulla giurisprudenza del Tar marche.
civile distingue tra le due specificando che la prima consiste nella destinazione
attribuita dal prg ad una zona in base ai suoi requisiti oggettivi di natura e struttura;
destinazione incidente su una generalità di beni, nei confronti di una pluralità
indifferenziata di soggetti, in funzione di quella assolta dall’intera zona in cui i beni
ricadono, delle caratteristiche dell’area, e del rapporto spaziale con un’opera
pubblica. Il vincolo espropriativo, invece, consiste nella localizzazione puntuale e
lenticolare di un’opera pubblica la cui realizzazione non può coesistere con la
proprietà privata, ma esige la traslazione della proprietà in mano pubblica (cfr. Cass.,
SS.UU., 173/2001; I, 28 maggio 2004, n. 10265).
La distinzione si è invero rivelata piuttosto incerta in concreto, non mancando
sentenze che qualificano come conformativi i vincoli che impongono a determinate
aree una destinazione a verde pubblico, a viabilità, o ad attrezzature di pubblico
interesse (cfr., ad esempio, le sentenze citate in motivazione da Cass., SS.UU,
173/2001; nonché Cons. St., IV, 2 marzo 2001, n. 1158, in cui una destinazione di
prg a servizi di quartiere e zona verde viene considerata non vincolistica, e tuttavia
idonea a sorreggere un provvedimento di asservimento a servitù coattiva).
E’ comunque interessante rilevare che, secondo la maggioritaria giurisprudenza
della Cassazione, costituiscono vincoli conformativi le destinazioni derivanti dalla
zonizzazione del territorio operate dal prg o dalle sue varianti. E ciò anche quando i
vincoli sono imposti in relazione al successivo intervento pubblico e, quindi,
all’ablazione della proprietà privata (cfr. in questo senso, C. Cass., SS.UU.,
173/2001). Secondo questa lettura, lo stesso vincolo imposto dal prg può pertanto
assumere nel contempo natura conformativa ed espropriativa, mentre possiedono
contenuto espropriativo i vincoli imposti dagli strumenti attuativi del prg, siano essi
di iniziativa pubblica o privata. (Sulla base di questi presupposti, la Cassazione ha
ritenuto che le aree da espropriare comprese in ambito destinato dal prg all’edilizia
economica e popolare debbano essere considerate come edificabili. Cfr., ad esempio,
C. Cass, I, 17 luglio 2001, n. 9706; SS.UU., Cass., 21 marzo 2001, n. 125). 21
21
Cfr. al riguardo, Calzolaio, op. cit.
Per individuare la natura delle previsioni urbanistiche occorre guardare al prg, il
quale contiene di norma vincoli conformativi, e solo eccezionalmente vincoli
espropriativi (Cass., I, 26 giugno 2001, n. 8685). La distinzione risulta di vitale
importanza, considerando che i primi, diversamente dai secondi, non decadono e non
comportano indennizzo, pur essendo idonei a rendere inedificabile l’area, ai fini della
determinazione dell’indennità di esproprio (cfr. C. Cost. 179/1999). 22
Ponendo a raffronto le posizioni della riportata giurisprudenza con le norme del
TU, viene immediatamente in considerazione l’art. 9 comma 1, il quale chiarisce che
il vincolo espropriativo deve riguardare “la realizzazione” di “una” opera pubblica, e
quindi costituire una localizzazione puntuale ed individuale della stessa. In assenza di
questa, in base ai suesposti principi, ci si trova in presenza di un vincolo meramente
conformativo, in quanto tale inidoneo a legittimare un intervento espropriativo, e si
renderà pertanto indispensabile la successiva introduzione del vincolo preordinato
all’ablazione. 23
Una postilla va infine riservata al comma 5 dell’art. 9, il quale prevede che nel
corso dei cinque anni di efficacia, il consiglio comunale possa motivatamente
disporre che siano realizzate sul bene vincolato opere pubbliche o di pubblica utilità
diverse da quelle originariamente inserite nel prg. L’atto acquista efficacia a seguito
del perfezionarsi di un meccanismo di silenzio-assenso simile a quello previsto
dall’art. 19 per le opere non conformi alle disposizioni urbanistiche.
4.-3.- La partecipazione degli interessati
22
Secondo la sentenza (punto 10 della motivazione) non costituiscono vincoli espropriativi: 1. i vincoli incidenti con
carattere di generalità ed in modo obbiettivo su intere categorie di beni, ivi compresi i vincoli ambientali - paesistici; 2. i
vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione urbanistica; 3. i vincoli comunque estesi
derivanti da destinazioni realizzabili anche mediante l’iniziativa privata; 4. i vincoli che non superano, sotto il profilo
quantitativo, la normale tollerabilità; 5. i vincoli non eccedenti la durata o la franchigia ritenuta ragionevolmente
sopportabile.
23
Cfr. Calzolaio, op. cit.
Non è possibile approfondire in questa sede la complessa tematica della
democraticità
del
procedimento
espropriativo.
E’
sufficiente
ripercorrere
brevissimamente le tappe dell’evoluzione legislativa e le principali decisioni del
Consiglio di Stato in materia, anticipando sin d’ora la presenza di inevitabili richiami
alla fase della dichiarazione di pubblica utilità.
Questa, nella conformazione originaria della L. 2359/1865, si articolava in due
procedimenti distinti, di cui il primo attinente alla dichiarazione di pu in senso
proprio, e il secondo alla designazione dei beni da espropriare. In entrambi la legge
fondamentale realizzava un sistema di giusto procedimento, articolato su pubblicità
degli atti e contraddittorio degli interessati.
Successivamente, in un’ottica di celerità dell’azione amministrativa, la L.
865/1971 ha eliminato la struttura "bifasica" del procedimento, prevedendo l'obbligo,
a carico dell'espropriante, di presentare una relazione esplicativa dell'opera da
realizzare, unitamente alle mappe catastali relative alle aree da espropriare, all'elenco
dei proprietari iscritti negli atti catastali nonché alle planimetrie dei piani urbanistici
vigenti. La semplificazione procedurale è stata accompagnata da un rafforzamento
delle garanzie partecipative degli interessati, attraverso la previsione della notifica
individuale ai proprietari espropriandi dell'avvenuto deposito e della possibilità di
presentare osservazioni scritte, sulle quali la pa aveva l’obbligo di pronunciarsi (artt.
10 e 11 della L. 865/1971).
In seguito, per far fronte alle crescenti esigenze acceleratorie, la L n. 1/1978 ha
introdotto la figura della dichiarazione di pu implicita, degradando la suddetta
dichiarazione da atto autonomo a provvedimento presupposto. L'art. 1 afferma infatti
che "l'approvazione dei progetti di opere pubbliche (...) equivale a dichiarazione di
pubblica utilità e di urgenza ed indifferibilità delle opere stesse". Ciò determinava
una lesione delle garanzie partecipative degli interessati, i quali non potevano far
valere le loro ragioni in sede procedimentale se non quando il procedimento era
ormai vincolato, poiché il carattere implicito della dichiarazione ne escludeva la
diretta impugnabilità.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato la legittimità del
procedimento espropriativo anche nel caso in cui la dichiarazione implicita di pu non
sia preceduta dalle comunicazioni previste dagli artt. 10 e 11 della L. 865/71 (Cons.
st., AP, 18 giugno 1986, n. 6) Gli argomenti sono sostanzialmente due: da un lato, il
carattere vincolato dell'approvazione del progetto di opera pubblica, che è esecuzione
del prg, nell'adozione del quale sono già previste forme partecipative; dall'altro la
considerazione che le formalità garantistiche di cui agli artt. 10 e 11 della L. 865/71
non sono eliminate, ma soltanto differite ad un momento successivo all'approvazione
del progetto dell'opera pubblica, purché anteriore all'emissione del decreto di
esproprio (cfr., in questo senso, TAR MARCHE, 20 dicembre 2000, n. 120).
In tale contesto si è inserita la L. 241/1990, che ha generalizzato la partecipazione
dei privati al procedimento articolandola, com’è noto, in due diversi istituti: l'obbligo
di comunicazione dell'avvio del procedimento, e la possibilità di presentare memorie
scritte, documenti, ed accedere agli atti in possesso dell'Amministrazione.
L’istituto della dichiarazione implicita determinava però delle difficoltà di
coordinamento con la nuova disciplina, poiché l’anticipazione dell’effetto della
pubblica utilità al tempo dell’approvazione del progetto impediva, in concreto, il
rispetto degli adempimenti di cui agli artt. 10 e 11 della L. 865/1971, differiti,
secondo l’indirizzo maggioritario, alle fasi che avrebbero preceduto l’emanazione del
decreto di esproprio.
Negli anni immediatamente successivi all’emanazione della L. 241/1990 parte
della giurisprudenza di primo grado e della dottrina avevano manifestato perplessità
su questo orientamento, evidenziando la necessità che l'esame delle posizioni dei
privati coinvolti nel procedimento ablatorio precedesse, e non seguisse, la
dichiarazione di pu. E anche la giurisprudenza costituzionale, sebbene avesse chiarito
il carattere non costituzionale del principio del giusto procedimento, aveva
riconosciuto che esso costituisce un principio generale del nostro ordinamento,
vincolante per il legislatore regionale e criterio guida per l'interprete (C. Cost.,
23/1978, 103/1993, 210/1995 e 57/1995).
In questo contesto si sono inserite due fondamentali decisioni del Consiglio di
Stato. Con la prima l'Adunanza Plenaria ha recepito i dettami della Consulta e
attribuito alla legge n. 241/90 una duplice valenza: integrativa nei procedimenti per i
quali non è prevista alcuna comunicazione dell'avvio dell'iter procedimentale; di
orientamento in quelli già disciplinati da una normativa di settore che assicuri la
comunicazione, ma con modalità meno garantiste. Sulla base di questa
considerazione, unita al riconoscimento del carattere immediatamente lesivo della
dichiarazione di pubblica utilità, in quanto determinante l'affievolimento del diritto di
proprietà e la sottoposizione del bene al regime di espropriabilità, i giudici di Palazzo
Spada hanno affermato che la dichiarazione di pubblica utilità è un procedimento
autonomo 24 e che "pertanto, la tesi secondo cui la norma sull'avviso di procedimento
non si applicherebbe alla dichiarazione di pu implicita equivale ad espungere
dall'ambito del giusto procedimento, fuori dai casi previsti dalla legge, un
procedimento amministrativo autonomo. Né ora, nell'attuale contesto normativo
diretto a garantire la partecipazione, potrebbe valere a tal fine una partecipazione
differita" (Cons. St., AP, 15 settembre 1999, n. 14). 25
L'Adunanza Plenaria, in base alla portata generale dell'art. 7 della L. 241/1990, ha
poi sostenuto la necessità di applicare analogicamente le norme previste per la
dichiarazione di pu esplicita a quella implicita. In particolare, se l'art. 11 della L.
865/71 risulta inapplicabile nella parte in cui richiede l'emanazione di uno specifico
decreto al fine della dichiarazione di pu (dato il carattere implicito del
provvedimento), dovrà trovare applicazione il giusto procedimento descritto dall'art.
24
Si legge nella sentenza: “...Orbene, la dichiarazione di pu, secondo il più comune sentire, ha come effetto quello di
sottoporre il bene al regime di espropriabilità, determinando l’affievolimento del diritto di proprietà e ponendosi come
presupposto dell’espropriazione. Essa, pertanto, incidendo direttamente sulla sfera giuridica del proprietario, è
immediatamente lesiva e, come tale, viene comunemente ritenuta autonomamente impugnabile. In termini
procedimentali, pertanto, la dichiarazione di pu non è un subprocedimento del procedimento espropriativo, ma è un
procedimento autonomo, che si conclude con un atto di natura provvedimentale autonomamente impugnabile...”
25
Nella pronuncia del settembre del 1999, l'Adunanza Plenaria ha esaminato i rapporti tra l'art. 7 della L. 241/90 ed il
procedimento espropriativo anche sotto il profilo relativo al decreto di occupazione d'urgenza che segue la dichiarazione
di pu e determina l'immissione dell'espropriante nel possesso del bene, sposando l'orientamento opposto a quello
manifestato con riferimento alla dichiarazione implicita di pu. L'argomento addotto a sostegno della tesi contraria
all'applicazione del giusto procedimento all'occupazione d'urgenza non si fonda sul carattere urgente di tale atto,
essendo necessaria un'urgenza qualificata per escludere l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento ai sensi
10 della L. 865/1971. Impostazione confermata dall’Adunanza Plenaria con la
seconda delle accennate decisioni, facendo espresso rinvio alla precedente pronuncia
e dichiarando l'illegittimità del provvedimento emanato senza il rispetto delle misure
partecipative di cui all'art 10 della L. 865/1971 (Cons. St. 24 gennaio 2000, n. 24).
Va infatti sottolineato che l’attuazione delle garanzie partecipative non deve
necessariamente svolgersi nelle forme previste dall’art. 7 della L. 241/1990. Tale
legge, in quanto legge generale, si applica direttamente soltanto nei casi in cui la
disciplina specifica sia carente di un’autonoma regolamentazione delle garanzie
partecipative, altrimenti non impone la sua disciplina, ma orienta all’applicazione
analogica di quella specifica che , nel caso di specie, è quella degli artt. 10 e 11 della
L. 865/1971 (Cons. St., IV, 7 luglio 2000, n. 3817).
In seguito il Consiglio di Stato ha ulteriormente specificato i principi espressi nelle
menzionate decisioni dell’Adunanza Plenaria, precisando che il primo atto della
procedura ablatoria deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento anche nel caso in cui la dichiarazione di PU sia disposta con
l’approvazione di un progetto esecutivo il cui tracciato sarebbe essenzialmente
vincolato, e dunque l’apporto collaborativo del privato inifluente. Gli atti vincolati
che possono non essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento
sono infatti solo quelli che risultino tali ex lege, con la riserva che la sussistenza del
presupposto su cui si fonda il provvedimento non sia contestata dall’interessato, nel
qual caso scatta l’obbligo di invio dell’avviso (Cons. St, IV, 7 dicembre 2000, n.
6512; cfr. in tal senso Cons. St., IV, 19 gennaio 2000, n. 248; V, 11 ottobre 1996, n.
1223; V, 13 novembre 1995, n. 1562). Del resto, nel caso di dichiarazione di pu insita
nell’approvazione del progetto esecutivo di un’opera pubblica, anche sussistendo la
doverosità nell’an dell’intervento realizzando, risulta certamente apprezzabile
l’eventuale contributo del privato in ordine alle modalità realizzative dell’opera
pubblica. (Cons. St, IV, 6512/2000).
dell'art. 7, 1 comma, della L. 241/90, quanto piuttosto sulla considerazione che l'occupazione d'urgenza è un atto
meramente esecutivo della dichiarazione di pu, pertanto non avente efficacia autonomamente lesiva.
Questa, in estrema sintesi, l’evoluzione delle garanzie partecipative nel
procedimento espropriativo, puntualmente recepita nel nuovo TU.
Ora il primo comma dell’art. 11 sulla partecipazione degli interessati anticipa il
momento della conoscenza del procedimento espropriativo da parte del proprietario
espropriando, prevedendo la comunicazione dell’avvio del procedimento già nella
prima fase dell’apposizione del vincolo.26 L’obbligo non sussiste sempre, ma solo nel
caso di adozione di una variante al prg per la realizzazione di una singola opera
pubblica, e in quelli di vincolo derivante da atti diversi dai piani urbanistici (art 10,
comma 1). Il termine per la comunicazione è di almeno venti giorni prima della
delibera di adozione del Consiglio comunale, o dell’emanazione dell’atto da cui sorge
il vincolo ex art. 10 comma 1. In quest’ultimo caso, secondo l’interpretazione fornita
della dottrina più autorevole, il termine di venti giorni sussiste solo se “risulti
compatibile con le esigenze di celerità del procedimento”, altrimenti potrà essere
ridotto. Non sembra infatti che si possa attribuire all’espressione contenuta nella lett.
b) il significato di esonerare completamente l’amministrazione dall’onere di
comunicare l’avvio del procedimento.
Tenuto conto del tenore letterale dell’art. 11 (“va inviato”) risulta confermato il
pacifico orientamento pretorio che, al fine della conoscenza legale da parte dei
soggetti interessati, richiede la notifica dell’avviso di avvio, salvo che l’eccipiente
fornisca prova dell’acquisita piena conoscenza aliunde (cfr. TAR Marche, 20 marzo
2002, n. 450).
In ogni caso, considerando le
finalità che la norma si prefigge, l’obbligo di
comunicazione può ritenersi correttamente assolto dall’invito a presenziare agli
incontri promossi presso la sede comunale. In tal modo, la pa consente ai proprietari
incisi sfavorevolmente dalle opere dell’intervento di interloquire in merito alle
26
Cfr. Giambartolomei, La partecipazione al procedimento d’espropriazione per pubblica utilità, Contributo al
corso residenziale indetto dal Consorzio per l’alta formazione e lo sviluppo della ricerca scientifica in diritto
amministrativo il 27-28 ottobre 2003 sul tema: “Testo unico in materia di espropriazioni per pubblica utilità”;
consultabile sul sito www.diritto.it, nella sezione Osservatorio sulla giurisprudenza del Tar marche.
soluzioni progettuali ipotizzate prima della decisione di ricorrere all’esproprio (TAR
Marche, 24 gennaio 2001, n. 441).
Parzialmente rettificato, ad avviso di chi scrive, deve ritenersi l’orientamento
secondo il quale l’adozione di una variante urbanistica deve essere preceduta
dall’avviso di avvio del procedimento soltanto nel caso in cui si realizzi a seguito
dell’approvazione di uno specifico progetto di opera pubblica implicante la
contestuale dichiarazione di pu e la modifica del vigente strumento urbanistico, e non
anche quando si realizzi attraverso lo speciale procedimento ad evidenza pubblica
appositamente previsto dalla legge urbanistica. In quest’ultimo caso, infatti, la
partecipazione degli interessati all’atto generale di pianificazione risulterebbe
sufficientemente garantita dal particolare regime di pubblicità degli atti di
programmazione urbanistica (Cons. St., sez. IV, 20 marzo 2001, n. 1797; TAR
Marche, 5 novembre 1999, n. 1264); mentre l’obbligo di rendere immediatamente
partecipi i soggetti interessati sorgerebbe solo in presenza di una dichiarazione di pu
implicita idonea ad alterare il precedente assetto urbanistico del territorio al di fuori
del normale procedimento di variante del prg previsto dalla legge, onde non privarli
della prerogativa di partecipazione al procedimento mediante la formulazione di
osservazioni riconosciute nel contesto del normale procedimento di variante (TAR
Marche, 21 novembre 2001, n. 1284). Tale orientamento, a ben vedere, appare privo
di senso nel sistema risultante dagli artt. 9 e 11 del TU, in cui l’obbligo di
comunicazione dell’avvio del procedimento sorge ogni qualvolta la variante comporti
l’apposizione del vincolo preordinato all’ esproprio, indipendentemente dal fatto che
ad essa si accompagni una dichiarazione di pu.
Deve segnalarsi che il legislatore, al secondo comma dell’art. 11, ha distinto tra
comunicazione personale e comunicazione nei procedimenti di massa, individuati in
quelli con più di 50 destinatari, prevedendo per questi ultimi la pubblicazione
dell’avviso di avvio su uno o più quotidiani a diffusione nazionale e locale. Al
riguardo, occorre rammentare l’interpretazione del terzo comma dell’art. 8 della L.
241/90 recentemente fornita dal Consiglio di Stato secondo cui, in caso di
occupazione ed espropriazione di terreni appartenenti a poche decine di proprietari,
ben può effettuarsi la comunicazione personale a ciascuna ditta interessata al
procedimento (Cons. St., IV, 3 aprile 2001, n. 3074).
Diverse modalità di comunicazione sono poi previste dai commi 3 e 4 per
infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici, ai sensi della L. 443/2001, e per le
conferenze di servizi in materia di lavori pubblici (nel qual caso si richiamano le
norme previste dal DPR 554/1999).
L’ultimo comma, infine, fa salva la partecipazione degli interessati nelle fasi di
adozione ed approvazione degli strumenti urbanistici (proposizione di osservazioni e
via dicendo), ribadendo che la disciplina dettata dall’art. 11 è aggiuntiva, e non
sostitutiva, delle forme partecipative attinenti alla fase più strettamente urbanistica.
Dr Francesco Galanti-Avv. Laura Amaranto
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