STORIA DEL NULLA DI SERGIO GIVONE Nello sviluppo storico del

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STORIA DEL NULLA DI SERGIO GIVONE
Nello sviluppo storico del pensiero filosofico occidentale c'è un concetto che è stato per lo più
rimosso, sottaciuto o addirittura negato: il nulla. Potendo idealmente abbracciare con uno sguardo
l'intera storia della filosofia, nel suo percorso metafisico e ontologico, noteremo che è stato
propriamente il problema dell'essere a dominarla e come il concetto di nulla sia stato tematizzato
marginalmente. L'opera di Sergio Givone Storia del nulla, Editori Laterza, Bari, 1995, si presenta,
dunque, come una novità interessante nel panorama speculativo contemporaneo, possedendo i
crismi della originalità e può apparire a prima vista, già dal titolo stesso, paradossale: si può dare
storia del nulla, di ciò che non è?
Quest'opera tratteggia una breve storia del pensiero filosofico alternativa a quella ufficiale,
una vera e propria contro-storia della filosofia, a partire dai presocratici fino ai contemporanei,
seguendo come filo conduttore il concetto del nulla. La ricostruzione storica poggia su di una solida
posizione speculativa dell'autore, che viene delineata all'inizio, nell'Introduzione (scritta in forma di
dialogo fra l'autore ed un ipotetico lettore): la concezione teoretica lì messa in chiaro da parte di
Givone, infatti, funge da base interpretativa per la disamina successiva e poi si approfondisce in
controluce, lungo tutto il percorso storico-descrittivo. Il discorso, ci avverte l'Autore, non può essere
lineare e la storia del nulla non può essere speculare a quella dell'essere, a causa di un lungo
esorcismo nei confronti del nulla sia da parte della logica sia della metafisica. Il nulla si configura,
in fin dei conti, come un concetto "maledetto", che la metafisica e la storia della filosofia hanno
tentato di annullare, di nascondere. Tuttavia, nonostante tale ostracismo, il nulla talvolta, spesso in
ambito estetico ed artistico, è stato tematizzato in modo autonomo ed è venuto alla luce in tutta la
sua potenza e rilevanza, ponendosi addirittura come alternativo all'essere o come suo abissale
fondamento. Il compito che Givone s'impone è quello di ritrovare, nella storia del pensiero, questi
punti di emergenza del concetto.
Si tratta di una lettura appassionante, avvincente, anche in forza del fascino della scoperta di
un terreno nuovo, di una tradizione diversa, minoritaria, "altra", rispetto a quella ortodossa; lettura
favorita dalla scrittura di Givone, sempre sorretta da uno stile limpido, con la virtù rara di essere
insieme chiaro e profondo.
Il nostro autore riconosce il debito a Emanuele Severino per l'idea che il nulla rappresenti il
grande rimosso, l'interdetto, del pensiero occidentale. Tuttavia, precisa immediatamente che le loro
posizioni sono antitetiche, poiché Severino, a suo avviso, porterebbe a compimento,
radicalizzandolo, il programma della metafisica, annullando il nulla.
Questa differenza dalla posizione del pensiero di Severino è ulteriormente evidenziata dalla
distinzione tra nulla e nichilismo che Givone rende chiara fin da subito, sempre nella Introduzione,
per evitare facili e perniciose confusioni. Per quanto si coappartengano, nulla e nichilismo sono
distinti: il nichilismo è principalmente un evento storico, è l'esito ultimo ed attuale del sapere e della
società: il fatto la religione e le grandi immagini del mondo non hanno più presa su di noi; il nulla
in quanto tale, come concetto e non come accadimento, può prescindere dalla propria storia, può
essere indagato nella sua essenza anche al di là degli sviluppi riconosciuti del divenire storico. Del
nulla si può dare una vera e propria ontologia, quella che Givone definisce meontologia, vale a dire
letteralmente ontologia del nulla.
Sebbene il punto di partenza di nichilismo e ontologia del nulla sia in ultima analisi identico,
diversi sono gli esiti a cui conducono. Tutt'e due inaugurano il loro discorso con la critica
dell'ontologia della necessità o onto-teologia, la quale in buona sostanza pone come fondamento e
come ragione ultima di tutte le cose un essere necessario, Dio come ens necessarium, entrambe
indicano come vana ogni pretesa di raggiungere il fondamento dell'essere delle cose, di giustificarle
a partire da un essere necessario. Ma, mentre nel nichilismo, qui caratterizzato in una connotazione
negativa, la morte di Dio lascia il cielo vuoto e la terra abbandonata alla propria contingenza ed alla
propria assurda presenza, il concetto stesso di verità viene sottoposto a critica, il mondo si riduce ad
una favola, ad un rincorrersi di interpretazioni e di narrazioni senza più un riferimento nel reale;
l'ontologia del nulla, invece, considera l'assenza di fondamento come un prezioso punto di partenza
che permette convertire l'essere in libertà e come un movimento di liberazione dalla necessità.
Disancorare l'essere dal principio di ragione, esporre le cose che sono, gli enti del mondo, al poter
essere altrimenti da come sono ed anche al poter non-essere, è la condizione essenziale per
un'ontologia che lasci spazio alla libertà. In questo modo, la critica al principio di ragione
sufficiente conduce in ultima analisi al fondare l'essere sul nulla, a pensarlo a partire dall'abisso del
nulla. La storia del nulla ha come esito l'ontologia della libertà e nello stesso momento l'ontologia
della libertà spiega a ritroso la storia del nulla.
«Storia del nulla e ontologia della libertà si richiamano l'un l'altra. Non solo l'ontologia della
libertà è l'esito della storia del nulla, ma la storia del nulla resta indecifrabile e muta se non la si
interpreta alla luce dell'ontologia della libertà» (S. GIVONE, op. cit. p. XVII – i miei riferimenti di
pagina riguardano l'edizione del 2008).
La tesi di fondo ermeneutica dell'opera di Givone è perfettamente condensata da queste parole.
Di conseguenza, bisogna «convertire, in forza del nulla del fondamento, l'essere nella libertà.
Bisogna insomma riconoscere che la libertà è il senso dell'essere» (S. GIVONE, op. cit. p. XIV). Il
nostro autore non esita a questo proposito ad usare il termine Dio per riferirsi alla libertà originaria
che nasce dal nulla di fondamento, dall'assenza di fondamento dell'essere, libertà che è il senso
dell'essere, la verità. In questo, Givone si pone come erede e fedele allievo del pensiero di Luigi
Pareyson che fu suo maestro a Torino. La filosofia della religione di Pareyson si fonda proprio su di
una ontologia della libertà.
Poiché la tesi ermeneutica della Storia verte intorno alla domanda fondamentale della
metafisica ("perché l'essere e non il nulla?") è interessante affiancare alla Introduzione il Capitolo
ottavo, che la tematizza esplicitamente. Questo capitolo, che si pone come una specie di inciso nella
ricostruzione della Storia, è centrale dal punto di vista speculativo; in esso Givone prende in esame
il modo in cui la domanda è stata posta prima in Leibniz, poi in Schelling ed infine in Heidegger e
fa vedere come, a partire da essa, solo in Schelling ed in Heidegger si ritrovino gli elementi
essenziali per una ontologia del nulla e quindi della libertà.
Infatti, in Leibniz la questione (che suona così: "perché c'è qualcosa piuttosto che niente?") più
che una vera domanda, più che un dubbio angosciante, risulta piuttosto una domanda retorica: si
tratta di un semplice passaggio, una iniziale premessa, che dalla constatazione che qualche cosa c'è
passa alla affermazione del principio di ragion sufficiente che sta a fondamento dell'esistente, di ciò
che è. "Perché c'è qualcosa piuttosto che niente?" in Leibniz presuppone la certezza che qualche
cosa ci sia e che ci sia la ragione per cui l'esistente è così e non altrimenti. Il nulla, il niente, non
turba affatto la filosofia di Leibniz e non viene preso in considerazione. «Sì, in Leibniz a sollevare
la domanda "Perché c'è qualcosa piuttosto che niente?" è il fatto che qualcosa c'è non l'eventualità
che davvero il nulla possa essere» (S. GIVONE, op. cit. p. 183).
Di contro, nell'ultima fase del pensiero di Schelling la domanda fondamentale ha un differente
senso ed una maggiore rilevanza, un peso specifico diverso: si tratta formalmente della stessa
domanda, tuttavia ciò che cambia è l'intonazione con cui viene posta. Di fronte alla storia umana ed
al suo precipitare di evento in evento, la domanda diventa espressione di angoscia e di disperazione
e lascia trasparire una nostalgia per il nulla. Questa constatazione della vanità del tutto, dell'assenza
di scopo dell'essere (per cui è preferibile il non essere) si scontra con il bisogno di trovare una
ragione, un fine ultimo fondato. Schelling, davanti all'assenza del fondamento dell'essere basato
sulla necessità, sviluppa un'affascinante teoria della libertà. Solo grazie al riconoscimento della
libertà non ci si arrende al nichilismo; libertà che non deve essere intensa come in Kant, vale a dire
come un postulato della ragione, ma in senso più originario: come nulla, come infondato
fondamento dell'essere. Punto di partenza della teoria di Schelling è la potenza d'essere: puro atto di
volere o volontà d'essere, che è autentica libertà, in quanto anche poter non essere, poter non
manifestarsi in sé. E' il nulla, dunque, a salvaguardare la libertà, poiché fa della potenza d'essere
anche potenza di non essere, nulla da intendersi qui come potenza e non come semplice assenza di
determinazione. «Qualcosa può essere solo se l'essere è complice del nulla e di conseguenza
l'esistente infinito, l'esistente tratto fuori dall'oceano del possibile e diventato reale, sta nel segno
della libertà, essendo liberamente venuto all'essere» (S. GIVONE, op. cit. p. 194).
E' evidente che la posizione di Schelling intorno alla domanda fondamentale si conclude in un
capovolgimento radicale di quella di Leibniz.
Infine, in Was is Metaphysik?, Heidegger esplicitamente ripropone, sotto un differente aspetto,
tale capovolgimento: la tesi sviluppata nella sua opera a questo proposito, infatti, è che è proprio il
nulla a svelare il senso dell'essere. La scienza pretende di occuparsi solo dell'ente e di nient'altro e
in ciò si pone come erede della metafisica tradizionale, che rispondendo al perché delle cose aveva
escluso il nulla. Il senso della domanda fondamentale rimane, ad avviso di Heidegger, nascosto sia
alla scienza che alla metafisica, proprio perché entrambe escludono quel "niente" oltre l'ente (ente a
cui si riduce la conoscenza). «Per la metafisica (e per la scienza) del nulla non ne è nulla, perché ne
è soltanto dell'ente, così come non ne è nulla neppure dell'essere, dal momento che l'essere è ridotto
all'ente» (S. GIVONE, op. cit. p. 205). Tuttavia, «è il nulla (...) che libera il mondo dalla pura e
semplice identità con se stesso e lo apre a una dimensione di storia» (S. GIVONE, op. cit. p. 196).
Ecco perché è importante riproporre la domanda fondamentale in senso non metafisico, in tutta la
sua forza, cioè non riducendo l'essere all'ente, ma indicando nel nulla il fondamento dell'essere e
mostrando come l'ente è «mantenuto sospeso a una decisione libera per l'essere contro il nulla» (S.
GIVONE, op. cit. pp. 205-206).
Se ora abbiamo compreso meglio chi siano i padri della ontologia del nulla, quale sia il punto
d'innesto nel pensiero contemporaneo che rende possibile finalmente una meontologia, ancora da
chiarire, attraverso uno sguardo di sorvolo su questa Storia, rimangono due punti: 1) da dove nasca
l'ostracismo da parte della metafisica e della filosofia nei confronti del nulla; 2) quali sono stati
nella storia della filosofia, prima del pensiero contemporaneo, i punti di emergenza del nulla come
concetto autonomo rispetto all'essere.
Risalendo alle origini del pensiero occidentale, Givone sottolinea come la prima
manifestazione della ontologia del nulla si dia non nella filosofia degli inizi e dunque nei filosofi
presocratici, neppure in Eraclito, ma soltanto nella tragedia greca; in particolare, si palesa nel
pensiero tragico che muove i fili delle vicende messe in scena nelle opere di Eschilo, Sofocle e
Euripide: in esse l'eroe sopporta la contraddizione delle coincidenza di destino e di responsabilità,
contraddizione che nasce proprio quando l'essere è convertito in libertà; infatti, il principio supremo
della giustizia che sembra dominarle, legge che regge e governa l'universo, è ironico (oltre che
enigmatico ed imperscrutabile a tratti), nel senso di essere libero dal suo stesso principio, «nel senso
che la giustizia appare sempre altra da sé piuttosto che identica a sé, come attesta la reciprocità di
nomos e hybris. Non c'è legge che non comporti il peccato di presunzione (...) la legge è non solo
santa, ma anche maledetta, in quanto fonte di maledizione» (S. GIVONE, op. cit. p. 25). Ecco
perché si può affermare che l'ontologia della libertà è un pensiero tragico, perché ha le sue radici in
questa concezione apparentemente aporetica della giustizia ben raffigurata dai tragici antichi:
unione di necessità, di destino, e di responsabilità, unione di colpa e di innocenza.
Al contrario, è proprio nei presocratici che nasce l'interdetto nei confronti del nulla. In
particolare, il padre della metafisica occidentale, Parmenide, afferma con chiarezza la propria
condanna al pensiero del nulla, afferma che il non essere assolutamente non esiste, non è, ed
esclude che l'essere possa sopportare la contraddizione, poiché è eterno ed immobile. Da qui nasce
la proibizione a pensare il nulla e il considerare contradditorio anche il solo tentare di affermarlo.
Quando noi diciamo che il nulla non è, affermiamo pur sempre l'essere del non essere e, pertanto,
non diciamo il non essere assoluto, che rimane impensabile e che non può essere detto.
Nel Sofista, in apparenza, Platone, di fronte alla necessità di pensare il molteplice, il divenire
che incontriamo nella realtà, viola l'interdetto, ed arriva ad impugnare il principio posto da
Parmenide; giunge fino alla necessità di affermare l'essere del non essere, rischiando così l'accusa di
"parricidio". Si tratta, tuttavia, solo di un apparente superamento della posizione di Parmenide, di
una finzione necessaria che Platone introduce per ovviare alle aporie a cui l'intransigente pensiero
di Parmenide aveva condotto. Tanto che Givone afferma che non siamo affatto in presenza di
parricidio, bensì solo di una «morte e trasfigurazione» (S. GIVONE, op. cit. p. 34), per cui
«sacrificando Parmenide, Platone ne realizza il progetto incompiuto: quello che permette al vero
sapere (la filosofia) di percorrere l'intera articolazione dell'essere, là dove il non essere, che pure
accompagna l'essere come la sua ombra, è subordinato all'essere» (Ivi).
Sappiamo dell'influenza della filosofia platonica su tutta la filosofia occidentale; questo
interdetto permane in tutto il corso del pensiero successivo. La metafisica e l'ontologia, come
abbiamo accennato, sono debitrici e fedeli a questa impostazione che o impedisce di pensare il nulla
o lo ammette ma solo come finzione necessaria.
Sporadici e minoritari rimangono, pertanto, i punti di emergenza dell'ontologia del nulla nelle
filosofie e teologie cristiane. Infatti, soltanto nella tradizione mistica (Cfr. il Capitolo secondo,
intitolato in modo significativo Svolta mistica), in particolare quella di derivazione neoplatonica, si
ravvisa questa diversità rispetto al pensiero dominante. In essa la verità pare più in rapporto con il
nulla che non con l'essere, in quanto non è pensata né in termini classici di conformità
(dell'intelletto alle cose) né in termini di fedeltà (di Dio all'uomo prima che dell'uomo a Dio), ma di
rivelazione del nulla. Il genitivo "del" deve essere inteso sia in senso soggettivo che in senso
oggettivo, per cui il nulla è il soggetto e l'oggetto della rivelazione. Pertanto, la verità rivelata libera
dall'ordine necessitante del Logos e si afferma solo a partire dal «nulla che, negando la ragione di
ciò che è (perché questo, perché quello, perché in generale qualcosa e non il nulla), restituisce
l'essere a se stesso. Alla sua estasi, al suo estatico stare. Dunque alla libertà» (S. GIVONE, op. cit.
p. 38).
Givone da questo assunto sviluppa un'interessante interpretazione dell'Apocalisse di Giovanni
come rivelazione del nulla, sia nel senso più ovvio come nulla in cui Dio precipita la creazione
attraverso la furia distruttiva, sia nel senso più pregnante, ai fini del discorso sviluppato, di nulla
inteso come unico sfondo a partire dal quale è possibile la salvezza della stessa creazione.
Nello stesso capitolo, vista l'importanza per la tradizione mistica del riferimento al
neoplatonismo, viene ripercorsa l'originaria lezione del capostipite di questo filone, vale a dire di
Plotino. Givone mostra come in Plotino ci sia uno stretto legame tra l'Uno che è il principio di tutte
le cose ed il nulla. Infatti, l'Uno come principio sta al di sopra dell'essere e perciò dell'Uno non si
può predicare qualche cosa, un ente. Dell'Uno si può predicare soltanto il nulla: rappresentando
l'unità del molteplice, infatti, rimanendo immobile presso di sé, si sottrae a qualsiasi determinazione
positiva. Pur conferendo ad ogni ente la sua propria identità, per cui si può dire che ogni ente
partecipa dell'Uno, tuttavia, l'Uno rimane infinitamente altro rispetto ad ogni ente ed alla totalità
degli enti.
Sarà poi Meister Eckhart a radicalizzare la concezione neoplatonica, a riprendere fedelmente
la filosofia mistica di Plotino, fino a giungere ad identificare esplicitamente Dio con il nulla.
E' propriamente con il Romanticismo che il nulla viene liberato in tutta la sua forza. In questo
periodo culturale e spirituale, la valorizzazione del nulla come poetica e come pensiero, inteso come
categoria autonoma, avviene soprattutto a livello estetico: ciò si spiega per il motivo che l'arte è
creazione e come tale più vicina alla potenza libera del nulla. Givone dedica un capitolo
significativo della sua Storia all'arte figurativa con un'analisi di opere di periodi differenti (degli
autori Caspar David Friedrich, Albrecht Dürer, Hogarth), mostrando come la raffigurazione del
nulla nella storia dell'arte avvenga soprattutto come rappresentazione della fine. L'arte romantica si
caratterizza, secondo il nostro Autore, per un salto di qualità che consiste nel trasformare la
rappresentazione della fine in una vera e propria fine della rappresentazione, in quanto tentativo di
rappresentare l'irrappresentabile. Ciò è ben esemplificato dall'opera (qui riprodotta) Frau am
Fenster, olio su tela del 1818 di C.D. Friedrich: propriamente oggetto della rappresentazione non è
ciò che si vede, ma ciò che non si vede. Noi vediamo una donna di spalle che guarda fuori da una
finestra, davanti a lei l'orizzonte, e scorgiamo l'albero di una barca (non si sa se ormeggiata o
transitante). Ciò che ci viene rappresentato è puramente evocativo di un altrove che non vediamo e
che possiamo solo immaginare. Da qui il carattere sostanzialmente malinconico dell'arte romantica
di cui Friedrich è uno dei più significativi rappresentanti.
Delle stesse caratteristiche si ammanta il pensiero romantico, come è attestato da uno dei suoi
massimi interpreti, vale a dire Novalis: ciò che muove il romantico è l'Assoluto (che di volta in
volta prende nomi e figure diverse, secondo i gradi di una progressiva indeterminazione: l'amata, la
patria, il divino, l'ideale...) e insieme è ciò che non può essere mai raggiunto. Sono evidenti le
influenze neoplatoniche su questo pensiero di un Assoluto irraggiungibile. Il desiderio del
romantico è rivolto verso un oggetto inoggettivabile e sempre assente, da qui la nostalgia e la
malinconia come sentimenti preponderanti e come passioni dell'assenza, assenza non di qualche
cosa di determinato, ma assenza di nulla. Ecco perché, secondo Givone, l'intellettuale romantico,
prototipo di ogni successivo pensiero e atteggiamento nichilista e decadente (anche per
l'estetizzazione della vita con la conseguente unione di vita ed arte) «sembra piuttosto saggiare e
corteggiare il nulla che non subirlo alla stregua di un destino storico» (S. GIVONE, op. cit. p. 99).
«E il nulla è l'originaria apertura di tutto ciò che è: come in Novalis è il segreto, il mistero, il
senso più alto che è custodito dal "non" dell'infinito e dell'ignoto, o, come in Goethe, è l'eternità che
balena nella soppressione del tempo» (S. GIVONE, op. cit. p. 100).
E' dunque il Romanticismo, nella Storia trattato in differenti capitoli, ad aprire alla possibilità
concreta di una meontologia e di una ontologia della libertà, riuscendo a pensare pienamente, in
senso non nichilistico, il concetto di nulla ed a tratteggiarlo con maestria soprattutto in ambito
estetico, artistico e letterario.
Storia del nulla è un testo notevole che merita una posizione di rilievo nel panorama filosofico
italiano; la sua lettura dona preziose suggestioni ed apre a nuovi futuri orizzonti di pensiero
teoretico e morale.
Daniele Baron
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