1 first N. 2, giugno 2013 LA Rivista per le clienti e i clienti Cornèrcard Daniele Finzi Pasca: «Sono uno che racconta storie che curano». Leggete qui l’intervista integrale con l’artista ticinese Daniele Finzi Pasca tenuta dalla redazione della rivista you first per i clienti Cornèrcard. no anche i clown. Per conoscere la filosofia di un clown e capire cosa si nasconde dietro, bisogna solo chiedergli che tipo di macchia egli rappresenta. E dalla risposta del clown si capisce subito se si vede come una macchia di sangue, o una macchia di champagne su una tavola imbandita per un matrimonio, oppure una macchia impregnata di un odore sgradevole. In fondo si tratta del modo in cui un clown riesce a rompere i confini e le strutture. VERSATILE. Daniele Finzi Pasca, appassionato professionista del teatro, nonché autore e regista di «La Verità». you first: Daniele Finzi Pasca, lei è un artista versatile, di fama internazionale e quindi viaggia spesso. Se in aereo deve compilare un modulo d’immigrazione, quale professione indica: clown, poeta, attore o regista? Daniele Finzi Pasca: Adesso mi definisco regista. In molti paesi la gente non sa bene cosa fare della definizione di clown, e con il passare del tempo, è diventato un po’ complicato darne una spiegazione. E a un bambino che le chiede per strada: lei chi è e cosa fa? Cosa gli risponde? A un bambino dico generalmente che sono un clown. Cosa significa essere un clown? La mia definizione del clown è la seguente: in un mondo dove tutto è delineato di confini e geometrie precisi, necessitiamo di macchie, di taches. E il clown corrisponde un po’ a queste macchie. Tanto è vero che tradizionalmente nelle società più strutturate vi si trova- Quando ha sognato per la prima volta di volersi trovare su un palcoscenico o nell’arena di un circo? Tutto è incominciato con la federazione di ginnastica e con il mentore Fabrizio Arrigoni, appassionatissimo di circo e del mondo dello spettacolo. In Ticino Fabrizio aveva creato un gruppo i cui membri erano affascinati da Parigi. Comprò dei costumi del «Lido de Paris» e allestì uno spettacolo con piume e paillettes. I miei genitori mi permisero di partecipare, e all’età di 11 anni incominciai ad aiutarlo. Fabrizio Arrigoni era il primo a inscenare degli spettacoli di questo tipo con delle ballerine, e alcune di loro erano perfino top­less. Io ero dietro le quinte e a volte le aiutavo a cambiarsi il costume quando uscivano di scena con i loro piumaggi. Da undicenne, vedere queste ballerine sfrecciare davanti a me semivestite, naturalmente mi affascinava e mi dicevo: questo mestiere è troppo bello e troppo divertente, e la mia passione per il palcoscenico nacque proprio lì. Ha frequentato una scuola di teatro? Sì, ma non l’ho mai terminata. Durante il periodo presso la scuola di teatro mi sono deciso ad imboccare un’altra strada, perché volevo lavorare con dei direttori d’orchestra e degli scenografi. Idealmente il nostro mestiere s’impara «learning by doing», ossia «a bottega», come avviene in un apprendistato. C’è chi termina gli studi in accademia e chi come me, sceglie un percorso diverso, appunto la bottega. Si può imparare la professione del clown o bisogna avere delle basi ben chiare? Capire Dio in certe cose non è tanto facile. C’è gente che studia molto, che si applica, e poi arriva una persona – e questo capita spesso in molti campi – che possiede qualcosa che si chiama talento. Se per esempio qualcuno non ha la musicalità, può passare tutta la vita al pianoforte e arrivare a un certo punto, ma non andrà molto lontano. Si possono imparare tante cose, ma sostanzialmente è proprio così, il motore è questo talento, o siamo fortunati di avere questo fuoco che arde dentro di noi, o non lo abbiamo. Se hai talento, non è solo un peccato nei confronti dell’umanità, ma è anche uno sbaglio non usarlo. Ci sono degli artisti, soprattutto nell’ambito del disegno, che dicono: «Finché sei un bambino, sei un artista. Se frequenti un’accademia di belle arti, non riesci più a disegnare, perché non puoi più esprimerti liberamente e ti lasci influenzare troppo dall’esterno». Si può dare libero sfogo al talento? Credo che un artista abbia bisogno di un maestro per poter crescere. Tu vai anche a scuola, certo, ma il punto è che il maestro ti guida, non ti insegna solo, è questa la differenza fra un insegnante e un maestro. In questo modo ti aiuta a identificare quello che stai cercando. Se una tale guida sceglie di guidarti – e questo lo deve fare – allora nasce un rapporto. In questo gioco succede sempre che un giorno un maestro si aspetti che l’allievo lo superi. Questo processo è l’esatto contrario dell’inquadramento, in quanto il maestro dice: «Adesso tu hai visto tutto quello che so, ora mi aspetto che tu vada avanti». Questo è il rapporto giusto. Il percorso con un insegnante – anche se può essere fantastico – non inizia con la stessa premessa. Lei ha avuto un maestro così? Ne ho avuto vari, in modi diversi e per cose diverse. Per esempio Paul Glass, un compositore americano che vive a Carona, mi ha introdotto nel mondo della forma. Ho imparato cosa è la forma e come applicarla. Anche se io non sono musicista, ho imparato moltissimo, perché per vari anni sono andato a mangiare con lui tutti i sabati. Altri mi hanno insegnato a veleggiare, a capire come funziona, dove sta il vento. Tutte cose che applico alla mia visione del teatro. 2 first LA Rivista per le clienti e i clienti Cornèrcard Nel 1983 all’ età di 19 anni è partito per l’India per aiutare Madre Teresa di Calcutta ad assistere i malati terminali. Cosa l’ha portata a quell’età a fare questa scelta? Sono andato in India perché ho avuto una crisi d’amore adolescenziale nelle stile di Werther, un giovane romantico che ha tentato di sbollire le sue pene sentimentali. Ho preso una botta che mi ha disarcionato. Forse in una situazione simile, alcuni miei zii di generazioni precedenti sarebbero partiti per la legione straniera. Sono stato salvato dai miei genitori, che sono per me e i miei fratelli delle figure chiave. Ci hanno aiutati a crescere, sviluppando i nostri talenti. Mio papà e mia mamma mi hanno preso in disparte dicendo: «Daniele, cosa facciamo? Tu che volevi sempre fare qualcosa in ambito sociale, adesso sarebbe il momento giusto». Visitammo quindi un missionario salesiano che aveva in programma di partire per l’India. Mio papà che aveva studiato dai salesiani, gli chiese: «Quando parti?» «Fra tre giorni», rispose il missionario. «Non potresti portare mio figlio con te?» Quattro giorni dopo, partimmo per l’India. Inizialmente ho lavorato per un progetto agricolo a Krishnanagar vicino a Calcutta. Poi nelle bidonville a Bombay e successivamente, anche per Madre Teresa. Questi sette mesi in India hanno significato per me l’inizio di un periodo nuovo e consentito l’accesso ad un mondo del quale mi sono totalmente innamorato. C’è sempre un prima e un dopo nella vita. Ho conosciuto luoghi e gente straordinari. E’ un luogo dove ogni tanto ritorno ancora oggi. Come l’hanno influenzata le esperienze fatte in India? Mi hanno influenzato molto. Prima, per me lo spettacolo significava piume, paillettes e show. Dopo il mio rientro sentivo il bisogno di raccontare delle storie, degli avvenimenti veri come, per esempio quando vedi come i bambini muoiono in determinate condizioni. L’India mi ha dato tanto. Il viaggio è stato per me un’iniziazione, come nelle tradizioni sciamaniche. Cosa l’ha spinta a fondare il Teatro Sunil dopo il suo rientro dall’ India? Dopo l’India sentivo il bisogno di raccontare delle storie che potessero togliere la paura, aiutare la società o gli individui a non avere paura. Se qualcuno ha paura, necessita delle storie che lo curino. Il Teatro Sunil in fondo è nato da un gruppo di amici del mio quartiere, il Molino Nuovo. Dopo il mio rientro ci siamo ritrovati, e solo un anno dopo ho portato altre quattro persone. Siamo partiti insieme per l’India, anche per lavorare. Avevamo preso quattro valigie con diversi strumenti da clown e abbiamo visitato parecchi lebbrosari fra Bihar e Calcutta. Con quel gruppo desideroso di raccontare delle storie di un certo tipo, si è creata una sorta di famiglia. Con alcune persone di questo gruppo lavoro ancora oggi dopo quasi trent’anni. Come erano gli esordi di questo teatro? Sono entrato in scena con degli spettacoli che oggi chiameremmo ricevimenti di gala. Uno dei miei primi spettacoli era alla Romantica di Melide. Avevo preparato una scena che iniziava con una valigia ed una scala. Arrivavo con la valigia e la scala, aprivo la scala, poi la valigia, facendo finta di cercare qualcosa che poi non trovavo: un uovo. Poi salivo sulla scala, cercando di rimanere in equilibrio per recuperare l’uovo con la bocca. Così avrebbe dovuto svolgersi la scena, però lo spettacolo è andato diversamente. La musica iniziava e Yor Milano, il noto attore e moderatore televisivo ticinese mi annunciò. Entrai e iniziai il mio show. Cercavo l’uovo nella valigia, continuavo a cercarlo freneticamente, ma non lo trovavo. Terrorizzato sono scappato dalla scena, chiudendomi nel bagno del camerino. In quel momento mi sono detto che non avrei mai più fatto cose del genere. La cosa tragica e bella era che settimane dopo, aprendo la valigia saltò fuori l’uovo. Allora ero troppo emozionato, davvero troppo agitato e così non avevo trovato l'uovo. Questo solo per enfatizzare che la scena è un luogo che chiede all’attore di spogliarsi, di stare nudo, con la sensazione che l’anima lo possa trapassare. Per questo motivo intendo creare il teatro in un modo che aiuti gli attori a vincere queste paure e stare sulla scena con leggerezza. N. 2, giugno 2013 Questo lavoro le ha assicurato delle entrate fisse? Non ho mai esercitato nessun altro mestiere. All’inizio però ho vissuto con pochissimi mezzi, ma non mi sono mai preoccupato un granché. Quando il Cirque du Soleil mi ha proposto un contratto per la prima volta, ero sbalordito. Una cosa del genere mi sembrava impensabile. Pensavo che questo mestiere mi avrebbe consentito essenzialmente di sopravvivere. Al Teatro Sunil ha sviluppato insieme a suo fratello Marco e la compositrice e coreografa Maria Bonzanigo la tecnica del «Teatro della Carezza», una visione di clowneria, danza e gioco. Quando può essere definito tenero il teatro? Né un pittore, né un architetto o musicista possono fare questo gesto della carezza. Gli attori sono gli unici artisti che hanno la possibilità di prendere fisicamente tra le braccia qualcuno. La fisicità è qualcosa di molto particolare, perché si può vedere ogni volta come uno comunica con l’altro, che cosa tocca, che cosa fa. Quando dirigo uno spettacolo, non sono mai davanti al palcoscenico, ma sempre dietro gli attori. Il tocco provoca, perché spiega qualcosa. Quando si ha un bambino tra le braccia, farlo addormentare richiede un certo grado di empatia, e quell’empatia viene trasmessa attraverso il proprio respiro. E ogni giorno è diverso. Questo per me è il Teatro della Carezza – lavorare con degli artisti che sono sostanzialmente empatici. Non intendo stare davanti al pubblico per dire: «io faccio e tu mi guardi». In questo senso il teatro non è una carezza, piuttosto un muoversi insieme fra pubblico e artisti. EMOZIONANTE. «La Verità» entusiasma e commuove il pubblico con ogni scena. 2/3 3 first LA Rivista per le clienti e i clienti Cornèrcard N. Nr.2,2,giugno Juni 2013 2013 LEGGERO COME UNA PIUMA. Acrobazie e giochi di luce perfetti. Cosa può o meglio deve ottenere il teatro dal pubblico? Il teatro non deve ottenere assolutamente nulla. In passato, i Greci parlavano di catarsi, di purificazione. Noi tutti speriamo che in un determinato momento della nostra vita le circostanze non siano solamente buone, ma talmente ottimali da far nascere una catarsi. E un tale stato di perfezione ci induce a pensare che è il momento giusto per lasciare tutto e partire. Potrebbe essere ad esempio un tramonto indimenticabile, come visto tante volte, ma mai veramente vissuto. Si spera che chi paga il biglietto, chi va in scena o muove le luci possa almeno una volta nella vita dire: «Ah wow, perfetto!» La catarsi ti mette in questo stato. In questo senso si cerca sempre, senza chiedere nulla al pubblico. Quindi conta solo il presente? Sì, credo di sì. Un attore sa che quello che fa non perdurerà. Il gesto di un interprete è destinato solo al presente. Perciò gli attori sono delle figure straordinarie. Un architetto o un compositore lascia una traccia. Noi no, ogni passo è già cancellato, dici una parola e non c’è già più. Quale ruolo giocava «Icaro», il suo testo teatrale, scritto da giovane per il «Teatro della Carezza»? «Icaro» è stata proprio la trasformazione sul palcoscenico dei temi di cui stiamo parlando, ossia l’iniziazione, la vicinanza con gli spetta- tori. Di colpo «Icaro» si presenta quasi come un manifesto: stare sulla scena con uno spettatore e raccontare come se si danzasse un tango. Effettivamente fu pensato come un esercizio di stile per spiegare ciò che stavamo cercando. Erano previsti soltanto quattro spettacoli. Inaspettatamente abbiamo ricevuto subito un altro invito. Con in tasca un ingaggio per una settimana sono partito per il Messico, ma poi lo spettacolo è stato sul cartellone per ben nove mesi. Credo di essere stato in Uruguay dodici volte, l’hanno visto 40.000 spettatori. L’anno prossimo a New York ci sarà la prima di «Icaro». E’ proprio una strana storia. Recita «Icaro» da oltre 20 anni, ha dato 700 spettacoli in tutto il mondo. Come riesce ad evitare la routine? Il fatto che racconto le mie storie ogni sera ad uno spettatore differente e recito «Icaro» in sei lingue diverse evita la routine, poiché devo adattarmi ogni volta. «Icaro» è come una montagna che si scala continuamente. I sentieri che conducono alla vetta sono sempre uguali, eppure diversi. Facendo «Icaro», mi rendo conto di cambiare ogni volta. Come autore e regista del teatro acrobatico, di spettacoli teatrali e circensi di spicco, dove nota delle somiglianze con la figura del clown che si trova da solo nell’arena del circo? La solitudine di un clown nell’arena del circo è data dalla dimensione, dalla grandezza. Ci sono momenti rari nei quali uno spettacolo circense si concentra unicamente sulla luce, sulla presenza di un clown. Ci sono degli elementi che si ritrovano, si ripetono. Eppure lo spazio ti permette di creare una sensazione di enormità – di ricostruire e disegnare quella fragilità della solitudine. Nel suo lavoro fa spesso riferimento alla sua infanzia e gioventù, alla sua casa nel quartiere Molino Nuovo a Lugano, con delle immagini e storie piene di poesia. Questa base pensa possa essere la sua fonte artistica? Assolutamente. Racconto quello che conosco, e conosco il mio quartiere e le sue storie. Sono di quel luogo e racconto storie di lì. Quando ho scritto per il progetto Cechov, ho raccontato la storia del mio quartiere. La storia di tre persone, nate lo stesso giorno di Anton Cechov. Il giovane Daniele Finzi Pasca di Lugano era un anticonformista? Quando si è giovani molti vogliono sentirsi un po’ protetti, fare parte di un gruppo, mentre altri vogliono esprimere la loro individualità. Ho frequentato il liceo in pantaloni corti e andavo in giro in sandali nella neve. Ho avuto la fortuna di avere una famiglia particolare. Quando la scuola ha chiamato mia mamma per un colloquio per dirle che trovavano eccessivamente eccentrico che andassi sempre in giro in pantaloni corti, mia mamma rispose subito: 4 first LA Rivista per le clienti e i clienti Cornèrcard «Mio figlio ha un allergia particolare, cioè un problema con vari tipi di tessuto, ed è una cosa che lo imbarazza a tal punto che non ne parla». La reazione di mia mamma era stata meravigliosa, e questo l’ho saputo solo tanti anni dopo dal direttore della scuola. A questo punto vorrei anche dire qualcosa sulla questione dell’individualità. La Svizzera è un paese straordinario, ma per certi aspetti siamo purtroppo poco saggi. Si aiuta molto chi è in difficoltà, ma quando si tratta di creare spazio per l’eccentricità, del bisogno di essere diversi, di poter dire ai giovani di essere unici e speciali, lì purtroppo non siamo molto forti. Lei lavora spesso a Montreal, la patria di Julie Hamelin, sua moglie e partner artistica. Il Canada è una base storica significativa delle sue creazioni artistiche che comprende fra l’altro il successo mondiale del Cirque Eloize e del Cirque du Soleil. Per quale motivo, lei e i co-fondatori della Compagnia Finzi-Pasca avete scelto Lugano come sede principale? La Compagnia era già a Lugano quando Inlevitas e Sunil si sono uniti. Abbiamo semplicemente cambiato un po’ il nome. C’è stato N. 2, giugno 2013 riflessione, a Natale del 2010, la Fondazione che possiede il telone di Salvador Dalí ci telefonò, offrendocene l’uso. Noi ci siamo detti: «Questo è proprio quello che ci mancava, la ciliegina sulla torta». E questo ci ha permesso di spostare l’attenzione su elementi diversi e creare delle altre sinergie interessanti. Quale legame aveva con l’opera del surrealista Salvador Dalí prima di confrontarsi intensamente con il suo maestoso quadro scenografico che ha Lei è cresciuto in una famiglia di fotografi. In quale modo questo contesto influenza il suo lavoro ancora oggi? C’è chi dice che metto in movimento le immagini che mio padre e mio nonno avevano fotografato. Quando penso alla realtà, la vedo sempre congelata in un fotogramma che poi metto in movimento. Ho cominciato a fare teatro prima di tutto illuminandolo. Papà mi ha fatto vedere come ogni oggetto, a seconda di come lo illumini fotograficamente, può avere una trasparenza, un volume, una profondità o dimensione diversa, che non otterrebbe in un altro modo. Penso come un fotografo quando immagino una scena. In generale, che cosa intende per patria? Patria per me è casa, e casa per me è il mio quartiere. Sono cresciuto in un posto dove c’erano tante nazionalità, gente di posti diversi. Non ho un’emozione patriottica nel senso che mi muove qualcosa che appartiene a dei confini che sento astratti. Lo sappiamo tutti che per diventare svizzeri, diventi prima di tutto cittadino del comune in cui risiedi. Questo non succede in tanti altri paesi, è un fenomeno che non si spiega facilmente a chi viene da fuori. E’ il Consiglio comunale che decide se tu sei accettato. Anche se la domanda presentata è approvata a livello federale o cantonale, non diventi svizzero se il Comune la respinge per un motivo qualsiasi. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che siamo svizzeri, perché il posto dove viviamo, si trova in Svizzera. In questo senso sono profondamente patriottico, perché sono di un quartiere. un momento in cui ci stavamo veramente domandando perché continuare a mantenere una sede qui a Lugano, visto che è più difficile rispetto ad altri posti. Ciononostante siamo rimasti, perché alcuni di noi sono testardi. Abbiamo fatto di tutto per creare determinate condizioni, per ottenere l’appoggio concreto di strutture private. A me piace tanto creare qui a Lugano. Il Ticino ha qualcosa di particolare. Alla fin fine siamo riusciti a creare delle sinergie con il mondo privato, e questo ha avuto una ripercussione fortissima, ha dato un nuovo slancio al mondo politico. creato per il balletto «Tristan fou» e che oggi fa da sfondo a «La Verità»? Queste battaglie tra surrealisti e dadaisti mi hanno sempre affascinato, ma Dalí non è un pittore che mi racconta delle cose profonde. Affascinato da Sigmund Freud, tutte le sue analisi del sogno erano orientate in questo senso. Dalí era molto paranoico con i mostri da lui creati. Il sogno per me è un trampolino, un distacco, un volo dentro se stessi. Io sono molto più vicino a Chagall. In fondo è stato come se un figlio di Chagall raccontasse la storia di Dalí. L’anno scorso ha ricevuto «L’Anello Hans-Rein­hart», il massimo riconoscimento conferito in Svizzera ai professionisti del teatro. Che cosa significa questo riconoscimento per lei? Significa essere un po’atterrato a casa. Forse un po’ più di prima. Il fatto di aver ricevuto questo riconoscimento da persone che dividono con me la stessa passione e lo stesso lavoro, è una cosa molto bella. E il suo ultimo progetto: Com’è nata «La Verità»? Dal 2008 al 2010 avevamo dedicato troppo tempo al mondo dell’opera. Secondo Julie (n.d.r.: Julie Hamelin, compagna artistica nonché moglie di Daniele Finzi Pasca) era necessario riacquistare una maggiore presenza a livello internazionale per le nostre creazioni acrobatiche teatrali. Abbiamo quindi iniziato a lavorare su «La Verità». Durante questa fase di E come vede Dalí oggi? Ho imparato a conoscerlo occupandomi della sua opera. Umanamente parlando, mi fa molta tenerezza. Mi incuriosisce, ma non suscita molto in me, contrariamente ad altri. La sua umanità, la sua teatralità sono affascinanti. Era un gran conoscitore dell’effetto che poteva dare a certe sue manifestazioni e prese di posizione. Dalí era un furbastro. LA TELA ORIGINALE. La tela monumentale di Salvador Dalí ritorna in scena dopo quasi 70 anni – ma questa volta con un nuovo spettacolo. 5 first LA Rivista per le clienti e i clienti Cornèrcard Quando ha visto il telo per la prima volta, che effetto le ha fatto? Il telo è un’ opera maestosa, anche perché è stata pensata e costruita per il teatro, non è stata una trasposizione. Il telone ha una incredibile potenza emotiva e simbolica. Quando uno spettatore lo vede, si sente invaso. Che sensazione prova di poter utilizzare una tela originale di Salvador Dalí per una propria creazione? Sono tante sensazioni, incominciando con la felicità, seguita da preoccupazioni, angoscia, poi di nuovo felicità, e infine mal di testa, perché tutto va strutturato. E poi un senso di plénitude, completezza, quando ho visto il telone per la prima volta sulla scena. Che cosa accomuna maggiormente lei e Dalí? A tutti e due piacciono i ricci di mare (ride). A parte quello non ho ancora trovato nulla. Dinanzi ai fantastici mondi di sogni e visioni finora da lei creati: lei si vede più surrealista o sognatore? Né l’uno, né l’altro. Sono uno che racconta storie che curano. Come crea le sue figure? Quando cerco di creare qualcosa, vado in luoghi a me familiari, ad esempio a cercare funghi. Però a volte mi rendo conto che non è il periodo giusto, ma inspiegabilmente ci vado lo stesso, anche se non so perché. Il telone di Dalí per il balletto «Tristan fou», ossia il Tristano folle, messo in scena la prima volta nel 1944, è piuttosto tetro. Esso si riferisce a sua volta all’opera di Richard Wagner «Tristano e Isotta», una storia d’amore appassionata e tragica degli omonimi protagonisti. Quanto è stato influenzato dall’opera di Wagner nella sua creazione di «La Verità»? Io, per niente. Dalí era innamoratissimo di Wagner e quindi lui l’ha completamente «impregnato». A me interessano molte cose di «Tristano e Isotta», come per esempio la fragilità dei caratteri e la sensualità di questa storia. Come può essere adattato un tema così impegnativo al teatro acrobatico? «Tristano e Isotta» sono stati danzati e cantati nell’opera. Il gesto acrobatico in questo senso è un simbolo, si sposa perfettamente con il mondo del surrealismo di cui Dalí faceva parte. Non essendo mai stato fatto in forma acrobatica, mi consentiva di immaginare con più facilità e leggerezza «Tristano e Isotta» in un contesto meno allegorico, meno simbolico di Dalí, ma più vitale. N. 2, giugno 2013 Lei lavora anche come regista operistico. Potrebbe immaginarsi di mettere in scena anche l’originale di Wagner? Ci sono talmente tante opere che mi piacerebbe mettere in scena prima. Ho diretto Verdi, ma anche musica contemporanea scandinava. Adesso mi piacerebbe tuffarmi nella leggerezza e follia del barocco. Wagner è stato fondamentale per essere riuscito a creare un dialogo preciso tra la scena e la musica. E’ stato una delle figure chiave, qualcuno che ha costruito, pensando che anche l’opera dovesse essere un’immagine. Wagner è un personaggio che mi sorprende enormemente, ma non è la musica che reputo tra le più adatte da interpretare. Come incide la tecnica del « Teatro della Carezza» concretamente su «La Verità»? Questo enorme telone è appeso sulla scena. Tuttavia, se davanti o vicino a questa straordinaria e importante opera di Dalí non ci sono degli interpreti magnifici, c’è il rischio che lo spettacolo venga completamente schiacciato. Questa leggerezza, questa capacità si riflette anche nel talento di ognuno degli interpreti della Compagnia. Sono attori molto particolari, musicisti, poeti e acrobati. Questa tecnica permette di costruire un tipo di attore capace di stare davanti a questo telone senza farsi schiacciare - quasi dialogando con esso. 6 first LA Rivista per le clienti e i clienti Cornèrcard Mi ha colpito molto il fatto che i critici a Montreal abbiano parlato poco del telone, ma piuttosto descritto il gioco degli attori. Il telone passa in secondo piano grazie alla qualità dell’interpretazione degli artisti. Senza svelare troppo di «La Verità»: come descriverebbe quest’opera in poche parole? Una «rivisitazione» di Dalí, un modo tenero di raccontare «Tristano e Isotta». Quanto è durato tutto il processo di sviluppo di «La Verità»? E’ stata Julie a dare spunto a questo progetto. Dal primo momento in cui ci siamo riuniti – davanti a noi un foglio bianco sul tavolo – il processo è durato due anni e mezzo. Le settimane di prove sono state 14. La produzione è durata 8 mesi. Dove si svolsero la maggior parte delle prove? Gran parte delle prove si svolsero a Montreal, ma ne abbiamo fatte due cicli, in tutto 5 settimane, a Lugano, in modo totalmente illogico e incoerente dal punto di vista produttivo. Anche per quanto riguarda lo spazio che era totalmente inadeguato. Però per noi era fondamentale che gli attori della nostra compagnia e i tecnici conoscessero la nostra terra, avessero respirato la sua aria. Come mai lo spettacolo si chiama «La Verità?» Perché è uno dei temi che transitano in tutti gli spettacoli. «Cosa è vero sulla scena?» E’ una delle riflessioni significative degli ultimi anni. Si sa che ciò che è vero non sembra tale. Cosa dobbiamo fare per sembrare veri? Prendiamo per esempio l’immagine della morte: un cuore strappato dal petto di un artista non sembrerebbe vero, sarebbe impensabile se non altro per motivi tecnici, ma non solo. Anche se lo facessimo, gli artisti non sembrerebbero realmente morti, perché la sofferenza vera non apparirebbe tale. Il sangue vero non sarebbe adeguato per la scena, perché è di un rosso diverso. La morte andrebbe quindi rappresentata in un altro modo. Allora perché rappresentare ciò che è vero e che sulla scena non è così? Nella tradizione orientale la realtà è solo apparenza. Dietro questa verità si nasconde tutto ciò che in fondo sono delle riflessioni che toccano filosofi e mistici, e che noi attori invece dobbiamo risolvere tutti i giorni. «La verità è tutto ciò che abbiamo sognato, che abbiamo vissuto, che abbiamo creato – tutto ciò che fa parte della nostra memoria. Così la citazione estratta da annotazioni di Julie Hamelin. Come definirebbe il termine realtà?» Di cosa sei sicuro? La realtà è così insicura. Se qualcuno dice: «Questo è reale», non puoi essere veramente certo. La realtà diventa vera solo quando la racconti. Quando ti trovi davanti, non è ancora vera. N. 2, giugno 2013 Cornèrcard è uno dei tre sponsor principali di «La Verità». Cosa significa questa collaborazione per lei? E’ un viaggio che si sta pensando di fare insieme. Per noi, Cornèrcard ha un ruolo centrale, perché essere Main Sponsor vuol dire accompagnare qualcuno. Non è solo un giro di valzer. La prima europea di «La Verità» si terrà a Losanna nel mese di ottobre 2013, seguita da spettacoli a Zurigo, e in autunno 2014 a Lugano. Non vede l’ora di giocare in casa? Certo. Mi farà un immenso piacere poter fare uno spettacolo a Lugano. Poter portare «La Verità» a Lugano sarà una cosa meravigliosa. Le produzioni Finzi Pasca durano per diversi anni. Per quanto tempo le viene concesso dalla fondazione anonima, che è la proprietaria di «Tristan fou», l’uso di questa tela a scopo teatrale? Per il momento abbiamo firmato un accordo di 6 anni. Ma nulla ci impedisce di continuare. Qual è il suo prossimo progetto? Stiamo lavorando ad alcuni progetti diversi, uno dei quali è la cerimonia di chiusura dei Giochi olimpici invernali 2014 a Sochi, in Russia. Daniele Finzi Pasca, grazie del tempo dedicatoci!