116 Parte Ottava 3. Quali elementi compongono la retribuzione? Nozione: l’insieme delle varie voci retributive costituisce la retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore. Tipologie: elencare le varie voci della retribuzione evidenziandone la natura retributiva o meno. Domande consequenziali: il sistema della scala mobile. Articolazione della risposta La retribuzione si compone di vari elementi dal cui insieme si ricava il trattamento economico complessivo corrisposto al lavoratore. Tali voci retributive sono: —la paga base (cd. paga o minimo tabellare): è determinata dai contratti collettivi, ed è connessa alla categoria e alla qualifica attribuita al lavoratore. Si aggiungono alla paga base, e ne costituiscono parte integrante, gli scatti di anzianità che consistono in aumenti periodici di retribuzione, di solito biennali e di regola proporzionati alla paga base, legati alla permanenza del lavoratore presso il medesimo datore; —l’elemento distinto della retribuzione (E.D.R.): è costituito da una somma mensile di euro 10,33 erogata per 13 mensilità, introdotta dal Protocollo d’intesa del 31-7-1992 per tutti i lavoratori del settore privato, senza distinzione di qualifica o di contratto collettivo applicato. L’ E.D.R. è stato introdotto per compensare parzialmente l’abolizione dell’indennità di contingenza, erogata ai lavoratori sino al 31-12-1991 allo scopo di adeguare le retribuzioni all’aumento del costo della vita attraverso il meccanismo della scala mobile; —le attribuzioni patrimoniali accessorie: si tratta di attribuzioni corrisposte in via saltuaria o anche continuativa, previste nei contratti collettivi o individuali in aggiunta alla retribuzione normale minima. 3 bis.In che cosa consisteva il meccanismo della scala mobile e come è stato sostituito? Il sistema della scala mobile prevedeva un adeguamento automatico delle retribuzioni al costo della vita attraverso il riferimento ad indici, e cioè a prezzi di determinati beni del cd. paniere, stabilendo al variare dell’in- La retribuzione 117 dice oltre una certa percentuale l’aumento in una certa misura delle retribuzioni (cd. scatto dei punti di contingenza). Tale metodo aveva portato negli anni ad un considerevole aumento della spesa pubblica e, per questo motivo, era stato modificato dal legislatore più volte (L. 219/1984, L. 38/1986, L. 191/1990) secondo un programma di contenimento del meccanismo di indicizzazione. La scadenza al 31-12-1991 dei limiti temporali di efficacia dell’ultimo provvedimento (L. 191/1990) ha condotto alla soppressione dell’istituto della scala mobile, che è stato sostituito da un meccanismo contrattuale di recupero del potere di acquisto delle retribuzioni, introdotto dal Protocollo interconfederale del 1993. Tale accordo del 1993 è stato superato da quello interconfederale del 15-4-2009, che ha attuato l’accordo-quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22-1-2009. In base al nuovo accordo il tasso di inflazione programmata è stato sostituito da un nuovo indice previsionale costruito sulla base dell’IPCA (Indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia), elaborato da un soggetto terzo che verifica gli eventuali scostamenti tra l’inflazione prevista e quella reale effettivamente osservata. 4. Che cosa si intende per onnicomprensività della retribuzione? Nozione: si tratta di una espressione elaborata dalla giurisprudenza degli anni settanta che individuava una nozione unitaria di retribuzione; evidenziare l’inesistenza nel nostro ordinamento di un principio di onnicomprensività della retribuzione. Domande consequenziali: rilevanza pratica dell’inesistenza di una nozione unitaria di retribuzione. Articolazione della risposta È l’espressione elaborata dalla giurisprudenza degli anni settanta che ha individuato una nozione unitaria di retribuzione, costituita non solo dall’importo erogato al lavoratore come corrispettivo del lavoro svolto, ma dalla somma complessiva risultante da tutti gli emolumenti dovuti in ragione del rapporto di lavoro aventi carattere continuativo, periodico o costante nel tempo. Tale concetto però è stato fortemente criticato, perché sia la legge che i contratti collettivi, ai fini dell’applicazione di determinati istituti (ad es. maggiorazione per lavoro straordinario), usano concetti di retribuzione diversi, nel senso che vi sono compresi di volta in volta differenti elementi retributivi. 118 Parte Ottava Proprio per tale ragione, si è negata l’esistenza nel nostro ordinamento di un principio generale e inderogabile di onnicomprensività della retribuzione (Cass. 6-10-2005, n. 19425). Infatti, le varie indicazioni normative e contrattuali sono stabilite per diverse finalità e trovano applicazione solo nei casi in cui sono previste, al di fuori dei quali non esistono criteri per definire un concetto unico di retribuzione che va, invece, determinato di volta in volta. 4 bis. Qual è l’importanza pratica della questione della onnicomprensività della retribuzione? Per comprendere l’importanza di tale problematica basti considerare che ogni singola voce retributiva si riflette su tutti gli istituti patrimoniali o economici del contratto, e in particolare sugli elementi differiti ed indiretti della retribuzione. Per maggiore chiarezza è opportuno fornire un esempio. Ogni ora di lavoro straordinario può essere compensata con una somma pari al 10% in più della normale retribuzione oraria. Il problema allora è capire se quest’ultima è data dal rapporto tra l’importo delle dodici mensilità e il numero di ore di lavoro o se, invece, la retribuzione deve intendersi comprensiva anche delle mensilità aggiuntive (13° e 14°). È evidente, infatti, la rilevanza della questione ai fini dell’applicazione della maggiorazione percentuale per il lavoro straordinario. E lo stesso avviene per il calcolo di altri istituti che fanno genericamente riferimento alla retribuzione come base di computo (indennità di fine rapporto, contributi previdenziali, retribuzioni festive). In definitiva, la retribuzione alla quale fanno riferimento la legge o i contratti collettivi non è sempre la stessa, ma si compone di volta in volta di elementi diversi. 5. A chi compete concretamente la determinazione della retribuzione? Riferimento normativo: art. 2099, co. 1-2, c.c. Disciplina: sottolineare il ruolo principale svolto dall’autonomia collettiva nell’individuazione della retribuzione e l’irriducibilità dei minimi tabellari (CCNL) da parte del contratto individuale. Domande consequenziali: i superminimi. La retribuzione 119 Articolazione della risposta Ai sensi dell’art. 2099 c.c., la retribuzione è in concreto stabilita: —dalla contrattazione collettiva, dovendosi così intendere il rinvio che l’art. 2099 c.c. fa alle norme corporative. Questo rinvio primario ai contratti collettivi consente di riconoscere ad essi la fondamentale funzione tariffaria, e cioè di determinazione della retribuzione minima, inderogabile in peius, ma suscettibile di modifiche migliorative ad opera della contrattazione individuale; —dall’accordo delle parti, che opera soprattutto nell’ipotesi in cui manchino contratti collettivi che stabiliscano la misura della retribuzione; —dal giudice, in caso di mancata determinazione collettiva o negoziale. In tale ipotesi, l’individuazione della retribuzione da parte del giudice svolge una funzione integratrice del contratto ai sensi dell’art. 1374 c.c. Infatti, il difetto di un elemento essenziale (qual è per l’appunto la retribuzione) non comporta la nullità del contratto, ma dà luogo ad una integrazione della lacuna esistente. 5 bis. Che cosa sono “i superminimi”? I superminimi costituiscono degli incrementi individuali (cd. assegni ad personam) o collettivi corrispondenti a quella parte di retribuzione che supera i minimi tariffari previsti dalla contrattazione. È una delle modalità con cui le parti del contratto individuale, ad esempio, possono modificare in melius la retribuzione normale minima. 6. Come viene tutelato il credito di lavoro? Riferimenti normativi: artt. 1224, 2751 bis c.c.; artt. 429, co. 3, 431 c.p.c. Tipologie: cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria; immediata esecutività delle sentenze di condanna; privilegio generale sui beni mobili in caso di insolvenza del datore. Domande consequenziali: cumulo tra interessi e rivalutazione e crediti dei lavoratori parasubordinati; soddisfazione dei crediti di lavoro in caso di insufficienza dei beni del datore insolvente. 120 Parte Ottava Articolazione della risposta Nel caso in cui il datore di lavoro ometta in tutto o in parte di corrispondere al lavoratore la retribuzione, sorge in capo a questi un diritto di credito nei confronti del primo, garantito da varie disposizioni di legge. Le principali modalità di tutela del credito lavorativo sono le seguenti: —il cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria previsto dall’art. 429, co. 3, c.p.c., in base al quale il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare d’ufficio, oltre agli interessi nella misura legale, anche il danno da svalutazione monetaria eventualmente subito dal lavoratore (calcolato secondo gli indici ISTAT), condannando il debitore al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto. Per ottenere la rivalutazione del credito il lavoratore non deve proporre alcuna domanda ma è lo stesso giudice che la dispone automaticamente, a differenza di quanto previsto per i crediti ordinari dall’art. 1224 c.c., secondo cui il creditore deve fare domanda del maggior danno e dimostrarne la sussistenza. In caso di ritardo del pagamento, quindi, la somma originaria dovuta al lavoratore va rivalutata e su tale somma rivalutata vanno calcolati gli interessi nella misura legale; —le sentenze di condanna per crediti di lavoro sono immediatamente esecutive, sin dal dispositivo della sentenza. Ciò significa che il lavoratore può iniziare l’esecuzione forzata nei confronti del datore di lavoro, che continui ad essere inadempiente nonostante la condanna, anche in pendenza del termine per il deposito della sentenza; —i crediti retributivi, in caso di insolvenza del datore, sono assistiti da privilegio generale sui beni mobili (art. 2751 bis, n. 1, c.c.). Essi, pertanto, devono essere soddisfatti prima degli altri crediti e sono posposti soltanto alle spese di giustizia. 6 bis. È possibile il cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria sui crediti dei lavoratori parasubordinati? Sì, è ammissibile. Secondo una pronuncia della Cassazione (4-4-2006, n. 7846), infatti, l’art. 429, co. 3, c.p.c. si applica anche ai cd. rapporti di parasubordinazione. La retribuzione 121 6 ter.Se il datore di lavoro non ha beni sufficienti su cui rivalersi, come viene soddisfatto il credito del lavoratore? Un problema del genere si pone nelle ipotesi in cui il datore di lavoro versi in stato di insolvenza a seguito di procedure concorsuali o l’esecuzione forzata sui beni abbia esito negativo perché inesistenti o insufficienti. In questi casi, per garantire la soddisfazione dei crediti del lavoratore, la L. 297/1982 ha istituito presso l’INPS un apposito Fondo di garanzia che si sostituisce al datore di lavoro nel pagamento del TFR e dei crediti retributivi relativi agli ultimi 3 mesi del rapporto di lavoro rientranti nei 12 mesi che precedono la dichiarazione di insolvenza. In caso di decesso del lavoratore, hanno diritto a chiedere la garanzia del fondo anche i familiari cui spetta, ai sensi dell’art. 2122 c.c., l’indennità sostitutiva del TFR, ovvero: il coniuge, i figli e, se vivevano a carico del lavoratore, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo. Parte Nona Il luogo della prestazione e l’organizzazione dell’orario di lavoro 1. Il datore di lavoro può trasferire il lavoratore da un’unità produttiva ad un’altra? Riferimenti normativi: art. 2103, co. 1, c.c.; artt. 15, 22 L. 300/1970 (St. lav.). Nozione: il trasferimento consiste in uno spostamento definitivo e senza limiti di tempo del lavoratore. Disciplina: il datore di lavoro può decidere unilateralmente di trasferire il lavoratore ma: — devono essere rispettati i limiti imposti dall’art. 2103, co. 1, c.c.; — sono vietati i trasferimenti attuati allo scopo di discriminare il lavoratore; — sussistono limiti specifici per determinati lavoratori. Domande consequenziali: differenza tra trasferimento e trasferta; funzione disciplinare del trasferimento. Articolazione della risposta Sì, il datore di lavoro, nell’esercizio dei propri poteri organizzativi e direttivi, durante il rapporto di lavoro può modificare il luogo della prestazione e trasferire il lavoratore da una sede ad un’altra. La fattispecie del trasferimento non è definita dal legislatore ma è individuata dalla giurisprudenza in uno spostamento definitivo (salvo successivi ulteriori trasferimenti) e senza limiti di tempo del lavoratore. Tale potere trova significativi limiti nell’art. 2103, co. 1, c.c. che subordina la facoltà di trasferimento del lavoratore da un’unità produttiva ad un’altra alla sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. In via generale, sono assolutamente vietati i trasferimenti attuati allo scopo di discriminare il lavoratore a causa della sua adesione ad attività sindacali ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero oppure per ragioni politiche, religiose, razziali, di lingua o di sesso (art. 15 L. 300/1970). Il luogo della prestazione e l’organizzazione dell’orario di lavoro 123 In determinati casi, poi, la legge prevede limiti specifici al potere del datore di trasferire il lavoratore in un’altra sede. Le ipotesi principali riguardano: —i dirigenti delle RSA o RSU, i candidati e i membri di commissioni interne, che possono essere trasferiti solo con il preventivo nulla osta delle organizzazioni sindacali (art. 22 L. 300/1970); —i lavoratori con handicap e coloro che li assistono, che non possono essere trasferiti in altra sede, senza il loro consenso (art. 33 L. 104/1992). 1 bis. Qual è la differenza tra trasferimento e trasferta? La trasferta (o missione), si distingue dal trasferimento in quanto consiste in un mutamento solo provvisorio e temporaneo del luogo di adempimento della prestazione del lavoratore subordinato. 1 ter.Il compimento di un’infrazione disciplinare da parte del lavoratore può giustificare il suo trasferimento? No. Il trasferimento, infatti, deve essere giustificato da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ciò significa che non assumono rilevanza i comportamenti soggettivi del prestatore, anche consistenti in infrazioni disciplinari, le quali, ai sensi dell’art. 7, co. 4, St. lav., non potrebbero mai dar luogo ad un trasferimento, essendo vietate le sanzioni che comportino mutamenti definitivi del rapporto. Il comportamento soggettivo del lavoratore potrebbe, tuttavia, dar luogo ad una sorta d’incompatibilità ambientale, la quale si configura come una ragione oggettiva e potrebbe giustificare il trasferimento, che però non assume la natura di un provvedimento disciplinare. 2. Qual è la funzione dell’orario di lavoro e quali sono le fonti normative in materia? Riferimenti normativi: art. 36 Cost.; D.Lgs. 66/2003. Nozione: evidenziare che l’orario di lavoro funge da base di calcolo della retribuzione e, allo stesso tempo, rappresenta un limite alla durata della prestazione posto a tutela della salute del prestatore. Elementi da evidenziare: sulla scorta dei nuovi orientamenti europei si è passati da un sistema rigido ad una regolamentazione più flessibile dell’orario di lavoro. Domande consequenziali: ruolo del contratto collettivo. 124 Parte Nona Articolazione della risposta L’orario di lavoro è un elemento fondamentale del contratto di lavoro in quanto serve a calcolare la retribuzione spettante al lavoratore, commisurata appunto al tempo di lavoro. Inoltre l’orario di lavoro ha storicamente costituito un limite alla durata giornaliera e settimanale della prestazione lavorativa, evitando in tal modo l’eccessivo logoramento delle energie psico-fisiche del lavoratore e proteggendo quindi il bene supremo della sua salute. La principale fonte normativa in materia di orario di lavoro è rappresentata dall’art. 36 della Costituzione che ha stabilito una riserva di legge per la durata massima della giornata lavorativa. Tuttavia, per molti anni, la disciplina dell’orario di lavoro è stata dettata da una legge del 1923 (R.D.L. 692/1923), che non essendo stata abrogata, ha continuato ad essere l’unica legge speciale in materia, alla quale riferire anche il rinvio operato dall’art. 2107 c.c. Ad abrogare sostanzialmente gli anacronistici limiti previsti dalla legge del 1923 è intervenuta la L. 197/1996, alla quale ha fatto seguito il D.Lgs. 66/2003 che ha fornito un assetto organico e definito all’intera materia dell’orario di lavoro. La nuova normativa si applica alla generalità dei lavoratori subordinati, compresi gli apprendisti maggiorenni, del settore pubblico e privato. Fanno eccezione, tra gli altri, i dirigenti e il personale direttivo, i lavoratori a domicilio, il personale di volo, i lavoratori mobili e il personale della scuola. La disciplina introdotta dal D.Lgs. 66/2003 si caratterizza per i marcati aspetti di flessibilizzazione della materia, organizzata attraverso il criterio della durata media dell’orario di lavoro, che si sostituisce all’imposizione dei limiti, giornalieri e settimanali, insuperabili, posti dalla normativa previgente, secondo il più tradizionale approccio della rigida tutela del lavoratore. Su tale disciplina è da ultimo intervenuta la L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato lavoro, che ha riformulato le sanzioni previste per la violazione delle norme sulla durata media dell’orario di lavoro, del riposo settimanale, del riposo giornaliero e su quelle riguardanti la fruizione delle ferie annuali. Il luogo della prestazione e l’organizzazione dell’orario di lavoro 125 2 bis.A chi spetta in concreto la determinazione dell’orario di lavoro per una certa categoria professionale? L’orario di lavoro è unilateralmente stabilito dal datore di lavoro nell’osservanza delle disposizioni di legge, ma ormai la materia è oggetto di contrattazione, a livello nazionale come pure aziendale. In pratica, è il contratto collettivo che contiene la disciplina dell’orario di lavoro effettivamente applicabile per una determinata categoria (ad es. commercio, metalmeccanici, turismo etc.) e in una specifica azienda (in caso di contratto collettivo aziendale). Inoltre il D.Lgs. 66/2003 accorda alla contrattazione collettiva la facoltà di introdurre rilevanti elementi di flessibilità nella gestione dell’orario di lavoro. 3. Che cosa si deve intendere per orario di lavoro? Riferimenti normativi: artt. 1, 3, D.Lgs. 66/2003. Nozione: qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni. Disciplina: l’orario normale di lavoro: — è fissato in 40 ore settimanali (regime regale); — i contratti collettivi possono stabilire una misura inferiore (regime contrattuale); — i contratti collettivi possono stabilire riferire l’orario normale ad una durata media (cd. orario articolato o multiperiodale). Domande consequenziali: tempo tuta; differenza tra orario normale e orario multiperiodale; limite massimo del lavoro settimanale. Articolazione della risposta Il D.Lgs. 66/2003 definisce orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni. Il concetto di partenza nella disciplina dell’orario di lavoro è quello dell’orario normale di lavoro che la legge fissa su base settimanale e individua in 40 ore settimanali (art. 3 D.Lgs. 66/2003). L’espressione “orario normale” è riferita alla durata ordinaria dell’attività lavorativa settimanale, in cui non sono comprese prestazioni di lavoro aggiuntive, effettuate oltre tale orario e classificate come lavoro supplementare o straordinario. 126 Parte Nona I contratti collettivi possono però stabilire: — di conservare la regola dell’orario normale, ma di ridurre la durata settimanale del lavoro portando ad esempio la settimana lavorativa a 38 o anche 36 ore articolandola su 5 giorni lavorativi (cd. settimana corta). Il regime è comunque quello “normale” per cui tale durata settimanale va osservata di settimana in settimana, per ogni singola settimana; —di passare dal regime dell’orario normale a quello dell’orario multiperiodale, stabilendo che la durata settimanale (40 ore o meno) non deve essere rispettata settimana per settimana, ma solo come media di un certo arco temporale (più settimane o più mesi) fino ad un anno al massimo, secondo le previsioni dello stesso contratto collettivo. Per cui se ad esempio il contratto collettivo prevede il regime multiperiodale di 40 ore settimanali scegliendo come periodo di riferimento il quadrimestre, l’orario di lavoro può essere di 42 ore per settimana per i primi 2 mesi e di 38 ore per i restanti 2 mesi (la media sarà comunque 40 ore nel totale dei 4 mesi). 3 bis. Che cos’è il cd. tempo tuta? S’intende con tale espressione il tempo occorrente al lavoratore per indossare l’abbigliamento necessario allo svolgimento dell’attività lavorativa (tute, divise da lavoro etc.). Tale operazione deve essere svolta al di fuori dell’orario di lavoro in quanto la legge considera «orario di lavoro» solo quello durante il quale il lavoratore è nell’esercizio della sua attività (concetto di lavoro effettivo). Il tempo tuta non vale come prestazione di lavoro per la quale compete la retribuzione, ma è considerato come mera attività propedeutica all’esecuzione dell’attività lavorativa, così come il recarsi sul luogo di lavoro o la timbratura del cartellino (art. 8, co. 3, D.Lgs. 66/2003). La giurisprudenza ha però stabilito che nel caso in cui il datore di lavoro detti indicazioni specifiche sul tempo e il luogo per indossare e togliere l’abbigliamento necessario allo svolgimento dell’attività lavorativa deve retribuire il tempo impiegato per effettuare tali operazioni che rientrano nel lavoro effettivo (Cass. 22-7-2008, n. 20179). 3 ter. Qual è la differenza tra l’orario normale settimanale e l’orario multiperiodale? L’orario normale di lavoro, 40 ore stabilite dalla legge, è un orario rigido che deve essere osservato in ciascuna settimana. Questa durata setti- Il luogo della prestazione e l’organizzazione dell’orario di lavoro 127 manale del lavoro è definita normale perché tutte le ore di lavoro richieste ed effettuate oltre tale orario saranno classificate come lavoro straordinario (regime legale). L’orario normale di lavoro settimanale può essere stabilito dal contratto collettivo in misura inferiore rispetto alla durata legale, ad esempio introducendo la settimana lavorativa di 36 o 38 ore (regime contrattuale). Le ore di lavoro effettuate in più saranno considerate lavoro supplementare (fino al limite legale di 40 ore) o straordinario (oltre le 40 ore). L’orario multiperiodale, che può essere fissato dal contratto collettivo, è un orario flessibile in quanto l’orario normale (40 ore settimanali o meno, a seconda del regime legale o contrattuale) deve essere osservato come media in un certo periodo di riferimento previsto dallo stesso contratto. Ad esempio, se il periodo di riferimento è di 4 settimane e l’orario settimanale è di 36 ore, il datore di lavoro potrà articolare l’orario nel modo seguente: 1° settimana 42 ore; 2° settimana 44 ore; 3° settimana 28 ore; 4° settimana 30 ore. La media del periodo sarà, infatti, di 36 ore. In tale ipotesi, le ore eccedenti l’orario normale (nelle prime due settimane si lavora oltre le 36 ore) non valgono come lavoro straordinario né ai fini retributivi, né amministrativi. Se però si verificano ore lavorate in più rispetto all’orario programmato settimanale sono considerate come lavoro straordinario. 3 quater.Qual è il limite massimo settimanale della prestazione lavorativa, compreso lo straordinario? Il D.Lgs. 66/2003 prevede un limite alla durata della prestazione lavorativa settimanale a garanzia della salute del lavoratore, concependo tuttavia tale limite in modo flessibile. Il decreto stabilisce, infatti, che la durata massima settimanale del lavoro, comprendendo sia il lavoro ordinario o normale sia quello straordinario, non può superare le 48 ore per ogni periodo di 7 giorni. Questo limite massimo settimanale deve essere osservato non rigidamente in ciascuna settimana, ma come media in un periodo non superiore a 4 mesi (elevabile a 6 e fino a 12 mesi a fronte di ragioni obiettive, tecniche o organizzative) o diverso periodo specificato dal contratto collettivo. In concreto, quindi, il limite di 48 ore settimanali può essere superato in un sistema di compensazione che ne consenta l’osservanza nel periodo, più ampio della settimana, fissato dal CCNL. 128 Parte Nona 4. Qual è la durata massima della giornata lavorativa? Riferimenti normativi: art. 7 D.Lgs. 66/2003; art. 36, co. 2, Cost. Nozione: la durata massima della giornata lavorativa deve ritenersi pari a 13 ore; evidenziare che tale limite si ricava implicitamente dalla disposizione che fissa il riposo giornaliero di 11 ore. Disciplina: si tratta di un periodo minimo; eventuali pattuizioni contrarie sono nulle; deve essere fruito in modo consecutivo anche se eventuali deroghe sono previste dal legislatore. Domande consequenziali: pause giornaliere. Articolazione della risposta Sebbene manchi una previsione legislativa espressa in tal senso, il limite massimo di durata giornaliera del lavoro può però desumersi indirettamente dalla disposizione (art. 7 D.Lgs. 66/2003) che sancisce il diritto per il lavoratore ad osservare un periodo di riposo di 11 ore ogni 24 ore (cd. riposo giornaliero). In considerazione dell’esistenza di tale diritto, posto a tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, ed in conformità alla Costituzione (art. 36, co. 2), la durata massima della giornata lavorativa deve ritenersi pari a 13 ore. Il periodo di riposo di 11 ore è un periodo minimo, e quindi l’eventuale accordo che diminuisca tale periodo è nullo e sostituito di diritto dalla disposizione normativa. Inoltre il riposo di 11 ore deve essere fruito in modo consecutivo, ad eccezione che per i lavoratori adibiti ad attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata e per le attività caratterizzate da un regime di reperibilità (ex D.L. 112/2008, conv. in L. 133/2008). 4 bis.Il lavoratore ha diritto a fare delle pause durante l’orario di lavoro? Sì, qualora l’orario giornaliero ecceda il limite di 6 ore, i lavoratori hanno diritto a fare delle pause ai fini del recupero delle energie psicofisiche, di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo e, eventualmente, per la consumazione del pasto. La pausa tutela il bene primario della salute del lavoratore e rappresenta un suo diritto-dovere ed infatti è irrinunciabile. Il luogo della prestazione e l’organizzazione dell’orario di lavoro 129 La durata della pausa giornaliera è determinata dalla contrattazione collettiva (nazionale, provinciale, aziendale) nell’osservanza di un minimo di 10 minuti compresi tra l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro. La pausa giornaliera non è computata nell’orario di lavoro. 5. Che cos’è il lavoro straordinario? Riferimenti normativi: artt. 1 e 5 D.Lgs. 66/2003. Definizione: è il lavoro prestato oltre la quarantesima ora settimanale. Elementi da evidenziare: sottolineare che il lavoro straordinario deve essere calcolato a parte e compensato con maggiorazioni retributive o con riposi. Disciplina: la contrattazione collettiva deve disporre la disciplina specifica del lavoro straordinario; in mancanza il lavoro straordinario è legittimo se conforme ai requisiti legali. Domande consequenziali: lavoro supplementare; sanzionabilità del datore di lavoro. Articolazione della risposta Il lavoro straordinario è il lavoro prestato oltre l’orario normale di lavoro, cioè oltre la quarantesima ora. Per la maggiore fatica che esso comporta, il lavoro straordinario deve essere computato a parte e compensato con le maggiorazioni retributive previste dai contratti collettivi di lavoro oppure, in alternativa o in aggiunta a dette maggiorazioni, con riposi compensativi. La contrattazione collettiva deve disporre la disciplina specifica del lavoro straordinario, nell’osservanza dell’unico limite di portata generale stabilito dal D.Lgs. 66/2003, quello per cui «il ricorso a prestazioni di lavoro straordinario deve essere contenuto». Se mancano previsioni da parte del contratto collettivo, il ricorso al lavoro straordinario è legittimo soltanto sulla base dei seguenti requisiti legali: —previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore; —per un periodo che non superi le 250 ore annuali. 130 Parte Nona Il lavoro straordinario è inoltre sempre ammesso, in caso di (a meno che il contratto collettivo preveda il contrario): —eccezionali esigenze tecnico-produttive e di impossibilità di fronteggiarle attraverso l’assunzione di altri lavoratori; —forza maggiore o casi in cui la mancata esecuzione di prestazioni di lavoro straordinario possa dare luogo a un pericolo grave e immediato ovvero a un danno alle persone o alla produzione; —eventi particolari, come mostre, fiere e manifestazioni collegate all’attività produttiva, preventivamente comunicati ai competenti servizi ispettivi del lavoro e in tempo utile alle rappresentanze sindacali. 5 bis.In quale ipotesi si configura il lavoro supplementare? Se il contratto collettivo prevede una durata settimanale del lavoro inferiore alla durata legale (meno di 40 ore settimanali), le ore lavorate in più rispetto all’orario contrattuale e fino al limite legale non costituiscono lavoro straordinario, ma lavoro supplementare. Di conseguenza, esse non fanno scattare in capo al datore di lavoro gli oneri ed i limiti derivanti dal lavoro straordinario. Ad esempio: se il contratto collettivo stabilisce l’orario settimanale in 37 ore, è lavoro supplementare quello oltre la trentasettesima ora e fino alla quarantesima ora settimanale, mentre è straordinario il lavoro prestato oltre la quarantesima ora settimanale. 5 ter. Può essere sanzionato il datore di lavoro che fa superare il limite del lavoro straordinario fissato dal contratto collettivo? Sì, ma solo se il limite previsto dal CCNL, e da lui oltrepassato, è superiore al limite legale delle 250 ore annuali, e sempre che il superamento del limite così individuato non sia dovuto ad eventi eccezionali, particolari o a forza maggiore. 6. Come è disciplinato dalla legge il diritto del lavoratore alle ferie annuali? Riferimenti normativi: art. 36 Cost.; art. 2109 c.c. Nozione: periodo di riposo annuale posto a tutela della salute del lavoratore. Disciplina: è un diritto irrinunciabile; possibilmente fruito in maniera continuativa. Il luogo della prestazione e l’organizzazione dell’orario di lavoro 131 Domande consequenziali: periodo minimo di ferie annuali; fruizione delle ferie; sostituzione delle ferie con un’indennità economica; sospensione delle ferie per sopravvenuta malattia. Articolazione della risposta L’istituto delle ferie è previsto dall’art. 36 della Costituzione che sancisce il diritto del lavoratore a fruire di ferie annuali retribuite. La previsione di un periodo di riposo annuale, con conseguente sottrazione al lavoro è diretta a tutelare interessi superiori, quali la salute del lavoratore consentendogli di recuperare le energie psicofisiche usurate dal lavoro nonché di partecipare più incisivamente alla vita familiare e sociale. Per l’importanza della funzione svolta, il diritto alle ferie annuali è irrinunciabile ed ogni accordo che dispone in senso contrario è radicalmente nullo. Il periodo di riposo annuale deve essere inoltre: —congruo, cioè avere durata adeguata; —possibilmente fruito in maniera continuativa (criterio specificato anche nell’art. 2109 c.c.); —retribuito; —effettivo, cioè le giornate di riposo devono essere godute concretamente dal lavoratore. Il diritto al riposo annuale spetta a tutti i lavoratori subordinati indipendentemente dalla tipologia contrattuale e dalla qualifica rivestita e qualunque sia l’anzianità di servizio. 6 bis. Qual è il periodo minimo di ferie a cui ha diritto il lavoratore in un anno? Il D.Lgs. 66/2003 quantifica direttamente il periodo minimo feriale, stabilendo che il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a 4 settimane. La contrattazione collettiva ha però facoltà di derogare in senso più favorevole, prevedendo cioè periodi più lunghi di riposo annuale. Il diritto al periodo di ferie stabilito dalla legge o dal contratto collettivo si matura in base ai giorni lavorati in un periodo di 12 mesi, generalmente corrispondenti all’anno solare, per cui in caso di assunzione infrannuale il 132 Parte Nona lavoratore avrà diritto ad un numero di giorni di ferie proporzionali ai giorni di lavoro da effettuare. In pratica, ogni mese il lavoratore matura una parte del periodo feriale, pari ad 1/12 del periodo stesso. 6 ter.Il lavoratore può usufruire, nel corso dell’anno di maturazione, di un periodo di ferie inferiore a quello minimo di 4 settimane riconosciuto dalla legge? Sì, la legge, infatti, impone il godimento di almeno 2 settimane del periodo di ferie nel corso dell’anno di maturazione. Le restanti due settimane di ferie spettanti possono essere godute dal lavoratore nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione. Se poi il contratto collettivo o individuale prevede un periodo feriale più lungo di quello legale (quattro settimane), i giorni di ferie (o settimane) in più possono essere fruiti anche oltre i 18 mesi successivi alla maturazione, nel rispetto di quanto convenuto contrattualmente. 6 quater.Il godimento delle ferie può essere sostituito con un’indennità economica? No. Il D.Lgs. 66/2003 ha introdotto il divieto di monetizzazione delle ferie: in pratica, non è ammissibile che il lavoratore rinunci a fruire delle stesse ottenendo in cambio il controvalore della giornata lavorativa a titolo di maggiorazione. Vi sono dei casi però in cui la monetizzazione è legittima, ed in particolare: —nei contratti a tempo determinato di durata inferiore all’anno, in quanto in tali rapporti di lavoro il godimento delle ferie può non essere effettivamente fruito, in tutto o in parte, mediante giorni di riposo ma può essere sostituito dalla relativa indennità; —nel caso di cessazione del rapporto di lavoro nel corso dell’anno; —per i giorni di ferie in più previsti dal contratto collettivo rispetto al periodo minimo legale di 4 settimane. Il luogo della prestazione e l’organizzazione dell’orario di lavoro 133 6 quinquies.La malattia del lavoratore sospende le ferie? Sì. La giurisprudenza (Corte Cost. 616/1987; Cass. 23-2-1998, n. 1947) ha riconosciuto il diritto alla sospensione del decorso delle ferie per malattia intervenuta durante il godimento delle stesse, quando sussiste una specifica incompatibilità della malattia con l’essenziale funzione di riposo e recupero delle energie psicofisiche del lavoratore. Inoltre, la conversione dell’assenza per ferie in assenza per malattia opera soltanto a seguito della comunicazione dello stato di malattia al datore di lavoro, e sempre che quest’ultimo non ne provi l’infondatezza allegando la compatibilità della malattia con il godimento delle ferie (Cass. sez. lav. 6-4-2006, n. 8016). 7. Che cos’è il lavoro notturno? Riferimenti normativi: artt. 11-15 D.Lgs. 66/2003; art. 2108 c.c. Nozione: periodo di almeno 7 ore consecutive comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le ore 5 del mattino. Domande consequenziali: obbligo del lavoratore di prestare lavoro anche di notte; limiti del lavoro notturno; tutela della salute dei lavoratori notturni. Articolazione della risposta Il lavoro notturno, frequentemente utilizzato nelle grandi imprese dove vi sia un ciclo di lavorazione continua, è una tipologia di lavoro che comporta un maggiore affaticamento psicofisico, e sacrifici alla vita affettiva, familiare e di relazione del lavoratore. Il legislatore è intervenuto a disciplinare tale fattispecie inizialmente per gli aspetti puramente economici stabilendo con l’art. 2108, co. 2, c.c. che il lavoro notturno, non compreso in regolari turni periodici, deve essere retribuito con una maggiorazione rispetto al lavoro diurno. La disciplina organica del lavoro notturno è contenuta nel D.Lgs. 66/2003, il quale stabilisce i criteri per individuare quando e in favore di chi debba essere applicata: non tutti i lavoratori che prestano la propria attività nelle ore notturne, infatti, devono essere considerati lavoratori notturni. Pertanto: —si ha lavoro notturno quando l’attività è svolta nel corso di un periodo di almeno 7 ore consecutive comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le ore 5 del mattino; 134 Parte Nona —è lavoratore notturno il lavoratore che durante il periodo notturno svolga, in via non eccezionale, almeno 3 ore del suo orario di lavoro giornaliero o una parte del suo orario di lavoro secondo la previsione del contratto collettivo. Per l’ipotesi in cui manchino previsioni da parte del contratto collettivo, il D.Lgs. 66/2003 (come modif. dal D.L. 112/2008, conv. in L. 133/2008), dispone un criterio legale per individuare il lavoratore notturno: deve essere considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga per almeno 3 ore lavoro notturno per un minimo di 80 giorni lavorativi all’anno. 7 bis.Il lavoratore è obbligato a prestare lavoro notturno se il suo datore lo richiede? Sì, a meno che non sia accertata dal medico competente o dalle strutture sanitarie pubbliche la non idoneità del lavoratore alla prestazione di lavoro notturno. Per alcune categorie di soggetti, invece, quali le donne in gravidanza e fino ad un anno di vita del bambino e i fanciulli e adolescenti, è stabilito un divieto di assegnazione al lavoro notturno. Altri lavoratori non sono obbligati a prestarlo e precisamente: —la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a 3 anni o, in alternativa, il padre convivente con la stessa; —la lavoratrice o il lavoratore che sia l’unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a 12 anni; —la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile. 7 ter.A quali limiti è soggetto il lavoro notturno? Il lavoro notturno è soggetto ad una serie di limiti, in quanto, alterando i ritmi biologici di vita del prestatore, risulta più dannoso e faticoso non solo del lavoro diurno ma anche del lavoro straordinario. Pertanto, è previsto che: —l’orario dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore su 24 ore, calcolato come media nell’arco di un periodo (ad es. una settimana o un mese) stabilito dai contratti collettivi: tale limite non riguarda solo Il luogo della prestazione e l’organizzazione dell’orario di lavoro 135 la prestazione lavorativa resa in periodo notturno, ma l’orario generale che devono osservare i lavoratori notturni; —l’introduzione del lavoro notturno deve avvenire previa consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, delle organizzazioni territoriali dei lavoratori, effettuata e conclusa entro sette giorni; —la contrattazione collettiva stabilisce la riduzione dell’orario di lavoro normale nei confronti dei lavoratori notturni e/o una maggiorazione retributiva. 7 quater.Quali forme di tutela della salute dei lavoratori notturni sono previste dalla legge? È principio generale stabilito dalla legge che lo svolgimento di prestazioni di lavoro notturno non può avvenire in danno della salute e dell’integrità psicofisica del lavoratore. Pertanto, è obbligo del datore accertare lo stato di salute dei lavoratori addetti al lavoro notturno attraverso controlli preventivi e periodici, almeno ogni 2 anni, adeguati al rischio cui il lavoratore è esposto, secondo le disposizioni previste dalla legge e dai contratti collettivi. Nel caso di sopravvenuta inidoneità alla prestazione di lavoro notturno, accertata dal medico competente o dalle strutture sanitarie pubbliche, il D.Lgs. 66/2003 prevede che il lavoratore venga assegnato al lavoro diurno, in altre mansioni equivalenti, se esistenti e disponibili. 8. Che cosa sono i permessi e i congedi e quali sono le principali ipotesi previste dalla legge? Riferimenti normativi: artt. 10, 23, 24, 30, 31, 32 L. 300/1970 (St. lav.); L. 53/2000. Nozione: si tratta di soste nell’attività lavorativa previste dal legislatore per consentire al lavoratore l’espletamento di impegni di carattere civile e personale. Disciplina: sono previsti dalla legge e regolamentati in concreto dalla contrattazione collettiva. Tipologie: elencare le diverse ipotesi distinguendo tra permessi retribuiti e non retribuiti. Domande consequenziali: delega prevista dalla L. 183/2010, cd. collegato lavoro. 136 Parte Nona Articolazione della risposta I congedi o permessi sono delle soste nell’attività lavorativa subordinata previste dal legislatore per consentire al lavoratore l’espletamento di impegni di carattere civile e personale. Queste soste devono essere contemplate a livello legislativo ma sono concretamente regolate dalla contrattazione collettiva, la quale può prevedere anche trattamenti più favorevoli, come, ad esempio, un periodo di assenza più lungo o un ampliamento delle possibilità di avvalersi dei permessi e dei congedi stabiliti dalla legge. Possiamo distinguere due gruppi di permessi e congedi. Il primo è quello dei permessi e congedi retribuiti che riguardano: —i donatori di sangue, i quali hanno diritto di astenersi dal lavoro nel giorno del prelievo; —i lavoratori-studenti, oltre a particolari agevolazioni nei turni di lavoro e sul lavoro straordinario, hanno diritto a permessi giornalieri per sostenere prove di esame presso ogni ordine e grado di scuole (art. 10 St. lav.), mentre i lavoratori in genere hanno la possibilità di utilizzare 150 ore di permesso annuale per formazione; —i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto a permessi (art. 23 St. lav.) in misura proporzionata alle dimensioni dell’azienda; a permessi analoghi nella misura prevista dai contratti collettivi hanno diritto (art. 30 St. lav.) i dirigenti sindacali provinciali e nazionali; —il lavoratore che contragga matrimonio ha diritto ad un periodo di congedo generalmente pari a 15 giorni; —tutti i lavoratori possono fruire di speciali permessi per 3 giorni lavorativi all’anno in caso di eventi particolari quali, ad esempio, il decesso o la grave malattia del coniuge o convivente o di un parente. Il secondo gruppo è quello dei permessi e congedi non retribuiti, i più importanti dei quali concernono: —i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali che hanno diritto, oltre ai permessi retribuiti previsti dall’art. 23 St. lav., a non meno di 8 giorni annui di permesso non retribuito per convegni, congressi e iniziative sindacali in genere (art. 24 St. lav.); —i lavoratori eletti a ricoprire cariche pubbliche (Parlamento nazionale o europeo, assemblee regionali etc.) o sindacali nazionali o provin- Il luogo della prestazione e l’organizzazione dell’orario di lavoro 137 ciali, hanno diritto ad un periodo di aspettativa non retribuita pari alla durata del mandato; —per adempiere a doveri civici (ad esempio, votazioni, comparizioni in giudizio come parte o come teste); —tutti i lavoratori hanno diritto a un periodo di congedo non retribuito per gravi e documentati motivi familiari, per la durata massima di 2 anni in tutta la vita lavorativa, fruibile in modo continuativo o frazionato; —i lavoratori con anzianità di servizio di almeno 5 anni che hanno diritto, salvo comprovate esigenze aziendali, ad uno speciale congedo non retribuito di 11 mesi, continuativi o frazionati, per conseguire titoli di studio o partecipare ad attività formative. 8 bis. Cosa prevede in generale la L. 183/2010 in materia di congedi? La L. 183/2010, cd. collegato lavoro (art. 3) ha delegato il Governo a riordinare la disciplina esistente in materia di congedi, aspettative e permessi, fruibili dai lavoratori dipendenti pubblici e privati. In particolare, è previsto il riordino delle tipologie di permessi, tenuto conto del loro contenuto e della loro diretta correlazione a posizioni giuridiche costituzionalmente tutelate oltre che il coordinamento formale e sostanziale delle disposizioni vigenti in materia. Gli altri principi e i criteri della delega sono: — indicazione esplicita delle norme abrogate, fatta salva l’applicazione dell’articolo 15 delle disposizioni sulla legge in generale premesse al codice civile; — ridefinizione dei presupposti oggettivi e precisazione dei requisiti soggettivi, nonché razionalizzazione e semplificazione dei criteri e delle modalità per la fruizione dei congedi, delle aspettative e dei permessi, al fine di garantire l’applicazione certa ed uniforme della relativa disciplina; — razionalizzazione e semplificazione dei documenti da presentare, con particolare riferimento alle persone con handicap in situazione di gravità ai sensi dell’art. 3, co. 3, L. 104/1992, o affette da patologie di tipo neuro-degenerativo o oncologico. 138 Parte Nona 9. A seguito della L. 183/2010, come sono disciplinati i congedi a tutela delle persone disabili? Disciplina: la L. 104/1992 prevede una serie di permessi, 2 ore di permesso giornaliero retribuito o in alternativa 3 giorni di permesso mensile, ai: — lavoratori disabili; — familiari, lavoratori dipendenti che assistono un disabile. Elementi da evidenziare: la L. 183/2010 ha eliminato il requisito della convivenza e ha ristretto il novero dei familiari aventi diritto ai permessi (fino al secondo grado di parentela). Domande consequenziali: congedi e permessi che competono ai genitori di figli disabili. La L. 104/1992 (art. 33), nell’ambito di misure a tutela dei soggetti di­sabili, riconosce una serie di permessi a favore dei lavoratori disabili, dei familiari e a favore dei lavoratori dipendenti che assistono un disabile. Tale disciplina è stata modificata dalla L. 183/2010, cd. collegato lavoro, che definisce con maggior rigore i criteri per usufruire di tali permessi. I lavoratori handicappati in situazione di gravità hanno diritto a 2 ore di permesso giornaliero retribuito o, in alternativa, a 3 giorni di permesso mensile, retribuiti e fruibili anche in maniera continuativa. I 3 giorni di permesso mensile sono riconosciuti anche ai familiari, la­ voratori dipendenti, che assistono un disabile in condizione di gravità che non sia ricoverato a tempo pieno, e in particolare a seguito della L. 183/2010, essi competono al coniuge, ai parenti o affini entro il secondo grado anche se non sono conviventi. Anche i parenti e gli affini entro il terzo grado (prima contemplati tra gli aventi diritto senza alcuna condizione) beneficiano dei permessi ma solo se i genitori o il coniuge della persona con handicap da assistere abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti, o siano deceduti o mancanti. 9 bis. Quali permessi competono ai genitori di bambini con handicap? Il diritto ad usufruire dei 3 giorni di permesso mensile è riconosciuto ad entrambi i genitori di figlio con handicap in situazione di gravità, anche Il luogo della prestazione e l’organizzazione dell’orario di lavoro 139 adottivi, che possono fruirne alternativamente (art. 33, co. 3, L. 104/1992 come sostituito dall’art. 24, co. 1, lett. a, L. 183/2010). Detta possibilità riguarda anche i genitori di un minore di tre anni in situazione di disabilità grave quale alternativa alle altre prerogative previste dal D.Lgs. 151/2001 (prolungamento del congedo parentale o 2 ore di permesso al giorno). Parte Decima La tutela della salute e della sicurezza del lavoratore nei luoghi di lavoro 1. Quali sono le più importanti fonti normative in materia di salute e sicurezza del lavoratore nei luoghi di lavoro? Riferimenti normativi: artt. 32, 35, 41 Cost.; art. 2087 c.c.; D.Lgs. 81/2008. Evoluzione legislativa: evidenziare il rilievo dato dalla carta costituzionale alla salute e sicurezza del lavoratore e il passaggio nella normazione positiva da un sistema di sicurezza tecnologica ad un sistema di sicurezza globale. Disciplina: chiarire che il testo normativo di riferimento in materia di sicurezza è il D.Lgs. 81/2008 che costituisce il T.U. in materia di igiene e sicurezza del lavoro. Elementi da evidenziare: evidenziare che il D.Lgs. 81/2008 coordina le disposizioni preesistenti abrogando quelle con esso incompatibili compreso il D.Lgs. 626/1994 che per anni ha costituito la fonte normativa principale in tema di sicurezza. Domande consequenziali: rilievo dell’art. 2087 c.c.; principali novità del D.Lgs. 81/2008. Articolazione della risposta Il dovere del datore di lavoro di assicurare condizioni di lavoro che non siano lesive della salute del lavoratore deriva, in primo luogo, dall’art. 32 Cost., che qualifica la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e dall’art. 41, co. 2, Cost., il quale stabilisce che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. A queste disposizioni della Carta fondamentale se ne deve aggiungere un’altra, e cioè quella di cui all’art. 35 Cost., che sancisce una generale tutela del lavoro. Un’ulteriore fonte in materia di sicurezza sul lavoro è l’art. 2087 c.c., che fa obbligo al datore di lavoro di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. La tutela della salute e della sicurezza del lavoratore nei luoghi di lavoro 141 La previsione dell’art. 2087 c.c. ha trovato svolgimento sin dagli anni ’50 attraverso una articolata e minuziosa normativa di carattere regolamentare (in particolare, d.p.r. 547/1955 e d.p.r. 303/1956), finalizzata al raggiungimento della massima sicurezza tecnologia, ovvero alla predisposizione di misure e rimedi preventivi che per determinate lavorazioni e pericolosità dell’ambiente di lavoro assicurano l’incolumità dei lavoratori. Solo con il recepimento delle direttive comunitarie, come la direttiva-quadro n. 89/391/CEE, si passa ad un sistema di sicurezza globale in cui ha rilievo anche il fattore umano e non solo la mera osservanza delle precauzioni tecnologiche imposte dalla norma. Le direttive sono state recepite nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 626/1994, che ha provveduto a coordinare la normativa in materia di sicurezza del lavoro, rendendo più specifica e incisiva la previsione dell’art. 2087 c.c. alla luce della previsione di un sistema generale di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro. Con la L. 123/2007 è stata poi approvata la delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia di igiene e sicurezza del lavoro. In attuazione della L. 123/2007, è stato emanato il D.Lgs. 81/2008 che opera un massiccio riordino della normativa in materia di igiene e sicurezza del lavoro, nell’obiettivo di semplificare, coordinare e razionalizzare le disposizioni esistenti in un unico testo normativo, abrogando le norme incompatibili, dai D.P.R. 547/1955, D.P.R. 164/1956 e D.P.R. 303/1956 fino al D.Lgs. 277/1991 e al D.Lgs. 626/1994. La nuova normativa contenuta nel Testo Unico, che consta di ben 306 articoli e numerosi allegati, è stata elaborata nel pieno rispetto della filosofia delle direttive comunitarie in materia e del D.Lgs. 626/1994, il quale trova i suoi capisaldi nella programmazione della sicurezza in azienda, da realizzare tramite la partecipazione di tutti i soggetti delle comunità di lavoro. 1 bis. Quale rilievo assume la norma dell’art. 2087 c.c. nel sistema delle fonti in materia di sicurezza sul lavoro? L’importanza di questa norma, di natura prettamente pubblicistica, sta nella estrema elasticità della previsione che ne fa, come ha precisato la Cassazione (sent. 6-9-1988, n. 5048), una norma di chiusura del sistema di sicurezza volta a ricomprendere ipotesi e situazioni non espressamente pre- 142 Parte Decima viste ed avente la funzione di adeguamento permanente dell’ordinamento alla sottostante realtà socio-economica. Con l’art. 2087 c.c. viene così sancito, secondo la migliore dottrina (NICOLINI, BIANCHI, D’URSO), il cd. debito di sicurezza, non circoscritto solo alla osservanza delle precauzioni imposte da disposizioni legislative o regolamentari, ma comprensivo anche di tutte le misure realmente necessarie per conseguire pienamente le finalità protettive, di cui il datore sia a conoscenza in base all’esperienza e di cui ci sia disponibilità in base allo sviluppo della scienza e della tecnologia. 1 ter. Quali sono le principali novità introdotte nell’applicazione della prevenzione dal T.U. della sicurezza sul lavoro? Le novità più importanti previste dal D.Lgs. 81/2008, anche alla luce delle modifiche operate dal D.Lgs. 106/2009, riguardano: —l’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro a tutti i settori di attività e a tutte le tipologie di rischio, tenendo conto delle peculiarità di determinati rischi o settori lavorativi; —l’applicazione delle disposizioni di tutela della salute e sicurezza sul lavoro a tutti i lavoratori e lavoratrici, sia autonomi che subordinati, nonché ai soggetti ad essi equiparati quali, ad esempio, collaboratori, lavoratori a progetto e prestatori d’opera; —l’ampliamento dei rischi soggetti a valutazione da parte del datore di lavoro; —l’individuazione degli obblighi in capo a committenti ed agli altri datori di lavoro in caso di appalto, o contratto d’opera o di somministrazione, e obbligo di elaborare in tal caso un documento unico di valutazione dei rischi da interferenza delle lavorazioni. Resta comunque fermo il principio in base al quale il datore di lavoro non può rispondere dei rischi propri dell’impresa appaltatrice o del singolo lavoratore autonomo; —la riformulazione e razionalizzazione dell’apparato sanzionatorio, amministrativo e penale, per le violazioni in materia; —l’istituzione di un unico e condiviso sistema informativo nazionale (SINP) dei dati sugli infortuni sul lavoro, al quale possono accedere anche le parti sociali; —la previsione di un sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi, con riferimento alla tutela della salute e sicurezza sul La tutela della salute e della sicurezza del lavoratore nei luoghi di lavoro 143 lavoro: in pratica, il possesso di requisiti di esperienza, competenza e conoscenza per ottenere la qualificazione costituisce elemento vincolante per la partecipazione a gare di appalti e subappalti pubblici e per l’accesso ad agevolazioni, finanziamenti e contributi correlati ai medesimi appalti e subappalti; —la promozione della cultura della prevenzione, mediante interventi attuati con il supporto finanziario pubblico: tra i vari interventi, si prevede anche l’introduzione della materia della salute e sicurezza sul lavoro all’interno dell’attività scolastica ed universitaria; —la razionalizzazione e il coordinamento delle strutture centrali e territoriali di vigilanza. 2. Come deve essere attuata la prevenzione? Nozione: definire la prevenzione come il complesso delle misure che mirano a cautelare dagli infortuni e ad evitarli. Disciplina: evidenziare che la prevenzione si fonda sull’analisi dei rischi e sulla predisposizione delle misure per prevenirli; concretamente essa si attua quindi mediante: — la predisposizione del documento di valutazione dei rischi; — l’adozione delle misure generali di tutela. Domande consequenziali: delega a terzi della valutazione dei rischi; sanzioni per omessa valutazione dei rischi. Articolazione della risposta La prevenzione nel campo della sicurezza del lavoro consiste nell’azione o nella serie di azioni che mirano a cautelare dagli infortuni e ad evitarli. Nel D.Lgs. 81/2008 il legislatore individua una specifica nozione di prevenzione che viene definita, conformemente a quanto contenuto nella direttiva comunitaria recepita (dir. 89/391/CEE), come il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno. La prevenzione si articola quindi nei due momenti della analisi dei rischi e della predisposizione delle misure per prevenirli. 144 Parte Decima Alla prevenzione è attribuita massima valenza nella nuova cultura della sicurezza sul lavoro: essa è intesa, infatti, come un processo continuativo, cui deve essere informata l’intera attività aziendale, finalizzato ad agire sulla fonte del rischio eliminando o riducendo, in tal modo, la probabilità che si verifichino eventi dannosi. La concreta attuazione della prevenzione avviene mediante l’adozione delle misure generali di tutela del sistema di sicurezza aziendale, elencate nell’art. 15 del D.Lgs. 81/2008, e delle misure di sicurezza previste dallo stesso Decreto per specifici rischi ovvero settori di attività (come, ad esempio, movimentazione manuale dei carichi, videoterminali, agenti fisici, biologici e cancerogeni). Tra le misure indicate dal D.Lgs. 81/2008, la valutazione dei rischi costituisce adempimento di assoluta centralità per garantire l’effettività delle tutele in ogni ambiente di lavoro. Essa deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, alle lavoratrici in stato di gravidanza, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi. Gli esiti della valutazione dei rischi devono essere formalizzati nel documento di valutazione dei rischi, contenente non solo l’analisi valutativa dei rischi, ma anche l’indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate. All’adozione delle misure generali di tutela e di quelle speciali sono tenuti il datore di lavoro, i dirigenti e i preposti, nei limiti delle rispettive attribuzioni e competenze. 2 bis.Il datore di lavoro può delegare un suo dirigente o preposto al compimento della valutazione dei rischi? No, la valutazione dei rischi non può essere delegata a terzi. L’art. 17 del D.Lgs. 81/2008 prevede, infatti, che per l’importanza e l’intima correlazione con le scelte aziendali di fondo che sono e rimangono attribuite al potere-dovere del datore di lavoro non sono delegabili: —l’attività di valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza al fine della redazione del documento di valutazione dei rischi; —la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (Rspp). La tutela della salute e della sicurezza del lavoratore nei luoghi di lavoro 145 3. Come si individua la figura di datore cui compete la massima responsabilità in materia di sicurezza? Riferimento normativo: art. 2, lett. b, D.Lgs. 81/2008. Nozione: individuare il datore di lavoro come il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore e che in quanto investito del potere decisionale ha la responsabilità dell’impresa. Disciplina: evidenziare che l’elemento fondante la responsabilità è l’esercizio di fatto dei poteri direttivi. Domande consequenziali: responsabilità del datore per l’infortunio dovuto a colpa del lavoratore. Articolazione della risposta È il datore di lavoro il soggetto responsabile su cui ricade l’obbligo giuridico di tutelare l’integrità psicofisica dei dipendenti, mediante l’adozione ed il mantenimento in efficienza dei presidi antinfortunistici atti a preservare i lavoratori dai rischi connessi alle varie fasi dell’attività lavorativa (art. 2087 c.c.). Il D.Lgs. 81/2008 (art. 2, co. 1, lett. b) identifica il datore di lavoro nel soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva, in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. In base a tale norma, con particolare riferimento alla nozione di datore di lavoro privato rilevano, dunque, due parametri: la titolarità del rapporto di lavoro e l’effettivo esercizio dei poteri direttivi all’interno dell’impresa o dell’unità produttiva. Normalmente, nelle imprese organizzate in modo individuale, la persona fisica titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore è anche quella che esercita le prerogative della posizione datoriale e, conseguentemente, spetterà ad essa, in via primaria, la responsabilità dell’obbligo di sicurezza. In tutti i casi, invece, di dissociazione tra proprietà dell’impresa (e quindi titolarità del rapporto di lavoro) ed effettivo esercizio dei poteri direttivi e gestionali, il criterio prevalente è costituito proprio da quest’ultimo: è pertanto la figura di vertice, dotata dei poteri direttivi e di spesa, che ha la responsabilità di garantire l’obbligo di sicurezza. 146 Parte Decima Sono, altresì, responsabili i dirigenti e i preposti, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, in quanto considerate, nel D.Lgs. 81/2008, figure centrali per la gestione della sicurezza negli ambienti di lavoro. Il D.Lgs. 81/2008 ha, poi, definitivamente stabilito il principio della responsabilità in materia di igiene e sicurezza del lavoro sulla base dell’esercizio di fatto di poteri direttivi, affermando in modo esplicito, nell’ambito delle disposizioni sanzionatorie, che le posizioni di garanzia relative al datore di lavoro, al dirigente e al preposto, gravano anche su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno di tali soggetti. 3 bis.In caso di infortunio derivato al lavoratore per sua stessa colpa, si può escludere la responsabilità del datore di lavoro? No, di norma, la responsabilità del datore di lavoro non è esclusa dai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, che abbiano contribuito al verificarsi dell’infortunio. In sostanza, la responsabilità del datore di lavoro (consistente, ad esempio, nella mancata sorveglianza circa l’effettivo uso delle misure protettive da parte del dipendente) non è esclusa dalla colpa del lavoratore e l’evento dannoso, cioè l’infortunio, è imputato al datore, in forza della posizione di garanzia di cui ex lege è onerato. Può escludersi la responsabilità del datore di lavoro solo se la condotta dello stesso lavoratore infortunato presenta i caratteri dell’abnormità, imprevedibilità ed esorbitanza, così da porsi come causa esclusiva dell’evento (Cass. 23-2-2010, n. 7267). 4. I compiti del datore di lavoro in materia di sicurezza possono essere delegati? Riferimenti normativi: artt. 16 e 17 D.Lgs. 81/2008. Nozione: evidenziare che il datore di lavoro può delegare l’obbligo di sicurezza, entro determinate condizioni di legittimità. Disciplina: illustrare i requisiti di legittimità della delega (atto scritto recante data certa, competenza tecnica del delegato, poteri decisionali, di spesa e di intervento, del delegato, accettazione per iscritto dell’incarico). Limiti: non sono delegabili la valutazione dei rischi e la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione. La tutela della salute e della sicurezza del lavoratore nei luoghi di lavoro 147 Elementi da evidenziare: in ogni caso la delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza del datore di lavoro. Articolazione della risposta Sì, la delega di funzioni da parte del datore di lavoro è ammessa. Il D.Lgs. 81/2008 prevede, però, le seguenti condizioni di legittimità della delega: —deve risultare da atto scritto recante data certa; —il delegato deve possedere tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; —deve attribuire al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate, nonché l’autonomia di spesa necessaria; —la delega deve essere accettata dal delegato per iscritto. Il datore di lavoro è tenuto ad individuare secondo i criteri indicati la persona cui delegare le proprie funzioni per non incorrere nella relativa responsabilità (cd. culpa in eligendo). Inoltre, la delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite (cd. culpa in vigilando). Non possono essere comunque delegate dal datore di lavoro la valutazione dei rischi e la relativa elaborazione del documento di sicurezza, né la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione. 5. Quali sono gli obblighi del lavoratore in materia di sicurezza? Riferimento normativo: art. 20 D.Lgs. 81/2008. Disciplina: illustrare in via generale gli obblighi posti a carico del lavoratore in materia di sicurezza evidenziando che è tenuto a prendersi cura anche delle altre persone presenti sul luogo di lavoro e non solo della propria salute e sicurezza. Articolazione della risposta Il D.Lgs. 81/2008, all’art. 20, pone a carico del lavoratore l’obbligo di prendersi cura non solo della propria salute e sicurezza, ma anche di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni od omissioni. 148 Parte Decima In particolare, i lavoratori devono: —osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale; —utilizzare correttamente i macchinari, le apparecchiature, gli utensili, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto e le altre attrezzature di lavoro, nonché i dispositivi di sicurezza; —utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione; —segnalare immediatamente al datore di lavoro (nonché al dirigente o al preposto) le deficienze dei mezzi e dispositivi ed eventuali condizioni di pericolo di cui vengono a conoscenza; —sottoporsi ai controlli sanitari previsti nei loro confronti, se obbligatori; —contribuire all’adempimento di tutti gli obblighi imposti dall’autorità competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori durante il lavoro. 6. In caso di pericolo grave e immediato il lavoratore può allontanarsi dal posto di lavoro? Riferimento normativo: art. 44 D.Lgs. 81/2008. Disciplina: l’osservanza delle misure di sicurezza costituisce un preciso adempimento del datore di lavoro la cui inosservanza legittima l’abbandono del luogo di lavoro pericoloso da parte del lavoratore. Domande consequenziali: esempio di legittimo abbandono del posto di lavoro. Articolazione della risposta Sì. L’art. 44 del D.Lgs. 81/2008 riconosce espressamente ai lavoratori il diritto, in caso di pericolo grave ed immediato che non può essere evitato, di abbandonare le proprie mansioni allontanandosi dal luogo di lavoro senza subire pregiudizi e conseguenze dannose. In tal modo il legislatore ha inteso attribuire al lavoratore un diritto generale di resistere al proprio dovere di svolgere la prestazione di lavoro, qualora il datore non adempia all’obbligo di sicurezza, rendendo così il luogo di lavoro pericoloso. La tutela della salute e della sicurezza del lavoratore nei luoghi di lavoro 149 Stando così le cose, se il datore di lavoro dovesse far valere l’inadempimento del lavoratore al fine, ad esempio, di licenziarlo, il prestatore potrà eccepire l’inadempimento del datore ex art. 1460 c.c. Il D.Lgs. 81/2008 prevede inoltre che se il lavoratore interviene direttamente per evitare le conseguenze del pericolo grave ed immediato, non può subire pregiudizio per tale azione, sempre che non abbia commesso una grave negligenza e non sia stato possibile avvertire il competente superiore gerarchico. 6 bis. Che esempio si può fare del lavoratore che legittimamente abbandona il posto di lavoro in caso di pericolo grave ed immediato? Un caso concreto sottoposto al giudizio della Suprema Corte (sent. n. 21479 del 7-11-2005) è quello del lavoratore che svolgeva le sue mansioni presso un casello autostradale, il quale, avendo subito varie rapine a mano armata, aveva chiesto più volte alla società datrice di lavoro di adottare misure idonee a tutelare la sua incolumità fisica. A causa del perdurare dell’inerzia di questa, il lavoratore, previa comunicazione, si asteneva dallo svolgimento dell’attività lavorativa, mentre la società a fronte di tale astensione lo licenziava per assenza ingiustificata. Secondo la Corte di Cassazione, per poter stabilire se effettivamente il comportamento del datore giustifichi il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione dovuta, occorre valutare comparativamente il comportamento dei contraenti, tenendo presente che va, in primo luogo, accertata la sussistenza della gravità dell’inadempimento cronologicamente anteriore, perché quando questo non è grave, il rifiuto dell’altra parte di adempiere non è di buona fede e, quindi, non è giustificato. Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto la violazione dell’obbligo di sicurezza (inadempimento cronologicamente anteriore) da parte del datore di lavoro un grave inadempimento tale da giustificare l’inadempimento (astensione dal lavoro) del lavoratore. 150 Parte Decima 7. Chi è il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e quali funzioni svolge? Riferimenti normativi: artt. 47 e 50 D.Lgs. 81/2008; art. 9 L. 300/1970 (St. Lav.). Nozione: il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) è il soggetto eletto o designato dai lavoratori al fine di vigilare e promuovere l’applicazione delle norme sulla sicurezza. Disciplina: elencare le modalità di elezione e le prerogative del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Domande consequenziali: numero minimo dei rappresentanti; nuove figure di rappresentante introdotte dal D.Lgs. 81/2008. Articolazione della risposta Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) è il soggetto eletto o designato per rappresentare i lavoratori per quanto riguarda gli aspetti della salute e della sicurezza sul lavoro. Si tratta di una figura introdotta dal D.Lgs. 626/1994, che ha rafforzato ed integrato la previsione di cui all’art. 9 dello Statuto dei lavoratori che già attribuiva ai lavoratori il diritto di controllare, mediante loro rappresentanze, l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere l’attuazione delle misure idonee a tutelare la loro salute. Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza: —ha diritto di informazione sulle problematiche relative alla tutela dei lavoratori e di ricevere la relativa documentazione aziendale, con conseguente obbligo del datore di consegnargliela; —ha diritto di ottenere, senza oneri a proprio carico, la formazione necessaria all’espletamento dei compiti di cui è investito; —può fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro non siano idonee a garantire la sicurezza. Il RLS non può subire alcun pregiudizio a causa dello svolgimento della propria attività e nei suoi confronti si applicano le stesse tutele previste dalla legge per i membri delle rappresentanze sindacali. La tutela della salute e della sicurezza del lavoratore nei luoghi di lavoro 151 Il RLS deve essere eletto o designato in tutte le aziende o unità produttive, nel seguente modo: —nelle aziende con più di 15 dipendenti il rappresentante deve essere eletto o designato nell’ambito delle rappresentanze sindacali presenti in azienda (RSA, RSU); solo in mancanza, può essere eletto direttamente all’interno dei lavoratori; —nelle aziende, o unità produttive, che occupano sino a 15 dipendenti il rappresentante per la sicurezza è eletto direttamente dai lavoratori al loro interno, in alternativa può essere eletto un rappresentante territoriale o di comparto produttivo (per più aziende nell’ambito territoriale ovvero del comparto produttivo). 7 bis.In ogni azienda quanti rappresentanti per la sicurezza ci devono essere? La determinazione del numero dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza è demandata alla contrattazione collettiva. Il D.Lgs. 81/2008 prevede però che il numero minimo dei rappresentanti sia: —un rappresentante nelle aziende o unità produttive sino a 200 lavoratori; —tre rappresentanti nelle aziende o unità produttive da 201 a 1000 lavoratori; —sei rappresentanti in tutte le altre aziende o unità produttive oltre i 1000 lavoratori. 7 ter. Quali sono le nuove figure di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza introdotte dal D.Lgs. 81/2008? Si tratta, in primo luogo, del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale, che opera in tutte le aziende o unità produttive del territorio o del comparto di competenza, in cui non si è proceduto alla elezione o designazione di un rappresentante. L’altra figura prevista dal D.Lgs. 81/2008 è quella del rappresentante dei lavoratori di sito produttivo, individuato su iniziativa dei RLS per favorire la sinergia tra le rappresentanze presenti in specifici contesti produttivi caratterizzati dalla compresenza di più aziende o cantieri (porti, centri intermodali di trasporto, impianti siderurgici etc.). 152 Parte Decima 8. A chi compete la vigilanza sull’applicazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro? Riferimenti normativi: art. 20, L. 833/ 1978, art. 13 D.Lgs. 81/2008. Disciplina: organo competente alla vigilanza in materia di sicurezza è l’ASL, vi partecipano anche altri soggetti in relazione ad aspetti particolari. Domande consequenziali: interpello in materia di sicurezza sul lavoro. Articolazione della risposta L’organo di controllo, in via primaria, sulla corretta applicazione delle norme in materia di sicurezza del lavoro è l’azienda sanitaria locale (ASL) territorialmente competente (art. 13 D.Lgs. 81/2008). L’art. 14 del D.Lgs. 81/2008 attribuisce al personale ispettivo delle ASL il potere di emanare il provvedimento di sospensione dei lavori, nel caso di gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro individuate nel decreto stesso. La vigilanza in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è svolta, in relazione ad aspetti particolari, anche da altri soggetti, quali: il Corpo nazionale dei vigili del fuoco per quanto di specifica competenza, il Ministero dello sviluppo economico per il settore minerario, e le Regioni e province autonome di Trento e di Bolzano per le acque minerali e termali. 8 bis.Il Ministero del Lavoro ha competenze in ordine all’attività di vigilanza? Sì, anche al personale ispettivo del Ministero del Lavoro è attribuito l’esercizio dell’attività di vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro nelle attività precisate nel D. Lgs. 81/2008, e per ulteriori attività lavorative comportanti rischi particolarmente elevati, individuate con apposito D.P.C.M. Nell’esercizio di tale attività di vigilanza, il personale ispettivo del Ministero del Lavoro è comunque tenuto ad informare preventivamente il servizio di prevenzione e sicurezza dell’ASL competente per territorio. 8 ter.In cosa consiste l’interpello in materia di sicurezza sul lavoro? È un istituto introdotto, in materia di salute e sicurezza nei rapporti di lavoro, dall’art. 12 del D.Lgs. 81/2008. Esso consente di porre quesiti di La tutela della salute e della sicurezza del lavoratore nei luoghi di lavoro 153 ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro alla Commissione per gli interpelli, istituita presso il Ministero del Lavoro, competente ad individuare la soluzione al quesito posto. Alla Commissione potranno rivolgere quesiti, esclusivamente tramite posta elettronica: — gli organismi associativi a rilevanza nazionale degli enti territoriali e gli enti pubblici nazionali; — di propria iniziativa o su segnalazione dei propri iscritti, le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; — i Consigli nazionali degli ordini o collegi professionali, anche qui di propria iniziativa o su segnalazione dei propri iscritti. Le indicazioni fornite dalla Commissione nelle risposte ai quesiti in materia di salute e sicurezza nei rapporti di lavoro costituiscono criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza. 9. In cosa consiste la sorveglianza sanitaria dei lavoratori e da chi è effettuata? Riferimenti normativi: artt. 38-42 D.Lgs. 81/2008; art. 2087 c.c. Nozione: serve a valutare l’idoneità del lavoratore alle mansioni specifiche cui è destinato. Disciplina: è attuata per mezzo di un professionista specializzato in medicina del lavoro. Distinzioni: si distingue tra accertamenti preventivi e periodici. Domande consequenziali: assegnazione a mansioni inferiori del lavoratore giudicato inidoneo alla mansione specifica; ipotesi vietate. Articolazione della risposta La sorveglianza sanitaria è finalizzata alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa (art. 1, co. 1, lett. m), T.U.). La sorveglianza sanitaria è obbligatoria soltanto quando la legislazione vigente la prevede espressamente in relazione ad attività che, per la loro rischiosità, impongono di accertare l’idoneità del lavoratore alle mansioni. Essa deve essere svolta per il tramite di un professionista (cd. medico competente) specializzato in medicina del lavoro e, pertanto, in grado di effettuare con competenza e perizia i controlli sanitari prescritti dalla legge. 154 Parte Decima Nell’ambito della sorveglianza sanitaria si distinguono: accertamenti preventivi, intesi a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato; accertamenti periodici, per controllare lo stato di salute dei lavoratori. Le altre visite a cui può essere sottoposto il lavoratore sono: —la visita medica su richiesta del lavoratore; —la visita medica in occasione del cambio della mansione; —la visita medica alla cessazione del rapporto di lavoro nei casi previsti dalla normativa vigente; —la visita medica preventiva in fase preassuntiva; —la visita medica precedente alla ripresa del lavoro a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai 60 giorni continuativi. Al termine degli accertamenti, ed in base al loro esito, spetta al medico competente decidere sull’idoneità del lavoratore. Se il dipendente è giudicato idoneo potrà svolgere regolarmente l’attività prevista. Nel caso invece di inidoneità alla mansione specifica, il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute. 9 bis.Allo scopo di evitare il licenziamento, il lavoratore giudicato inidoneo alla mansione specifica può essere adibito anche a mansioni inferiori? Sì, nel caso di inidoneità alla mansione specifica, il datore di lavoro può adibire il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute. Al fine di evitare il licenziamento, il lavoratore può essere assegnato anche a mansioni inferiori (cd. obbligo di repechage), conservando comunque la retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte, nonché la qualifica originaria. Inoltre, se il lavoratore viene assegnato a mansioni equivalenti o superiori è prevista l’applicazione dell’art. 2103 c.c. 9 ter.In quali ipotesi è vietata la sorveglianza sanitaria? A garanzia della libertà e dignità del lavoratore, è vietato ogni controllo sanitario effettuato per scopo illecito, stabilendo espressamente che le suddette visite mediche non possono essere effettuate per accertare stati di gravidanza e sono precluse negli altri casi vietati dalla normativa vigente (art. 41, co. 3). Parte Undicesima Tutela del lavoro minorile e della genitorialità. Parità, pari opportunità e tutela contro le discriminazioni nel rapporto di lavoro 1. Come è tutelato il lavoro minorile nel nostro ordinamento? Riferimenti normativi: art. 37 Cost.; L. 977/1967; D.Lgs. 345/1999; art. 1, co. 622, L. 296/2006. Nozione: l’integrità psicofisica del lavoratore minore è tutelata mediante una normativa protettiva speciale che fissa come limite la coincidenza tra assolvimento dell’obbligo scolastico e età minima per l’accesso al lavoro. Disciplina: l’età minima per l’accesso al lavoro è fissata a 16 anni; è vietato adibire al lavoro i bambini; sono vietati i lavori potenzialmente pregiudizievoli per lo sviluppo fisico del minore. Domande consequenziali: visite mediche preassuntive per i minori; trattamento economico e normativo del minore. Articolazione della risposta Il legislatore ha inteso tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore minore, attraverso una normativa protettiva speciale, per lo più derogatoria di quella ordinaria, in ragione delle peculiari esigenze di tutela accordata a tale categoria di lavoratori. In primis, la Costituzione all’art. 37 ha previsto che la Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e che la legge stabilisce i limiti d’età per il lavoro salariato. In applicazione di tale norma è stata emanata la L. 977/1967 sulla tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti, la cui disciplina è stata poi adeguata agli indirizzi espressi in sede comunitaria con il D.Lgs. 345/1999 (a sua volta integrato e modificato con il D.Lgs. 262/2000). Il D.Lgs. 345/1999 ha completamente ridefinito l’impostazione e l’assetto protettivo della L. 977/1967, facendo proprio il principio generale per il quale l’età minima di ammissione all’impiego deve coincidere con quella in cui cessano gli obblighi scolastici (Dir. 94/33/CE). La normativa si applica ai minori di 18 anni, che hanno un contratto di lavoro, anche speciale. 156 Parte Undicesima La L. 977/1967 distingue, anzitutto, i lavoratori minori di età, di ambo i sessi, tra: —bambini, cioè i minori che non hanno compiuto i 15 anni o che sono ancora soggetti all’obbligo scolastico; —adolescenti, cioè i minori di età compresa tra i 15 e i 18 anni compiuti, non più soggetti all’obbligo scolastico. Da ultimo, però, la L. 296/2006, stabilendo che l’istruzione è obbligatoria per almeno 10 anni, ha elevato da 15 a 16 anni l’età per l’accesso al lavoro, fermo restando l’adempimento dell’obbligo d’istruzione. La L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato lavoro (art. 48, co. 8) prevede, tuttavia, che il periodo di istruzione obbligatoria possa essere assolto anche nei percorsi di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione. Poiché tale tipo di apprendistato permette l’assunzione a partire dal quindicesimo anno di età, risulta possibile iniziare a lavorare a soli 15 anni purché ricorrendo alla suddetta tipologia contrattuale. In base all’art. 4 L. 977/1967, è vietato adibire al lavoro i bambini, salvo che in attività di carattere culturale, artistico, sportivo o pubblicitario e nel settore dello spettacolo e purchè si tratti di attività che non ne pregiudichino la sicurezza, l’integrità psicofisica e lo sviluppo, la frequenza scolastica o la partecipazione a programmi di orientamento o formazione professionale. Per la legittimità di tali rapporti di lavoro è necessaria una doppia autorizzazione, quella dei genitori (o di chi esercita la potestà genitoriale) e quella della Direzione provinciale del lavoro competente. Per quanto riguarda invece gli adolescenti, essi possono lavorare se hanno assolto l’obbligo di istruzione, fermo restando il divieto di adibirli alle lavorazioni e ai lavori potenzialmente pregiudizievoli per il pieno sviluppo fisico del minore. Le attività vietate dalla legge riguardano lavori che comportano l’esposizione ad agenti chimici, fisici o biologici oppure specifici processi di lavorazione (ad es. produzione di polveri metalliche). Tuttavia, in deroga al divieto, è previsto che le lavorazioni, i processi e i lavori pericolosi possono essere svolti dagli adolescenti per motivi didattici o di formazione professionale, per il tempo necessario alla formazione stessa che deve essere svolta in aula o in laboratorio o in ambienti di lavoro di diretta pertinenza del datore di lavoro e sotto la sorveglianza di for- Tutela del lavoro minorile e genitorialità. Pari opportunità 157 matori competenti anche in materia di prevenzione e di protezione dei rischi per la salute umana. Tale attività di formazione deve essere comunque preventivamente autorizzata dalla Direzione provinciale del lavoro, che verifica l’osservanza di tutte le condizioni di sicurezza e di salute previste dalla legislazione vigente. 1 bis. Per essere ammessi al lavoro i minori devono essere sottoposti a visite mediche? Sì. A tutela della salute dei lavoratori minori, l’art. 8 della L. 977/1967 prevede che sia i bambini, nei casi in cui eccezionalmente possono svolgere attività lavorativa (es. nel settore dello spettacolo), sia gli adolescenti possono essere ammessi al lavoro purchè siano riconosciuti idonei all’attività lavorativa cui saranno adibiti a seguito di visita medica preassuntiva. Anche durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, il minore deve essere sottoposto a visite mediche periodiche per accertare l’idoneità all’attività lavorativa cui è addetto. Queste visite mediche devono essere effettuate a cura e a spese del datore di lavoro e mediante un medico del servizio sanitario nazionale o dal medico competente se nominato ai fini della sorveglianza sanitaria obbligatoria (Min. Lav. lett. circ. 1401/2010). 1 ter. Quale disciplina si applica al rapporto di lavoro del minore? Lo svolgimento del rapporto di lavoro del minore avviene secondo la disciplina normativa del lavoro vigente per la generalità dei lavoratori, salvo deroghe ed eccezioni più favorevoli disposte dalla legge o dalla contrattazione collettiva volte a tutelare o garantire le diverse esigenze dei minori. In specie, in base al dettato dell’art. 37 Cost., a tale particolare categoria di lavoratori deve essere assicurata la parità di trattamento retributivo a parità di lavoro, non essendo ammessi trattamenti differenziati in base all’età. Particolari disposizioni vigono in materia di orario di lavoro, lavoro notturno, riposo settimanale e ferie annuali. È infatti previsto che: —l’orario di lavoro non può superare le 7 ore giornaliere e le 35 ore settimanali, se si tratta di bambini, e le 8 ore giornaliere e le 40 ore settimanali, se si tratta di adolescenti; 158 Parte Undicesima —il lavoro notturno è vietato; —il riposo settimanale deve essere assicurato per almeno 2 giorni, possibilmente consecutivi e comprendenti la domenica; —salvo previsioni collettive di maggior favore, le ferie annuali non possono essere inferiori a 30 giorni per i minori di anni 16, mentre per coloro che hanno superato tale età valgono le norme previste per la generalità dei lavoratori (D.Lgs. 66/2003). 2. Che cos’è il congedo di maternità? Riferimenti normativi: artt. 16 e ss. D.Lgs. 151/2001. Nozione: periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, in cui è fatto divieto assoluto di adibire al lavoro le donne. Disciplina: è generalmente pari a 5 mesi (2 mesi precedenti la data presunta del parto ai 3 mesi successivi al parto), ma è possibile in caso di lavori pregiudizievoli allo stato di gravidanza: — anticiparlo a 3 mesi dal parto; — prorogarlo fino a 7 mesi dopo il parto; — comprendere l’intera gestazione. Domande consequenziali: tutela economica; congedo di paternità; altri congedi; svolgimento di un’altra attività lavorativa durante il congedo; estensione della normativa ai lavoratori parasubordinati; la tutela delle lavoratrici autonome. Articolazione della risposta Il congedo di maternità è un periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, disciplinato dalla legge, in cui è fatto divieto assoluto di adibire al lavoro le donne. Si tratta di un istituto che, nato a salvaguardia della maternità, ha perso nel tempo il fine precipuo ed esclusivo di protezione della donna, per essere destinato alla difesa del preminente interesse del bambino. Il congedo di maternità è, di regola, pari a 5 mesi e va dai 2 mesi precedenti la data presunta del parto ai 3 mesi successivi al parto. Inoltre, l’astensione obbligatoria comprende anche: —il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto, ove esso avvenga oltre la data presunta; Tutela del lavoro minorile e genitorialità. Pari opportunità 159 —gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. Tali giorni sono aggiunti al periodo di congedo di maternità dopo il parto. Il legislatore prevede anche la possibilità di anticipare il periodo di congedo a 3 mesi dalla data presunta del parto quando le lavoratrici sono occupate in lavori che, in relazione all’avanzato stato di gravidanza, siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli: in tale ipotesi il congedo dura complessivamente 6 mesi, 3 prima del parto e 3 mesi dopo. Inoltre, in determinati casi previsti dalla legge, sulla base di accertamento medico, la Direzione provinciale del lavoro può disporre l’anticipazione dell’astensione dal lavoro per uno o più periodi, fino a comprendere l’intera gestazione. Il periodo di astensione obbligatoria può altresì essere prorogato fino a 7 mesi dopo il parto, sempre con provvedimento della Direzione provinciale del lavoro, quando le condizioni di lavoro siano pregiudizievoli per la sicurezza e la salute della lavoratrice e la stessa non possa essere adibita ad altre mansioni. Ferma restando la durata complessiva del congedo di maternità (5 mesi), le lavoratrici possono rendere flessibile il periodo di congedo di maternità, nel senso che possono posticipare l’inizio del congedo al mese precedente la data presunta del parto e proseguire nei 4 mesi successivi al parto, a condizione però che non vi siano controindicazioni per la salute della gestante e del nascituro. 2 bis. Quale tutela economica è prevista per il congedo di maternità? Per tutto il periodo del congedo di maternità spetta alle lavoratrici un’indennità giornaliera, erogata dall’INPS, pari all’80% della retribuzione, comprensiva di ogni altra indennità spettante per malattia. Inoltre, tale periodo è computato nell’anzianità di servizio a tutti gli effetti (TFR, ferie etc.). 2 ter.In cosa consiste il congedo di paternità? La legge riconosce anche al padre lavoratore il diritto di assentarsi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono o affidamento esclusivo del bambino al padre. 160 Parte Undicesima In adesione all’orientamento della Corte costituzionale (sent. 19-1-1987, n. 1), il congedo spetta anche quando la madre non sia (o non sia stata) una lavoratrice e ciò in quanto il padre ha un diritto autonomo alla fruizione di tale congedo. A differenza però del congedo di maternità, quello spettante al padre non ha il connotato dell’obbligatorietà, assumendo piuttosto quello del diritto potestativo ma condizionato all’esistenza di determinati presupposti (es. morte della madre). 2 quater.Di quali altri congedi possono usufruire i lavoratori genitori? Oltre al periodo di congedo di maternità (obbligatorio), è possibile richiedere ulteriori periodi di assenza dal lavoro per assistere il figlio. La legge prevede, infatti, un congedo facoltativo della durata massima cumulativa di 10 mesi, fruibile per ogni figlio in alternativa dal padre o dalla madre, nei primi 8 anni di vita del bambino (cd. congedi parentali). In particolare, il diritto di astenersi dal lavoro compete: —alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di congedo obbligatorio di maternità, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a 6 mesi; —al padre lavoratore, dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a 6 mesi; —qualora vi sia un solo genitore, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a 10 mesi. Per i periodi di congedo parentale alle lavoratrici e ai lavoratori è dovuta, fino al terzo anno di vita del bambino, un’indennità pari al 30% della retribuzione, per un periodo massimo complessivo tra i genitori di 6 mesi; per i periodi successivi al sesto mese, l’indennità spetta solo se l’interessato non supera un determinato limite di reddito. Inoltre, è prevista la possibilità, in caso di malattia del figlio, per entrambi i genitori, ma alternativamente, di astenersi dal lavoro: —per figli di età inferiore a 3 anni, per periodi corrispondenti alla durata della malattia di ciascun figlio; —per figli di età superiore a 3 anni e fino a 8 anni, nel limite di 5 giorni lavorativi all’anno per ciascun genitore, alternativamente, e per ogni figlio. I periodi di congedo per la malattia del figlio non sono retribuiti, ma sono computati nell’anzianità di servizio, con esclusione degli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia. Tutela del lavoro minorile e genitorialità. Pari opportunità 161 2 quinquies.Durante il periodo di congedo parentale è consentito lo svolgimento di un’altra attività lavorativa? No. In caso di svolgimento di altra attività lavorativa (dipendente, parasubordinata o autonoma) durante l’assenza dal lavoro per congedo parentale, il lavoratore non ha diritto all’indennità a titolo di congedo parentale ed, eventualmente, è tenuto a rimborsare all’INPS l’indennità indebitamente percepita. Ciò in quanto il congedo parentale è finalizzato ad assicurare al genitore lavoratore un periodo di assenza dal lavoro per la cura del bambino e, quindi, non può essere utilizzato dal lavoratore stesso neanche per intraprendere una nuova attività lavorativa «che, ove consentita, finirebbe col sottrarre il lavoratore dalla specifica responsabilità familiare verso la quale il beneficio in esame è orientato» (circ. INPS 29-4-2010, n. 62). 2 sexies.Anche i lavoratori parasubordinati hanno diritto ai congedi di maternità e di paternità e agli altri congedi? Sì, anche a questa categoria di lavoratori è stato riconosciuto il diritto di usufruire dei congedi obbligatori e facoltativi a tutela del preminente interesse della prole. Dunque, anche i lavoratori a progetto, ed in generale i collaboratori coordinati e continuativi, possono fruire dell’astensione obbligatoria per maternità per la durata di 2 mesi prima della data presunta del parto e 3 mesi dopo la nascita del bambino. Anche a tale categoria spetta la tutela economica (se sono accreditate almeno 3 mensilità di contribuzione nei 12 mesi precedenti il periodo di maternità) e la possibilità di anticipare e prorogare il congedo, già prevista per i lavoratori subordinati. Ai lavoratori a progetto (ed in generale ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa) aventi diritto al congedo di maternità, spetta anche un periodo per congedo parentale (facoltativo) della durata di 3 mesi entro il primo anno di vita del bambino. 2 septies.Anche le lavoratrici autonome sono obbligate ad astenersi dal lavoro in caso di maternità? No, per quanto concerne le lavoratrici autonome quali, ad esempio, le artigiane e quelle esercenti attività commerciali, non c’è l’obbligo di astensione dal lavoro. 162 Parte Undicesima La legge prevede comunque il diritto ad un’indennità giornaliera per i 2 mesi prima e i 3 mesi dopo il parto. 3. Quali garanzie e diritti attribuisce la legge alla lavoratrice in stato di gravidanza? Riferimenti normativi: artt. 54-56 D.Lgs. 151/2001; art. 8 quater D.L. 59/2008, conv. in L. 101/2008. Disciplina: il legislatore prevede una serie di garanzie a favore della lavoratrice in gravidanza onde evitare che il suo stato possa costituire motivo di licenziamento e di discriminazione, disponendo: — il divieto di licenziamento; — la convalida delle dimissioni; — il diritto al rientro. Domande consequenziali: licenziamento per giusta causa della lavoratrice in stato di gravidanza, convalida delle dimissioni. Articolazione della risposta La legge stabilisce innanzitutto il divieto assoluto di licenziamento delle lavoratrici, nonché di sospensione dal lavoro e di collocazione in mobilità, dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di congedo obbligatorio, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino. Il divieto di licenziamento si applica anche al padre lavoratore per la durata del congedo di paternità e si estende fino al compimento di un anno di età del bambino. È altresì vietato il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore. Il licenziamento intimato in violazione di tali divieti è nullo. A garanzia della spontaneità di eventuali dimissioni della lavoratrice o del lavoratore (che potrebbero essere costretti dal datore), il legislatore dispone che la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di vita del bambino, debba essere convalidata dai servizi ispettivi del lavoro, a pena di inefficacia della risoluzione del rapporto di lavoro. Tutela del lavoro minorile e genitorialità. Pari opportunità 163 Infine, si prevede che al termine del periodo di congedo obbligatorio di maternità, del congedo di paternità e degli altri congedi e permessi previsti dalla legge, le lavoratrici e i lavoratori hanno diritto (cd. diritto al rientro): —di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate/i all’inizio del periodo di gravidanza e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino; —di essere adibite/i alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti; —di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro, previsti dai contratti collettivi, leggi o regolamenti, che sarebbero loro spettati durante l’assenza per congedo obbligatorio e di interdizione al lavoro a tutela della salute della lavoratrice (art. 8 quater D.L. 59/2008 conv. in L. 6-8-2008, n. 101). 3 bis. La lavoratrice in stato di gravidanza può essere licenziata se sussiste una giusta causa? Si, il divieto di licenziamento non si applica nel caso: —di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa di licenziamento; —di cessazione dell’attività dell’azienda cui è addetta; —di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine; —di esito negativo della prova. 3 ter. Come devono essere considerate le dimissione della lavoratrice prive di convalida? La convalida delle dimissioni da parte del servizio ispettivo costituisce una condizione di validità delle dimissioni, sicché se manca esse sono nulle con la conseguenza che la lavoratrice ha diritto alla conservazione del posto di lavoro e al risarcimento dei danni, anche se il datore di lavoro non era a conoscenza dello stato di gravidanza o puerperio (lett. circ. Min. Lav. 4-6-2007, n. prot. 25). Poiché peraltro l’art. 55 T.U. è diretto a tutelare la spontaneità delle dimissioni, il servizio ispettivo al quale sono state comunicate deve provvedere 164 Parte Undicesima a convocare sempre e comunque la lavoratrice o il lavoratore al fine di verificare l’effettiva e consapevole volontà di rassegnarle. Non è infatti ritenuta sufficiente, ai fini dell’accertamento della volontà reale della lavoratrice (o del lavoratore) l’acquisizione di una mera conferma scritta delle dimissioni (lett. circ. Min. Lav. cit.). 4. Che cos’è il “Codice delle pari opportunità” tra uomo e donna? Riferimento normativo: D. Lgs. 198/2006. Nozione: insieme di disposizioni finalizzate alla prevenzione e alla rimozione di ogni forma di discriminazione fondata sul sesso in tutti i campi della vita civile, sociale ed economica. Disciplina: evidenziare le finalità del provvedimento e l’insieme delle istituzioni predisposte per l’attuazione di tali fini. Domande consequenziali: discriminazione di genere diretta e indiretta; azioni positive. Articolazione della risposta Il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, approvato con il D.Lgs. 198/2006 (come modificato dal D.Lgs. 5/2010), ha introdotto nel nostro ordinamento una normativa ad ampio raggio finalizzata alla prevenzione e alla rimozione di ogni forma di discriminazione fondata sul sesso in tutti i campi della vita civile, sociale ed economica. L’art. 1 del D.Lgs. 198/2008 dichiara le finalità del provvedimento: introdurre misure volte ad eliminare ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo. Il Codice disciplina le istituzioni che presiedono alle politiche delle pari opportunità. Innanzitutto, si colloca il Presidente del Consiglio dei Ministri cui sono attribuite, in via generale, le funzioni di promozione e coordinamento delle politiche di pari opportunità. Un importante ruolo è svolto dalla Commissione per le pari opportunità fra uomo e donna, che svolge compiti di consulenza e supporto tecnico- Tutela del lavoro minorile e genitorialità. Pari opportunità 165 scientifico nell’elaborazione e nell’attuazione delle politiche di pari opportunità fra uomo e donna. Nell’ambito più propriamente lavoristico, rileva il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, con il compito di promuovere la rimozione delle discriminazioni e di ogni altro ostacolo che limiti di fatto l’uguaglianza fra uomo e donna nell’accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni di lavoro, nonché in relazione alle fasce pensionistiche complementari collettive. Notevoli compiti sono riconosciuti, infine, alle consigliere e ai consiglieri di parità, ossia ai soggetti che, in possesso di specifica competenza ed esperienza in materia di lavoro femminile, di normative sulla parità e pari opportunità e di mercato del lavoro, sono chiamati a svolgere importanti funzioni di promozione e di controllo nel campo della parità di genere e delle pari opportunità. 4 bis. Che differenza c’è tra discriminazione di genere diretta e indiretta? Il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (D.Lgs. 198/2006 artt. 25, 26 come modif. dal D.Lgs. 5/2010) nell’affermare l’illiceità delle discriminazioni tra uomo e donna nei rapporti economici, distingue tra: —le discriminazioni dirette, ovvero qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga; —le discriminazioni indirette, ovvero qualsiasi disposizione, criterio, prassi o comportamento, apparentemente neutri, ma in grado di mettere, anche solo potenzialmente, i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso (fanno eccezione quei requisiti richiesti perché essenziali allo svolgimento di una determinata attività lavorativa). 4 ter. Cosa sono le “azioni positive”? Le azioni positive, disciplinate anch’esse dal D.Lgs. 198/2006, consistono in misure volte alla rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono 166 Parte Undicesima la realizzazione di pari opportunità e che sono dirette a favorire l’occupazione femminile e a concretizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro. La legge prevede che le azioni positive possano essere promosse ed attivate da una pluralità di soggetti, tra cui imprese e loro consorzi, associazioni sindacali, centri di formazione professionale, nonché dal Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra uomo e donna. 5. Quale tutela giudiziaria è accordata alle lavoratrici vittime di discriminazioni di genere sul lavoro? Riferimenti normativi: artt. 36-41 D.Lgs. 198/2006. Disciplina: evidenziare la differenza tra discriminazione individuale e collettiva in rapporto alla titolarità dell’azione giudiziale; possibilità di ricorrere con procedimenti di urgenza. Domande consequenziali: prova della discriminazione. Articolazione della risposta Il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (D.Lgs. 198/2006) distingue tra discriminazione individuale, in relazione alla quale la lavoratrice che intende ricorrere all’autorità giudiziaria ha facoltà di farsi assistere dalla consigliera o dal consigliere di parità, e discriminazione collettiva, in cui la legittimazione processuale è riconosciuta direttamente al consigliere o alla consigliera di parità, fermo restando il diritto della lavoratrice ad agire in giudizio individualmente. La tutela giudiziaria si realizza quindi con le seguenti azioni: —azione individuale della lavoratrice proposta dinanzi al Tribunale in funzione di giudice del lavoro (o al TAR, nei casi di sua competenza), direttamente o delegando il consigliere di parità; —azione del consigliere di parità che, in caso di discriminazione collettiva, se non intende avvalersi di una soluzione conciliativa oppure essa ha esito negativo, ricorre al Tribunale in funzione di giudice del lavoro (o al TAR). Il giudice, se ritiene sussistente la violazione, determina il risarcimento del danno (anche non patrimoniale eventualmente richiesto) ed ordina all’autore della discriminazione la cessazione del com- Tutela del lavoro minorile e genitorialità. Pari opportunità 167 portamento illegittimo e la predisposizione di un piano di rimozione della stessa, sentite le RSA ovvero, in loro assenza, gli organismi locali aderenti alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché la consigliera o il consigliere di parità regionale o nazionale. Sono altresì previsti due procedimenti d’urgenza, differenziati l’uno dall’altro solo dal fatto che la discriminazione, di cui si richiede la rimozione immediata, ha carattere individuale o collettivo. 5 bis.Il lavoratore come può provare la discriminazione subita? Nel caso di un giudizio per discriminazione, la vittima ha un vantaggio sul piano probatorio: il soggetto discriminato, infatti, deve dedurre in giudizio elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso; avvenuto ciò, spetta all’altra parte, il datore di lavoro, se vuole evitare la condanna, di provare l’inesistenza della discriminazione. Per fornire gli elementi di fatto, il ricorrente può utilizzare anche dati statistici cioè dati relativi, ad esempio, alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti. Tale regime probatorio di favore, previsto dall’art. 40 del D.Lgs. 198/2006, è conforme all’impostazione espressa in sede comunitaria, secondo cui l’effettiva applicazione del principio della parità di trattamento richiede che l’onere della prova sia posto a carico del convenuto (Dir. 2000/78/CE). In proposito, tuttavia, vi è in dottrina chi preferisce parlare, anziché di inversione dell’onere della prova, di attenuazione dell’onere probatorio per il soggetto discriminato. 6. Come viene tutelato in giudizio il lavoratore discriminato sul lavoro per motivi religiosi o razziali? Riferimenti normativi: art. 15 L. 300/1970; D.Lgs. 215/2003; D.Lgs. 216/2003. Disciplina: evidenziare la sussistenza di due provvedimenti normativi emanati sulla base di direttive comunitarie volti a fornire tutela giudiziaria al lavoratore vittima di discriminazioni sul lavoro per motivi religiosi o razziali; illustrare i passaggi fondamentali del procedimento antidiscriminatorio. Domande consequenziali: altri soggetti legittimati ad agire. 168 Parte Undicesima Articolazione della risposta Nel nostro ordinamento è stata introdotta, sull’impulso delle istituzioni comunitarie, una normativa generale per la parità di trattamento dei lavoratori in materia di occupazione e accesso al lavoro, in precedenza contenuta solo nell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/1970). Si tratta di disposizioni dirette a fornire un’adeguata tutela contro le discriminazioni fondate sui più diversi motivi, dalle convinzioni religiose a quelle personali, dall’età alle condizioni di salute, fino all’orientamento sessuale, che si aggiunge agli strumenti di tutela previsti contro le discriminazioni di genere. La tutela contro le discriminazioni si fonda essenzialmente sulla seguente normativa: —il D.Lgs. 215/2003, di attuazione della dir. 2000/43/CE, dettante norme contro le discriminazioni per motivi di razza ed origine etnica; —il D.Lgs. 216/2003, di attuazione della dir. 2000/78/CE, dettante norme contro le discriminazioni per motivi di religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale, in materia di occupazione e condizioni di lavoro. Nell’art. 4 di entrambi i decreti sono contenute le disposizioni relative alla tutela giurisdizionale della vittima della discriminazione che integrano le norme dell’art. 44 D.Lgs. 286/1998 (cd. Testo unico sull’immigrazione). Ne deriva un procedimento antidiscriminatorio così caratterizzato: —il lavoratore può ricorrere al Tribunale in funzione di giudice del lavoro, perché sia accertata l’esistenza di un comportamento discriminatorio ai suoi danni. Prima di agire in giudizio il lavoratore doveva esperire obbligatoriamente il tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 410 c.p.c. o dell’art. 66 D.Lgs. 165/2001, per i rapporti del settore pubblico. La L. 4-11-2010, n. 183 cd. collegato lavoro ha eliminato l’obbligatorietà ed unificato la procedura di conciliazione, ora divenuta facoltativa; —se fornisce elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta poi alla controparte convenuta in giudizio l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione; —con il provvedimento che accoglie il ricorso, il giudice provvede sull’eventuale richiesta di risarcimento del danno anche non patrimo- Tutela del lavoro minorile e genitorialità. Pari opportunità 169 niale ed ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate; —il giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza, a spese della persona condannata, per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale. Tale tutela giurisdizionale è applicabile anche a protezione delle vittime di discriminazioni ovvero «nei casi di comportamenti, trattamenti o altre conseguenze pregiudizievoli posti in essere nei confronti della persona lesa da una discriminazione diretta o indiretta, o di qualunque altra persona, quale reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere la parità di trattamento» (art. 4bis introdotto dal D.L. 59/2008, conv. in L. 101/2008). 6 bis. Oltre alla vittima della discriminazione, quali altri soggetti possono promuovere il procedimento antidiscriminatorio? Al fine di rafforzare la tutela del soggetto discriminato, possono ricorrere al giudice anche: —le associazioni e gli enti impegnati nel campo della lotta alle discriminazioni e della promozione della parità di trattamento (iscritti nell’elenco allegato al D.M. 9-4-2010), per le discriminazioni legate a motivi di razza e di origine etnica; —alle organizzazioni sindacali, alle associazioni e organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, per le discriminazioni legate a motivi di religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale. Tali soggetti possono agire su delega del lavoratore, ma anche direttamente nei casi di discriminazioni collettive, qualora non siano individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione. Parte Dodicesima Rapporti di lavoro speciali 1. Quando è legittima la stipulazione di un contratto di lavoro a termine? Riferimenti normativi: art. 1 D.Lgs. 368/2001; art. 21, co. 1, D.L. 112/2008, conv. in L. 133/2008. Nozione: può essere stipulato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo riferite anche alla ordinaria attività del datore di lavoro a seguito della L. 133/2008. Domande consequenziali: forma del contratto a termine; ipotesi vietate; limite numerico. Articolazione della risposta Il D.Lgs. 368/2001 stabilisce che il contratto di lavoro a tempo determinato può essere stipulato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Si tratta di un principio generale introdotto in sostituzione alle ipotesi tassative di apposizione del termine previste dalla L. 230/1962, con lo scopo di consentire il ricorso al lavoro a termine in presenza delle più diverse esigenze che in concreto si possono realizzare. Senonchè la giurisprudenza successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. 368/2001 ha inteso le esigenze di ordine tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, legittimanti l’apposizione del termine, come connotate dal carattere dell’eccezionalità. Tale interpretazione, d’altronde, era in sintonia con la lettura che, prima la Cassazione (21-5-2002, n. 7468) e poi il legislatore (con la L. 247/2007), avevano dato delle assunzioni a termine come un’eccezione rispetto alla regola generale del contratto di lavoro a tempo indeterminato. La L. 133/2008 è intervenuta nuovamente sul punto specificando che le causali di legittimazione dell’assunzione a termine, vale a dire le ragioni di ordine tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, possono essere riferite anche alla ordinaria attività del datore di lavoro. Rapporti di lavoro speciali 171 1 bis. È previsto un obbligo di forma per il contratto a termine? Sì, il D.Lgs. 368/2001 (art. 1, co. 1) richiede per l’apposizione del termine la forma scritta con espressa indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che legittimano il ricorso a tale tipologia di contratto. In mancanza di forma scritta, è stabilito che l’apposizione del termine è priva di effetto e il lavoratore si intende assunto a tempo indeterminato. Copia dell’atto scritto deve essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore entro 5 giorni lavorativi dall’inizio della prestazione. È escluso l’onere della forma scritta nel caso di rapporti di lavoro di breve durata (non superiore a 12 giorni) e in altre ipotesi previste dal decreto. 1 ter.In quali casi è vietato il ricorso ad assunzioni a termine? Ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. 368/2001, l’apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato non è ammessa: —per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; —presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi della L. 223/1991, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato. Questo divieto, però, può essere escluso mediante accordo sindacale; —presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a termine; —da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza sul lavoro. 1 quater.La legge prevede un limite numerico alle assunzioni a termine? No. Il D.Lgs. 368/2001 non prevede alcun limite numerico alle assunzioni a termine con la conseguenza, ad esempio, che i lavoratori a tempo determinato possono essere la prevalenza nell’organico aziendale. 172 Parte Dodicesima La facoltà di introdurre limiti quantitativi di utilizzazione dell’istituto del contratto a tempo determinato è lasciata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Sono, invece, in ogni caso esenti da limitazioni quantitative i contratti a termine conclusi: —nella fase di avvio di nuove attività per i periodi definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici; —per ragioni di carattere sostitutivo o di stagionalità; —per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi; —con lavoratori di età superiore a 55 anni. 2. Le parti possono recedere dal contratto a termine prima della scadenza? Riferimento normativo: art. 2119 c.c. Disciplina: il contratto a termine si risolve automaticamente alla scadenza; il recesso, prima di detto termine, è disciplinato dall’art. 2119 c.c. che richiede la sussistenza di una giusta causa. Articolazione della risposta Sì, ma in base all’art. 2119 c.c. il recesso prima della scadenza del termine è ammesso solo qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto (cd. giusta causa). Qualora il datore, prima della scadenza del termine, abbia intimato illegittimamente il recesso, perché mancante la giusta causa, non potendosi applicare le norme di tutela contro i licenziamenti illegittimi (previste solo per i rapporti a tempo indeterminato ex art. 1 L. 604/1966), al lavoratore spetterà un risarcimento del danno commisurato all’ammontare delle retribuzioni non percepite dal momento del recesso alla prevista scadenza del rapporto. Rapporti di lavoro speciali 173 3. È possibile prorogare un contratto di lavoro a termine? Riferimento normativo: art. 4 D.Lgs. 368/2001. Disciplina: è ammessa per una sola volta la proroga dei contratti a termine di durata inferiore a 3 anni: — previo consenso del lavoratore; — entro la durata massima complessiva di 3 anni. Domande consequenziali: continuazione del rapporto dopo la scadenza del termine; conseguenze del mancato rispetto dei limiti di prosecuzione del rapporto. Articolazione della risposta Sì, la proroga del termine del contratto è ammessa, ma alle seguenti condizioni: —il termine può essere prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a 3 anni; —la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato; —deve essere rispettata la durata massima complessiva di 3 anni; —è richiesto il consenso del lavoratore. 3 bis.In un contratto a tempo determinato, una volta scaduto il termine convenuto, il lavoratore può continuare a prestare la propria attività lavorativa? Sì, il rapporto può proseguire temporaneamente perché alla scadenza programmata può permanere una ragionevole ed oggettiva necessità di ultimare le attività lavorative in corso. Il D.Lgs. 368/2001 ammette, infatti, la possibilità di continuazione del rapporto di lavoro dopo la scadenza del termine, inizialmente fissato o successivamente prorogato, purchè contenuta entro brevi intervalli. L’attività lavorativa può continuare infatti: —fino al ventesimo giorno successivo alla scadenza se il contratto è di durata inferiore a 6 mesi; —fino al trentesimo giorno successivo alla scadenza se il contratto è di durata pari o superiore a 6 mesi. 174 Parte Dodicesima L’unico obbligo per il datore di lavoro è quello di corrispondere al lavoratore una maggiorazione sulla retribuzione. In particolare: — se il rapporto di lavoro continua dalla scadenza e fino al decimo giorno successivo, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione pari al 20%; — per ogni giorno ulteriore di prosecuzione del rapporto, fino al limite del trentesimo giorno successivo alla scadenza, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione pari al 40%. 3 ter. Cosa accade se non si rispetta il limite di tempo di prosecuzione dell’attività? Dopo 20 o 30 giorni dalla scadenza, a seconda della durata iniziale del contratto, il rapporto di lavoro a tempo determinato deve interrompersi. In caso contrario si applica la sanzione prevista dal D.Lgs. 368/2001: il contratto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini. 4. È legittima la riassunzione a tempo determinato di un lavoratore già assunto in precedenza dal medesimo datore di lavoro con contratto a termine? Riferimento normativo: art. 5, co. 3, D.Lgs. 368/2001. Disciplina: è ammessa la riassunzione del lavoratore a tempo determinato: — rispettando dei lassi temporali tra un contratto e un altro; — nella durata massima complessiva di 36 mesi nel caso di svolgimento delle medesime mansioni o equivalenti. Domande consequenziali: durata del lavoro a termine; deroghe al limite complessivo; contratto a termine in frode alla legge. Articolazione della risposta Sì. Il D.Lgs. 368/2001 detta una disciplina molto permissiva permettendo di riassumere il lavoratore, alla scadenza del contratto a termine, con un nuovo contratto a tempo determinato. Rapporti di lavoro speciali 175 È ammessa, infatti, la stipulazione di un nuovo contratto di lavoro a tempo determinato entro determinati lassi temporali, e cioè a condizione che: —siano trascorsi 10 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a 6 mesi; —siano trascorsi 20 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai 6 mesi. Nel caso detti termini non siano rispettati, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato. Deve comunque essere rispettata la durata massima complessiva di 36 mesi tra uno stesso datore di lavoro e lavoratore per lo svolgimento delle medesime mansioni o equivalenti. È comunque prevista una durata massima complessiva pari a 36 mesi per il rapporto a tempo determinato tra uno stesso datore di lavoro e lavoratore per lo svolgimento di mansioni equivalenti. Il limite di durata dei 36 mesi si applica in aggiunta all’obbligo di osservare gli intervalli temporali tra un contratto e l’altro. In pratica, decorsi 36 mesi di lavoro in totale: —il rapporto di lavoro deve cessare se è ancora in atto, salva la possibilità di prosecuzione del rapporto per ultimare l’attività in corso (massimo altri 20 o 30 giorni a seconda della durata dell’ultimo contratto di lavoro); —non è possibile stipulare un nuovo contratto a termine tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore. Nel caso di violazione del limite di durata complessiva, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato a partire dalla scadenza del termine di 36 mesi o, meglio, dallo scadere degli ulteriori 20 o 30 giorni di prosecuzione tollerati. 4 bis.Sono ammesse deroghe al divieto di superare il limite complessivo di 36 mesi? Sì. I contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono derogare al limite dei 36 mesi. Inoltre è consentito superare la durata massima complessiva di 36 mesi purché la stipulazione del nuovo contratto di lavoro a termine avvenga presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio, con l’assistenza di un rappresentante sindacale appartenente all’organizzazione 176 Parte Dodicesima (comparativamente più rappresentativa sul piano nazionale) cui il lavoratore sia iscritto o conferisca mandato. Questa possibilità di rinnovo è comunque limitata poiché: —il rinnovo può avvenire per una volta; —vi deve essere una doppia convalida (amministrativa e sindacale); —non si può superare la durata massima fissata nel CCNL. In caso di mancato rispetto della procedura di convalida, nonché nel caso di superamento del termine, il nuovo contratto si considera a tempo indeterminato. 4 ter.In quale caso un contratto a termine si presume stipulato in frode alla legge? Per espressa previsione legislativa, vi è una presunzione assoluta di frode solo nel caso di due assunzioni successive a termine effettuate senza alcuna soluzione di continuità: praticamente occorre che tra la scadenza del primo contratto e la data della nuova assunzione non intercorra neanche un giorno. In questa ipotesi, abbastanza improbabile, si applica la sanzione più grave, cioè quella della trasformazione del rapporto di lavoro in lavoro a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto. 5. Cosa ha previsto la L. 183/2010 in materia di contenzioso sul lavoro a termine? Riferimento normativo: art. 32, co. 5-7, L. 183/2010 Disciplina: se il giudice determina la conversione del contratto a tempo indeterminato per violazione delle norme sul contratto a tempo determinato condanna il datore di lavoro a risarcire il lavoratore con un’indennità onnicomprensiva individuata secondo determinati criteri. Domande consequenziali: natura dell’indennità onnicomprensiva. In materia di contenzioso, la L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato lavoro, ha previsto che nel casi di conversione del contratto a tempo indeterminato per violazione delle norme sul contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro a risarcire il lavoratore con un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal Rapporti di lavoro speciali 177 lavoratore, e determinata facendo riferimento ai criteri indicati nell’art. 8 L. 604/1966 (numero dei dipendenti occupati, direzione dell’impresa, anzianità di servizio del lavoratore, comportamento e condizioni delle parti). L’importo massimo può essere ridotto della metà quando in base ad accordi collettivi (nazionali, territoriali o aziendali) il datore di lavoro è tenuto ad assumere i lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie. Tale disciplina si applica a tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore dello stesso collegato. 5 bis. Che natura ha l’indennità onnicomprensiva prevista dalla L. 183/2010? L’erogazione dell’indennità onnicomprensiva nel caso di conversione del contratto a termine ha dato luogo a diverse interpretazioni come risulta dalla giurisprudenza formatasi a seguito della entrata in vigore della L. 183/2010, cd. collegato lavoro. In particolare, si discute se la stessa abbia natura sostitutiva (Trib. Milano sent. 29-11-2010, n. 4966) e quindi inclusiva di ogni altra spettanza per cui il lavoratore non avrebbe diritto a null’altro, o se invece debba considerarsi come tutela aggiuntiva (Trib. Busto Arsizio sent. 29-11-2010, n. 528) e in tal caso al lavoratore competerebbe oltre all’indennità prevista dalla L. 183/2010 anche il risarcimento connesso alla conversione del rapporto di lavoro. 6. Come è disciplinato il diritto di precedenza dei lavoratori assunti a termine? Riferimento normativo: art. 5, co. 4 quater, D.Lgs. 368/2001. Nozione: diritto ad essere preferiti ad altri lavoratori nel caso di nuove assunzioni a tempo determinato. Disciplina: evidenziare l’evoluzione normativa di tale diritto ed i requisiti in base ai quali esso compete. Elementi da evidenziare: deroghe alla disciplina normativa possono essere introdotte dalla contrattazione collettiva. Domande consequenziali: diritto di precedenza per i lavoratori stagionali. 178 Parte Dodicesima Articolazione della risposta Il diritto di precedenza consiste nella possibilità per i lavoratori che hanno prestato attività lavorativa con contratto a tempo determinato di essere preferiti ad altri lavoratori nel caso in cui l’azienda proceda a nuove assunzioni. Esso costituisce forse la più importante possibilità di stabilizzazione del rapporto di lavoro o, comunque, di continuità di occupazione nello stesso settore professionale. Il D.Lgs. 368/2001 aveva praticamente soppresso il diritto di precedenza, previsto dalla L. 230/1962, stabilendo che tale diritto poteva essere introdotto soltanto dalla contrattazione collettiva ed esclusivamente per i lavoratori assunti a termine per lo svolgimento di attività a carattere stagionale. Questa disciplina è stata successivamente abrogata dalla L. 247/2007 che ha ripristinato a livello legislativo il diritto di precedenza in favore dei lavoratori a termine, che abbiano prestato l’attività lavorativa presso lo stesso datore di lavoro per almeno sei mesi e che manifestino la propria volontà in tal senso entro sei mesi dalla cessazione del rapporto a termine. In tal caso, il lavoratore ha diritto di precedenza ovvero ha diritto di essere assunto in occasione di assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro nei successivi 12 mesi, con riferimento alle medesime mansioni espletate dal lavoratore in esecuzione del contratto a termine cessato. Da ultimo, tuttavia, il D.L. 112/2008, conv. in L. 133/2008, ha previsto che la disciplina relativa alla precedenza nelle assunzioni, introdotta dalla L. 247/2007, possa essere derogata dalle eventuali diverse previsioni dei contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In pratica, la contrattazione collettiva di ogni livello potrà riscrivere, o escludere, la disciplina del diritto di precedenza. 6 bis. È previsto un diritto di precedenza anche per i lavoratori stagionali? Sì. Il diritto di precedenza spetta anche ai lavoratori assunti a termine per lo svolgimento di attività stagionali. In tal caso, esso non è subordinato ad un’anzianità aziendale minima, ma la posizione di preferenza riguarda solo eventuali nuove assunzioni a termine per le medesime attività stagionali (comma 4quinquies dell’art. 5 D.Lgs. 368/2001, introdotto dalla L. 247/2007). Rapporti di lavoro speciali 179 Il lavoratore, inoltre, deve manifestare la propria volontà di volersene avvalere nel più breve termine di 3 mesi dalla scadenza del contratto stagionale. 7. Quale funzione svolge il contratto di apprendistato? Riferimenti normativi: artt. 47 e ss. D.Lgs. 276/2003. Nozione: è un contratto di lavoro subordinato a contenuto formativo finalizzato al conseguimento da parte dell’apprendista di: — una qualifica professionale; — una qualificazione tecnico-professionale; — titoli di studio di livello secondario, universitario e di alta formazione, o di specializzazioni. Caratteristiche: all’apprendista sono assicurati percorsi di formazione interna o esterna all’azienda e la formazione acquisita deve essere registrata in un apposito libretto formativo. Domande consequenziali: differenza con il praticantato. Articolazione della risposta L’apprendistato si realizza mediante un contratto di lavoro subordinato a contenuto formativo per cui a fronte della prestazione lavorativa, il datore si obbliga a corrispondere all’apprendista, non solo una controprestazione retributiva, ma anche gli insegnamenti necessari per il conseguimento di una qualifica professionale, di una qualificazione tecnico-professionale o di titoli di studio di livello secondario, universitario e di alta formazione, o di specializzazioni. La disciplina del contratto di apprendistato è stata integralmente rivisitata dal D.Lgs. 276/2003 mediante il quale il legislatore è intervenuto sui principali aspetti dell’istituto, in precedenza regolamentato dalla L. 25/1955. Caratteristica peculiare dell’apprendistato è quindi la funzione formativa a cui è tenuto il datore di lavoro nei confronti del lavoratore. All’apprendista devono essere assicurati percorsi di formazione interna, volti all’apprendimento pratico delle capacità lavorative richieste per la qualifica da conseguire, unitamente a percorsi di formazione esterna all’azienda necessari per l’acquisizione di conoscenze teoriche. La formazione acquisita deve essere registrata in un apposito libretto formativo. 180 Parte Dodicesima 7 bis.Il praticante di uno studio professionale può essere considerato un apprendista? No, in quanto l’onerosità del contratto, e cioè il pagamento della retribuzione, distingue l’apprendistato dalla figura del praticantato (contratto gratuito), in cui il praticante, pur ricevendo l’istruzione dal titolare dello studio e pur svolgendo compiti nell’interesse dello stesso, compie la propria attività lavorativa non al fine di percepire la retribuzione bensì allo scopo di imparare la professione. 8. Quali sono le tipologie di apprendistato previste dalla legge? Riferimenti normativi: art. 47 e ss. D.Lgs. 276/2003 Disciplina: evidenziare le caratteristiche delle 3 tipologie di apprendistato: — apprendistato qualificante; — apprendistato professionalizzante; — apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione. Domande consequenziali: vantaggi economici per il datore in caso di assunzione di apprendisti. Articolazione della risposta Il D.Lgs. 276/2003 ha previsto l’articolazione del tradizionale contratto di apprendistato in tre tipologie. Il primo tipo è rappresentato dal contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione (cd. apprendistato qualificante). Tale tipologia è mirata al conseguimento di una qualifica professionale o di un titolo di studio ed è rivolta a giovani e adolescenti che abbiano compiuto i 15 anni di età. La durata del contratto non può essere superiore a tre anni ed è richiesta la forma scritta, con espressa indicazione della prestazione lavorativa, del piano formativo individuale, nonché della qualifica professionale da acquisire. Tale tipologia di apprendistato costituisce, secondo le disposizioni della L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato lavoro, una specifica modalità per assolvere l’obbligo di istruzione: in pratica, il giovane che ha compiuto 15 anni di età può lavorare nell’ambito di questo contratto di apprendistato, riuscendo così sia ad assolvere l’obbligo di istruzione, la cui durata è pari a 10 anni, sia a conseguire una qualifica professionale. Rapporti di lavoro speciali 181 Vi è poi il contratto di apprendistato professionalizzante, finalizzato al conseguimento di una qualificazione professionale attraverso la formazione sul lavoro e rivolto a soggetti di età compresa tra i 18 (17 se già in possesso di una qualifica professionale) e i 29 anni. Questo contratto può essere stipulato in tutti i settori di attività ed ha una durata non superiore a 6 anni. A differenza della precedente tipologia, l’apprendistato professionalizzante non fa conseguire una qualifica o un titolo di studio, ma consente l’accrescimento delle competenze tecniche del giovane al fine di farlo divenire un lavoratore qualificato. Anche in tal caso è prevista la forma scritta del contratto, con espressa indicazione della prestazione, del piano formativo individuale, nonché della eventuale qualifica che potrà essere acquisita al termine del rapporto di lavoro. La terza tipologia è quella del contratto di apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione, finalizzato al conseguimento di un titolo di studio di livello secondario, universitario e di alta formazione, nonché alla specializzazione tecnica superiore, da parte di soggetti di età compresa tra i 18 (17 se già in possesso di una qualifica professionale) e i 29 anni. Tale modello di apprendistato non prevede un limite di durata, minima o massima, e può essere stipulato in tutti i settori di attività. In assenza di regolamentazioni regionali, il contratto di apprendistato di alta formazione può essere concluso sulla base di apposite convenzioni stipulate direttamente dai datori di lavoro con le Università e le altre istituzioni formative. 8 bis. Quali vantaggi economici comporta per il datore di lavoro l’assunzione di apprendisti? Per i datori di lavoro che assumono apprendisti sono previsti degli incentivi economici consistenti nel pagamento di una ridotta contribuzione previdenziale e assicurativa. La L. 296/2006 ha previsto che l’onere contributivo a carico del datore di lavoro non è più calcolato in misura fissa settimanale, ma nella misura del 10% della retribuzione imponibile, aliquota che resta comunque inferiore a quella prevista per la generalità dei lavoratori dipendenti. 182 Parte Dodicesima Il datore di lavoro può anche sottoinquadrare gli apprendisti nel limite di 2 livelli. Inoltre, fatto salvo il divieto di cottimo, all’apprendista può essere applicato il cd. criterio della percentualizzazione della retribuzione: la retribuzione dell’apprendista è stabilita in misura percentuale della retribuzione spettante ai lavoratori addetti a mansioni o funzioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle per il conseguimento delle quali è finalizzato il contratto (art. 53, co. 1bis, L. 276/2003, introdotto dall’art. 2, co. 155, L. 191/2009). In pratica, anche indipendentemente da un eventuale sottoinquadramento, la retribuzione iniziale è inferiore a quella spettante in base alla qualifica che deve essere conseguita dall’apprendista. Il relativo livello retributivo è assunto come retribuzione finale. 9. Qual è la disciplina comune alle tre tipologie di apprendistato? Riferimenti normativi: art. 47 e ss. D.Lgs. 276/2003. Disciplina: evidenziare le regole comuni alle 3 tipologie. Domande consequenziali: limiti al licenziamento dell’apprendista; conseguenze dell’inadempimento dell’obbligo formativo. Articolazione della risposta Le disposizioni comuni alle tre tipologie di apprendistato prevedono che: —il contratto di apprendistato può essere stipulato da qualsiasi datore di lavoro; —il numero di apprendisti non può superare il 100% delle maestranze specializzate e qualificate in servizio presso il datore di lavoro (qualora il datore di lavoro non abbia alle proprie dipendenze lavoratori qualificati o specializzati, o comunque ne abbia in numero inferiore a 3, può comunque assumere apprendisti, ma massimo 3); —l’apprendista può essere inquadrato, durante lo svolgimento dell’apprendistato, in una categoria professionale inferiore, ma per non più di due livelli, rispetto a quella spettante per la qualifica al conseguimento della quale è finalizzato il contratto; —gli apprendisti sono esclusi dal computo dei limiti numerici per il calcolo della dimensione aziendale (numero totale dei dipendenti assunti) previsti dal legislatore o dalla contrattazione collettiva ai fini dell’appli- Rapporti di lavoro speciali 183 cazione di determinati istituti (es. l’obbligo di reintegrare il lavoratore, in caso di licenziamento illegittimo, si applica solo ai datori di lavoro che occupino più di 15 lavoratori). Invece, solo per l’apprendistato per il diritto-dovere di istruzione e formazione e per quello professionalizzante è formulato espressamente il divieto di retribuire l’apprendista mediante cottimo. 9 bis.Al contratto di apprendistato si applica la disciplina limitativa del licenziamento vigente in materia di lavoro subordinato? Sì: il licenziamento dell’apprendista prima della scadenza del contratto è legittimo soltanto in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. Al termine del periodo di apprendistato, il datore di lavoro può invece recedere dal rapporto di lavoro ai sensi di quanto disposto dall’art. 2118 c.c. (necessità del preavviso). 9 ter.Se il datore di lavoro non svolge la formazione nei confronti dell’apprendista il rapporto si trasforma in un contratto di lavoro a tempo indeterminato? No, solo le agevolazioni normative ed economiche di cui gode il datore di lavoro sono subordinate all’effettività della formazione. Di conseguenza, nel caso in cui si accerti un grave inadempimento dell’obbligo formativo, imputabile esclusivamente al datore di lavoro, questi è sanzionato con l’obbligo di versare agli istituti previdenziali la differenza tra la minore contribuzione versata e quella che invece avrebbe dovuto versare in base alla qualifica da far raggiungere all’apprendista stabilita nel contratto di lavoro, maggiorata del 100%. Nell’ipotesi però che il contratto di apprendistato sia trasformato in un rapporto a tempo indeterminato antecedentemente alla scadenza prefissata, l’obbligo formativo non rientra più nel sinallagma contrattuale per cui la formazione non è più dovuta (circ. Min. Lav. 6-2-2009). 184 Parte Dodicesima 10. Quali finalità persegue il contratto di inserimento? Riferimenti normativi: art. 54 e ss. D.Lgs. 276/2003. Nozione: evidenziare che la funzione è quella di garantire l’inserimento nel mercato del lavoro di categorie di lavoratori considerate socialmente deboli e individuate dallo stesso legislatore. Disciplina: illustrare il campo di applicazione di tale contratto, i lavoratori che possono essere assunti, la durata. Domande consequenziali: forma del contratto; conseguenze della prosecuzione del rapporto oltre la scadenza. Articolazione della risposta Il contratto di inserimento, introdotto e disciplinato dal D.Lgs. 276/2003, è un contratto di lavoro a tempo determinato diretto a realizzare, mediante un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore a un determinato contesto lavorativo, l’inserimento ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro di determinate categorie di lavoratori. Nelle intenzioni del legislatore tale nuova tipologia contrattuale è stata introdotta in sostituzione del contratto di formazione e lavoro. In realtà, il contratto di inserimento ha una ridotta funzione formativa ed è invece più marcata quella di garantire l’inserimento nel mercato del lavoro di categorie socialmente deboli individuate dalla legge. I lavoratori che possono essere assunti mediante contratto d’inserimento sono: —tutti i soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni; —i disoccupati di lunga durata da 29 fino a 32 anni; —i lavoratori con più di 50 anni di età privi di un posto di lavoro; —i lavoratori che non abbiano lavorato per almeno 2 anni; —le donne di qualsiasi età residenti in un’area geografica ove è più elevata la disoccupazione femminile; —le persone affette da un grave handicap fisico, mentale o psichico. I contratti di inserimento possono essere stipulati in tutti i settori di attività dalla generalità dei datori di lavoro: enti pubblici economici, imprese e loro consorzi, gruppi di imprese, associazioni professionali, socio-culturali, sportive, fondazioni, enti di ricerca pubblici e privati. Rapporti di lavoro speciali 185 Unica condizione, per poter assumere mediante contratti di inserimento, è avere mantenuto in servizio almeno il 60% dei lavoratori il cui contratto di inserimento sia venuto a scadere nei 18 mesi precedenti. Si considerano mantenuti in servizio i giovani per i quali il rapporto di lavoro, nel corso del suo svolgimento, sia stato trasformato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Il contratto di inserimento ha una durata non inferiore a 9 mesi e non superiore ai 18 mesi (36 mesi nel caso di assunzione di lavoratori disabili). Non è rinnovabile tra le stesse parti ed eventuali proroghe sono ammesse entro il limite massimo legale di durata del contratto (18 mesi). 10 bis. È richiesta la forma scritta per la stipulazione del contratto di inserimento? Sì, è richiesta espressamente la forma scritta e in esso deve essere specificamente indicato il progetto individuale di inserimento, concordato con il lavoratore. In mancanza di forma scritta, il contratto di inserimento è nullo e il lavoratore si intende assunto a tempo indeterminato sin dall’origine. 10 ter. Quale conseguenza produce la prosecuzione del rapporto con il lavoratore oltre la scadenza del contratto di inserimento? Se il rapporto continua alla scadenza del termine stabilito nel contratto o della eventuale successiva proroga, il contratto si trasforma in un normale contratto di lavoro a tempo indeterminato. Questa sanzione discende dall’applicazione della disciplina del lavoro a termine, richiamata dallo stesso D.Lgs. 276/2003. Proprio perciò la trasformazione del contratto opera decorsi 30 giorni dalla sua scadenza: la prosecuzione entro tale limite è legittima, salvo la corresponsione al lavoratore di una maggiorazione della retribuzione. 11. Quali agevolazioni sono previste per i datori di lavoro che stipulano contratti di inserimento? Riferimento normativo: art. 59 D.Lgs. 276/2003. Disciplina: illustrare i vantaggi economici e normativi connessi all’assunzione mediante contratto di inserimento: 186 Parte Dodicesima — possibilità di sottoinquadrare il lavoratore; — esclusione dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti; — possibilità di fruire dei medesimi incentivi economici previsti per i precedenti contratti di formazione e lavoro. Domande consequenziali: sanzioni per il grave inadempimento del progetto di inserimento. Articolazione della risposta La stipulazione del contratto di inserimento comporta per il datore di lavoro notevoli vantaggi economici e normativi. È infatti previsto che al lavoratore assunto con contratto di inserimento può essere attribuito un inquadramento inferiore, per non più di 2 livelli, rispetto a quello corrispondente alla qualifica al cui conseguimento è preordinato il contratto di inserimento. La possibilità di sottoinquadrare il lavoratore, che comporta un trattamento economico inferiore, è stata però esclusa in caso di assunzione di donne di qualsiasi età residenti in un’area geografica in cui vi sia un elevato tasso di disoccupazione femminile, salvo diversa previsione dei contratti collettivi. I lavoratori assunti con contratto di inserimento sono, inoltre, esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti. Il contratto di inserimento presenta, infine, il vantaggio di una ridotta contribuzione in quanto il D.Lgs. 276/2003 estende a tali contratti gli incentivi economici previsti dall’ordinamento in relazione ai precedenti contratti di formazione e lavoro. Per fruire delle agevolazioni è necessario che siano però rispettati i criteri adottati dalle istituzioni europee. 11 bis. Nel caso di grave inadempimento del progetto di inserimento quali sanzioni prevede la legge? Per tale ipotesi è stabilita la restituzione della differenza tra i contributi agevolati versati e quelli dovuti in base al livello di inquadramento contrattuale che il lavoratore avrebbe potuto raggiungere al termine del periodo di inserimento, maggiorata del 100%. Rapporti di lavoro speciali 187 12. Con il tirocinio o stage si instaura un rapporto di lavoro subordinato? Riferimenti normativi: D.M. 142/1998. Nozione: evidenziare che non costituiscono dei contratti di lavoro subordinato. Finalità: realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro e ad agevolare l’inserimento professionale di soggetti che hanno già assolto l’obbligo scolastico. Articolazione della risposta No, il rapporto di stage non è qualificabile come rapporto di lavoro subordinato, con la conseguenza che nei confronti del tirocinante e dell’impresa che se ne avvale non trovano applicazione gli effetti tipici del rapporto di lavoro subordinato. I tirocini formativi e di orientamento, o stage, sono infatti definiti come periodi di formazione on the job, e si sostanziano in forme di inserimento temporaneo all’interno dell’azienda, senza costituire però dei rapporti di lavoro, con l’obiettivo di consentire ai soggetti coinvolti di conoscere e di sperimentare in modo concreto la realtà lavorativa attraverso una formazione professionale e un addestramento pratico direttamente sul luogo di lavoro (Min. Lav. risposta ad interpello 3-10-2008, n. 44). La finalità dei tirocini è analoga a quella dei contratti di lavoro con finalità formativa, ma in questo caso non si ha la costituzione di alcun rapporto di lavoro. Può però accadere, anzi è l’obiettivo perseguito dal legislatore, che al termine del tirocinio, il lavoratore venga assunto con contratto di lavoro subordinato dall’azienda. I criteri e le modalità di svolgimento sono fissati dal D.M. 25-3-1998, n. 142 anche se la loro effettiva disciplina resta demandata alla competenza legislativa di ciascuna Regione (pertanto la normativa nazionale trova applicazione solo in assenza di una specifica disciplina a livello regionale). Può però accadere, anzi è l’obiettivo perseguito dal legislatore, che al termine del tirocinio il lavoratore venga assunto con contratto di lavoro subordinato dall’azienda. 188 Parte Dodicesima 13. Cos’è il lavoro a tempo parziale ed in quali tipologie si può articolare? Riferimento normativo: D.Lgs. 61/2000. Nozione: rapporto di lavoro subordinato caratterizzato da un orario di lavoro inferiore rispetto all’orario di lavoro a tempo pieno. Caratteristiche: illustrare le diverse tipologie di part-time: — lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale; — lavoro a tempo parziale di tipo verticale; — lavoro a tempo parziale di tipo misto. Domande consequenziali: funzione del part-time. Articolazione della risposta Per lavoro a tempo parziale si intende il rapporto di lavoro subordinato caratterizzato da un orario di lavoro inferiore rispetto all’orario di lavoro a tempo pieno. Quest’ultimo corrisponde all’orario normale di lavoro fissato dalla legge in 40 ore settimanali, o all’eventuale minore orario normale di lavoro fissato dai contratti collettivi. L’istituto del lavoro a tempo parziale, per molto tempo disciplinato dalla L. 863/1984, è stato completamente ridisegnato dal D.Lgs. 61/2000 di attuazione della direttiva comunitaria 97/81/CE. Il regime del tempo parziale può essere applicato nell’ambito di qualsiasi contratto di lavoro subordinato, anche a tempo determinato o di apprendistato o di inserimento. Il D.Lgs. 61/2000 individua espressamente le tipologie di part-time che è possibile costituire: —rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale, in cui la riduzione di orario rispetto al tempo pieno è prevista in relazione all’orario normale giornaliero di lavoro: si lavora tutti i giorni della settimana lavorativa, ma in ciascun giorno per un minor numero di ore; —rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale, in cui l’attività lavorativa è svolta a tempo pieno, ma limitatamente a periodi predeterminati: si lavora a tempo pieno ma solo in alcuni giorni della settimana, o alcune settimane del mese o mesi dell’anno; —rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo misto, in cui l’attività lavorativa si svolge secondo una combinazione delle due tipologie preceden- Rapporti di lavoro speciali 189 ti: ad esempio, si lavora tutti i giorni della settimana lavorativa, ma il lunedì, martedì e mercoledì ad orario pieno, mentre il giovedì e il venerdì in part-time. 13 bis. Qual è la funzione del lavoro part-time? Il part-time ha la funzione di introdurre una rilevante flessibilità nel rapporto di lavoro subordinato con riguardo al tempo di lavoro. Tale flessibilità, in genere, risulta vantaggiosa soprattutto per il lavoratore che, con un regime di orario parziale, può conciliare l’attività professionale con altre necessità, in primis quelle familiari. Pertanto, una maggiore diffusione del lavoro a tempo parziale, rispetto al quale permangono invece le resistenze delle imprese, porterebbe ad un aumento del livello di occupazione delle donne, spesso costrette a rinunziare al lavoro per le incombenze della crescita dei figli o di cura dei familiari. A tal fine, per vincere le resistenze delle imprese verso il part-time, ancora poco diffuso, la L. 247/2007, e poi la L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato lavoro, hanno previsto, nell’ambito di una delega al governo per il riordino della normativa in materia di occupazione femminile, un rafforzamento del lavoro a tempo parziale anche introducendo incentivi e sgravi contributivi mirati a sostenere i regimi di orari flessibili legati alle necessità della conciliazione tra lavoro e vita familiare. 14. Il contratto di lavoro a tempo parziale deve essere stipulato in forma scritta? Riferimento normativo: art. 2 D.Lgs. 61/2000. Disciplina: la forma scritta fornisce la prova del tempo parziale nel contratto di lavoro. Sanzioni: illustrare le sanzioni applicate in caso di: — mancanza della prova della stipulazione del contratto part-time; — carenza del contenuto del contratto part-time. Articolazione della risposta Sì. Il contratto di lavoro a tempo parziale deve essere stipulato in forma scritta al fine di provare la sussistenza del tempo parziale nel rapporto di lavoro (cd. forma ad probationem). 190 Parte Dodicesima La mancanza della forma scritta, infatti, non determina la nullità del contratto di lavoro ma incide solo sui mezzi di prova a disposizione delle parti per dimostrare l’esistenza del rapporto di lavoro a tempo parziale. Infatti, qualora la scrittura risulti mancante, la prova per testimoni è ammessa soltanto nel caso di incolpevole perdita del documento (art. 2725 c.c.). Se non si riesce a fornire la prova circa la stipulazione a tempo parziale del contratto di lavoro, potrà essere dichiarata, su richiesta del lavoratore, la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data in cui la mancanza della scrittura sia stata giudizialmente accertata. Nel contenuto del contratto di lavoro a tempo parziale deve essere quindi specificata per iscritto la durata della prestazione lavorativa e la collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. In caso contrario non si ha la nullità del contratto ma: —se l’omissione riguarda la durata della prestazione, su richiesta del lavoratore può essere dichiarata la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data del relativo accertamento giudiziale; —se l’omissione riguarda la sola collocazione temporale dell’orario, provvederà il giudice a determinare le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o, in mancanza, con valutazione equitativa. 15. Che cosa sono le clausole flessibili e le clausole elastiche? Riferimento normativo: art. 3, co. 7-10, D.Lgs. 61/2000. Nozione: clausole accessorie del contratto a tempo parziale, che consentono di modificare la collocazione temporale della prestazione (clausole di flessibilità) e di aumentare la durata della prestazione (clausole di elasticità). Domande consequenziali: differenza tra clausola elastica e lavoro straordinario; introduzione delle clausole flessibili ed elastiche nel contratto di lavoro part-time. Articolazione della risposta Le clausole di flessibilità e di elasticità apposte al contratto di lavoro a tempo parziale sono finalizzate ad introdurre maggiore flessibilità nell’ambito del rapporto. Rapporti di lavoro speciali 191 Le clausole flessibili della prestazione operano una variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa e possono essere apposte a tutte le tipologie di contratto part-time: incidono su quando si lavora, se ad esempio le ore del mattino o del pomeriggio, oppure le prime due settimane del mese o le successive. Le clausole di elasticità consentono, invece, al datore di lavoro di aumentare la durata della prestazione, senza che le ore in più valgano come straordinario e possono essere apposte solo nel part-time verticale o misto: incidono quindi sulla quantità della prestazione. Lo svolgimento di prestazioni elastiche o flessibili dà diritto al lavoratore a specifiche compensazioni (riposo compensativo o maggiorazione della retribuzione), nella misura e nelle forme previste dal contratto collettivo. 15 bis. Qual è la differenza tra clausola di elasticità e lavoro straordinario o supplementare? La clausola elastica determina un incremento definitivo della quantità della prestazione; il lavoro straordinario o supplementare, invece, determinano un aumento temporaneo della prestazione, riferito ad ogni singola giornata nella quale viene richiesta una prestazione aggiuntiva. 15 ter. Per l’introduzione di clausole flessibili o elastiche è sufficiente l’accordo tra datore di lavoro e lavoratore? No. Per effetto delle modifiche ex L. 247/2007, l’introduzione di tali clausole nel contratto di lavoro part-time è subordinata ad una specifica previsione in tal senso da parte dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Ferma, quindi, restando la previsione a monte da parte del contratto collettivo, per l’introduzione di entrambi i tipi di clausole è necessario poi il consenso espresso del lavoratore, formalizzato attraverso uno specifico patto scritto, contestuale o successivo alla stipulazione del contratto di lavoro. È necessaria così per la legittimità di queste clausole la sussistenza di una doppia condizione: —esistenza di una previsione positiva da parte del contratto collettivo; —consenso espresso del lavoratore. 192 Parte Dodicesima Il lavoratore è comunque libero di non dare il proprio consenso, senza che un tale rifiuto possa costituire motivo di licenziamento, né possa fargli subire conseguenze sul piano disciplinare. In caso di rapporto part-time con clausole elastiche e di flessibilità, il datore che intenda variare in aumento la prestazione o collocarla diversamente deve dare al lavoratore un preavviso di almeno 5 giorni. 16. Un lavoratore a tempo parziale ha gli stessi diritti di un lavoratore a tempo pieno? Riferimento normativo: art. 4 D.Lgs. 61/2000. Disciplina: il trattamento economico e normativo dei lavoratori part-time è regolamentato in base ai principi di non discriminazione e di proporzionalità, per cui competono, in misura proporzionale al lavoro prestato, i medesimi trattamenti di cui godono i lavoratori a tempo pieno presso l’azienda. Articolazione della risposta Il trattamento economico e normativo del lavoratore part-time è regolato dall’applicazione di due principi: —principio di non discriminazione, in base al quale il lavoratore a tempo parziale deve beneficiare dei medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno comparabile, in particolare per quanto riguarda l’importo della retribuzione oraria, la durata del periodo di prova e delle ferie annuali, la durata del periodo di astensione obbligatoria e facoltativa per maternità; —principio di proporzionalità, in base al quale il trattamento del lavoratore deve essere calcolato in proporzione alla ridotta entità della prestazione lavorativa per quegli istituti commisurati alla stessa (es. importo della retribuzione globale e feriale, trattamenti economici per malattia, maternità etc.). 17. Esiste un diritto del lavoratore part-time alla trasformazione del rapporto a tempo pieno? Riferimenti normativi: artt. 5, co. 2, e 12 ter D.Lgs. 61/2000. Nozione: definire il diritto di precedenza come titolo ad essere preferito ad altri lavoratori, in caso di nuove assunzioni a tempo pieno da parte del datore di lavoro. Rapporti di lavoro speciali 193 Disciplina: il diritto di precedenza deve essere previsto dal contratto individuale per i lavoratori assunti direttamente con contratto part-time; è previsto dal legislatore per quelli che hanno trasformato il rapporto da tempo pieno in part-time. Domande consequenziali: trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno in part-time. Articolazione della risposta No, al lavoratore a tempo parziale spetta solo un diritto di precedenza, ovvero il diritto di essere preferito ad altri lavoratori, in caso di nuove assunzioni a tempo pieno da parte del datore di lavoro. In proposito occorre distinguere due ipotesi: —per i lavoratori assunti direttamente con contratto part-time, il diritto di precedenza è azionabile solo se è previsto dal contratto individuale. In tale ipotesi, in caso di assunzione da parte dell’azienda di personale a tempo pieno, deve essere rispettata la precedenza in favore del lavoratore occupato a tempo parziale presso unità produttive site nello stesso ambito comunale, adibito alle stesse mansioni o a mansioni equivalenti rispetto a quelle con riguardo alle quali è prevista l’assunzione; —per i lavoratori assunti a tempo pieno ma che hanno poi trasformato il rapporto in part-time, il diritto di precedenza è immediatamente azionabile in quanto deriva direttamente dalla legge. Il lavoratore ha diritto di precedenza nella trasformazione da part-time a tempo pieno (come originariamente era il rapporto) in caso di prevista assunzione da parte del datore di lavoro di lavoratori a tempo pieno per le mansioni identiche o equivalenti a quelle che ricopre in regime di part-time. 17 bis.Esiste un diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno in part-time? No. In linea generale, la legge non riconosce un diritto del lavoratore a tempo pieno di trasformare il proprio rapporto di lavoro in part-time, neanche in caso di programmate assunzioni di personale a tempo parziale da parte dell’azienda. È previsto soltanto un mero obbligo informativo in capo al datore di lavoro, che deve dare tempestiva informazione al personale già dipendente con rapporto a tempo pieno delle nuove assunzioni in regime di part-time che intende effettuare ed è tenuto a prendere in considerazione le eventuali doman- 194 Parte Dodicesima de di trasformazione a tempo parziale presentate dai dipendenti a tempo pieno. La legge disciplina ipotesi specifiche in cui è possibile trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno in part-time (art. 12bis D.Lgs. 61/2000). È il caso dei lavoratori affetti da patologie oncologiche, che hanno diritto alla trasformazione in part-time per tutto il periodo dei tempi di cura (circ. Min. Lav. 22-12-2005, n. 40). Successivamente, su richiesta del lavoratore, il rapporto di lavoro potrà essere trasformato nuovamente in rapporto di lavoro a tempo pieno. È invece riconosciuta la priorità alla richiesta di trasformare in part-time i rapporti di lavoro a tempo pieno del: —lavoratore con familiare (coniuge, figlio o genitore) con patologie oncologiche; —lavoratore che assiste persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa con carattere di gravità ed invalidità riconosciuta pari al 100%, con necessità di assistenza continua. Fermo restando quanto detto, la legge prevede che le parti possono accordarsi per trasformare il rapporto a tempo pieno in part-time, con atto scritto convalidato dalla Direzione provinciale del lavoro competente per territorio. 18. Che cos’è il lavoro ripartito? Riferimenti normativi: artt. 41 e ss., D.Lgs. 276/2003. Nozione: evidenziare che si tratta di uno speciale contratto di lavoro subordinato in cui due lavoratori assumono in solido l’adempimento di un’unica e identica obbligazione lavorativa. Disciplina: i lavoratori condividono il medesimo posto di lavoro per cui: — ognuno è personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione lavorativa; — il datore può esigere la prestazione da ciascun lavoratore; — i lavoratori possono sostituirsi tra loro; — il trattamento economico e normativo spettante in base alla qualifica ed alle mansioni è riproporzionato in ragione della prestazione lavorativa effettivamente eseguita da ciascun lavoratore in regime di job sharing. Domande consequenziali: differenza con il part-time; impossibilità per entrambi i lavoratori di eseguire la prestazione; effetti sul rapporto delle dimissioni o del licenziamento di uno dei lavoratori. Rapporti di lavoro speciali 195 Articolazione della risposta Il contratto di lavoro ripartito, introdotto formalmente e disciplinato dal D.Lgs. 276/2003, è uno speciale contratto di lavoro mediante il quale due lavoratori assumono in solido l’adempimento di un’unica e identica obbligazione lavorativa. In sostanza, il lavoro ripartito, anche denominato job sharing, è una particolare figura contrattuale di lavoro subordinato che si fonda sulla condivisione del medesimo posto di lavoro da parte di due lavoratori, i quali restano sostanzialmente liberi di organizzare tra loro la prestazione lavorativa, ripartendosi l’orario di lavoro, con il vincolo di sostituirsi a vicenda in caso di impedimento di uno dei due. I lavoratori di questo rapporto speciale hanno la facoltà di determinare discrezionalmente e in qualsiasi momento sostituzioni tra di loro, nonché di modificare consensualmente la collocazione temporale dell’orario di lavoro. I due lavoratori sono legati l’uno all’altro da un vincolo di solidarietà: ogni lavoratore è personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione lavorativa e il datore di lavoro può esigere l’esatto adempimento della prestazione da ciascun lavoratore. Ciò vuol dire che la ripartizione della prestazione rileva solo nei rapporti interni tra i lavoratori. Il trattamento economico e normativo deve essere equivalente a quello di un lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte, riproporzionato in ragione della prestazione lavorativa effettivamente eseguita da ciascun lavoratore (in particolare per la misura delle ferie, congedi etc.). 18 bis. Che differenza c’è tra lavoro ripartito e part-time? Entrambe le tipologie contrattuali prevedono che i lavoratori effettuino la prestazione per un orario ridotto rispetto al tempo pieno vigente nell’azienda. Tuttavia, nel lavoro ripartito, a differenza che nel part-time, ciascun lavoratore è responsabile di fronte al datore di lavoro per tutte le ore lavorative dovute e la riduzione dell’orario di lavoro per ciascun lavoratore attiene esclusivamente il rapporto interno tra i due. 196 Parte Dodicesima 18 ter. Che succede se entrambi i lavoratori sono impossibilitati a svolgere la prestazione? L’impedimento di entrambi i lavoratori coobbligati comporta la risoluzione del contratto se l’impossibilità di eseguire la prestazione è definitiva o se, pur essendo temporanea, il datore di lavoro non ha più interesse alla prestazione stessa (art. 1256 c.c.). Normalmente l’impossibilità temporanea dei due lavoratori determina una sospensione del rapporto di lavoro. Nel caso di impossibilità di uno o di entrambi i lavoratori coobbligati, eventuali sostituzioni da parte di terzi sono ammesse solo previo consenso del datore di lavoro. 18 quater.Se uno dei lavoratori coobbligati viene licenziato o si dimette, il rapporto di lavoro prosegue con l’altro? No. Le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori coobbligati comportano l’estinzione del rapporto di lavoro anche nei confronti dell’altro, eccetto che, su richiesta del datore di lavoro, questi si renda disponibile ad adempiere per intero o parzialmente l’obbligazione lavorativa. In tal caso il contratto di lavoro ripartito si trasforma in un normale contratto di lavoro subordinato. 19. In cosa consiste il lavoro intermittente? Riferimenti normativi: art. 41 e ss. D.Lgs. 276/2003. Nozione: evidenziare che si tratta di un contratto di lavoro subordinato mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa quando ne ha effettivamente bisogno. Caratteristiche: la prestazione non è effettuata con continuità ma solo su richiesta del datore; elemento accessorio del contratto è la clausola relativa all’obbligo di disponibilità del lavoratore. Domande consequenziali: campo di applicazione; trattamento economico e normativo del lavoratore intermittente; ipotesi vietate. Articolazione della risposta Il lavoro intermittente, denominato anche lavoro a chiamata o job on call, è un contratto di lavoro subordinato, a tempo determinato o indetermi- Rapporti di lavoro speciali 197 nato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa quando ne ha effettivamente bisogno. Questa particolare tipologia di contratto di lavoro è stata introdotta e disciplinata per la prima volta nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 276/2003, con l’intenzione di codificare i diritti del prestatore occupato in rapporti non continuativi, instaurati lecitamente in base all’autonomia contrattuale. Successivamente, però, la L. 247/2007 ha abrogato il lavoro intermittente (a partire dal 1°-1-2008), ritenendolo caratterizzato da un eccessivo sbilanciamento delle posizioni contrattuali, di estrema debolezza per il lavoratore, di forza indiscriminata per il datore. Senonché il D.L. 112/2008, conv. in L. 133/2008, ha reintrodotto la fattispecie contrattuale del lavoro intermittente, ripristinando anche la relativa disciplina prevista dal D.Lgs. 276/2003, che quindi può considerarsi di nuovo perfettamente operativa dal 25-6-2008 (data di entrata in vigore del decreto legge). Lo schema negoziale del lavoro intermittente può assumere una delle seguenti tipologie: —lavoro intermittente con espressa pattuizione dell’obbligo di disponibilità del lavoratore, in cui questi è obbligato a restare a disposizione del datore di lavoro per effettuare prestazioni lavorative quando il datore stesso le richieda; —lavoro intermittente senza obbligo di disponibilità del lavoratore, in cui il prestatore non si impegna contrattualmente ad accettare la chiamata del datore di lavoro: resta cioè libero di accettare ed eseguire la prestazione o no. Elemento peculiare del contratto di lavoro intermittente, in entrambe le tipologie, è che la prestazione non è effettuata con continuità, come accade in un normale rapporto di lavoro subordinato, ma solo su richiesta del datore: il contratto, infatti, determina la facoltà per il datore di chiamare una o più volte il lavoratore per lo svolgimento della prestazione, nel rispetto di un termine minimo di preavviso non inferiore a un giorno lavorativo. 198 Parte Dodicesima 19 bis.In quali ipotesi è possibile ricorrere al lavoro intermittente? Si può ricorrere al lavoro intermittente in presenza delle seguenti causali: —per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi (causali oggettive). Stante la carenza di determinazioni contrattuali a causa dell’avversità dei sindacati all’introduzione di tale tipologia contrattuale, il Ministero del Lavoro (D.M. 23-10-2004) ha provveduto in via sostitutiva (ex art. 40 D.Lgs. 276/2003) ad individuare le particolari esigenze di produzione intermittente o stagionale che legittimano il ricorso all’istituto: si tratta di occupazioni quali, ad esempio, quelle dei custodi, fattorini, uscieri, inservienti, personale di servizio e di cucina in alberghi; —per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese e dell’anno (fine settimana, ferie estive, vacanze natalizie e pasquali) e per ulteriori periodi predeterminati dai contratti collettivi; —in via sperimentale, per prestazioni rese da soggetti con meno di 25 anni di età ovvero da lavoratori con più di 45 anni di età , anche pensionati (causali soggettive). 19 ter. Quale trattamento economico e normativo spetta al lavoratore intermittente? Per il periodo di attività, il lavoratore intermittente ha diritto al normale trattamento economico e normativo previsto dai contratti collettivi di settore per il lavoratore comparabile, riproporzionato in ragione della prestazione lavorativa effettivamente eseguita. Per il periodo di inattività, invece, ed esclusivamente laddove il lavoratore intermittente si sia obbligato contrattualmente a rispondere alle chiamate del datore di lavoro, egli ha diritto ad una indennità di disponibilità, stabilita dal contratto collettivo e comunque non inferiore ad una misura minima prevista con decreto del Ministro del Lavoro. Per quanto concerne le altre regole del rapporto di lavoro: —nel caso di obbligo a rispondere alla chiamata del datore, nell’ipotesi di temporanea indisponibilità (per malattia, infortunio o altro evento), il lavoratore non matura il diritto alla indennità di disponibilità ed è tenuto a informare tempestivamente il datore di lavoro, pena la perdita del diritto alla indennità per un periodo di 15 giorni; Rapporti di lavoro speciali 199 —il rifiuto ingiustificato alla chiamata del datore, in caso di obbligo a rispondere, può comportare la risoluzione del contratto e la restituzione della quota di indennità di disponibilità, nonché un congruo risarcimento del danno al datore; —per tutto il periodo durante il quale il lavoratore resta disponibile a rispondere alla chiamata del datore di lavoro non è titolare di alcun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati, né matura alcun trattamento economico e normativo, salvo l’indennità di disponibilità. 19 quater.In quali ipotesi è vietato il ricorso al lavoro intermittente? È vietato ricorrere al lavoro intermittente: —per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; —in unità produttive nelle quali si sia proceduto, nei sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi, a sospensioni, ovvero a riduzioni dell’orario di lavoro che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente; —da parte di imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza sul lavoro. 20. Quali sono le principali caratteristiche del lavoro a domicilio? Riferimento normativo: L. 877/1973. Nozione: definire il lavoro a domicilio come una particolare tipologia di impiego in cui la prestazione lavorativa si svolge presso il domicilio del lavoratore o in locali di cui questi abbia disponibilità. Caratteristiche: evidenziare la peculiarità dell’esercizio dei poteri di direzione e controllo del datore di lavoro determinata dalla mancanza di un coordinamento spaziale e temporale della prestazione con l’attività di impresa. Disciplina: distinguere tra lavoro a domicilio autonomo e lavoro a domicilio subordinato; elencare le innovazioni del D.L. 112/2008 conv. in L. 133/2008. Domande consequenziali: facoltà del lavoratore a domicilio di svolgimento della prestazione con l’aiuto di terzi. Articolazione della risposta Il rapporto di lavoro a domicilio costituisce una particolare tipologia di impiego in cui la prestazione lavorativa, anziché essere eseguita nei locali 200 Parte Dodicesima dell’azienda e sotto il diretto controllo del datore di lavoro, si svolge presso il domicilio del lavoratore o in locali di cui questi abbia disponibilità. La disciplina di tale contratto di lavoro è contenuta nella L. 877/1973 come modificata dal D.L. 112/2008, conv. in L. 133/2008, che ha introdotto alcune novità volte soprattutto a semplificare la gestione del rapporto di lavoro. Il lavoro a domicilio, pertanto, è un rapporto di lavoro subordinato la cui specialità consiste nel fatto che l’esercizio dei poteri di direzione, di controllo e disciplinari del datore di lavoro è reso meno pregnante dall’assenza di un coordinamento spaziale e temporale con l’attività di impresa. Differentemente dalla generalità dei lavoratori subordinati, infatti, nel rapporto di lavoro a domicilio il prestatore è vincolato alle direttive dell’imprenditore pur non trovandosi alle sue dirette dipendenze. Occorre inoltre rilevare che la giurisprudenza di legittimità distingue tra lavoro a domicilio subordinato, in cui il lavoratore esegue la medesima prestazione del lavoratore ordinario ma in un luogo diverso dall’azienda, e lavoro a domicilio autonomo, in cui il lavoratore esegue un’opera finita utilizzando una distinta struttura organizzativa ed assumendo in proprio il rischio dell’organizzazione e delle strutture (Cass. 6150/1999). La disciplina del rapporto di lavoro, così come innovata dal D.L. 112/2008 conv. in L. 133/2008, è articolata nei seguenti punti caratterizzanti: —i datori di lavoro possono assumere direttamente lavoratori a domicilio, essendo stato soppresso – ex D.L. 112/2008 – l’obbligo di preventiva iscrizione nell’apposito registro dei committenti di lavoro a domicilio; —il datore che abbia alle proprie dipendenze lavoratori a domicilio deve registrare sul cd. libro unico del lavoro, istituito dal D.L. 112/2008, il nominativo ed il relativo domicilio dei lavoratori esterni all’unità produttiva, nonché la misura della loro retribuzione. Nel libro unico del lavoro devono essere annotati anche tutti i dati relativi al lavoro da eseguire, in seguito alla soppressione ex D.L. 112/2008 del libretto personale di controllo del lavoratore a domicilio; —non è ammessa l’esecuzione di lavori pericolosi comportanti l’impiego di sostanze o materiali nocivi o pericolosi per la salute o la incolumità del lavoratore e dei suoi familiari; —al lavoratore a domicilio è fatto divieto di eseguire lavori per conto proprio o di terzi, in concorrenza con il datore di lavoro; Rapporti di lavoro speciali 201 —i lavoratori a domicilio debbono essere retribuiti sulla base di tariffe di cottimo pieno risultanti dai contratti collettivi della categoria. 20 bis.Il lavoratore a domicilio può servirsi dell’aiuto di terzi da lui stesso pagati? No: per espressa previsione di legge il lavoratore a domicilio non può utilizzare nè manodopera salariata né apprendisti per l’esecuzione della prestazione lavorativa. Egli può usufruire soltanto dell’aiuto accessorio di membri della sua famiglia conviventi e a carico. 21. Che cos’è il lavoro domestico? Riferimenti normativi: artt. 2240-2246 c.c.; L. 339/1958; D.P.R. 1403/1971. Nozione: definire il lavoro a domicilio come una particolare tipologia di lavoro subordinato in cui l’attività lavorativa viene espletata presso l’abitazione del datore di lavoro, generalmente per il soddisfacimento dei bisogni personali o familiari di quest’ultimo. Disciplina: elencare le peculiarità della disciplina legale del rapporto. Articolazione della risposta Il lavoro domestico è un rapporto di lavoro subordinato in cui l’attività lavorativa viene espletata presso l’abitazione del datore di lavoro, generalmente per il soddisfacimento dei bisogni personali o familiari di quest’ultimo. La specialità del rapporto, dunque, si rinviene nel fatto che la prestazione lavorativa è svolta, con vincolo di subordinazione, nell’ambito di una comunità familiare o di comunità similari. La disciplina del rapporto è contenuta nel codice civile (artt. 2240-2246), nella L. 339/1958 e nel D.P.R. 1403/1971, che ha disposto l’obbligo delle assicurazioni sociali per gli addetti ai servizi domestici, indipendentemente dalla durata della prestazione. Oltre a quanto disposto da tali normative, il rapporto è regolato dalla contrattazione collettiva per i datori di lavoro e i prestatori aderenti alle organizzazioni sindacali stipulanti. 202 Parte Dodicesima Per quanto concerne la disciplina legale del rapporto, è importante ricordare che: —l’assunzione diretta del lavoratore, deve essere comunicata all’INPS (e non al centro per l’impiego come per la generalità di lavoratori subordinati) (art. 16bis D.L. 185/2008 conv. in L. 2/2009); —non si applicano i limiti derivanti dalla disciplina generale dell’organizzazione dell’orario di lavoro (D.Lgs. 66/2003) in considerazione delle caratteristiche dell’attività prestata dal lavoratore domestico; —in materia di estinzione del rapporto trova applicazione il regime di libera recedibilità del datore di lavoro (licenziamento ad nutum), cioè senza necessità di motivazione, ma solo di preavviso. Tuttavia, in caso di licenziamento discriminatorio (per ragioni politiche, religiose e sindacali) la L. 108/1990 prevede la nullità del recesso con conseguente reintegra del lavoratore nel posto di lavoro. Parte Tredicesima Il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni 1. Quali sono le principali norme della Costituzione che riguardano il pubblico impiego? Riferimento normativo: D.Lgs. 165/2001. Nozione: evidenziare che il pubblico impiego si sostanzia in un rapporto di lavoro, caratterizzato dalla natura pubblica del soggetto che riveste il ruolo di datore di lavoro. Principi costituzionali: elencare i principi costituzionali che regolamentano il lavoro pubblico. Domande consequenziali: privatizzazione; campo di applicazione del D.Lgs. 165/2001; rapporto organico e rapporto di servizio. Articolazione della risposta Il rapporto di pubblico impiego è uno speciale rapporto obbligatorio che intercorre tra lo Stato o un ente pubblico non economico e un soggetto privato; la sua caratteristica è che si tratta di un rapporto di lavoro, la cui specialità deriva dalla natura pubblica del soggetto che riveste il ruolo di datore di lavoro. Le peculiarità del pubblico impiego trovano conferma nella stessa Costituzione, che dedica numerose norme a tale rapporto, tra cui in particolare: —l’art. 54, che stabilisce il dovere dei cittadini cui sono affidate pubbliche funzioni di adempierle con disciplina e onore; —l’art. 97, che fissa la regola dell’accesso agli impieghi pubblici mediante concorso e sancisce i principi del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione. Tale norma, inoltre, stabilisce una riserva di legge in materia di organizzazione dei pubblici uffici, materia che pertanto avrebbe potuto essere disciplinata esclusivamente da atti di natura legislativa; —l’art. 98, il quale sancisce che i pubblici impiegati sono al servizio della nazione, consacrando in tal modo la funzionalizzazione del rappor- 204 Parte Tredicesima to di lavoro del pubblico impiegato alle esigenze e alle finalità dell’Amministrazione. 1 bis. Cosa ha previsto il D.Lgs. 29/1993? Il D.Lgs. 3-2-1993, n. 29 ha realizzato la cd. privatizzazione dell’impiego pubblico, assoggettando, fatte salve eccezioni soggettive ed oggettive, la disciplina dei pubblici impiegati alla disciplina del lavoro privato, alla contrattazione collettiva e, per conseguenza, alla giurisdizione del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro. In pratica, l’essenza della riforma risiede soprattutto: —nella estensione delle norme del diritto privato al rapporto di pubblico impiego, spostando la relativa disciplina dall’ambito amministrativo a quello privatistico; —nella diretta applicabilità della disciplina della contrattazione collettiva; —nell’attribuzione al datore di lavoro pubblico degli stessi poteri di gestione del rapporto propri del datore di lavoro privato. 1 ter. Quali lavoratori si sottraggono alla privatizzazione del pubblico impiego? L’art. 3 del D.Lgs. 165/2001 individua le categorie di dipendenti esentate dall’applicazione della normativa di diritto comune e dal processo di contrattualizzazione, per le quali non opera neanche il trasferimento della giurisdizione al giudice ordinario. Rimangono assoggettati al regime di diritto pubblico: a) magistrati ordinari, amministrativi e contabili; b) avvocati e procuratori dello Stato; c) personale militare e delle Forze di Polizia di Stato; d) personale delle carriere diplomatica e prefettizia; e) dipendenti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall’art. 1 del D.Lgs. C.p.S. 691/1947 (risparmio, funzione creditizia e valutaria), e dalle leggi 281/1985 (tutela del risparmio, valori mobiliari) e 287/1990 (tutela della concorrenza e del mercato). Sono inoltre esclusi dalla privatizzazione il personale (salvo quello volontario) del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco e il personale della carriera dirigenziale penitenziaria. Il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni 205 1 quater.Cosa si intende per rapporto organico e per rapporto di servizio? Il rapporto organico esprime la relazione interna (organizzatoria) tra organo (o ufficio) della P.A. e soggetto preposto ad esso. Non si tratta quindi di un rapporto intersoggettivo, ma di un rapporto di immedesimazione dell’impiegato nella Pubblica Amministrazione, sì che egli diviene una parte legittimata ad esprimerne la volontà. Il rapporto di servizio, invece, costituisce il rapporto giuridico intercorrente tra l’ente e la persona fisica, cioè tra due distinti soggetti giuridici, in virtù del quale sorgono diritti ed obblighi reciproci, non diversi da quelli dell’ordinario rapporto di lavoro subordinato. Nella figura dell’impiegato pubblico si può dunque ravvisare un duplice profilo: quello di funzionario dello Stato e quello di lavoratore subordinato. 2. Un lavoratore può essere assunto nella P.A. con contratto di lavoro a tempo determinato? Riferimento normativo: art. 36 D.Lgs. 165/2001. Disciplina: le pubbliche amministrazioni possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali. Caratteristiche: evidenziare l’evoluzione normativa dell’utilizzo delle forme flessibili nella P.A. Domande consequenziali: conversione automatica dei rapporti a termine con la P.A. Articolazione della risposta Sì, anche se le forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, sono ammesse ma per rispon­dere ad esigenze temporanee ed eccezionali. Le pubbliche amministrazioni, infatti, assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le ordinarie proce­dure di reclutamento (art. 35 D.Lgs. 165/2001 come modif. dall’art. 49 D.L. 112/2008 conv. in L. 133/2008). 206 Parte Tredicesima 2 bis.I rapporti di lavoro a termine con la P.A. possono essere automaticamente convertiti in rapporti a tempo indeterminato? No. Diversamente dal privato, nel lavoro pubblico tali rapporti flessibili non possono essere mai convertiti automaticamente in rapporti a tempo indeterminato, neanche in caso di violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni. In tale ipotesi, tuttavia, il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative e le amministrazioni hanno l’obbligo di rivalsa nei confronti dei dirigenti eventualmente responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave di questi. 3. Qual è la disciplina della contrattazione collettiva nel pubblico impiego? Riferimenti normativi: artt. 40 e ss. D.Lgs. 165/2001. Nozione: evidenziare che a seguito del D.Lgs. 29/1993, analogamente al settore privato, la contrattazione collettiva riveste il ruolo di fonte primaria e diretta della disciplina del rapporto di pubblico impiego. Disciplina: la contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi attinenti al rapporto di lavoro nonché le materie relative alle relazioni sindacali. Domande consequenziali: funzioni dell’ARAN; efficacia del contratto collettivo; derogabilità della legge da parte del contratto collettivo Articolazione della risposta La contrattazione collettiva ha un ruolo fondamentale nell’ambito della disciplina del rapporto di lavoro pubblico in quanto costituisce una fonte direttamente applicabile. La L. 93/1983 aveva per prima introdotto la contrattazione collettiva tra le fonti della di­sciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione ma ne subordinava però l’efficacia al recepimento in un atto a carattere normativo. Per quanto riguarda l’oggetto della contrattazione collettiva, l’art. 40 D.Lgs. 165/2001, così come riformulato dal D.Lgs. 150/2009 che ha ride­finito gli spazi di competenza della legge e della contrattazione collettiva in applicazione della delega contenuta nella L. 15/2009, stabilisce che essa deter- Il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni 207 mina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali. Alla contrattazione collettiva è infatti riservata la competenza in materia di trattamento economico fondamentale ed accessorio dei pubblici dipen­denti (art. 45 D.Lgs. 165/2001). In particolare i trattamenti economici accessori sono collegati alla performance individua­le e organizzativa con riferimento all’amministrazione nel suo complesso e all’effettivo svol­gimento di attività particolarmente disagiate ovvero pericolose o dannose per la salute. 3 bis. Che cos’è l’ARAN e quali funzioni svolge? L’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) ha la rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni, esercita a livello nazionale ogni attività relativa alle relazioni sindacali, alla negoziazione dei contratti collettivi e all’assistenza delle pubbliche amministrazioni ai fini dell’uniforme applicazione dei contratti collettivi. L’ARAN assicura anche la raccolta dei dati sui voti e sulle deleghe dei sindacati da ammettere alla contrattazione. Inoltre, ai sensi dell’art. 46 D.Lgs. 165/2001, come novellato dal D.Lgs. 150/2009, l’ARAN cura le attività di studio, monitoraggio e documentazione necessarie all’esercizio della contrattazione collettiva. Predispone a cadenza semestrale, ed invia al Governo, ai comitati di settore dei comparti Regioni e Autonomie locali e Sanità e alle Commissioni parlamentari competenti, un rapporto sull’evoluzione delle retribuzioni di fatto dei pubblici dipendenti. 3 ter. Qual è l’efficacia del contratto collettivo nel pubblico impiego? Secondo quanto precisato dalla Corte costituzionale (sent. 309/1997), il contratto collettivo pubblico ha una efficacia generalizzata in base a specifiche disposizioni del D.Lgs. 165/2001, quali: l’art. 46 che individua nell’ARAN il soggetto investito ex lege della rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni; l’art. 40 che introduce un vincolo di osservanza in capo alle PP.AA. degli obblighi assunti con i contratti collettivi; l’art. 45 che obbliga queste ultime a garantire parità di trattamenti contrattuali e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi. 208 Parte Tredicesima 3 quater.La contrattazione collettiva può derogare le disposizioni di legge? No. La contrattazione collettiva non può derogare alle disposizio­ni di legge a meno che non sia lo stesso legislatore a permetterlo. La L. 15/2009 ha infatti regolato il rapporto di successione temporale tra legge e contrat­to collettivo al fine di evitare che le modifiche da essa apportate potessero essere vanificate da un intervento contrattuale successivo. Il secondo comma dell’art. 2 D.Lgs. 165/2001 come sostituito dall’art. 1, co. 1, L. 15/2009 prevede infatti che eventuali disposizioni di legge, re­ golamento o statuto, che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata, non sono ulterior­mente applicabili, solo qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge. 4. Come avviene l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni? Riferimento normativo: art. 35 D.Lgs. 165/2001. Disciplina: l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni avviene mediante: — concorsi e procedure selettive; — avviamento degli iscritti negli elenchi anagrafici; — assunzione obbligatoria dei soggetti appartenenti a categorie protette. Domande consequenziali: comunicazione dell’assunzione al centro per l’impiego. Articolazione della risposta In conformità all’art. 97 Cost., il D.Lgs. 165/2001 (art. 45) stabilisce che l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni avviene: —mediante concorsi e procedure selettive volte all’accertamento della professionalità richiesta e che garantiscano in misura adeguata l’accesso dall’esterno e si uniformino ad alcuni principi: pubblicità, imparzialità, economicità e celerità di espletamento, trasparenza, oggettività, pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori, decentramento delle procedure di reclutamento, composizione trasparente e professionale delle commissioni esaminatrici; Il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni 209 —mediante avviamento degli iscritti negli elenchi anagrafici per le qualifiche e i profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo; —mediante assunzione obbligatoria dei soggetti appartenenti a categorie protette ai sensi della legge sul diritto al lavoro dei disabili (L. 68/1999). Le pubbliche amministrazioni procedono all’assunzione delle quote d’obbligo con richiesta numerica inoltrata ai competenti centri per l’impiego, previa verifica della compatibilità con le mansioni da svolgere. 4 bis.Anche per le assunzioni nelle pubbliche amministrazioni vale l’obbligo di comunicazione al centro per l’impiego? Sì. La L. 4-11-2010, n. 183 (art. 5) ha però previsto che la comunicazione al competente centro per l’impiego deve avvenire entro il ventesimo giorno del mese successivo alla data di assunzione (nel settore privato tale termine è fissato al giorno ante­cedente l’instaurazione del rapporto di lavoro). 5. Come è disciplinato il potere datoriale di variazione delle mansioni nel pubblico impiego? Riferimento normativo: art. 52 D.Lgs. 165/2001. Disciplina: evidenziare la parziale ricezione della disciplina dello jus variandi ex art. 2103 c.c., per cui: — l’esercizio di fatto, anche prolungato, di mansioni più elevate non determina l’acquisizione della qualifica superiore; — il lavoratore può essere adibito temporaneamente a mansioni della qualifica immediatamente superiore nei casi di: • vacanza di posto in organico; • sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto; — l’inosservanza dei presupposti previsti per l’assegnazione a mansioni superiori da diritto alla differenza di trattamento economico. Articolazione della risposta La disciplina dettata dall’art. 2103 c.c. in tema di potere del datore di lavoro di variazione delle mansioni, cd. jus variandi, è stata solo parzialmen- 210 Parte Tredicesima te recepita in materia di pubblico impiego al quale si applicano le disposizioni speciali contenute nell’art. 52 del D.Lgs. 165/2001. Secondo quanto dispone tale norma, il prestatore di lavoro può essere adibito normalmente solo alle mansioni: —per le quali è stato assunto; —considerate equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento; —corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive. A differenza di quanto previsto dall’art. 2103 c.c. per il lavoro privato, l’esercizio di fatto, anche prolungato, di mansioni più elevate di quelle corrispondenti alla qualifica di appartenenza non determina l’acquisizione della qualifica superiore. Per obiettive esigenze di servizio, il prestatore di lavoro può comunque essere adibito temporaneamente a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore nei casi di: —vacanza di posto in organico, per non più di 6 mesi, prorogabili fino a 12, qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti; —sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione dell’assenza per ferie, per la durata dell’assenza. In questi casi, solo per il periodo di effettiva prestazione, il lavoratore ha diritto al trattamento economico previsto per la qualifica superiore. Qualora non sussistano i presupposti in esame (ad esempio perché l’adibizione a mansioni superiori avviene senza vacanza di posto in organico), l’assegnazione alle mansioni superiori è nulla, ma al lavoratore deve essere corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore. 6. Qual è la disciplina della dirigenza pubblica? Riferimenti normativi: artt. 13-27 D.Lgs. 165/2001. Disciplina: evidenziare l’evoluzione normativa della disciplina e in particolare: — bipartizione tra dirigente generale e dirigente; — autonomia gestionale e operativa dei dirigenti; Il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni 211 — distinzione fra funzioni di indirizzo politico e amministrativo; — nuova disciplina della responsabilità dirigenziale; — abolizione del ruolo unico; — istituzione della vicedirigenza; — meccanismo dello spoils system. Domande consequenziali: disciplina della dirigenza a seguito della cd. Riforma Brunetta; accesso alla qualifica di dirigente; conferimento dell’incarico; utilizzo del badge. Articolazione della risposta La dirigenza pubblica (ora disciplinata agli artt. 13-27 del D.Lgs. 165/2001), istituita e regolamentata dal D.P.R. 748/1972, è stata oggetto dell’intervento riformatore del legislatore che, con i decreti legislativi 29/1993, 80/1998 e 387/1998, ne ha profondamente innovato la disciplina. I punti qualificanti di tale riassetto sono stati: —la sostituzione della precedente tripartizione (dirigente generale, dirigente superiore, primo dirigente) con una bipartizione: dirigente generale e dirigente, categorie entrambe privatizzate; —l’affermazione dell’autonomia gestionale e operativa dei dirigenti, attraverso il passaggio da un rapporto di gerarchia ad uno di direzione con gli organi di direzione politica; —una precisa distinzione fra funzioni di indirizzo politico ed amministrativo, di definizione degli obiettivi e dei programmi e di verifica e controllo dei risultati, spettanti agli organi di direzione politica, e l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi e la responsabilità in via esclusiva della gestione e dei risultati, attribuite ai dirigenti; —una nuova disciplina della responsabilità dirigenziale, che giunge a prevedere anche l’esclusione da ulteriori incarichi e la risoluzione del rapporto nei casi di maggior gravità. La disciplina della dirigenza pubblica è stata poi modificata in alcuni punti per effetto della L. 145/2002 che ha previsto: —abolizione del ruolo unico dei dirigenti istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e previsione di un ruolo, articolato in due fasce, in ciascuna amministrazione dello Stato; —istituzione della vicedirigenza, area nella quale sono ricompresi i dipendenti in possesso del diploma di laurea che, pur non rientrando nei 212 Parte Tredicesima ruoli dirigenziali della pubblica amministrazione di appartenenza, abbiano maturato un’anzianità di almeno 5 anni nelle posizioni più elevate degli uffici pubblici: ad essi i dirigenti possono delegare parte delle funzioni di propria competenza; —la possibilità per il primo Governo di una nuova legislatura di confermare o revocare le nomine degli organi dirigenziali di vertice dell’apparato amministrativo, conferite dal Governo precedente nei 6 mesi antecedenti la scadenza naturale della legislatura (cd. spoils system). 6 bis. Come è disciplinata la figura del dirigente a seguito della cd. «Riforma Brunetta»? Al fine di ottenere una migliore organizzazione del lavoro e di assicurare il progressivo miglioramento della qualità delle prestazioni erogate al pubblico, utilizzando anche i criteri di gestione e di valutazione del settore privato, la L. 15/2009 e il successivo D.Lgs. 150/2009 hanno individuato il dirigente come vero e proprio datore di lavoro pubblico. Tale figura è infatti responsabile della gestione delle risorse umane e della qualità e quantità delle prestazioni poste in essere dai dipendenti. Ai dirigenti compete, pertanto, individuare le risorse e i profili professionali necessari allo svolgimento dei compiti dell’ufficio cui sono preposti ciò anche al fine della compilazione del documento di programmazione triennale del fabbisogno di personale. I dirigenti sono inoltre tenuti anche ad effettuare la valutazione del personale assegnato ai loro uffici, ai fini non solo della progressione economica tra le aree, ma anche della corresponsione di indennità e premi incentivanti. A tali maggiori poteri corrisponde però una responsabilità più accentuata: infatti, i dirigenti risponderanno del mancato esercizio dei poteri datoriali, se l’omissione de qua cagioni lo scarso rendimento dei propri dipendenti. 6 ter. Come si accede alla qualifica di dirigente? L’accesso alla qualifica di dirigente avviene a seguito di concorso per esami indetto dalle singole amministrazioni ovvero per corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione. Il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni 213 6 quater.Come viene conferito l’incarico di dirigente? Gli incarichi di dirigenza, sempre a tempo determinato (fra i 3 o i 5 anni), sono conferiti mediante atto provvedimentale che definisce l’oggetto, gli obiettivi e la durata dell’incarico, mentre la definizione del trattamento economico spetta al contratto individuale (che accede al provvedimento di conferimento dell’incarico). La L. 15/2009 e il successivo D.Lgs. 150/2009, cd. riforma Brunetta, hanno previsto che per conferire un incarico dirigenziale si deve tenere conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla complessità della struttura interessata, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza nell’amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione, delle specifiche competenze organizzative possedute nonché delle esperienze di direzione eventualmente maturate all’estero, presso il settore privato o presso altre amministrazioni pubbliche, purchè attinenti al conferimento dell’incarico. 6 quinquies.I dirigenti pubblici devono timbrare il cartellino marcatempo? Sì. Secondo recente giurisprudenza (Cass. 2-12-2008, n. 44912) anche i dirigenti pubblici sono tenuti all’utilizzo del badge al pari degli altri dipendenti pubblici. In sostanza, a differenza del dirigente del settore privato, nell’ambito del pubblico impiego, i dirigenti sono tenuti ad osservare l’orario di lavoro e sono sottoposti a controlli per il rispetto dello stesso. In particolare, la Cassazione ha ritenuto sussistere il reato di truffa per il dirigente che timbra il cartellino marcatempo ed esce dal luogo di lavoro per lavorare altrove. 7. A quale giudice sono devolute le controversie relative ai rapporti di lavoro pubblico? Riferimenti normativi: artt. 63 e ss. D.Lgs. 165/2001. Disciplina: rientrano nella competenza del giudice ordinario, in funzione del giudice del lavoro, le controversie relative alla gestione dei rapporti di lavoro pubblico contrattualizzato, riguardanti anche: — l’assunzione al lavoro (eccetto le procedure concorsuali); 214 Parte Tredicesima — il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali; — la responsabilità dirigenziale; — le indennità di fine rapporto; — i comportamenti antisindacali delle PP.AA. Domande consequenziali: controversie oggetto della giurisdizione del giudice amministrativo. Articolazione della risposta Il D.Lgs. 29/1993 (come modificato dal D.Lgs. 80/1998 e 387/1998) ha devoluto, a far data dal 30 giugno 1998, al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative alla gestione dei rapporti di lavoro pubblico contrattualizzato, precedentemente riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In particolare, la competenza del giudice ordinario include le controversie concernenti l’assunzione al lavoro (eccetto le procedure concorsuali), il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte. Nelle ipotesi in cui vengano in questione atti amministrativi rilevanti ai fini della decisione, il giudice deve disapplicarli, se illegittimi. Rientrano inoltre nella competenza del giudice ordinario le controversie relative a comportamenti antisindacali delle PP.AA., con applicazione della procedura prevista dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, nonché le controversie cd. collettive, promosse con riferimento alle procedure di contrattazione collettiva dall’ARAN, dalle stesse amministrazioni pubbliche ovvero dalle organizzazioni sindacali. Sono inoltre stati ampliati i poteri del giudice ordinario, che può adottare nei confronti delle pubbliche amministrazioni tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Il giudice ordinario ha, dunque, la stessa ampiezza di poteri che gli compete nei rapporti di lavoro privati. 7 bis. Quali controversie restano, invece, oggetto della giurisdizione del giudice amministrativo? Alla giurisdizione del giudice amministrativo restano le controversie relative ai rapporti di lavoro delle categorie non contrattualizzate (ad esem- Il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni 215 pio, magistrati ordinari e amministrativi, avvocati dello Stato etc.) e quelle in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. In ordine a quest’ultimo profilo occorre chiarire che alla cognizione del giudice amministrativo attengono unicamente tutte le questioni relative alle procedure di selezione degli aspiranti all’impiego: dal bando di concorso fino alla formazione della graduatoria. Mentre, dal momento del superamento delle prove concorsuali, coincidente con l’acquisizione del diritto all’assunzione, ogni controversia rientra nell’alveo delle competenze del giudice ordinario. Parte Quattordicesima Le integrazioni salariali ed altre cause di sospensione del rapporto di lavoro 1. Che cosa s’intende per sospensione del rapporto di lavoro? Nozione: si ha sospensione del rapporto di lavoro qualora venga sospesa l’esecuzione della prestazione da una o da entrambe le parti contraenti. Tipologie: evidenziare che la sospensione del rapporto di lavoro può essere determinata da cause relative: — al lavoratore (malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, esercizio del diritto di sciopero); — al datore di lavoro (contrazione dell’attività produttiva). Articolazione della risposta Si ha sospensione del rapporto di lavoro qualora viene sospesa l’esecuzione della prestazione da una o da entrambe le parti contraenti. Le cause che determinano la sospensione possono derivare da fatto del lavoratore o da fatto del datore di lavoro. Le cause più importanti e significative relative al lavoratore si hanno nei casi di: —malattia, infortunio, gravidanza e puerperio; —esercizio del diritto di sciopero. La principale causa di sospensione relativa al datore di lavoro è la contrazione dell’attività produttiva causata da situazioni di mercato, contingenti o occasionali, a fronte delle quali la legge prevede l’intervento dell’istituto della cassa integrazione guadagni in sostituzione della retribuzione persa dai lavoratori per effetto della riduzione lavorativa. L’elemento comune a queste ipotesi è la sospensione totale o parziale dell’obbligazione di lavoro e, di regola, della retribuzione, cioè delle obbligazioni principali del contratto di lavoro. Continuano a sussistere, invece, gli obblighi secondari del contratto di lavoro, quali gli obblighi contrattuali di fedeltà e diligenza (artt. 2104 e 2105 c.c.), nonché gli obblighi generali di esecuzione del contratto con correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) (Cass. 24591/2006). Le integrazioni salariali ed altre cause di sospensione del rapporto di lavoro 217 2. Che cos’è la cassa integrazione guadagni ordinaria? Riferimenti normativi: D.Lgs. Lgt. 788/1945; L. 164/1975; L. 223/1991. Nozione: strumento mediante il quale lo Stato interviene sul mercato del lavoro per tutelare la posizione contrattuale del lavoratore in caso di contrazione o sospensione dell’attività produttiva. Disciplina: illustrare il campo di applicazione della cassa integrazioni ordinaria; la misura dell’integrazione salariale; la procedura da seguire; la durata. Domande consequenziali: esempi di cause che legittimano il ricorso alla C.I.G.; permanenza del rapporto di lavoro durante la C.I.G.; svolgimento di un’attività lavorativa da parte del lavoratore cassaintegrato. Articolazione della risposta La cassa integrazione guadagni ordinaria (C.I.G.) è uno strumento mediante il quale lo Stato interviene sul mercato del lavoro per tutelare la posizione contrattuale del lavoratore di fronte alle situazioni variabili dell’impresa, salvaguardando per quanto possibile il diritto alla retribuzione dalle vicende che possono incidere negativamente sul rapporto di lavoro. Si tratta di un istituto che fonda le sue origini nell’immediato dopoguerra e che è stato nel tempo oggetto di svariati interventi legislativi, tra i quali giova ricordare la L. 164/1975 e poi la L. 223/1991. Sono ammesse a tale forma di integrazione salariale le aziende del settore industriale, a prescindere dal numero dei lavoratori occupati, in caso di contrazione o sospensione dell’attività produttiva dipendenti da: —situazioni aziendali, dovute ad eventi transitori e non imputabili all’imprenditore o ai lavoratori; —situazioni temporanee di mercato, che non pongano in dubbio la ripresa della normale attività produttiva. In tali ipotesi la legge prevede che l’INPS eroghi in favore dei lavoratori con qualifica di operaio, impiegato e quadro, un’integrazione salariale nella misura dell’80% della retribuzione globale di fatto che ad essi sarebbe spettata per le ore di lavoro non prestate, tra le zero ore e il limite dell’orario contrattuale, ma comunque non oltre le 40 ore settimanali. 218 Parte Quattordicesima Per poter beneficiare del trattamento, l’impresa deve dare inizio ad una specifica procedura, che prevede: —lo svolgimento di una fase di consultazione sindacale, in cui il datore di lavoro deve comunicare preventivamente alle rappresentanze sindacali la durata prevedibile della contrazione o sospensione e il numero dei lavoratori interessati; —entro 25 giorni dalla fine del periodo di paga in cui è iniziata la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro, la presentazione della domanda all’INPS di ammissione al trattamento da parte del datore di lavoro, in cui devono essere indicati la causa della sospensione o riduzione dell’orario di lavoro e la loro presumibile durata e il numero dei lavoratori interessati. La durata massima di tale forma di integrazione è di 3 mesi continuativi, eccezionalmente prorogabili trimestralmente fino ad un massimo complessivo di un anno ovvero, per periodi non continuativi, fino ad un massimo di 12 mesi in un biennio. 2 bis. Quali eventi giustificano il ricorso del datore di lavoro alla C.I.G.? Si tratta di eventi che non pongono in dubbio la ripresa della normale attività produttiva, inerenti all’attività produttiva stessa (es. mancanza di scorte) o determinati da forza maggiore (es. sospensione dell’attività per ragioni sanitarie) o caso fortuito (es. alluvione). 2 ter.Durante l’intervento di C.I.G. il rapporto di lavoro continua o si estingue? Durante l’intervento di Cassa integrazione permane il rapporto di lavoro tra prestatore e datore, ma vengono sospese le obbligazioni principali connesse al rapporto medesimo, cioè la prestazione di lavoro e la retribuzione. Cessata la causa che ha legittimato la sospensione, il rapporto riprenderà, poi, regolarmente. Le integrazioni salariali ed altre cause di sospensione del rapporto di lavoro 219 2 quater.Il lavoratore in regime di cassa integrazione può svolgere un’attività di lavoro retribuita? Sì. È lecito, infatti, lo svolgimento di un’attività di lavoro autonomo o subordinato durante il periodo di integrazione salariale, fermo restando che per le giornate di occupazione il soggetto non ha diritto al trattamento economico a carico dell’ente previdenziale. In tal caso, però, il lavoratore deve inviare una comunicazione alla sede provinciale dell’INPS circa l’attività svolta, pena la decadenza dal diritto al trattamento di integrazione salariale anche per i periodi di inattività (Corte cost. ordinanza 190/1996 e Cass. sent. 4004/2007). La decadenza è posta, infatti, allo scopo di garantire che le risorse disponibili per gli interventi di integrazione salariale siano effettivamente destinate ai disoccupati. Se essa fosse limitata al periodo in cui è stata svolta attività lavorativa, il lavoratore inadempiente sarebbe equiparato al lavoratore adempiente, che, avendo effettuato diligentemente la comunicazione, non percepisce appunto l’integrazione salariale per i giorni di lavoro (Cass. sent. 11679/2005). 3. In quali casi è possibile richiedere l’intervento straordinario di cassa integrazione guadagni (C.I.G.S.)? Riferimento normativo: L. 223/1991. Nozione: evidenziare che la C.I.G.S. è finalizzata a fronteggiare gravi situazioni di eccedenza occupazionale in caso di sospensione o riduzione di attività. Disciplina: illustrare il campo di applicazione della cassa integrazioni sraordinaria; la misura dell’integrazione salariale; la procedura da seguire. Domande consequenziali: soggetto concedente il trattamento; durata della C.I.G.S.; criteri di scelta dei lavoratori da porre in C.I.G.S. Articolazione della risposta La cassa integrazione guadagni straordinaria è finalizzata a fronteggiare gravi situazioni di eccedenza occupazionale ed opera in caso di sospensione o riduzione di attività motivate da: —ristrutturazione (mutamento di tecnologie), riorganizzazione (mutamento dell’organizzazione aziendale) o riconversione aziendale (mutamento dell’attività stessa); 220 Parte Quattordicesima —crisi aziendale; —procedure concorsuali, quali fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria etc. La C.I.G.S. trova applicazione nelle imprese industriali, comprese quelle edili, che abbiano occupato più di 15 dipendenti nel semestre precedente la presentazione della richiesta di cassa integrazione e nelle aziende del commercio con più di 50 lavoratori. Analogamente a quanto previsto per la C.I.G. ordinaria, hanno diritto all’integrazione salariale i lavoratori con qualifica di operaio, impiegato e quadro, ai quali spetta un’indennità di importo pari all’80% della retribuzione globale che sarebbe stata loro corrisposta per le ore di lavoro non prestate fra le zero ore e il limite dell’orario contrattuale, ma comunque non oltre le 40 ore settimanali. Presupposto necessario per l’erogazione del trattamento è la presentazione di un programma mirato al rilancio dell’attività ed alla salvaguardia dei livelli occupazionali. L’ammissione al trattamento è subordinata alla seguente procedura: —l’impresa che intende richiedere l’intervento straordinario di integrazione salariale deve darne tempestiva comunicazione alle rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, alle organizzazioni sindacali di categoria dei lavoratori comparativamente più rappresentative operanti nella provincia; —entro 3 giorni dalla comunicazione, l’impresa o i rappresentanti dei lavoratori devono fare domanda di esame congiunto della situazione aziendale all’ufficio competente (regionale o presso il Ministero del lavoro, a seconda che le unità produttive interessate dalla C.I.G.S. si trovino, rispettivamente, in una sola regione o in più regioni); —presentazione della domanda di ammissione al trattamento al Ministero del lavoro (Direzione generale degli ammortizzatori sociali e incentivi all’occupazione). 3 bis.Da chi viene concesso l’intervento straordinario di cassa integrazione guadagni? È il Ministero del lavoro che emana il decreto di concessione del trattamento integrativo, che viene poi pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Le integrazioni salariali ed altre cause di sospensione del rapporto di lavoro 221 Invece, la competenza a decidere sulle richieste di cassa integrazione ordinaria spetta ad apposite commissioni provinciali dell’INPS (fino a 3 mesi) o al Comitato amministratore della Gestione (per periodi superiori a 3 mesi). 3 ter. Qual è la durata della cassa integrazione guadagni straordinaria? La durata dell’intervento straordinario di integrazione salariale, che varia a seconda del motivo per il quale è stata richiesta, è di: —24 mesi consecutivi per ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione aziendale, prorogabile per due volte, ciascuna per un massimo di 12 mesi; —12 mesi per crisi aziendale, prorogabile per altri 12 mesi; —12 mesi per procedure concorsuali, prorogabile per altri 6 mesi. Comunque, per ciascuna unità produttiva, la durata del trattamento non può eccedere complessivamente i 3 anni in un quinquennio, indipendentemente dalle cause per le quali è stato concesso. 3 quater.Quali criteri deve applicare il datore per l’individuazione dei lavoratori da porre in cassa integrazione straordinaria? L’individuazione dei lavoratori da porre in cassa integrazione deve essere effettuata applicando specifici criteri, oggettivi e razionali, basati sulla buona fede, sulla correttezza e sul principio di non discriminazione; il datore di lavoro deve altresì prevedere la rotazione nella sospensione, in quanto i lavoratori sospesi (o ad orario ridotto), che espletano le medesime mansioni, devono alternarsi tra loro. I criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere, nonché le modalità della rotazione, devono essere comunicati alle rappresentanze sindacali aziendali e formare oggetto di un esame congiunto. Qualora il datore di lavoro decida ingiustificatamente di non adottare tali criteri, il Ministero del lavoro, previo tentativo di un accordo tra le parti, stabilisce con decreto l’adozione di meccanismi di rotazione. 222 Parte Quattordicesima 4. Cosa sono i contratti di solidarietà? Riferimento normativo: L. 863/1984. Nozione: sono contratti collettivi aziendali diretti a favorire l’occupazione mediante la riduzione dell’orario di lavoro dei dipendenti dell’azienda. Tipologie: illustrare la differenza tra: — contratti di solidarietà difensivi; — contratti di solidarietà espansivi. Disciplina: indicare il campo di applicazione e il trattamento di integrazione salariale concesso ai lavoratori. Articolazione della risposta I contratti di solidarietà, disciplinati dalla L. 863/1984, sono contratti collettivi aziendali diretti a favorire l’occupazione mediante la riduzione dell’orario di lavoro dei dipendenti dell’azienda. Essi sono di due tipi: —contratti di solidarietà difensivi (o congiunturali o interni), che prevedono una generalizzata riduzione dell’orario di lavoro, ripartendo così il lavoro fra più lavoratori allo scopo di evitare licenziamenti per eccedenza di personale. A sostegno della retribuzione dei lavoratori, diminuita per effetto della riduzione dell’orario di lavoro, interviene lo Stato; —contratti di solidarietà espansivi (o strutturali o esterni), che prevedono la riduzione dell’orario di lavoro allo scopo di consentire l’assunzione di nuovo personale e quindi di incrementare l’occupazione aziendale. Entrambi i tipi di contratto utilizzano la riduzione dell’orario di lavoro a fini occupazionali, con la differenza però che, mentre i contratti difensivi sono stipulati da imprese in crisi e quindi sostanzialmente volti ad evitare il licenziamento collettivo del personale eccedente, quelli espansivi non sono legati ad una crisi aziendale, ma rispondono ad un principio di solidarietà tra lavoratori disoccupati e occupati. Ai lavoratori (quadri, impiegati e operai) interessati dai contratti di solidarietà difensivi spetta un trattamento di integrazione salariale pari al 60% della retribuzione persa dal lavoratore a seguito della riduzione dell’orario di lavoro. Le integrazioni salariali ed altre cause di sospensione del rapporto di lavoro 223 Tali contratti, salvo deroghe espressamente previste dalla legge, possono essere stipulati solo nelle imprese rientranti nell’ambito di applicabilità della C.I.G.S. (escluse quelle che abbiano richiesto o siano assoggettate a procedure concorsuali). Essi, infatti, devono essere autorizzati dal Ministro del lavoro con proprio decreto e hanno di regola una durata pari a 24 mesi, con possibilità di proroga di ulteriori 24 mesi. 5. Cosa sono le cd. misure anticrisi? Nozione: si tratta di un insieme di provvedimenti normativi che in via transitoria, determinano il potenziamento e l’estensione degli strumenti di tutela del reddito in caso di sospensione dal lavoro o di disoccupazione. Elementi da evidenziare: la L. 183/2010 rinnova la delega (già contenuta nella L. 247/2007) a riformare la materia degli ammortizzatori sociali. Domande consequenziali: ammortizzatori in deroga. Per fronteggiare le pesanti conseguenze sociali della grave crisi economica intervenuta tra la fine del 2008 e il 2009, il governo è intervenuto con una serie di provvedimenti «tampone», varando un pacchetto di importanti misure cd. anticrisi che, in via transitoria, determinano un potenziamento e l’estensione degli strumenti di tutela del reddito in caso di sospensione dal lavoro o di disoccupazione, nell’ottica di fornire una forma di sostegno del reddito anche a categorie di lavoratori escluse dalle tradizionali coperture previdenziali. L’intervento è stato attuato, dapprima con il D.L. 185/2008 conv. in L. 281-2009, n. 2, poi con il D.L. 5/2009 conv. in L. 9-4-2009, n. 33, con il D.L. 78/2009 conv. in L. 3-8-2009, n. 102 ed infine con la L. 191/2009 (legge finanziaria 2010). Con la L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato lavoro (art. 46), è stata, inoltre, rinnovata la delega al Governo, già contenuta nella L. 247/2007 (art. 1, co. 28) a riformare la materia degli ammortizzatori sociali per il riordino degli istituti a sostegno del reddito. In tale ambito è prevista la creazione di uno strumento unico indirizzato al sostegno del reddito e al reinserimento lavorativo dei soggetti disoccupati senza distinzione di qualifica, appartenenza settoriale, dimensione di impresa e tipologia di contratti di lavoro e la modulazione dei trattamenti in base all’età anagrafica dei lavoratori e alle condizioni occupazionali più 224 Parte Quattordicesima difficili presenti nelle regioni del Mezzogiorno, con particolare riguardo alla condizione femminile. 5 bis. Cosa si intende per ammortizzatori sociali in deroga? I trattamenti di integrazione salariale e di mobilità (nonché di disoccupazione) possono essere riconosciuti anche in mancanza degli ordinari requisiti di accesso in virtù del regime normativo dei cd. ammortizzatori sociali in deroga, che, pur ponendosi come transitorio e contingente, in quanto subordinato alla futura riforma degli ammortizzatori sociali e ad appositi stanziamenti di risorse, è di fatto perpetuato di anno in anno (da ultimo con la L. 220/2010, cd. legge di stabilità). Con tale regime si è inteso garantire le tradizionali forme di sostegno del reddito in tutti quei casi in cui i lavoratori sospesi dal lavoro o licenziati ne fossero privi in quanto non appartenenti ai settori cui è riservata l’applicazione dell’assicurazione contro la disoccupazione, della C.I.G. e della mobilità. In particolare è stato riconosciuto in favore degli apprendisti un tratta­mento economico (pari all’indennità ordinaria di disoccupazione) in caso di sospensione per crisi aziendali o occupazionali ovvero in caso di licenzia­ mento, mentre i lavoratori a progetto possono beneficiare, in caso di fine lavoro, per il triennio 2009-2011, di una somma una tantum (30% del red­ dito percepito nell’anno precedente e comunque non superiore a 4.000 euro). 6. Quali conseguenze produce la malattia del lavoratore? Riferimento normativo: art. 2110 c.c. Nozione: definire la malattia come l’alterazione dello stato di salute del lavoratore che incide sulla sua capacità lavorativa rendendo impossibile l’esecuzione della prestazione. Disciplina: la malattia del lavoratore determina la sospensione del rapporto di lavoro e il lavoratore ha diritto: — alla conservazione del posto con conseguente divieto di licenziamento per il periodo di comporto; — alla tutela economica per i giorni di assenza, in forza di retribuzione o di indennità sostitutiva della stessa a carico degli enti previdenziali. Domande consequenziali: comporto secco e per sommatoria; casi di inapplicabilità del regime del comporto per malattia; verifica della fondatezza dell’assenza per malattia; tutela previdenziale della malattia dei lavoratori a progetto. Le integrazioni salariali ed altre cause di sospensione del rapporto di lavoro 225 Articolazione della risposta La malattia costituisce una delle più importanti ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione di lavoro, in quanto l’alterazione dello stato di salute fisica e psichica impedisce al lavoratore di effettuare la prestazione. A tal fine per malattia deve intendersi non una qualunque alterazione psicofisica del lavoratore, ma soltanto quella che, per gravità o incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal lavoratore, determina una concreta ed attuale incapacità lavorativa. L’art. 2110 c.c. stabilisce che in caso di malattia: —per un certo periodo di tempo, detto periodo di comporto, determinato di solito dai contratti collettivi, il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto, con conseguente divieto di licenziamento per il datore; superato tale periodo, il datore ha la facoltà di intimare il licenziamento per impossibilità del lavoratore di fornire la propria prestazione; —i periodi di assenza sono computati nell’anzianità di servizio a tutti gli effetti; —il lavoratore ha diritto alla retribuzione o ad un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dalla contrattazione collettiva, dagli usi o secondo equità. Questo regime di tutela del lavoratore si applica anche in caso di infortunio, gravidanza o puerperio, così come espressamente prevede l’art. 2110 c.c. Per quanto riguarda il trattamento economico, le retribuzioni da corrispondere ai lavoratori ammalati aventi qualifica di impiegato e quadro (con esclusione di quelli operanti nel commercio) sono a carico del datore di lavoro, mentre per tutte le altre categorie è a carico dell’INPS l’indennità giornaliera di malattia (a partire dal quarto giorno di malattia). Ai fini del diritto al trattamento economico, il lavoratore deve giustificare al datore di lavoro l’assenza dal lavoro, mediante apposita certificazione medica che deve essere trasmessa per via telematica dal medico all’istituto previdenziale (ex art. 25 L. 183/2010). 6 bis. Qual è la differenza tra comporto secco e comporto per sommatoria? Il comporto secco si ha quando il periodo di sospensione del rapporto di lavoro, e di conservazione del posto, è unico e continuativo; nel caso, in- 226 Parte Quattordicesima vece, di più periodi di malattia in un determinato arco temporale, intervallati dalla effettiva ripresa dell’attività tra un periodo ed un altro, si parla di comporto frazionato o per sommatoria. In quest’ultimo caso, l’assenza per ciascuna malattia si somma alle altre e l’estinzione del rapporto di lavoro è legittima solo se la sommatoria dei singoli episodi morbosi superi il periodo massimo stabilito: è il cd. licenziamento per eccessiva morbilità. 6 ter.Il lavoratore affetto da una malattia cronica beneficia del regime del comporto? No. Non è applicabile il regime del comporto per malattia e, quindi, dell’impedimento temporale all’esercizio del diritto di recesso da parte del datore di lavoro, qualora l’affezione (contagiosa o non) sia tale da determinare sicuramente un impedimento al lavoro — sia per ragioni di sicurezza, sia per ragioni di terapia — definitivo, ovvero per una durata certamente superiore a quella massima di conservazione del rapporto prevista dal contratto collettivo, valutabile dal giudice secondo equità ex art. 2110, co. 2, c.c. Ciò può avvenire, ad esempio, nel caso di tossicodipendenza cronica, in cui appare ragionevolmente certa – alla stregua delle conoscenze mediche o scientifiche – l’impossibilità di un recupero, almeno in tempi brevi, delle capacità lavorative tale da consentire un ripristino della collaborazione interrotta. Non operando il regime del comporto per malattia dettato dall’art. 2110 c.c., si applica il regime dell’impossibilità assoluta della prestazione quale causa risolutiva del rapporto di lavoro, secondo quanto previsto, in via generale, dal codice civile (art. 1463 c.c.) per tutti i contratti a prestazioni corrispettive nel cui genus rientra anche il contratto di lavoro. 6 quater.Durante l’assenza per malattia del lavoratore, il datore di lavoro può effettuare una visita di controllo per verificarne la veridicità? Sì. La legge riconosce sia al datore di lavoro sia all’INPS la facoltà di effettuare accertamenti sullo stato di malattia del lavoratore, ma esclusivamente per mezzo di medici delle ASL e in determinati intervalli di tempo (cd. fasce orarie di reperibilità). In caso di assenza ingiustificata del lavoratore ammalato, quest’ultimo perde il diritto al trattamento economico. Le integrazioni salariali ed altre cause di sospensione del rapporto di lavoro 227 6 quinquies.La tutela previdenziale della malattia si applica anche ai lavoratori a progetto? Sì. A decorrere dal 1°-1-2007, per effetto della L. 296/2006, la tutela normativa ed economica della malattia è stata riconosciuta anche ai lavoratori a progetto e alle categorie assimilate, iscritti alla apposita Gestione previdenziale separata dell’INPS. L’indennità di malattia è a carico dell’INPS ed è corrisposta entro un limite massimo di giorni proporzionati alla durata complessiva del rapporto di lavoro (1/6 di tale durata) e comunque non inferiore a 20 giorni nell’arco dell’anno solare, con esclusione degli eventi morbosi di durata inferiore a 4 giorni (che restano non indennizzati). Per la certificazione dello stato di malattia, nonché per la reperibilità ai fini del controllo dello stato di malattia, ai lavoratori a progetto si applicano le medesime disposizioni previste per la generalità dei lavoratori subordinati. 7. Il lavoratore può trasferire il proprio contratto di lavoro in capo ad un altro lavoratore? Disciplina: inammissibilità del trasferimento del contratto di lavoro in capo ad altro lavoratore, poiché la prestazione lavorativa è: — personale; — infungibile. Domande consequenziali: prosecuzione del rapporto di lavoro in caso di trasferimento d’azienda; effetti della morte o estinzione del datore sui rapporti di lavoro. Articolazione della risposta No, non è possibile l’adempimento dell’altrui obbligazione di lavoro. Il trasferimento del contratto di lavoro in capo ad altro lavoratore (sia mortis causa, ad esempio per testamento o legato, sia per atto inter vivos, ad esempio cessione del contratto, donazione, espromissione etc.) è escluso a causa dei caratteri di personalità e di infungibilità della prestazione lavorativa. Di conseguenza, la morte del lavoratore determina l’estinzione del rapporto di lavoro. 228 Parte Quattordicesima 7 bis.Se il datore di lavoro trasferisce ad altri l’azienda, il rapporto di lavoro si estingue? No: il principio di tutela del lavoratore impone che il mutamento del datore di lavoro non interrompe la prosecuzione del rapporto di lavoro. Il legislatore prevede espressamente la continuazione dei rapporti di lavoro nel caso di trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c. e di qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità dell’attività economica organizzata. 7 ter.In caso di morte o estinzione del datore di lavoro, si estinguono anche i rapporti di lavoro? No: il venir meno del datore di lavoro per morte (persone fisiche) o estinzione (persone giuridiche) non determina l’automatica estinzione del rapporto di lavoro. Con la morte dell’imprenditore individuale, infatti, i rapporti di lavoro proseguono con i suoi eredi o legatari. Fanno eccezione a tale regola quei casi in cui la scomparsa del datore di lavoro abbia cagionato il venir meno dell’interesse del lavoratore alla prestazione lavorativa (es. lavoratore apprendista di un famoso artista): in una tale ipotesi il rapporto può considerarsi estinto. Nel caso, invece, di estinzione della persona giuridica, o del centro di imputazioni soggettive, i rapporti di lavoro proseguono in capo ai liquidatori fino alla conclusione della fase di liquidazione dell’ente. Inoltre, il legislatore prevede espressamente all’art. 2119, ultimo comma, c.c. che il fallimento dell’imprenditore e la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda in crisi non costituiscono giusta causa di licenziamento. Parte Quindicesima La cessazione del rapporto di lavoro 1. Quali sono le principali cause di estinzione del rapporto di lavoro? Disciplina: evidenziare che l’estinzione del rapporto di lavoro può essere dovuta ad una pluralità di cause tra cui: — scadenza del termine nei rapporti a tempo determinato; — morte del lavoratore; — dimissioni; — licenziamento; — accordo delle parti; — impossibilità sopravvenuta della prestazione o forza maggiore; — altre cause previste dalla legge. Peculiarità: la morte del datore di lavoro a differenza di quella del lavoratore, non produce l’estinzione del rapporto di lavoro. Articolazione della risposta Il rapporto di lavoro può estinguersi per una pluralità di cause previste dall’ordinamento. In particolare: —per scadenza del termine, se trattasi di rapporti di lavoro (es. apprendistato, contratto di inserimento) che prevedono una scadenza finale; —per morte del lavoratore. Non produce l’estinzione del rapporto di lavoro la morte del datore di lavoro, in quanto l’attività produttiva continua, di regola, con chi succede nella titolarità dell’impresa; —per recesso del prestatore di lavoro (cd. dimissioni); —per recesso del datore di lavoro (cd. licenziamento); —per accordo delle parti, in base al principio civilistico del cd. mutuo consenso (art. 1372 c.c.) che però trova scarsa applicazione in ambito lavoristico; —per impossibilità sopravvenuta della prestazione o per forza maggiore. Tali circostanze possono attenere sia al lavoratore (es. la sua carcerazione oppure la sopravvenuta assoluta inidoneità fisica al lavoro) che al datore (es. requisizione degli impianti aziendali, loro distruzione per fatti naturali come terremoto od inondazione); 230 Parte Quindicesima —per altre specifiche cause previste dalla legge (es. mancato rientro in azienda del lavoratore dopo la reintegrazione ottenuta ai sensi dell’art. 18 St. lav.). 2. Come sono disciplinate le dimissioni del lavoratore? Riferimenti normativi: artt. 2118 e 2119 c.c. Disciplina: evidenziare la sussistenza di una disciplina differente a seconda che si tratti di dimissioni in un contratto a tempo determinato o indeterminato, poiché: — nei contratti a tempo determinato in via generale è possibile dimettersi solo se sussiste una giusta causa; — nei contratti a tempo indeterminato: • le dimissioni sono legittime purché venga rispettato il termine di preavviso; • se sussiste una giusta causa non si deve rispettare il preavviso. Peculiarità: illustrare le tutele previste in caso di dimissioni presentate: — in occasione di matrimonio; — durante il periodo di gravidanza; — durante il primo anno di vita del bambino. Domande consequenziali: diritti del prestatore dimissionario in caso di rinuncia del datore di lavoro al preavviso. Articolazione della risposta Il recesso è un atto unilaterale recettizio con cui si manifesta la volontà di porre fine al rapporto di lavoro. Esso acquista, quindi, efficacia nel momento in cui viene a conoscenza dell’altra parte. Nel caso del prestatore di lavoro, il recesso, denominato correntemente dimissioni, ai sensi degli artt. 2118 e 2119 c.c., è così regolato nei casi di lavoro a tempo indeterminato: —è sempre ammesso (senza necessità di motivazione) purchè venga rispettato il termine di preavviso fissato dal contratto collettivo o dagli usi, pena il pagamento dell’indennità di mancato preavviso; —qualora ricorra una giusta causa, non è necessario rispettare il termine di preavviso (cd. dimissioni in tronco), mentre se il contratto è a tempo determinato è possibile recedere prima della scadenza del termine. La cessazione del rapporto di lavoro 231 Nel caso di contratto a termine ad entrambe le parti, lavoratore e datore, non è consentito recedere dal rapporto prima del termine stabilito, a meno che si verifichi una giusta causa. Le ipotesi di giusta causa, di regola tipizzate nei contratti collettivi, possono concernere sia la sfera del lavoratore (ad es. esigenze di salute o familiari) sia quella del datore (ad es. omissioni contributive, mobbing etc.). Quanto alla forma delle dimissioni, esse sono di regola considerate un atto a forma libera, a meno che non vi sia una diversa previsione da parte del contratto collettivo il quale può disciplinare, oltre che la forma dell’atto, anche quella della sua comunicazione (ad esempio, invio per mezzo di raccomandata a/r). Contro eventuali pressioni del datore volte a far sì che il lavoratore receda dal rapporto, sussiste una specifica tutela nei casi di maggiore debolezza del lavoratore. In particolare: —le dimissioni della lavoratrice presentate in occasione di matrimonio devono essere confermate, a pena di nullità, dinanzi alla Direzione provinciale del lavoro; —le dimissioni presentate durante il periodo di gravidanza dalla lavoratrice oppure dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di vita del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento, devono essere convalidate dalla Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente. Al di fuori di tali ipotesi di speciale protezione, nei casi di dimissioni forzose sussiste solo l’ordinaria tutela prevista in caso di negozio invalido per vizi del consenso ex art. 1427 c.c.: il lavoratore il cui consenso fu estorto con violenza può chiedere l’annullamento dell’atto di recesso. 2 bis.Se il datore di lavoro rinuncia al periodo di preavviso lavorato, il lavoratore dimissionario ha diritto alla retribuzione per quel periodo? Sì: se il datore rinuncia al periodo di preavviso lavorato oppure le dimissioni sono motivate da una giusta causa (per cui il recesso è immediato), al lavoratore deve essere comunque corrisposta la retribuzione per i giorni di preavviso non lavorato. 232 Parte Quindicesima 3. Quali sono i limiti al potere di licenziamento? Riferimenti normativi: artt. 2118 e 2119 c.c.; L. 604/1996. Disciplina: evidenziare la sussistenza di limiti stringenti alla facoltà di licenziamento del datore di lavoro per cui: — nei contratti a tempo indeterminato il licenziamento è ammesso solo se sussiste una giusta causa o un giustificato motivo; — nei contratti a tempo determinato il licenziamento è ammesso solo se sussiste una giusta causa. Nozioni: definire i concetti di: — giusta causa come motivo che non consente la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro; — giustificato motivo soggettivo come un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro; — giustificato motivo oggettivo come fatti inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Domande consequenziali: cause integranti giustificato motivo oggettivo; conversione del titolo del licenziamento ad opera del giudice; principali differenze tra giusta causa e giustificato motivo soggettivo; differenza tra licenziamento plurimo per giustificato motivo oggettivo e licenziamento collettivo. Articolazione della risposta Il licenziamento nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ai sensi dell’art. 1 della L. 604/1966, può essere intimato per giusta causa o per giustificato motivo, quest’ultimo distinto da dottrina e giurisprudenza nelle ipotesi di giustificato motivo soggettivo ed oggettivo. La nozione di giusta causa si rinviene nell’art. 2119 c.c. ove è previsto che le parti possano recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, senza necessità di preavviso, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Nel contratto a tempo determinato, il verificarsi della giusta causa consente la risoluzione del contratto prima della scadenza del termine. La giusta causa, più precisamente, ricorre allorché siano commessi fatti di particolare gravità i quali, valutati soggettivamente ed oggettivamente, siano tali da configurare una grave ed irrimediabile negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e della fiducia insita nello stesso. La giusta causa non viene integrata esclusivamente da comportamenti costituenti notevoli inadempienze contrattuali, bensì è ravvisabile anche in