CAPITOLO
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Ginecologia
della terza età
LUIGI BENASSI
IN
GIANLUCA BENASSI
SINTESI
◗ Definizione. Il termine menopausa indica il momento, nella vita di una donna, in cui si verifica l’esaurimento del patrimonio follicolare dell’ovaio, con la conseguente cessazione della produzione gonadica di ormoni sessuali. Tali fenomeni comportano come primo segno la scomparsa del flusso mestruale.
◗ Epidemiologia. L’età media alla quale si realizza la cessazione dell’attività ovarica è compresa tra i 50 ed i 52 anni. L’incidenza
della menopausa precoce nella popolazione generale è stimata intorno all’1%. Se si considera un’età della menopausa anticipata tra i 40 ed i 50 anni, l’incidenza di menopausa prematura può arrivare al 10%.
◗ Eziopatogenesi. La mancata produzione di steroidi a livello ovarico ed il mancato feed-back a livello ipofisario determinano l’innalzamento dei livelli di FSH ed LH. Con il passaggio dalla premenopausa alla menopausa vi è un notevole calo dell’estradiolo,
mentre il livello di estrone, prodotto dalla conversione degli androgeni ovarici e surrenalici a livello del tessuto adiposo, rimane
pressoché invariato.
◗ Sintomatologia. I sintomi a breve termine sono le vampate di calore, i disturbi dell’umore, l’atrofia genito-urinaria; i sintomi a
lungo termine sono l’osteoporosi, le malattie cardio-vascolari.
◗ Diagnosi. Dosaggio delle gonadotropine FSH ed LH e dell’estradiolo; densitometria ossea per la valutazione dell’osteoporosi.
◗ Terapia. La terapia sostitutiva prevede schemi differenti a seconda del tipo e del dosaggio di estrogeno e progestinico utilizzati.
Terapie alternative prevedono l’impiego di SERMs, SEEMs, fitoestrogeni, bifosfonati.
La ginecologia della terza età può essere suddivisa in due
parti: la prima comprende il climaterio e la menopausa,
5.1
mentre la seconda caratterizza la senescenza e rientra nel
contesto della medicina geriatrica (età > 60 anni).
Climaterio e menopausa
Il climaterio è una fase della vita femminile, che si colloca
tra i 45 ed i 55 anni, durante la quale si verifica la perdita
progressiva della capacità riproduttiva per esaurimento del
patrimonio follicolare (atresia follicolare), processo che, come si sa, inizia già durante la vita fetale. Accanto a questo,
si osserva anche il declino della produzione endocrina, con
ripercussioni generali di carattere trofico, metabolico, psi-
cologico e sessuale, di cui la menopausa, definita come la
cessazione permanente dei flussi mestruali, costituisce il
punto di arrivo.
EPIDEMIOLOGIA
L’età media alla quale si realizza la cessazione dei flussi mestruali è compresa tra i 50 ed i 52 anni. I fattori che possono
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GINECOLOGIA
interferire sono il fumo, l’alimentazione, il BMI (Body Mass
Index). Non sono ancora state del tutto confermate le influenze ereditarie.
DEFINIZIONE
1) Menopausa spontanea: corrisponde all’età in cui si verifica la cessazione dei flussi (generalmente intorno ai 50
anni); può essere definita solo retrospettivamente, dopo
un periodo ininterrotto di 12 mesi di amenorrea; è prematura, se insorge tra i 40 ed i 45 anni, tardiva, se insorge oltre i 53 anni e precoce, quando la cessazione dei flussi si verifica in donne di età inferiore ai 40 anni.
2) Premenopausa: è il periodo che comprende il tempo precedente l’ultima mestruazione.
3) Postmenopausa: è il periodo successivo all’ultima mestruazione.
4) Perimenopausa: comprende il periodo che si estende tra
la premenopausa e l’anno successivo alla menopausa.
5) Transizione menopausale: è il periodo precedente l’ultimo
flusso, durante il quale aumentano l’irregolarità del ciclo
ed il declino della fertilità: va da 2 a 8 anni, con una durata media di 4 anni. Il fumo accelera la transizione menopausale di circa 2 anni.
6) Menopausa artificiale: può essere indotta dalla chirurgia,
dalla chemio- o radioterapia. L’isterectomia in pazienti
giovani induce la cessazione dei soli cicli mestruali, ma
non si accompagna ai segni di esaurimento della funzione ovarica.
MODIFICAZIONI ORMONALI
Dopo i 35 anni la massa ovarica e la fertilità si riducono,
perché i follicoli subiscono un processo di deterioramento
o atresia (diminuzione del numero e della funzione delle
cellule della granulosa e riduzione della riserva follicolare)
che si traduce in una diminuita capacità di secernere inibina e di rispondere alle gonadotropine: tali eventi si accentuano nel corso degli anni successivi e precipitano nel periodo perimenopausale. La diminuita secrezione di inibina
comporta un aumento della produzione di FSH durante
tutto il ciclo, specialmente in fase follicolare; inizialmente,
nel periodo premenopausale, esistono ancora, benché ridotti, normali livelli di estrogeni, progesterone ed LH, ma,
lentamente, la produzione di estradiolo diventa insufficiente e solo di rado determina il picco di LH: l’ovulazione
diventa così episodica e sempre più distanziata, il progesterone diminuisce (insufficienza del corpo luteo) ed i cicli
diventano per lo più anovulatori. In tali situazioni, anche
l’LH tende ad aumentare, dapprima in modo incostante,
poi definitivamente (Figura 5.1).
Nel periodo perimenopausale la fase follicolare è accelerata (3 giorni) a causa del progressivo aumento dell’FSH, dell’alterazione della follicologenesi e della notevole riduzio-
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ne di inibina: ciò comporta una situazione di “irregolarità
irregolare” degli ormoni. Nello stesso periodo, l’iperestrogenismo relativo che si instaura durante un ciclo anovulatorio, nel quale manca cioè un’adeguata protezione del
progesterone, può determinare l’insorgenza di iperplasia,
poliposi o carcinoma dell’endometrio, e/o lo sviluppo di
leiomiomi uterini.
Nel periodo di transizione menopausale l’aumento dell’FSH è ben più alto (10-20 volte) di quello dell’LH (3 volte),
perché quest’ultimo ha un’emivita più breve: tale aumento
è secondario, come si è già visto, alla mancanza di inibina
e del feed-back con gli estrogeni. Il livello di estradiolo (E2)
si riduce marcatamente, mentre quello dell’estrone (E1), tipico ormone della menopausa, si mantiene più elevato: ciò
è dovuto all’aromatizzazione dell’androstenedione di origine surrenalica (80%) ed ovarica (20%) in sedi extraghiandolari, come tessuto adiposo, fegato, rene, muscolo ecc.
L’estrone così sintetizzato ha un’attività funzionale di circa
1/3 rispetto all’estradiolo.
I livelli di FSH ed LH raggiungono i picchi più elevati 1-3
anni dopo la menopausa (FSH: 50-100 mUI/ml; LH: 30-60
mUI/ml); la loro secrezione conserva il carattere pulsatile,
come quella del GnRH ipotalamico, mentre si osserva
un’ulteriore diminuzione degli estrogeni plasmatici.
Nella menopausa artificiale (postannessiectomia), i valori
delle gonadotropine aumentano rapidamente.
Nella maggior parte delle donne in postmenopausa è presente un’iperplasia dello stroma funzionale dell’ovaio, che
giustifica sia la produzione di androstenedione, il cui livello
plasmatico tuttavia diminuisce, sia quella del testosterone
(prodotto per il 25% dall’ovaio, per il 25% dal surrene e per
il 50% dalla conversione periferica dell’androstenedione), la
cui secrezione non decresce in modo apprezzabile, ma talora, a causa dell’elevato stimolo gonadotropinico, aumenta: il
livello plasmatico complessivo del testosterone è comunque
diminuito, a causa della riduzione della conversione periferica dell’androstenedione. Lentamente anche lo stroma
ovarico si esaurisce, cessa l’attività steroidogenetica e l’endometrio diventa atrofico. A causa della diminuzione degli
estrogeni, diminuisce anche l’SHBG (Sex Hormone Binding
Globulin), mentre il DHEAS, di origine surrenalica, non collegato alla menopausa, diminuisce più lentamente, in rapporto all’età. Complessivamente, quindi, dato il maggior calo degli estrogeni rispetto agli androgeni, si può osservare
un certo grado di androgenizzazione (irsutismo, modificazione della voce, rarefazione dei capelli ecc.), legata anche
all’azione del testosterone che, benché globalmente diminuito, a causa della concomitante diminuzione dell’SHBG,
è più disponibile in forma libera, e perciò attiva.
La tiroide subisce un lento processo di fibrosi ed il T3 decresce del 25-40%; diminuisce anche il metabolismo basale, ma nel complesso la donna resta eutiroidea.
5
Ginecologia della terza età
Premenopausa
Postmenopausa
Ore
Giorni
CH3
CH3
C=O
H
FSH
CH3
LH
LH
FSH
O
Feedback
Progesterone
Feedback
OH
HO
Estradiolo (E2)
O
O
Estrone (E1)
I livelli ormonali aumentano e diminuiscono
ciclicamente durante il ciclo mestruale. Tale regolazione
dipende dal rilascio pulsatile delle gonadotropine e dai
meccanismi di feedback positivo e negativo.
In postmenopausa i livelli delle gonadotropine aumentano,
il livello degli ormoni ovarici diminuisce per l’atropia
ovarica e gli estrogeni endogeni diventano per lo più di
origine surrenalica ed il rapporto E1/E2 è invertito.
LH e FSH (mlU/ml)
200
200
FSH
175
150
Ore
175
Giorni
Ore
150
125
125
100
100
75
75
LH
50
25
50
FSH
LH
25
10
500
9
8
375
Progesterone
7
6
5
E2
250
4
3
E1
2
E1
E2
Progesterone
125
1
ng
ng
ml
7
14
21
ml
Figura 5.1 Modificazioni ormonali nella menopausa. (Da R.P. Smith, Netter’s Obstetrics, Gynecology and Women’s Health. Published by Elsevier
Inc. All rights reserved.)
101
GINECOLOGIA
Si osserva inoltre una progressiva degenerazione delle cellule ␤ di Langerhans pancreatiche, che può determinare (50% dei casi) una ridotta tolleranza glucidica dopo i
65 anni con un’incidenza di diabete di tipo 2 nel 7% dei
casi.
MENOPAUSA PRECOCE
Il termine menopausa precoce o POF (Premature Ovarian Failure) indica la scomparsa dei flussi mestruali prima dei 40
anni di età. Essa viene anche definita come un quadro di
amenorrea secondaria ipergonadotropa ipogonadica e presenta una frequenza pari allo 0,9%: è dovuta all’esaurimento funzionale prematuro dell’ovaio, ma dal punto di
vista clinico presenta le stesse caratteristiche della menopausa naturale, anzi le carenze estrogeniche si manifestano con molti anni di anticipo e sono spesso anche più gravi. Questa malattia non va confusa con un’altra rara sindrome di insufficienza ovarica denominata sindrome dell’ovaio resistente, caratterizzata dalla presenza di numerosi follicoli il cui sviluppo si è arrestato in fase precedente allo
stadio antrale, probabilmente per difetto dei recettori dell’FSH.
Eziopatogenesi. Nella menopausa precoce, l’ovaio mostra le stesse caratteristiche della menopausa normale a
causa del processo accelerato di atresia follicolare con assenza o presenza di pochi follicoli, mentre dal punto di vista clinico si può presentare come sindrome isolata o polidisfunzionale.
Nel primo caso (sindrome isolata) può riconoscere origine:
1) autoimmune, per presenza di autoanticorpi antiovaio;
2) genetica o familiare, da deficit di 17-␣-idrolasi (disordine autosomico recessivo), legata a difetti del cromosoma
X (anomalia di struttura e X fragile);
3) congenita, legata all’assenza del timo o a galattosemia;
4) infettiva, da virus;
5) tossica, da fumo o chemioterapici;
6) chirurgica o attinica.
Nella sindrome polidisfunzionale la genesi è sempre di natura autoimmune e sono noti due quadri clinici:
1) PGA (PoliGlandular Autoimmune Syndrome) di tipo I, caratterizzata da candidiasi mucocutanea, ipoparatiroidismo, insufficienza surrenalica;
2) PGA di tipo II (sindrome di Schmidt), caratterizzata da
insufficienza surrenalica, tiroidite-ipotiroidismo, diabete
di tipo I; la disfunzione ovarica può essere associata anche semplicemente a quella surrenalica e/o a quella tiroidea.
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Sintomatologia e diagnosi. Le manifestazioni cliniche
sono estremamente eterogenee, in quanto la sintomatologia varia a seconda del patrimonio follicolare residuo. Nella maggior parte dei casi, dopo una fisiologica storia riproduttiva caratterizzata da cicli mestruali regolari od oligomenorroici, la donna va incontro dapprima ad oligomenorrea, con cicli sempre più frequentemente anovulatori,
fino a raggiungere una condizione di franca amenorrea. La
scomparsa delle mestruazioni si accompagna a sintomi e
segni tipici della carenza estrogenica: vampate di calore e
sudorazioni notturne da instabilità vasomotoria, dispareunia, ansia, depressione, insonnia e labilità emotiva, instabilità psicologica, modificazione dell’immmagine corporea.
Le conseguenze a breve e lungo termine sono: atrofia dei
tegumenti e delle mucose; secchezza vaginale; incontinenza urinaria; osteoporosi, alterazioni dell’assetto lipidico ed
aumento del rischio cardio-vascolare.
Inoltre viene meno per queste giovani donne, la possibilità
di una gravidanza futura. Da questa considerazione partono i numerosi studi, volti ad identificare possibili test di
screening, per riconoscere tale condizione il più precocemente possibile e poter consentire alle giovani donne affette da POF di anticipare eventualmente il progetto procreativo.
L’iter diagnostico è riassunto nella Tabella 5.1.
Terapia. La menopausa precoce non deve sempre essere
intesa come una condizione irreversibile, in quanto esistono diverse segnalazioni che documentano la ripresa spontanea della funzionalità ovarica e/o l’instaurarsi di una gravidanza.
Una terapia in grado di ripristinare una corretta funzione ovarica non esiste. Benché siano state proposte terapie immuno-soppressive corticosteroidee in caso di POF
da causa autoimmune, i risultati sono scarsi ed attualmente la terapia ormonale sostitutiva risulta essere l’unica sia per migliorare la tipica sintomatologia climaterica,
sia per prevenire le complicanze a lungo termine. Allo stato attuale, si può affermare che le possibilità di una gravidanza spontanea o indotta per una paziente affetta da
menopausa precoce sono assolutamente minime (meno
del 10%).
SINTOMATOLOGIA
DELLA MENOPAUSA
La sintomatologia da deprivazione estrogenica determina:
1) manifestazioni immediate:
a) alterazioni del quadro mestruale;
b) vampate di calore e crisi di sudorazione;
Ginecologia della terza età
Tabella 5.1
5
ITER DIAGNOSTICO IN CASO DI MENOPAUSA PRECOCE
• Anamnesi personale (interventi chirurgici, malattie autoimmuni, endocrine)
• Anamnesi ostetrica e ginecologica (parità, menarca, storia mestruale)
• Anamnesi familiare (eventuale familiarità per POF)
• Esame obiettivo ginecologico, Pap-test, ecografia pelvica, eventualmente biopsia ovarica
• Cariotipo su sangue periferico
• Esami ematochimici generali
• Funzionalità tiroidea, ipofisaria, ovarica, surrenalica
• Autoanticorpi (ad es.: fattore reumatoide, antinucleo ecc.)
• Mineralometria Ossea Computerizzata (MOC)
• Esame senologico, eventualmente ecografia mammaria o mammografia
c) sintomatologia psicologica (ansia, depressione, insonnia);
d) aumento di peso;
2) manifestazioni differite:
a) atrofia cutanea;
b) atrofia genito-urinaria;
c) artralgie;
d) modificazioni psico-sessuali;
3) manifestazioni tardive:
a) osteoporosi;
b) malattie cardio-vascolari.
ALTERAZIONI DEL QUADRO MESTRUALE
Le anomalie più evidenti riguardano il ciclo mestruale. Già
verso i 35 anni si osserva un accorciamento della fase follicolare con riduzione della durata del ciclo e polimenorrea,
per diminuzione dell’inibina ed aumento dell’FSH; poi,
pochi anni (2-4) prima della menopausa, il ciclo si modifica ulteriormente, presentando un aumento della durata
(oligomenorrea) poiché i follicoli residui, di peggiore qualità, rispondono meno agli stimoli dell’FSH sull’accrescimento e maturazione: ciò si traduce in riduzione della fertilità per anovulazione o, nel ciclo ovulatorio, in insufficienza del corpo luteo. In tali situazioni compaiono spesso periodi di amenorrea seguiti da ipo-ipermenorrea o menometrorragie, per mancata deiscenza e persistenza del follicolo, che attestano l’irregolarità della produzione ormonale (ipo- o iperproduzione di estrogeni con iperplasia dell’endometrio non controbilanciata efficacemente dall’azione del progesterone).
Il sanguinamento uterino anomalo allarma la paziente ed
insospettisce il ginecologo, che deve in primo luogo escludere cause organiche, quali lesioni atrofiche, polipi, iperplasia endometriale o, peggio, il carcinoma dell’endometrio (Figura 5.2). Quando i livelli di estrogeni circolanti saranno così bassi da non stimolare più la crescita endometriale e da non condizionare più un feed-back con l’ipofisi,
con conseguente emorragia da privazione (mestruazione),
sarà la menopausa vera e propria.
VAMPATE DI CALORE
Le vampate di calore (hot flush), che si presentano in circa
il 65-75% delle donne, sono il sintomo più comune del climaterio: pur essendo un fenomeno tipico della postmenopausa, nel 20% circa delle donne compaiono in premenopausa, anche in presenza di cicli mestruali regolari e tendono a scomparire circa 2 anni dopo la menopausa (nel
30% circa possono durare oltre i 5 anni). Quando sono assenti è probabile che esistano livelli di estrone, prodotto per
sintesi extraghiandolare, sufficienti a garantire una “buona
estrogenizzazione”, idonea ad evitare il fenomeno, fatto
questo più evidente nelle donne obese.
Le vampate di calore sono caratterizzate dall’aumento della temperatura, definita “sensazione di calore intenso o
ustione” a testa, collo e torace; si possono estendere in
qualsiasi direzione, ad ondata, fino a coinvolgere l’intera
superficie corporea; spesso si associano ad eritema cutaneo, cefalea, ansia e tachicardia e sono seguite da intensa
sudorazione e poi da brividi; possono durare da pochi secondi fino ad alcuni minuti e presentarsi poche volte al
mese o numerose volte al giorno; tipicamente e prevalentemente insorgono durante le ore notturne.
Sulla loro eziologia si sa tutt’ora molto poco; sono scatenate da un’improvvisa riduzione dei livelli estrogenici in un
contesto di ipoestrogenismo di base. In successione compaiono la vampata, la vasodilatazione, l’aumento della
temperatura, il rilascio di un picco di LH, la sudorazione
(finalizzata alla dispersione di calore) ed i brividi di freddo
(finalizzati al ripristino della temperatura). Sia il sistema
noradrenergico, sia il dopaminergico, sia l’oppioide sono
coinvolti a vario titolo. La carenza di estrogeni è responsabile dell’abbassamento della serotonina che determina il
coinvolgimento dei recettori (5 idrossitriptamina 2A) responsabili dei cambiamenti della termogenesi, con alterata
regolazione del centro termoregolatore (set point: punto di
taratura) del SNC ostacolando il meccanismo di dispersione di calore, con conseguente aumento della temperatura,
della perspirazione e della sudorazione. Oltre all’LH (consecutivo ad iperproduzione di GnRH da iperattività neuro-
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GINECOLOGIA
Aspirazione
per citologia
vaginale
Tecnica
tampone
per striscio
cervicale
Biopsia cervicale
con pinza
Conizzazione cervicale
Biopsia
endometrialca
con cannula
di Novak
Figura 5.2 Valutazione del sanguinamento uterino in menopausa. (Da R.P. Smith, Netter’s Obstetrics, Gynecology and Women’s Health. Published by Elsevier Inc. All rights reserved.)
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Ginecologia della terza età
5
nale), in corso di vampata aumentano epinefrina, corticotropina, cortisolo, androstenedione, DHEA, ␤-endorfina,
␤-lipotropina, GH, mentre restano invariati norepinefrina,
FSH, estradiolo, estrone, prolattina, TSH.
Infine, non va ignorata la responsabilità della carenza degli
androgeni (soprattutto dopo annessiectomia bilaterale)
nella caduta del desiderio sessuale, dell’energia, dell’umore e del senso di benessere.
SINTOMATOLOGIA PSICOLOGICA
Come già accennato, i disturbi del sonno spesso complicano la perimenopausa. È un’evidenza la diminuzione in
queste pazienti del sonno REM, la fase cioè in cui si verificano i sogni e l’encefalo riposa. Questa alterazione dei ritmi del sonno è di sicuro causa, in primo luogo, di stanchezza fisica ma anche e soprattutto di disturbi dell’umore
e della memoria; a questo si deve aggiungere la depressione, che interessa fino al 50% delle donne di età compresa
tra i 48 ed i 52 anni (non è ancora stato dimostrato alcun
legame tra questo disturbo e la menopausa).Tale patologia
potrebbe essere spiegata dalle strette interazioni tra estrogeni e vari neurotrasmettitori, sia attraverso la riduzione
della disponibilità del triptofano per la sintesi della serotonina, che mediante la diminuzione della sensibilità dei recettori della dopamina. In particolare, sembra che la riduzione della norepinefrina e della dopamina determini (attraverso l’ipofunzione ipotalamico-ipofisaria) la scomparsa
della modulazione del comportamento, dell’umore e dell’attività motorio-volititiva in generale.
Tuttavia non c’è dubbio che questa complessa sintomatologia sia condizionata da fattori socio-culturali ed ambientali. Molte donne, infatti, attraversano in questa fase della
loro vita importanti cambiamenti: spesso sono presenti
tensioni familiari o lavorative; con il passare del tempo la
donna assiste, inoltre, ad un cambiamento dei ruoli ed all’allontanamento dei figli (sindrome del nido vuoto).
Quale che sia il meccanismo scatenante, rimane il fatto che
il 40 % circa delle donne in perimenopausa assume tranquillanti od antidepressivi.
Le deprivazioni menopausali sembrano accelerare anche
l’invecchiamento cerebrale (perdita di memoria e della capacità di concentrazione), perché gli estrogeni hanno effetti pleiotropici di tipo genomico e non, sul sistema nervoso
centrale, incluse azioni neurotrofiche in aree determinanti
che coinvolgono la memoria e la cognizione (ipotesi neuroprotettiva degli estrogeni). L’incidenza della malattia di
Alzheimer è da sempre superiore nelle donne che non in
soggetti maschili di pari età. Nonostante la maggior parte
degli studi abbia, negli anni, portato la terapia ormonale
sostitutiva ad imporsi come gold standard per la prevenzione di tali sintomi, oggi il suo ruolo sembra più incerto: a tale proposito è in corso uno studio ancillare randomizzato
del WHI (Women’s Health Initiative) circa l’impatto del trattamento ormonale sulla salute mentale della donna in
un’età compresa tra i 65 ed i 79 anni, il cui risultato sarà noto nell’anno 2007.
ATROFIA DELLA CUTE
La carenza estrogenica comporta l’assottigliamento dell’epidermide con diminuzione dei follicoli piliferi, delle
ghiandole sebacee e sudoripare e del derma, per riduzione
del collagene: di conseguenza la cute diventa meno elastica, più disidratata, trasparente e con maggiore esposizione
e visibilità dei capillari e dei vasi. Compaiono prurito, rilasciamento dei tessuti delle guance, delle palpebre, del
mento-sottomento, si accentuano le rughe e la desquamazione.
ATROFIA GENITO-URINARIA
L’epitelio vaginale ed uretrale ha le concentrazioni più elevate di recettori per gli estrogeni dell’intero organismo, ed
è pertanto estremamente sensibile ad ogni variazione ormonale.
La vulva presenta diminuzione del grasso; alterazione della cute e dei peli, che diventano grigi, ispidi e meno folti; riduzione delle grandi e piccole labbra e restringimento del
vestibolo vaginale. L’introito vaginale diviene stenotico e la
vagina atrofica, sottile, perde le pliche trasversali, diventa
più corta, più stretta, più secca e si appiattiscono i fornici.
La parete è più fragile, priva del processo maturativo ciclico (lo striscio vaginale è caratterizzato dalla presenza di
cellule basali e parabasali – quasi 100% –, leucociti, diminuzione delle cellule eosinofile e dell’indice cariopicnotico), della produzione di glicogeno, dei processi normali di
secrezione e trasudazione che condizionano pertanto un
innalzamento del pH (6-8 versus 3-4), una diminuzione del
bacillo di Doderlein ed una maggior difficoltà durante i
rapporti sessuali (dispareunia), con calo ulteriore del desiderio sessuale. Inoltre la fragilità della parete rende la vagina più sensibile ai traumi (facilità al sanguinamento ed alle ulcerazioni) ed agli episodi infiammatori (secchezza, irritazione, prurito, bruciore ecc.).
La parete vescico-uretrale, specialmente nella zona del trigono e dell’uretra prossimale, che hanno una derivazione
embriogenetica comune alla vagina e sono ormono-sensibili, in mancanza di estrogeni, presenta atrofia, per cui
spesso si instaurano episodi di cistite (trigoniti) ed uretriti,
che costituiscono la “sindrome urologica della menopausa”,
caratterizzata da tenesmo, disuria, pollachiuria ed urocoltura negativa; questi disturbi sono determinati verosimilmente da ipersensibilità delle terminazioni nervose sensitive, indovate nella mucosa uretrale, al passaggio dell’urina. Inoltre compaiono spesso, per instabilità del detrusore, urge incontinence, disuria e nicturia.
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GINECOLOGIA
La progressiva scomparsa della flora batterica residente, la
riduzione del glicogeno, l’assenza di lattobacilli, la risalita
del pH e lo spostamento del meato uretrale (la cui mucosa
è spesso ectopica) verso l’introito vaginale agevolano la colonizzazione da parte di patogeni cutanei od intestinali
(specie enterobatteri) e favoriscono le infezioni del tratto
urinario (UTI), soprattutto in quelle donne che presentino
fattori predisponenti (flogosi urinarie, incontinenza, cistocele, aumento del ristagno postminzionale, ridotto flusso
urinario, chirurgia uro-genitale, depressione).
L’incontinenza urinaria nelle donne in menopausa presenta un’incidenza variabile dal 15% al 50% ed è circa 8 volte
più frequente di altre patologie internistiche. Le alterazioni
anatomo-fisiologiche predisponenti, già in parte menzionate, sono costituite dall’assottigliamento della mucosa
uretrale, dall’inversione del rapporto proteoglicani/collagene nel connettivo parauretrale, dalla diminuzione della
pressione di chiusura uretrale, dall’alterazione del normale
angolo uretro-vescicale e dall’aumento del BMI (Body Mass
Index: fattore modificabile): esiste una relazione tra aumento (> 50%) di incontinenza urinaria ed isterectomia.
ARTRALGIE
Sono descritti dolori ossei migranti, od artralgie della menopausa, che coinvolgono spesso le piccole articolazioni
distali, il ginocchio, l’anca e la colonna vertebrale. Interessano più del 50% delle donne in età postmenopausale; la
loro eziopatogenesi va ricondotta solo in parte alla carenza
estrogenica, infatti, il trattamento con estrogeni migliora la
sintomatologia nel 40% dei casi. Indicata anche la terapia
fisica (aquagym, stretching, cyclette).
Osteoporosi
L’osteoporosi è definita come una riduzione della massa o
densità ossea sufficiente ad indurre una frattura a seguito
di un piccolo trauma: infatti la perdita di tessuto osseo causa il deterioramento architetturale complessivo dello scheletro corticale, trabecolare e del collagene (che costituisce il
90% della matrice ossea), determinando un elevato rischio
di frattura.Viene classificata come segue.
1) Osteoporosi di tipo I o primaria, a sua volta distinta in
postmenopausale e senile: quella postmenopausale si realizza tra i 50 ed i 70 anni di età ed è caratterizzata non
solo dalla deprivazione estrogenica, ma anche dalla perdita della sola porzione trabecolare dell’osso, dalla particolare sede delle lesioni (vertebre e radio) e dalla prevalenza del sesso femminile su quello maschile (6:1).
L’osteoporosi senile compare oltre i 75 anni di età, coinvolge l’osso trabecolare e corticale, colpisce il collo del
femore e le vertebre e, causata dall’invecchiamento, è
106
due volte più frequente nella donna rispetto all’uomo
(2:1). Complessivamente le fratture ammontano al 3040%: quelle distali del radio (di Colles) sono frequenti
nella sesta decade; le vertebrali, del collo del femore e
del terzo prossimale dell’omero nella settima decade, le
intertrocanteriche nell’ottava decade.
2) Osteoporosi di tipo II, secondaria a stati ipogonadici,
disordini endocrini (diabete I, ipertiroidismo, iperprolattinemia), carenze nutrizionali e patologie da malassorbimento, omocistinuria, carenza di vitamina C, cirrosi biliare primitiva ed altre cirrosi, malattie reumatiche, ossee, polmonari, a stati di prolungata immobilizzazione o
sport agonistico, fattori iatrogeni-farmacologici (glucocorticoidi, citostatici, diuretici ecc.); si può manifestare
anche in giovane età.
L’osteoporosi di tipo I, postmenopausale, rappresenta un
problema di primaria importanza per la salute pubblica nei
Paesi industrializzati; basti pensare che dopo i 65 anni di età
l’80% delle fratture dell’anca (anche spontanee) è di natura
osteoporotica e che dopo una prima frattura il rischio di una
successiva aumenta di circa tre volte: ciò può comportare la
non autosufficienza, nel 10% l’istituzionalizzazione e nel
17-30% la morte dei soggetti affetti da questa patologia.
L’osteoporosi, come detto, è causata da una perdita ossea,
generalmente età-dipendente, durante il rimodellamento o
turnover del tessuto osseo (neoformazione e riassorbimento), in cui agiscono fattori intrinseci ed estrinseci che, esagerando il processo, ne determinano una tendenza prevalente al riassorbimento.
Il rimodellamento ha lo scopo di riparare le microlesioni,
per mantenere la resistenza dell’osso e di drenare il calcio
dallo scheletro per conservarne i livelli ematici; è regolato
dagli ormoni circolanti (estrogeni, androgeni, calcitonina,
paratormone), dalla vitamina D e da fattori locali (IGF I-II:
Insulin-like Growth Factor; TGF ␤: Trasforming Growth Factor;
PTHrP: Parathyroid Hormone-related Peptide; interleuchine;
prostaglandine, TNF: Tumor Necrosis Factor ecc.). Annualmente viene sostituito l’8-10% della massa ossea, mentre
un intero ciclo di rimodellamento dura circa 100 giorni; il
modellamento osseo prosegue, con incremento positivo,
dall’infanzia fino all’età di 30 anni, epoca in cui viene raggiunto il picco di massa ossea (peak skeletal mass): da quel
momento, nonostante il rimaneggiamento, inizia una leggera perdita annuale di tessuto osseo. Gli estrogeni, normalmente, inibiscono gli osteoclasti (deputati al riassorbimento osseo) e stimolano gli osteoblasti (deputati alla sintesi e mineralizzazione di sostanza osteoide); la mancanza
di estrogeni stimola le interleuchine che, a loro volta, inibiscono l’apoptosi degli osteoclasti (aumentandone quindi la
sopravvivenza). Anche se a tutt’oggi non è stato ancora
chiarito l’esatto meccanismo fisio-patologico, si sa con cer-
Ginecologia della terza età
tezza che gli estrogeni agiscono indirettamente aumentando
la sintesi di calcitonina, facilitando l’attivazione della vitamina D, incrementando l’assorbimento intestinale di calcio;
e direttamente, inibendo il riassorbimento osseo (recettori
estrogenici sono presenti sugli osteoclasti).
Nelle donne in perimenopausa, a partire dai 45-48 anni di
età, il riassorbimento osseo presenta un brusco incremento,
con una perdita di massa che può arrivare fino all’1-2% all’anno; dopo annessiectomia fino al 3,9%. Questo fatto conferma il forte nesso causale con la deprivazione estrogenica:
la perdita ossea postmenopausale (osteoporosi di tipo I, postmenopausale) continua per 10-15 anni in modo accelerato; dopo questo periodo diminuisce, ma continua perché legata all’età (osteoporosi di tipo I, senile), così che, dopo 20
anni, il decremento osseo complessivo è pari al 30-50%.
Sintomatologia. L’osteoporosi è clinicamente manifesta
quando,in postmenopausa,diventa causa di fratture o invalidità; dolori ossei, mal di schiena, un lieve incurvamento
della parte superiore del dorso (cifosi) o la diminuzione dell’altezza possono precedere la frattura vera e propria (Figura
5.3). Le ossa più frequentemente sede di frattura sono il radio e l’ulna distale (frattura di Colles), i corpi vertebrali ed il
collo del femore: circa il 40% delle donne oltre i 65 anni andrà incontro ad uno di questi traumi, spesso verificatisi a seguito di una caduta. I fattori scheletrici determinanti per una
frattura dipendono dalla massa ossea, dal turnover, dalla
qualità e organizzazione del tessuto osseo; gli extrascheletrici dipendono dalla gravità e frequenza dei traumi, dalla
protezione dei tessuti molli e dal tipo di risposta al trauma.
I più rilevanti fattori di rischio (Tabella 5.2) sono l’ipoestrinismo, l’insufficiente apporto di calcio e di vitamina D, la
mancanza di attività fisica, le malattie croniche, i farmaci ed
il fumo.
Diagnosi. Viene posta in base all’anamnesi, all’esame
obiettivo, all’impiego di tecniche non invasive ed indagini
ematochimiche, utili per valutare il contenuto minerale
(previsione del rischio di frattura), per porre diagnosi differenziale con altre patologie che interferiscono con il metabolismo dell’osso e soprattutto per definire i marcatori biochimici del turnover osseo (efficacia del trattamento).
La densitometria ossea rappresenta la metodica non invasiva di scelta per la diagnosi di osteoporosi: può essere
valutata a livello dei corpi vertebrali, del femore prossimale, del radio o dell’ intero scheletro (total body). Nelle donne di età inferiore ai 65 anni, i corpi vertebrali rappresentano la sede preferenziale per l’esame densitometrico in
quanto sono i siti scheletrici più precocemente interessati
dal processo osteoporotico postmenopausale. Dopo i 65
anni di età la frattura del femore rappresenta l’evento più
insidioso dell’osteoporosi; pertanto, dopo tale età, la sede
5
preferenziale per l’esame densitometrico è l’estremità
prossimale del femore. Tale esame può essere ripetuto per
verificare l’entità della perdita ossea postmenopausale e
per controllare l’efficacia di una terapia osteoprotettiva, ma
non prima di un anno dalla data dell’ultimo controllo.
La DEXA (Double Energy X-ray Absorptiometry) è la
metodica correntemente più utilizzata per la quantificazione
della massa ossea ed esprime, sulla base di una elaborazione
dei dati, alcuni indici di riferimento (T-score e Z-score)
espressi in deviazioni standard, che consentono la definizione del quadro. Si utilizza su colonna, radio, ulna, femore o total body ed il tempo di esposizione è di 4-5 minuti.
Precisamente, il T-score è un indice densitometrico che
esprime il rapporto della densità ossea tra il valore individuale e quello teorico (picco di massa ossea) del giovane
adulto; lo Z-score esprime il rapporto tra il risultato individuale ed il valore dei soggetti nella stessa fascia di età (rischio relativo personale di contrarre una frattura osteoporotica, rispetto alla popolazione normale dello stesso sesso
e della stessa età).
I valori del T-score permettono di valutare la presenza delle seguenti situazioni:
• valori compresi tra – 1 e – 2,5 indicano una condizione di
osteopenia, che richiede un trattamento osteoprotettivo
a fini preventivi;
• valori di T-score inferiori o uguali a – 2,5 consentono di
identificare soggetti già osteoporotici, con rischio di frattura anche per piccoli traumi;
• T-score inferiori a – 2,5, con almeno una frattura osteoporotica, individuano una condizione di osteoporosi stabilizzata.
La DEXA e la MOC (Mineralometria Ossea Computerizzata)
misurano la densità,quindi il grado di resistenza alle fratture,
della componente ossea minerale (idrossiapatite di Ca), ma
non quella organica,rappresentata soprattutto dalla componente proteica delle fibre collagene,invisibile ai raggi X.
In questi ultimi anni si sono inoltre sviluppati altri tipi di
esami:
• SEXA (Single Energy X-ray Absorptiometry): altamente
sensibile per radio e calcagno (15 minuti);
• QCT (Quantitative Computer Tomography): sensibile su
colonna vertebrale e periferia (avambraccio e tibia),
espone a forti dosi di radiazioni (15 minuti);
• US (Ultra Sound): valutando la velocità degli ultrasuoni
nel tessuto osseo, non misurano la densità ossea, ma variabili ad essa correlate e vengono impiegati come procedure di screening;
• Spettroscopia RAMAN: è un particolare tipo di spettroscopia molecolare, caratterizzata dall’impiego di una
sorgente laser che si avvicina alla cute sovrastante l’osso
107
GINECOLOGIA
55 anni
65 anni
75 anni
I fenomeni di compressione delle vertebre toraciche portano ad un calo della statura ed a una progressiva cifosi.
Il conseguente abbassamento delle ultime coste può talvolta esercitare una pressione sui visceri e causare distensione
addominale
Figura 5.3 Progressiva deformazione spinale nell’osteoporosi. (Da R.P. Smith, Netter’s Obstetrics, Gynecology and Women’s Health. Published
by Elsevier Inc. All rights reserved.)
108
Ginecologia della terza età
Tabella 5.2
5
FATTORI DI RISCHIO PER OSTEOPOROSI POSTMENOPAUSALE
• Mancanza del raggiungimento del picco di massa ossea in età giovanile
• Fattori genetici (60-80%) e costituzionali
• Ipoestrogenismo (menopausa precoce, amenorrea secondaria, iperprolattinemia, sport agonistico)
• Fattori comportamentali (fumo, alcool, droga, stile di vita sedentario, ipoesposizione al sole, scarsa introduzione di calcio e vitamina D, abuso di caffè ecc.)
• Farmaci: cortisone, tiroxina, antiepilettici, ciclosporina, citostatici, diuretici, eparina, litio, agonisti del GnRH
• Malattie croniche: reumatiche, gastro-intestinali, endocrine
• Livelli di estradiolo < 5 pg/ml e tassi elevati di SHBG
• Basso BMI (< 19 kg/m2)
da esaminare: viene registrato lo spettro Raman che rileva sia la componente organica sia quella inorganica (entrambe associate a frequenze caratteristiche e ben riconoscibili). È una tecnica semplice, veloce e non invasiva
la cui applicazione clinica è ancora allo stato iniziale, ma
destinata ad espandersi.
I marcatori biochimici di rimodellamento osseo si distinguono in marcatori di formazione:
1) fosfatasi alcalina plasmatica osso-specifica;
2) osteocalcina plasmatica;
3) propeptide di tipo I procollageno plasmatico;
e di riassorbimento:
1) telopeptidi crociati N e C terminale del collagene I;
2) idrossiprolina urinaria (urine 24/ore);
3) calcio urinario (urine 24/ore);
4) galattosio idrossilisina (urine 24/ore);
5) fosfatasi acida plasmatica;
6) sialoproteina ossea plasmatica.
TERAPIA
Il primo trattamento consiste innanzitutto nell’eliminazione dei fattori di rischio (inattività fisica, alcool, fumo, farmaci) e nel miglioramento delle abitudini nutrizionali e dello
stile di vita. Obiettivi clinici del trattamento osteoprotettivo
in menopausa sono quelli di prevenire l’osteoporosi in presenza di un’osteopenia e di evitare l’aggravamento di un’osteoporosi già in atto, riducendo il rischio di frattura.
Calcio. È spesso necessaria una supplementazione di calcio, perché il fabbisogno aumenta con l’età (> 100 mg/die
oltre i 50 anni di età); è preferibile, per questioni di solubilità, il carbonato di calcio in somministrazioni che non devono superare i 600 mg (oltre questo valore, il calcio non
viene assorbito). La riduzione del rischio di frattura sembra
essere del 20-30%.
Vitamina D. Aumentando il fabbisogno con l’età, è consigliabile una supplementazione da 400 UI (a 50-70 anni di
età), a 600 UI (oltre i 70 anni di età). Con la somministrazione della vitamina D in forma attiva (calcitriolo 0,5
␮g/die) si ottengono una diminuzione dei fenomeni di
riassorbimento osseo ed un aumento dell’assorbimento intestinale di calcio.
Altri nutrienti. Vitamina K, che interferisce con la carbossilazione dell’osteocalcina (terapie croniche con anticoagulanti riducono la massa ossea); magnesio, soprattutto in corso di malattie croniche debilitanti o malassorbimento; dieta ipoproteica, in quanto le proteine aumentano
l’eliminazione urinaria del calcio.
Estrogeni. Numerosi studi hanno dimostrato l’efficacia
significativa del trattamento ormonale nella riduzione delle fratture: precisamente gli estrogeni coniugati, l’estrone,
l’estradiolo, gli estrogeni esterificati, l’etinilestradiolo ed il
mestranolo riducono il turnover osseo, prevengono la perdita di osso ed inducono un piccolo aumento della massa
ossea dell’anca, della colonna e total body. I loro effetti sono positivi a prescindere dalla presenza di osteoporosi, dalla via di somministrazione e dall’associazione con progestinici. L’HRT si propone di minimizzare tutte le potenziali
conseguenze negative della deprivazione ormonale, incluso l’aumentato riassorbimento osseo, tanto che cinque anni di terapia sostitutiva dimezzano il rischio di fratture.
L’aumento della densità ossea dopo terapia estrogenica dipende non solo dall’effetto ipertrofizzante degli estrogeni
sul tessuto trabecolare residuo, ma anche dalla deposizione minerale endocorticale.
Progestinici. Sono somministrati con gli estrogeni per
minimizzare il rischio di cancro endometriale; il noretindrone ha un impatto più favorevole del MAP sull’osso.
SERMs (Selective Estrogen Receptor Modulators).
Sono farmaci provvisti di attività selettiva sui tessuti; la loro modalità di azione consiste nell’indurre un effetto estrogenino benefico in alcuni (ossa, cervello, fegato) e un effetto antagonista in altri (mammella, endometrio ecc.).
109
GINECOLOGIA
Il tamoxifene evidenzia effetti antiestrogenici, estrogenici o
misti in funzione dei tessuti bersaglio; inibisce la proliferazione delle cellule del carcinoma mammario, quest’ultima
attività principale del farmaco (il trattamento per 5 anni
comporta una riduzione del carcinoma mammario pari al
45% nelle pazienti con aumento di rischio e del 65% in
quelle con carcinoma mammario ER positivo); riduce le
fratture vertebrali e dell’anca, tuttavia in misura minore del
reloxifene; stimola la proliferazione endometriale (aumenta di circa due volte l’incidenza del carcinoma endometriale); diminuisce colesterolo totale, LDL, lipoproteine, non
aumenta l’HDL e i trigliceridi determinando potenzialmente una riduzione dell’infarto del miocardio; tuttavia
aumenta il rischio tromboembolico e, a dosaggi superiori
alla media, anche la cataratta e la degenerazione retinica.
Viene impiegato soprattutto per la prevenzione del carcinoma mammario nelle pazienti ad alto rischio, come terapia adiuvante nel carcinoma mammario iniziale e come
trattamento nel carcinoma mammario avanzato.
Il reloxifene è un estrogeno agonista sull’osso poiché riduce
le fratture vertebrali (non di altre sedi) di oltre il 50% e trova la sua principale indicazione sia nella prevenzione che
nel trattamento dell’osteoporosi in maniera dose-dipendente; riduce il colesterolo totale e l’LDL e non aumenta
quello HDL determinando una diminuzione del rischio di
infarto del miocardio; aumenta di circa tre volte l’incidenza
della trombosi venosa profonda e dell’embolia polmonare.
In alcuni studi viene riportata una diminuzione significativa della cardiopatia nelle pazienti ad alto rischio con un decremento dell’ictus di circa il 40%. È un estrogeno antagonista sull’endometrio di cui non induce la proliferazione e
sul carcinoma mammario sul quale ha un effetto antiproliferativo (riduce significativamente il rischio di insorgenza
di carcinoma mammario ER positivo, ma non di ER negativo).
Entrambi i tipi di SERMs non riducono i sintomi del climaterio (vampate di calore, sudorazione ecc.).
Meccanismo d’azione: normalmente esistono due sottotipi di recettori estrogenaci (α e β) presenti in forma monometrica all’interno del nucleo. Mentre gli agonisti (come il
17 β-estradiolo e affini) legandosi al recettore ne inducono
la dimerizzazione e l’interazione come elementi specifici di
risposta estrogenica nelle sequenze del DNA, il complesso
ER-DNA recluta diverse serie di coattivatori di natura proteica che portano alla formazione del GTA (General Transcription Apparatus) con conseguente sintesi di mRNA.
Gli antagonisti estrogenici si legano al recettore producendo una conformazione recettoriale differente dalla precedente: tale conformazione (antagonista-indotta<9) determina ugualmente la dimerizzazione e l’interazione con il
DNA, ma facilita il legame con una serie diversa di proteine definite corepressori: il loro complesso (ER/corepresso-
110
ri) recluta altre proteine con il risultato di stabilizzare la
struttura del nucleosoma, alterare la conformazione della
cromatina e prevenire l’interazione con il GTA per la sintesi del mRNA.
Bifosfonati. Analoghi stabili del pirofosfato, comprendono l’alendronato ed il risedronato. Si depositano selettivamente a livello della matrice ossea nei siti di mineralizzazione o a livello delle lacune di riassorbimento; sono potenti
inibitori del riassorbimento osseo ed il loro meccanismo d’azione consiste nell’arresto dell’attività osteoclastica. La somministrazione di bifosfonati blocca la perdita ossea, incrementa la massa e riduce il rischio di frattura (del 50% vertebrale; superiore al 40% non vertebrale). L’effetto collaterale
più rilevante è l’esofagite; l’acalasia ed i restringimenti esofagei rappresentano, quindi, una controindicazione assoluta,
mentre l’esofagite da reflusso costituisce una controindicazione relativa. Per minimizzare il rischio di esofagite è necessario deglutire la compressa con abbondante acqua ed evitare di porsi in posizione orizzontale nei 30 minuti successivi all’assunzione. L’introduzione di nuove vie di somministrazione (intramuscolare) ha permesso di minimizzare gli
effetti collaterali della via orale. Sono impiegati anche etidronato, zolendronato ed ibandronato. Tutti agiscono determinando una diminuzione del numero e dell’attività degli
osteoclasti anche promuovendone l’apoptosi. Bifosfonati di
prima generazione (medronato, clodronato, etidronato) agiscono per apoptosi osteoclastica mediante la quale viene a
determinarsi l’effetto antiriassorbimento.
I bifosfonati di seconda (alendronato, pamidronato e ibandronato) e terza (risedronato e zoledronato) generazione,denominati anche aminobifosfonati a causa della loro struttura
chimica, conservano il loro effetto antiriassorbimento anche
quando l’apoptosi è soppressa: la potenza degli aminobifosfonati è correlata all’effetto inibitorio sulla farnesilsintetasi
che termina l’attività antiriassorbimento dei farmaci.
Calcitonina. Prodotta dalla tiroide, a dosi farmacologiche è in grado di inibire il riassorbimento osseo, agendo sui
recettori specifici della calcitonina presenti sugli osteoclasti;
è inoltre efficace contro il dolore osseo. Può essere somministrata per via iniettiva, ma con possibili effetti secondari
(reazioni vasomotorie, nausea, diarrea) o per via nasale
(200 UI/die), ma con possibili episodi di allergia locale. Il
costo della terapia è comunque tuttora elevato.
Paratormone (PTH). Può essere somministrato alla dose di 20 ␮g/die fino a 2 anni (nausea, cefalea, vertigini, ansia ne consigliano il trattamento ad intermittenza) anche in
corso di HRT: il trattamento combinato aumenta la massa
ossea più degli estrogeni da soli, per incremento della componente trabecolare; il paratormone agisce determinando
Ginecologia della terza età
5
MODIFICAZIONI DELL’APPARATO CARDIO-VASCOLARE
IN MENOPAUSA
teriparatide
(40 ␮g)
PTH (25 ␮g)
+ estradiolo
alendronato
(10 mg)
estradiolo
(0,625 mg/die)
raloxifene
(120 mg)
calcitonica (200 IU)
placebo
0
6
12
18
24
30
durata trattamento (mesi)
36
Figura 5.4 Efficacia relativa di differenti trattamenti sulla BDM
della spina dorsale. (Da Goodman e Gilman’s. The pharmacological
basis of therapeutics. McGraw-Hill, 2006.)
l’attività degli osteoblasti (stimolazione del fattore di crescita IGF-I, produzione di collagene, inibizione dell’apoptosi).
Attualmente viene molto impiegata la teriparatide, un
frammento sintetico dei 34 aminoacidi con gruppo aminico
terminale del PTH [hPTH (1–34) teriparatide].
È indicata nel trattamento di pazienti che hanno una lunga
storia di fratture da osteoporosi, con molti fattori di rischio
per frattura, o che in precedenza non abbiano risposto o abbiano dimostrato intolleranza ai vari trattamenti contro l’osteoporosi.
Complessivamente la teriparatide somministrata alle pazienti in postmenopausa con osteoporosi aumenta la BDM
(Bone Mineral Density) e riduce significativamente il rischio
di fratture vertebrali e non vertebrali (Figura 5.4).
Il farmaco viene impiegato alla dose di 20 μg/die e può
essere somministrato per via sottocutanea per un periodo di 18 mesi da solo o in associazione con estrogeni o androgeni. Sperimentalmente la teriparatide aumenta l’incidenza di tumori ossei ed è controindicata nella malattia
ossea di Paget, nei casi di elevati tassi di fosfatasi alcalina di
natura non spiegata o di precedenti trattamenti ossei radianti.
Stronzio ranelato. Agisce inibendo in parte il riassorbimento dell’osso, in parte stimolandone leggermente la
produzione. È indicato nelle pazienti a rischio di frattura
(prevenzione).
Fluoruri. Il loro impiego è oggetto di studi contrastanti:
efficaci in vitro come stimolatori delle cellule osteoprogenitrici, in vivo non sembrano avere effetti positivi sulle fratture vertebrali e non vertebrali.
Le malattie cardio-vascolari e la relativa mortalità nella donna presentano, dopo la menopausa, un’incidenza superiore
anche a quella per cancro della mammella. Prima della menopausa l’incidenza di fatti ischemici o tromboembolici nella donna risulta essere nettamente inferiore rispetto al sesso
maschile; per ogni decesso femminile legato a queste patologie (malattie cardiache e cerebro-vascolari), infatti, ve ne
sono cinque maschili: in particolare le coronaropatie, più
frequenti nel sesso maschile (2:1 rispetto a quello femminile,
prima della menopausa) e letali in oltre il 50% degli uomini,
aumentano nelle donne in postmenopausa,al punto da presentare un’uguale incidenza dopo i 70 anni di età.Tuttavia,
mentre l’infarto del miocardio nella donna evolve spesso
verso l’arresto cardiaco o lo shock cardiogeno, nell’uomo
evolve più frequentemente verso una tachicardia ventricolare,dimostrando quindi un esito meno drammatico.
Al di là della ovvia responsabilità ormonale, la patogenesi
rivela ancora tanti punti oscuri; sono note le azioni protettive degli estrogeni ai seguenti livelli:
1) lipidico: aumento dell’HDL apoAI-II, diminuzione dell’LDL, della lipoproteina (a) [Lp(a)], apoB, della captazione e dell’accumulo vascolare dell’LDL;
2) vascolare: stimolazione della produzione di prostacicline
ed ossido nitrico (NO), ad azione vasodilatativa, e riduzione della produzione di endotelina e trombossano, ad
azione vasocostrittiva;
3) metabolico: aumento della sensibilità all’insulina, diminuzione dell’insulinemia, aumento del catabolismo di
LDL;
4) coagulativo: diminuzione dell’attività del plasminogeno
e del fibrinogeno plasmatici.
La caduta degli estrogeni in postmenopausa determina:
1) diminuzione del trofismo esercitato da tali ormoni sull’endotelio arterioso (stimolazione della produzione di
fattori vasodilatanti come prostacicline, NO, peptidiEDRFs – Endothelial relaxant factors – ed inibizione del rilascio di trombossano A2, vasocostrittore);
2) modificazioni del metabolismo delle lipoproteine: diminuzione dei recettori delle LDL ed incremento dell’attività della lipasi epatica responsabile del catabolismo delle HDL e della conversione delle VLDL in LDL; lo sbilanciamento del rapporto tra HDL ed LDL incrementa il
potere aterogeno delle LDL e ciò rappresenta, insieme al
diabete, al fumo ed all’obesità, uno dei fattori di rischio
maggiori per infarti od ictus;
3) ipertrigliceridemia, legata all’iperinsulinismo, per aumento della clearance epatica dell’insulina e all’insulino-resistenza periferica: l’attività della lipasi epatica, or-
111
GINECOLOGIA
Tabella 5.3
FATTORI DI RISCHIO CARDIO-VASCOLARE IN POSTMENOPAUSA
• Obesità e soprappeso
• Ipertensione arteriosa
• Insulino-resistenza, ridotta tolleranza glucidica, diabete
• Ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia
• Aumento dell’aggregazione piastrinica, aumento del fibrinogeno
• Fumo
• Aumento dell’attività del sistema renina-angiotensina
(Modificata da: Liguori R, deAloysio D., 2001)
mono-sensibile, è infatti incrementata dall’insulino-resistenza, per cui si verifica un aumento della lipolisi, un
maggior apporto di acidi grassi non esterificati al fegato
e, di conseguenza, un’aumentata sintesi di trigliceridi;
4) modificazione dell’assetto emocoagulativo, con alterazione dell’equilibrio fra emostasi e fibrinolisi a favore
della prima.
In menopausa spesso sono copresenti resistenza all’insulina, iperinsulinemia, diabete, dislipidemia, obesità ed ipertensione: essi agiscono sinergicamente nel determinismo
delle malattie cardio-vascolari, ma costituiscono fattori di
rischio indipendenti per la loro insorgenza (Tabella 5.3).
L’obesità è uno dei principali fattori di rischio per malattia
cardio-vascolare. La quantificazione del peso viene eseguita secondo il BMI (Body Mass Index) espresso secondo la
formula peso/altezza2, per cui si parla di soprappeso quando il BMI è superiore a 25, di obesità se il BMI è superiore
a 30. L’aumento di peso, abbastanza frequente in menopausa (0,8 kg/anno), data la diminuzione del metabolismo
basale e dell’attività fisica, riconosce un’origine controversa: vi concorrono fattori sociali, culturali e genetici (recente
scoperta del gene OB espresso nel tessuto adiposo e delle
modificazioni della leptina e dei suoi recettori in alcune famiglie). In ogni modo l’obesità, specialmente quella addominale, è associata ad ipertensione, intolleranza glucidica,
ritenzione sodica ed incremento della viscosità ematica: ciò
comporta una maggiore incidenza di coronaropatie, stroke,
insufficienza cardiaca congestizia, aumento delle complicanze polmonari, cutanee, articolari e del cancro alla colecisti, dotti biliari, endometrio, mammella, ovaio.
L’ipertensione arteriosa aumenta con l’età della donna a partire dai 50 anni e, benché non si conosca bene il meccanismo con cui si sviluppa, viene messa in relazione con le
modificazioni ormonali della menopausa, probabilmente
per la cessazione dell’effetto protettivo degli estrogeni
(prostacicline, NO) sulla parete vascolare.
L’iperinsulinemia e/o la resistenza all’insulina determina una
ritenzione di sodio, cui seguono un aumento secondario del
tono simpatico, un’iperplasia delle cellule muscolari vasco-
112
lari o un incremento del livello di calcio citosolico nel tessuto
renale o insulino-sensitivo,con modificazioni secondarie del
trasporto ionico di membrana e quindi ipertensione. Questa
si può accompagnare anche ad obesità di tipo centrale ed
ipertrigliceridemia (sindrome X) o a diabete di tipo II.
In presenza di diabete franco il rischio cardio-vascolare aumenta fino a 5 volte, specie se associato al fumo, all’ipertensione ed all’iperlipidemia; va ricordato che l’ischemia
miocardica nel diabete non si accompagna a dolore toracico (silent ischemia), per cui diagnosi e terapia possono essere ritardate.
Il cambiamento del profilo lipidico, ipertrigliceridemia ed
ipercolesterolemia, che insorge nei primi 6 mesi dalla menopausa è causa di vasculopatie per aumento delle lesioni
aterosclerotiche; l’apoproteina (a) essendo molto simile
chimicamente può competere con il plasminogeno inibendo la fibrinolisi. In tal modo interferisce con il sistema coagulativo favorendo la trombosi.
Prevenzione delle malattie cardio-vascolari. Si basa
sulla correzione/eliminazione di fattori di rischio, alcuni dei
quali non modificabili (età, coronaropatie, storia familiare
e/o personale di malattie cardio-vascolari), altri modificabili
(eliminazione del fumo, attività fisica, alimentazione equilibrata, correzione della obesità e della depressione); sull’impiego di farmaci (anti-ipertensivi, statine, ipoglicemizzanti
orali ecc.) e sulla terapia ormonale sostitutiva.A proposito di
quest’ultima, va detto che, dopo un iniziale entusiasmo sia
per la prevenzione primaria (eliminazione dei fattori di rischio), sia secondaria (riduzione degli accidenti vascolari in
pazienti con malattie cardio-circolatorie), basata sull’evidenza che gli estrogeni riducono il rischio di cardiopatia del
35-50% migliorando il quadro lipidico ed ipertensivo,oggi si
è molto più prudenti. Gli ultimi studi hanno infatti dimostrato che il trattamento estrogenico, oltre ai citati effetti positivi, ne determina anche di negativi, quali aumento dei trigliceridi, del fibrinopeptide A, dei frammenti 1 e 2 della protrombina e della proteina C dell’infiammazione, oltre alla
promozione della coagulazione via fattoreVII; i progestinici,
inoltre, potrebbero antagonizzare gli effetti positivi degli
Ginecologia della terza età
Tabella 5.4
5
PREVENZIONE DELLA PATOLOGIA CARDIO-VASCOLARE: RACCOMANDAZIONI AHA 2001
Prevenzione primaria
• Le raccomandazioni cliniche richiedono ulteriori risultati di ricerche cliniche randomizzate in corso
• Non vi sono dati sufficienti per l’indicazione al trattamento preventivo delle patologie cardio-vascolari
• L’inizio e la continuazione della TOS si devono basare su rischi e benefici non coronarici e sulle preferenze della paziente
Prevenzione secondaria
• La TOS non deve essere iniziata per la prevenzione secondaria delle malattie cardio-vascolari
• La decisione se continuare o interrompere il trattamento in pazienti con malattia in atto deve prendere in considerazione i rischi ed i benefici non coronarici e le preferenze della paziente
• In presenza di un evento cardio-vascolare acuto o di immobilizzazione durante il trattamento, è prudente interrompere la terapia, eseguire la profilassi della trombosi venosa per minimizzare il rischio tromboembolico. La ripresa della terapia si dovrà
basare sulla valutazione dei rischi e benefici non coronarici e sulle preferenze della paziente
estrogeni, con un’azione dipendente non solo dal tipo di
progestinico usato,ma anche dalla via di somministrazione .
Oggi, quindi, l’American Heart Association raccomanda prudenza (e non chiusura) nell’uso del trattamento ormonale
5.2
sostitutivo nella prevenzione della patologia cardio-vascolare (Tabella 5.4): tale patologia, infatti, aumenta in funzione
dell’età (5% a 20 anni; 75% a 75 anni), indipendentemente
dall’eventuale terapia.
Ginecologia geriatrica
Biologia
La senescenza, periodo di vita che si estende dopo i 65 anni di età, comprende una serie di modificazioni involutive
dell’organismo, il cui ambito e trattamento è riservato alla
medicina geriatrica.
Sono descritti numerosi cambiamenti molecolari cellulari
concomitanti tipici dell’età, come anomalie ultrastrutturali
dei cromosomi, cross-linking DNA e frequenti rotture dei
singoli filamenti, declino della metilazione e perdita delle
sequenze telomeriche del DNA; le proteine, pur essendo
intatte nella loro struttura primaria, presentano spesso fenomeni di ossidazione, deaminazione, glicosilazione non
enzimatica, mentre i mitocondri si deteriorano, anche se
non universalmente.Tuttavia, mentre la crescita e lo sviluppo dell’uomo riconoscono un modello genetico, la senescenza, rappresentata come un accumulo progressivo di
eventi dannosi, è un fatto individuale. Teorie come “mutazione somatica”, “errore catastrofico nella sintesi delle proteine”, “mutagenesi intrinseca”devono essere abbandonate: attualmente, la sola possibilità di ritardare l’invecchiamento è ridurre l’assunzione di calorie.
Dal punto di vista fisiologico, l’invecchiamento si caratterizza per la riduzione dell’omeostasi di tutti gli organi ed
apparati, riduzione che viene definita omeostenosi: tale processo, pur essendo progressivo, risulta evidente già dalla
terza decade, procede in modo variabile ed individuale, poco dipendente da fattori genetici, più da fattori personali-
ambientali (alimentazione, abitudini di vita ecc.). Se non
compaiono eventi morbosi sovrapposti, l’omeostenosi non
provoca particolari sintomi e la riduzione delle attività giornaliere è modesta.
Nella paziente anziana si devono quindi tenere presenti alcune considerazioni:
1) in un quadro di patologia d’organo è ipotizzabile una
sequenza di eventi che l’hanno preceduto e ne hanno
determinato una maggior vulnerabilità, ma il risultato finale può essere atipico;
2) in funzione dell’età, diminuisce la capacità fisiologica
reattiva, con comparsa precoce di sintomi patologici;
3) diversi sistemi possono essere contemporaneamente
coinvolti, per cui è necessario indagare a tutto campo ed
effettuare una terapia ad ampio raggio.
VULVA
L’involuzione atrofica della vulva è una naturale sequela
della carenza estrogenica postmenopausale. È caratterizzata dall’assottigliamento della cute e della perdita della normale architettura istologica, con scompaginamento degli
strati dermici e sostituzione dei collageni di tipo elastico
con quelli di tipo fibroso. Clinicamente la paziente può lamentare facile sanguinamento dei tessuti, bruciore, prurito,
dispareunia; non rara è la presenza di stenosi da aderenze
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GINECOLOGIA
labiali, peraltro facilmente risolvibili chirurgicamente in regime di day-hospital.
Il trattamento risolutivo consiste nel ripristinare un clima
estrogenico o con una terapia sistemica o con applicazioni
cicliche di gel o creme.
La vulvodinia è caratterizzata dalla presenza di dolore costante, non solo all’area vestibolare, ma a tutta la vulva. Il
Congresso del 1983 della ISSVD (International Society for
the Study of Vulvovaginal Disease) ha coniato il termine di
questa patologia e ne ha anche definito le caratteristiche:
fastidio continuo e cronico, con bruciore, disturbi trafittivi,
irritazioni ed escoriazioni; sono assenti il dolore in un punto preciso e l’eritema.
Per anni etichettata come problema psicosomatico e spesso confusa con il vaginismo (problema psichiatrico), attualmente si pensa sia dovuta a una patologia del tessuto connettivo (vista l’associazione con fibromialgia, cistite interstiziale ed intestino irritabile), o a fattori genetici (familiarità) o alla presenza di cellule dell’infiammazione (mastociti), che producono sostanze come il Nerve Growth Factor.
La vulvodinia si presenta come forma essenziale, che deve
perciò essere diagnosticata dopo aver escluso le patologie
infettive (candida), distrofica (lichen scleroso), virale, irritativa, la sindrome di Beçhet od altro, o come forma disestesica: nel primo caso i sintomi sono irregolari ed aspecifici; nel
secondo caso sono presenti allodinia (le sensazioni piacevoli sono percepite come dolorose) ed iperestesia continua,
diffusa a tutto il vestibolo. All’origine di questa forma e nel
mantenimento del dolore sembra interessato il sistema
nervoso simpatico. La terapia di scelta, in queste forme, così come nella nevralgia del nervo pudendo (molto simile
alla vulvodinia) è l’antidepressivo triciclico (amitriptilina), a
basso dosaggio, in associazione o meno con altri farmaci
attivi sul SNC (anticonvulsivanti, come ad esempio gabapentin) od importanti trattamenti fisioterapici, come la riabilitazione del pavimento pelvico.
La sindrome da vestibolite vulvare è caratterizzata da
un dolore urente, limitato alla zona posteriore corrispondente alle ghiandole vestibolari, provocato nei tentativi di
penetrazione vaginale (senza pressione le pazienti sono
asintomatiche), flogosi e conseguente dispareunia. Istologicamente si rileva la presenza di linfociti, plasmacellule,
mastociti e frazione C3 del complemento. La patogenesi è
da ricondurre ad una ipersensibilità delle terminazioni nervose nel vestibolo vaginale, che amplifica la percezione del
dolore.Vi è spesso eritema, a vari gradi, ed è positivo il test
di provocazione con un tampone (Swab test). Il trattamento si avvale di una serie di interventi:
1) antimicotici;
2) lubrificanti vaginali;
3) anestetici locali (lidocaina o xilocaina) in gel;
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4) iniezioni locali di cortisonici (triamcinolone), da ripetere
a cicli (la somministrazione prolungata può provocare
assottigliamento ed atrofia dell’epidermide, nonché dermatite reattiva alla sospensione, con eritema e bruciore);
5) iniezioni locali di interferone α (3 milioni U/ml);
6) amitriptilina (10-25 mg/die);
7) escissione (50% di ricorrenze).
Il prurito vulvare, che si manifesta spesso nelle ore notturne ed è accompagnato da lesioni da grattamento, può
essere secondario a dermatite vulvare cronica (causata da
candidiasi diabete-dipendente), a vaginite postattinica
(con bruciore), od essere espressione di un carcinoma vulvare: in questo caso il prurito è intenso, presente nel 60%
dei casi, e precede la manifestazione neoplastica anche di
10 anni. Il prurito vulvare è un sintomo, inoltre, delle vulviti distrofiche, da contatto, da infezioni virali, da lichen scleroso e piano, della cirrosi e dell’insufficienza renale, di patologie psico-somatiche, emopatie (linfoma di Hodgkin) e
malattie gastro-intestinali (morbo di Chron) (vedi Cap. 12).
La vulvo-vaginite senile o atrofica è caratterizzata da
modificazioni parallele della vulva e della vagina dovute a
carenza estrogenica. Le superfici cutanee diventano sottili
e trasparenti, il vestibolo è arrossato, l’ostio vulvare si restringe. Anche la vagina si assottiglia e perde il glicogeno:
aumentano il pH, lo stafilo-streptococco e le forme difteriche, mentre diminuiscono i lattobacilli. Compaiono petecchie, talora sanguinamenti (diagnosi differenziale con cervico- ed endometriopatie mediante colpocitologia, revisione frazionata ecc.), bruciore, prurito, senso di gonfiore, dispareunia. La terapia si avvale di estrogeni (estriolo compresse 1 mg/die, estrogeni coniugati compresse 0,625
mg/die, estrogeni in preparati di creme o gel).
Il lichen scleroso (vedi anche Cap. 12), denominato in passato craurosi, è una malattia benigna di verosimile natura
autoimmune, facilmente confondibile con altre dermatiti
atrofiche, che si presenta con cute bianca, sottile, pergamenacea, spesso accompagnata da erosioni, ulcerazioni, ecchimosi secondarie a grattamento (per l’intenso prurito).
Le distrofie vulvari, tipiche dell’età, iper- o ipopigmentate non hanno un chiaro significato di lesione precancerosa,
anche se talora, nelle prime, possono comparire melanomi
e, nelle seconde, specialmente nel 5% che non evolve verso l’atrofia, si può assistere alla trasformazione neoplastica.
Pertanto queste lesioni vanno seguite nel tempo, con vulvoscopia e biopsia, in particolare se non rispondono ai trattamenti medici (generalmente a base di corticosteroidi).
VAGINA
Le alterazioni postmenopausali della vagina includono la
perdita degli strati mucosi cheratinizzati, il decremento del
Ginecologia della terza età
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glicogeno epiteliale con scomparsa del bacillo di Doderlein
e l’innalzamento del pH a valori > 4. Clinicamente questi
cambiamenti si presentano con assottigliamento delle pareti, talvolta sanguinanti, scomparsa delle rughe trasversali,
stenosi del canale vaginale con dispareunia; la presenza di
una perdita bianca, fluida, è spesso il segno di una vaginite
atrofica, esfoliativa. Data l’eziologia non infettiva, il trattamento di scelta è l’estrogeno-terapia topica, fermo restando l’obbligo di un esame microscopico del secreto.Talora, a
causa di piccoli traumi, in questo contesto si possono verificare perdite ematiche (colporragia).
Le alterazioni connettivali già menzionate insieme a fattori aggravanti (ad esempio, pluriparità) sono alla base dei
frequenti rilasciamenti delle strutture di sostegno endopelviche; a seconda del distretto vaginale interessato si distinguono difetti della parete anteriore con abbassamento della retrostante vescica (cistocele), di quella posteriore con
discesa del retto (rettocele), dell’utero in toto (isterocele),
o del peritoneo del Douglas (elitrocele) tra vagina e retto,
a volte comprendente anse intestinali (enterocele). Le più
recenti evidenze cliniche assegnano alla chirurgia il ruolo
predominante nella correzione di questo disturbo, anche
nelle pazienti anziane non complicate. Le forme lievi di
prolasso possono talvolta rispondere ad una buona riabilitazione dei muscoli perineali e pelvici insieme ad una terapia estrogenica topica.
Questo scompaginamento più o meno diffuso della statica
pelvica si ripercuote con una frequenza sempre maggiore
sulla continenza urinaria. Circa un quarto delle donne oltre
i 65 anni di età è affetta da perdita involontaria di urina, sia
nella più frequente forma da sforzo (stress incontinence), da
instabilità del muscolo detrusore (urge incontinence), sia
nella forma mista. Come gold standard nella terapia della
stress incontinence si è imposta da pochi anni la sling sottouretrale tension-free, una benderella sintetica (polipropilene) posizionata al di sotto dell’uretra a fungere da supporto. Le forme da urgenza rispondono bene, in genere, alla terapia medica con anticolinergici.
(che deve essere omogeneo e di spessore inferiore ai 4-5
mm), e/o un’isteroscopia con revisione frazionata della cavità uterina. L’aumento del volume uterino può essere anche
secondario all’obliterazione del canale cervicale con conseguente ritenzione di muco, pus, cellule di sfaldamento, sangue.
È sempre bene eseguire, anche a quest’età, il Pap-test per
la ricerca di atipie cervicali, anche se il cervico-carcinoma è
raro oltre i 65 anni; tuttavia, quando presente, ha un decorso molto aggressivo (tumore a piccole cellule o a cellule
neuro-endocrine).
Le ovaie diventano macroscopicamente più piccole e di
aspetto raggrinzito, perché funzionalmente, viene meno la
risposta dei follicoli rimanenti allo stimolo delle gonadotropine con conseguente calo nella secrezione ormonale:
spesso compare iperplasia dello stroma che secerne androgeni, ma, poco a poco, anche questa attività diminuisce e
scompare.
Neoformazioni ovariche sono piuttosto rare in età geriatrica e spesso, quando presenti, si confondono con i tumori
intestinali più frequenti degli ovarici nelle donne anziane.
La diagnosi viene posta, oltre che in base alla sintomatologia clinica, con l’ecografia transvaginale, la TAC o la RMN,
e definita con la laparoscopia o la laparotomia. Gli antigeni tumorali CA-125 o Ca19-9 sono buoni marker sieroematici per le neoplasie epiteliali non mucinose, anche se
possono essere falsamente elevati da malattie epatiche,
malattie infiammatorie croniche, miomi in necrosi, peritoniti, diverticoliti; in ogni caso devono essere utilizzati nel
follow-up dopo la diagnosi e la cura.
Nelle pazienti anziane aumentano inoltre le complicanze
anestesiologiche, metaboliche e postoperatorie.
Anche la mammella subisce modificazioni senili, come la
diminuzione del volume e l’allentamento dei supporti legamentosi; i tumori del seno aumentano con l’età fino a 85
anni: è necessario suggerire quindi una mammografia,
eventualmente abbinata ad ecografia, annualmente dopo i
40 anni.
UTERO E ANNESSI
TERAPIA DELLA MENOPAUSA
L’utero postmenopausale va incontro lentamente ad involuzione senile, diminuendo di volume: diminuiscono il corpo
rispetto al collo, lo spessore dell’endometrio e del miometrio; tendono alla riduzione e talora addirittura scompaiono
gli eventuali miomi. È importante non sottovalutare le piccole metrorragie in postmenopausa, che nel 90% dei casi
sono causate da atrofia endometriale o vasculopatie senili,
ma possono anche essere dovute a polipi endometriali, carcinomi o sarcomi dell’endometrio: è necessario eseguire
un’ecografia transvaginale per lo studio dell’endometrio
La terapia ormonale sostitutiva (HRT o TOS) in postmenopausa è da circa un decennio oggetto di studi e contrasti
nell’ambiente medico-scientifico e sociale, tanto da essere
definita la “pillola della discordia”. Essendo aumentata l’aspettativa di vita della donna e dato che circa 1/3 di questa
viene trascorso in postmenopausa, con un aumento del rischio e dell’incidenza di malattie degenerative gravi
(osteoporosi e fratture, tumori al seno, malattie cardio-vascolari ecc.), ci si chiede se un trattamento estroprogestinico sostitutivo non migliori la qualità della vita, prevenendo
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GINECOLOGIA
i disturbi e le malattie del climaterio; se esistano terapie alternative e quali siano i rischi ed i benefici nell’immediato
ed a distanza.
Negli anni 1980-1996, dati osservazionali deponevano per
un importante effetto protettivo dell’HRT nella patologia
cardio-vascolare (riduzione dal 35% al 60%: Nurse’s Health
Study) e nell’osteoporosi.
Più tardi (1998-2002), gli studi HERS I e II (Heart and Estrogen/progestin Replacement Study) e WHI (Women’s Health
Initiative) hanno dimostrato un aumento del rischio delle
malattie cardio-vascolari (RR: 1,29), dell’ictus (RR: 1,41)
dell’embolia polmonare (RR: 2,13), della chirurgia del tratto biliare e del carcinoma mammario (RR: 1,26) ed una diminuzione dell’osteoporosi e delle relative fratture (RR:
0,66), del cancro colon-rettale (RR: 0,63), del carcinoma endometriale (RR: 0,43) e del diabete II. Rispetto al carcinoma ovarico, la letteratura è contrastante: uno studio dimostra un lieve incremento dopo 11 anni di terapia nelle utilizzatrici dell’HRT (il rischio aumenta in funzione del tempo di esposizione al trattamento).
Lo studio WHI (randomizzato su 17.000 donne trattate con
estrogeni coniugati e MAP versus placebo, della durata di
anni 8,5) viene interrotto dopo 5,2 anni perché il trattamento causa un danno superiore al beneficio atteso.
Nel 2003 il MWS (Million Women Study), che esprime uno
studio di coorte su più di 1 milione di donne inglesi di età
compresa tra i 50 ed i 79 anni dal 1999 al 2001 in terapia
estro-progestinica, ha dimostrato un significativo aumento
di accidenti cardio-vascolari e di cancro al seno, a fronte di
una diminuzione del cancro colon-rettale e dell’endometrio, dell’osteoporosi e delle fratture, della scomparsa delle
vampate di calore e del miglioramento della sindrome depressiva e della sintomatologia urinaria.
Alla luce di questi studi, emergono i seguenti dati importanti che hanno frenato l’impiego dell’HRT:
1) l’aumento del rischio è in funzione del tempo di esposizione al farmaco: sotto i 5 anni sembra minimo;
2) l’aumento del rischio di tumore al seno non sembra essere in funzione della via di somministrazione (alcuni
Autori tuttavia consigliano la via transdermica);
3) per quanto attiene alla combinazione estro-progestinica, non sembrano esserci differenze significative tra i vari tipi di progestinico di sintesi usato;
4) poiché il rischio di comparsa di tumori al seno è maggiore
nel trattamento combinato estro-progestinico con progestinici di sintesi rispetto ai soli estrogeni, è verosimile
che l’aggiunta di progestinici sintetici annulli gli effetti
positivi degli estrogeni, sia a livello cardio-vascolare che
mammario; d’altra parte gli estrogeni da soli aumentano
il rischio di carcinoma endometriale, mentre l’aggiunta di
progestinici sintetici lo riduce od addirittura lo annulla.
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Lo studio E3N-EPIC coorte del 2004 (54.000 donne trattate
per 2,8 anni con estrogeni e progesterone micronizzato, seguite con un follow-up di 5,8 anni) ha rilevato che il trattamento estro-progestinico con progesterone micronizzato
non è accompagnato da aumento di incidenza del carcinoma mammario (RR: 0,9), a differenza di quanto avviene con
gli estro-progestinici di sintesi (RR: 1,2-1,4). È probabile che
questa combinazione apra una nuova strada per il trattamento postmenopausale con TOS, anche perché il test di
eterogeneità tra progesterone micronizzato e progestinici di
sintesi risulta statisticamente significativo (p < 0,001).
Inoltre, un altro studio recente (WHI 2004) interrompe la
somministrazione di soli estrogeni dopo 7 anni per l’aumento di incidenza di ictus e la mancanza di effetti sulle
malattie cardio-vascolari e sul tumore al seno (unico risultato positivo è la riduzione delle fratture). Il rischio relativo
(RR) di tumore mammario in donne in trattamento con soli estrogeni oltre i 7 anni aumenta di 0,003/anno di terapia;
l’RR diventa 0,12/anno di terapia con l’associazione estroprogestinica (la differenza appare maggiore nelle pazienti
magre rispetto a quelle in soprappeso); inoltre, va detto che
i tumori insorti in corso di HRT danno una maggiore sopravvivenza, spiegabile non solo da una migliore sorveglianza (controlli annuali di mammografia ed ecografia
mammaria nelle pazienti in terapia), ma anche, probabilmente, da una maggiore differenziazione (basso grading).
Ancora, sembra che gli estrogeni somministrati in postmenopausa riducano la somatomedina C (fattore IGF1), potente mitogeno mammario, che risulta al contrario elevato
in premenopausa nelle donne con alti livelli di estrogeni.
Mentre i progestinici di sintesi sono stati accusati di favorire il carcinoma della mammella (sulla base dell’aumento
dell’attività mitotica delle cellule mammarie nella fase luteinica del ciclo), per quanto attiene al progesterone micronizzato, pur non esistendo osservazioni cliniche sul suo effetto protettivo a lungo termine sulla mammella, tale effetto sembra essere ipotizzabile.
Personalmente, data la continua evoluzione degli studi, vorremmo suggerire di non prendere per definitive tutte le informazioni in proposito di HRT: non si può infatti essere d’accordo con i risultati di studi che propongono il trattamento
soltanto a donne oltre i 65 anni dimostrando che è dannoso,
né con coloro che perseguono un trattamento ad oltranza
non tenendo conto dei suoi effetti negativi: come sempre la
medicina è fatta anche di buon senso e perciò si avvale di indicazioni e controindicazioni e dell’impiego di farmaci adeguati per qualità,dosaggi e tempo di esposizione.
Il razionale della TOS in postmenopausa richiede un bilancio tra i rischi ed i benefici. Il medico è la prima persona che
pone l’indicazione per un trattamento sostitutivo: il rilievo
di importanti sintomi della menopausa e la prevenzione
dell’osteoporosi costituiscono valide ragioni per iniziarlo. È
Ginecologia della terza età
Tabella 5.5
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CONTROINDICAZIONI ASSOLUTE E RELATIVE ALLA TERAPIA ORMONALE SOSTITUTIVA (TOS)
Controindicazioni assolute alla terapia ormonale sostitutiva
• Perdite ematiche genitali
• Severe epatopatie in atto
• Fenomeni trombotici o embolici in atto o recenti
• Adenocarcinoma dell’endometrio
• Carcinoma dell’ovaio
• Carcinoma mammario
Controindicazioni relative alla terapia ormonale sostitutiva
• Pregressi episodi di tromboflebite
• Presenza di calcolosi della colecisti
• Patologie benigne della mammella
• Ipertrigliceridemia severa
• Pregressa endometriosi e fibromi uterini
• Fumo
opportuno analizzare eventuali fattori di rischio personali
e/o familiari, valutare la sintomatologia soggettiva, l’ atteggiamento psicologico, prendere conoscenza delle aspettative, dei timori legati a rischi reali o conseguenti ad una inadeguata, insufficiente od errata informazione.
Definiti i criteri di sicurezza ed efficacia, la scelta dello schema terapeutico varia in funzione del desiderio o meno della paziente di continuare ad avere un flusso simil-mestruale; tale richiesta può variare a seconda del vissuto, dell’età
cronologica e dal tempo intercorso dall’inizio della menopausa.
Le differenti variabili terapeutiche consentono di personalizzare il trattamento aumentando la compliance della paziente.
INDICAZIONI
1) Il trattamento a breve termine (sotto i 5 anni) è previsto per
vampate di calore, secchezza vaginale, sintomatologia
urinaria, prevenzione dell’osteoporosi e della sindrome
depressiva in donne che non presentino controindicazioni; in alternativa possono essere prescritti antidepressivi, fitoestrogeni della soia (vedi oltre), creme vaginali
agli estrogeni ecc.;
2) il trattamento a lungo termine (superiore ai 5 anni) è previsto, in assenza di controindicazioni assolute o relative
(Tabella 5.5), per donne che presentino una sintomatologia vasomotoria persistente od un aumentato rischio di
osteoporosi (anamnesi personale e/o familiare di osteopenia grave e fratture non traumatiche con indice di massa corporea < 22) e siano motivate al trattamento.Verranno raccomandate loro l’astensione da alcool e fumo,
un’adeguata attività fisica ed una dieta opportuna.
CONTROINDICAZIONI ASSOLUTE
Sono costituite dalla presenza di perdite ematiche genitali
da causa sconosciuta, malattie epatiche in fase attiva, coro-
naropatie, tromboembolismo venoso, carcinoma endometriale o mammario in atto od in presenza di fattori di rischio cardio-vascolare o di tumore mammario (anamnesi e
suscettibilità genetica tipo BRCA1-2, atipie cellulari mammarie identificate mediante biopsia).
CONTROINDICAZIONI RELATIVE
Sono l’ipertrigliceridemia (> 400 mg/dl), la calcolosi colecistica in fase attiva, il fumo.
Per concludere, è opportuno affermare che, anche se dal
punto di vista medico esistono pareri discordanti, non c’è
dubbio che le ultime ricerche, specialmente quelle svolte in
Europa, offrano uno spiraglio al trattamento estro-progestinico postmenopausale in termini non così severi come consigliato dalla letteratura americana, da venire erogato, di
volta in volta, in modo personale. La possibilità psicologica,
reale o temuta, di evitare i profondi mutamenti psico-fisici
dell’età diventa una potente motivazione al trattamento: tenendo conto delle indicazioni, delle controindicazioni e dell’idoneità personale alla terapia è possibile ottenere un benessere ed un equilibrio fondamentali per esorcizzare le
paure e per perseguire una corretta finalità di equilibrio psico-fisico. Una modalità complementare potrebbe essere la
somministrazione di un contraccettivo per qualche anno a
cavallo della menopausa, sia per prevenire eventuali gravidanze indesiderate, sia per evitare le situazioni di disagio
della perimenopausa (menometrorragie, amenorree, sintomi vasomotori ecc.).
SCHEMI DI TRATTAMENTO
Estrogeni. I più utilizzati sono i coniugati equini, l’estradiolo e l’estriolo, che possono essere somministrati per via
orale, transdermica, vaginale ed endonasale; molto usate
sono la via orale e la transdermica a matrice autoadesiva
con 17-␤-estradiolo, in misura minore le creme, i gel, gli
ovuli vaginali e gli spray nasali. La somministrazione per
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GINECOLOGIA
via orale avvia l’estrogeno al fegato, dove la sua concentrazione aumenta di 4 volte rispetto al sangue periferico: è
consigliata alle donne con ipercolesterolemia (l’estradiolo
stimola direttamente i vari fattori della coagulazione e la
renina ed indirettamente inibisce la lipoproteina (a) [Lp(a)]
con effetto antiaterosclerotico) e, più di quella transdermica, si associa alla riduzione di IGF-I (potente mutageno a
livello delle cellule mammarie). La somministrazione per
via transdermica è preferibile in caso di ipertensione, ipertrigliceridemia ecc.
Oltre alla correzione della sintomatologia menopausale
(vampate di calore ed atrofia genito-urinaria), la terapia
estrogenica è indicata nella prevenzione e trattamento dell’osteoporosi e della sindrome depressiva; utile appare,
inoltre, nella terapia dell’artrosi (riduzione del 40% della
sintomatologia dolorosa) per ripristino dell’attività recettoriale estrogenica delle articolazioni.
Il trattamento postmenopausale preferito si basa sull’impiego di estradiolo naturale che coinvolge meno il metabolismo epatico (rispetto a quello sintetico utilizzato nei
contraccettivi) e circola legato alla SHBG (mentre l’etinilestradiolo è veicolato ampiamente dalle albumine sieriche),
riducendo così gli eventuali effetti negativi. La terapia con
soli estrogeni è riservata alle donne prive di utero. Gli
schemi proposti sono i seguenti.
Per via orale (preferita nei casi di ipercolesterolemia)
1) Estrogeni coniugati equini alla dose di 0,625 mg/die
2) Estradiolo valerato alla dose di 2 mg/die
3) Estriolo, molto debole, attivo sull’epitelio vaginale e sul
trigono vescicale, somministrato alla dose di 1 mg/die.
Per via transvaginale
1) Estrogeni coniugati equini sotto forma di creme
2) Estradiolo in compresse vaginali
3) Estriolo in crema ed ovuli
4) Promestriene in crema od ovuli.
Per via transdermica (in presenza di epatopatie, patologie
biliari e gastro-intestinali)
1) Cerotto monosettimanale (50-100 ␮g 17-␤-estradiolo)
2) Cerotto bisettimanale (25, 50, 75, 100 ␮g 17-␤-estradiolo)
3) Gel transcutaneo (17-␤-estradiolo).
Per via endonasale (utile soprattutto in presenza di vampate di calore)
Estradiolo emidrato spray nasale.
Progestinici. Vengono utilizzati, in associazione agli
estrogeni, per il ruolo protettivo che svolgono nel prevenire
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l’insorgenza dell’iperplasia e del carcinoma endometriale, a
basse dosi per evitare possibili effetti secondari (aterogenesi, tumore al seno). Indicazioni non trascurabili all’impiego
dei progestinici da soli sono la correzione della sintomatologia vasomotoria e la prevenzione del carcinoma endometriale in donne in terapia con tamoxifene per tumore al seno (determinano una trasformazione pseudodeciduale dell’endometrio): per brevi periodi è possibile l’impiego del
medrossiprogesterone acetato (MAP 100 mg/die), ma per
periodi più prolungati è preferibile il progesterone micronizzato (100-200 mg/die). Questi ormoni esplicano nelle
neoplasie endocrino-correlate (carcinoma mammario ed
endometriale), un’azione inibitoria diretta ed indiretta sulla
mitosi cellulare: a basse dosi riducono i recettori, diminuendo quindi la capacità delle cellule di rispondere agli stimoli
degli estrogeni; ad alte dosi bloccano la produzione di steroidi sessuali con effetto di citotossicità diretta. A concentrazioni adeguate contrastano (soprattutto il MAP) la carica
del recettore per gli estrogeni, mediante l’inibizione della
sintesi di nuovi recettori e diminuiscono l’efficacia del recettore del progesterone per retroattività (down regulation). È
stato ancora dimostrato, recentemente, che essi stimolano
la sintesi di EGF (Epidermal Growth Factor) e di TGF␣ (Transforming Growth Factor alpha) ed inibiscono quella di TGF␤
(Transforming Growth Factor beta) e di IGF-1 (Insulin Growth
Factor 1), implicato nello stimolo mitotico mammario. Il
MAP ed il noretindrone abbassano le lipoproteine ad alta
densità, mentre il progesterone micronizzato non determina, in questo senso, alcun effetto negativo.
Le vie di somministrazioni possibili sono le seguenti.
Per via orale
1) Medrossiprogesterone acetato (MAP) alla dose di 10-20
mg/die (dose bassa); 100 mg/die (dose alta)
2) Ciproterone acetato (antiandrogeno 1 mg/die), noretisterone (10 mg/die), noretindrone, nomegestrolo (5
mg/die), medrogestone (5 mg/die) progesterone micronizzato (100-200 mg/die).
Per via transdermica come crema o pomata
Progesterone (5 mg/die).
Per via vaginale (ovuli o compresse)
Progesterone micronizzato (1 o 2 compresse da 100 mg/die).
Per via intrauterina
IUD di levonorgestrel, che libera una quota giornaliera di progestinico (20 ␮g), per un periodo di 5 anni; tale dispositivo
possiede un elevato effetto antiproliferativo a livello endometriale, ed inoltre garantisce un effetto contraccettivo in una fascia d’età nella quale una gravidanza risulta ancora possibile.
Ginecologia della terza età
A dosi inferiori di quelle citate non esiste una protezione
dell’endometrio dal rischio di iperplasia.
Il trattamento estro-progestinico può essere:
1) combinato continuativo (estrogeni e progestinici tutti i
giorni senza interruzione);
2) combinato ciclico (estrogeni e progestinici per 21-25 giorni con intervallo di 7 giorni);
3) sequenziale continuativo (estrogeni tutti i giorni e progestinici per 12-14 giorni a mese);
4) sequenziale ciclico (estrogeni per 21-25 giorni e progestinici negli ultimi 12-14 giorni, cui segue una pausa di 7
giorni).
Per evitare l’insorgenza di sintomi è preferibile evitare la
pausa settimanale eseguendo una somministrazione continuativa; tuttavia, a volte, per motivi psicologici, è opportuno applicare uno schema ciclico che preveda una perdita
ematica pseudomestruale durante la pausa settimanale (alle dosi suddette si verifica una regolare e ciclica desquamazione endometriale); nel trattamento continuativo si instaura un’atrofia endometriale, con stimolazione più o meno marcata dello stroma e saltuaria comparsa di spotting
per lo più entro 6 mesi dall’inizio del trattamento, seguito
da amenorrea.
TERAPIE ALTERNATIVE
SERMs (Selective Estrogen Receptor Modulators).
Sono caratterizzati da contemporanea attività estrogenoagonista in alcuni tessuti e antagonista in altri. Il tamoxifene esercita un ruolo estrogenico sull’osso (previene l’osteoporosi) e sull’endometrio (stimola la proliferazione), mentre possiede un effetto antiestrogenico sulla mammella
(previene l’insorgenza del carcinoma mammario); il raloxifene, al contrario, esercita un effetto protettivo sull’osso (attività estrogeno-agonista), sull’endometrio e sulla mammella (attività estrogeno-antagonista).
Entrambi favoriscono la diminuzione dei livelli di colesterolo, non hanno effetti benefici sui disturbi neuro-vegetativi/vasomotori e sul trofismo uro-genitale. Presentano, come effetti collaterali, la possibilità di favorire l’insorgenza di
vampate di calore di lieve entità e un aumento, modesto
ma significativo, del rischio trombotico.
SEEMs (Selective Estrogen Enzime Modulators).
Sono caratterizzati da un’azione estrogenica selettiva e dalla capacità di modularla a livello di tessuti ed organi specifici attraverso un meccanismo che coinvolge le attività enzimatiche cellulari implicate nel metabolismo degli estrogeni. Il tibolone viene utilizzato nel trattamento dei disturbi vasomotori, neuro-vegetativi, uro-genitali e nella prevenzione dell’osteoporosi, ma richiede le stesse precauzio-
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ni della somministrazione estroprogestinica perché, a parte un indimostrato effetto positivo sulle fratture ossee,
sembra aumentare, con gli anni, l’incidenza del carcinoma
mammario.
Fitoestrogeni. Sono composti chimici non steroidei,
estraibili dalle piante, che mimano la funzione degli estrogeni ovarici. Gli isoflavoni sono quelli metabolicamente più
attivi, sono presenti soprattutto nella soia e sono rappresentati principalmente dalla genisteina e dalla daidzeina. I
dati clinici sugli effetti della somministrazione dei fitoestrogeni sono, ad oggi, ancora insufficienti per confermare i loro benefici nel trattamento delle problematiche relative alla menopausa.
FOLLOW-UP IN MENOPAUSA
Di seguito sono elencati i controlli a cui sottoporre le donne in postmenopausa.
1) Visita senologica, mammografia, ecografia mammaria:
annuali; in caso di seno denso o fattori di rischio anamnestici o genetici: RMN;
2) citologia cervico-vaginale: annuale;
3) densitometria ossea: biannuale; più ravvicinata in pazienti a rischio con osteoporosi grave in trattamento;
4) ecografia transvaginale (studio dell’ecopattern endometriale): annuale o biannuale;
5) ecografia addomino-pelvica: annuale;
6) controlli ematochimici semestrali o annuali: glicemia,
profilo lipidico,profilo coagulatorio.
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