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Modelli di società
Il problema di definire modelli di società (come si correlino gli elementi che caratterizzano
un’entità socio-culturale e se tali insiemi di elementi di base
si ripetano in più situazioni, anche lontane nel tempo e nello spazio),
in modo diverso in relazione a differenti impostazioni teoriche,
non è specifico della Paletnologia, ma condiviso con altre scienze umane.
Esigenza di superare una prospettiva strettamente particolaristica,
per cui ogni realtà è del tutto irripetibile; tuttavia non
necessariamente
si deve arrivare a formulare leggi generali di comportamento.
Il concetto di modello in questo caso è quindi usato come astrazione
da più situazioni e non come schema di comportamento ripetuto
specifico di un dato contesto, che dobbiamo cercare di riconoscere.
Nelle diverse impostazioni il modello può essere soltanto una
definizione,
per esprimere sinteticamente un tipo di situazione socio-culturale,
in altre può essere visto come espressione di una realtà
che si verificata più volte nel corso della storia dell’uomo.
L’esigenza scientifica di individuare di modelli di società si è sviluppata
soprattutto con l’affermarsi della prospettiva comparativa neoevoluzionista:
mettere a confronto più situazioni per evidenziare affinità e differenze.
In questo contesto teorico si pone uno degli esempi più noti in campo paletnologico:
la proposta di individuare 10 criteri per definire una società proto urbana
formulata da Childe nel 1950
(crescita delle dimensioni degli insediamenti;
accumulazione centralizzata;
sviluppo degli scambi su lunga distanza;
divisione in classi;
specializzazione del lavoro a tempo pieno;
sviluppo di un’organizzazione politico-territoriale, non basata su vincoli di parentela; ecc.).
Anche se criticata da autori come R. McC Adams (1966),
autore che fa comunque capo a un’impostazione neo-evoluzionista,
resta uno dei primi casi di applicazione a una problematica archeologica.
Una delle maggiori differenze tra le varie impostazioni
è quella di considerare la serie dei modelli proposti
finita o sempre in via di ulteriore accrescimento,
qualora si riconoscano realtà precedentemente non identificate.
Uno degli etno-antropologi neo-evoluzionisti che ha avuto maggior peso
nello sviluppo della ricerca dei modelli di società è stato J. Steward.
Concetto di “tipo culturale”: costellazione di tratti
tra loro interconnessi in modo causale che si ritrovano in due o più culture,
affini anche per “livello di integrazione socio-culturale”
(grado di complessità nell’organizzazione interna).
Il numero di tipi culturali non è pre-definito.
Non tutti i tratti culturali sono considerati sullo stesso piano:
concetto di “nucleo culturale”, inteso come l’insieme dei tratti più strettamente connessi
con le attività di sussistenza e con le soluzioni economiche:
rapporti tra tecnologia e ambiente;
incidenza sui modelli di comportamento che ne derivano;
incidenza su altri aspetti della cultura (ecologia culturale).
L’importanza data al “livello di integrazione socio-culturale”
dovrebbe evitare l’accusa di determinismo ambientale.
Incidenza sullo sviluppo di ricerche paletnologiche che hanno strettamente
integrato i dati naturalistici (studio del paleo-ambiente e della paleo-economia),
come quella sull’affermazione dell’economia produttiva nel Vicino Oriente di R.
Braidwood, o che hanno affrontato in modo sistematico gli studi territoriali,
come quella di G. Willey in Perù.
Formalismo e sostantivismo economico
K. Polanyi, storico dell’economia antica con un taglio antropologico,
critica il concetto di economia “formale” neoliberista,
secondo il quale tutte le società si comporterebbero
secondo il principio “razionale” della minimizzazione dello sforzo.
Secondo Polanyi nelle società diverse dalla nostra
le finalità dei comportamenti sono fortemente condizionate da fattori sociali:
per raggiungere tali scopi vengono messi in atto procedimenti razionali.
L’economia è il processo che fornisce all’uomo i mezzi per soddisfare i bisogni.
I mezzi sono sempre materiali, i bisogni no.
L’attività economica non può mai essere scissa dal contesto sociale in cui si attua.
Polanyi pone l’accento sui sistemi di circolazione dei beni e ai modi di entrare in relazione
tra i componenti di una società da questo punto di vista,
considerati complessivamente come ”forme di integrazione economica”.
Tali forme sono sostanzialmente 3:
- la reciprocità, che comporta la simmetria sociale tra chi interagisce nello scambio,
con vincoli sociali nella definizione dei partner e dei beni che possono circolare
- la redistribuzione, che comporta un’asimmetria sociale e
ulteriori vincoli nei partner e nei beni
- lo scambio in un meccanismo di mercato, in cui l’elemento di base è il profitto
e non ci sono regole sociali che condizionano l’interazione
tra i partner (tutti possono scambiare con tutti e tutto è oggetto di compra-vendita)
Le tre forme di integrazione economica non corrispondono a tre modelli di società,
in quanto in misura diversa possono esistere nei vari contesti reali.
Non si arriva quindi a formulare un elenco finito di modelli di società.
A una posizione di tipo formalista si avvicinano invece alcuni autori della New
Archaeology,
come Binford, che accettano il criterio generale
della minimizzazione dello sforzo come quello ispiratore
in modo universale dei comportamenti umani.
Le differenze tra una situazione e l’altra possono essere quindi determinate
dal grado di sviluppo tecnologico e dal tipo di ambiente cui ci si deve adattare.
La più nota proposta di Binford per i cacciatori raccoglitori è quella
di una distinzione tra foragers e collectors.
I primi, che vivono in climi caldo-umidi che non consentono la conservazione del
cibo,
attuerebbero frequenti spostamenti nel corso dell’anno,
una volta esaurite le risorse disponibili in un’area;
i secondi, legati a climi freddi, organizzerebbero lo sfruttamento delle risorse
in modo logistico, con una programmazione su scala stagionale,
formazione di campi base di una certa durata, anche se non annuali,
e spedizioni di una parte della popolazione su brevi distanze
per sfruttare le risorse circostanti il campo base.
Non si tratta in realtà di due soli modelli per i cacciatori-raccoglitori,
ma di tipi di riferimento, rispetto ai quali si possono avere variazioni,
condizionate comunque dai fattori ambientali.
Ulteriori sviluppi del neoevoluzionismo
Etno-antropologi come M. Sahlins e E. Service hanno ripreso
alcuni spunti del sostantiviamo di Polanyi
per rivedere il problema dei modelli di società.
Hanno semplificato la proposta di Polanyi facendo in parte corrispondere
le tre forme di integrazione economica con diversi modelli,
ma introducendo ulteriori elementi di distinzione.
Tra le società egualitarie, basate sulla simmetria e la reciprocità interna,
distinguono tra quelle definite bande e le tribù.
Le bande sarebbero costituite da un numero ridotto di individui,
con scarsi elementi di coesione interna,
che si possono quindi facilmente disperdere e riaggregare.
L’attività economica è in genere costituita dalla caccia e dalla raccolta,
anche se alcune società con questo sistema di sussistenza possono avere
una diversa organizzazione sociale.
La distinzione in due sottotipi (patrilocale e composita) non è particolarmente rilevante.
Le tribù sono costituite da un numero più elevato di individui
e hanno forme di coesione più solide, basate sia sulla parentela,
sia su associazioni di individui legate a classi di età o ad attività belliche o cerimoniali.
I vari segmenti di parentela che le costituiscono hanno comunque in genere
un elevato grado di autonomia. L’attività economica prevalente è per lo più
costituita dall’agricoltura e dall’allevamento, ma non è una relazione rigida.
Possono esistere capi temporanei, senza trasmissione ereditaria della carica.
Anche in questo caso è prevista una suddivisione in due sottotipi,
in base al sistema di discendenza (lineare o cognatizio), con scarso rilievo.
Sahlins ha introdotto un ulteriore tipo di società sostanzialmente egualitaria,
in cui affermano però alcune forme di differenziazione,
non riconosciute in modo istituzionale:
alcuni individui, con l’aiuto di parenti o mediante alleanze riescono ad
accumulare
una certa quantità di beni, che possono anche essere utilizzate in sfide
con altri individui emergenti basate soprattutto sullo scambio di beni
che devono essere restituiti in misura maggiore.
La mancanza di ereditarietà impedisce la formazione di una vera e propria élite.
Il principio della redistribuzione e della asimmetria interna caratterizza il modello
del chiefdom,
che implica la presenza di una élite, che tiene conto di fattori di parentela ed
ereditarietà
e di misura della distanza genealogica attraverso meccanismi come quello
della primogenitura.
In questo caso si ha il riconoscimento istituzionale di una situazione
gerarchizzata.
M. Sahlins, schema di centralizzazione e redistribuzione, tipico del chiefdom
Si sviluppa la specializzazione, sia livello artigianale che primario:
l’esistenza di un agente centrale favorisce la circolazione interna dei beni.
Il grado di coesione interna e di capacità produttiva è più elevato.
Tuttavia si possono verificare fenomeni di competizione al vertice,
con sostituzione anche violenta del capo.
Una situazione sempre più gerarchizzata
(formazioni di classi, con accesso differenziato alle risorse)
si ha con lo stato primitivo, con l’uso legittimo della forza all’interno da parte
delle istituzioni rette dagli individui al vertice della società.
L’organizzazione può assumere anche forme amministrative burocratiche.
La chiarezza dello schema, che consente di inserire le diverse situazioni
in una classificazione conclusa, ha favorito un suo esteso passaggio
all’archeologia preistorica: tra i principali autori che l’hanno adottato
si può citare Renfrew stesso.
Tuttavia il rischio può essere quello di appiattire le differenze
che in realtà esistono tra le diverse situazioni inserite in un medesimo
modello.
Le tendenze neomarxiste
Soprattutto alcuni etno-antropologi francesi negli anni ’70
hanno cercato di rivedere alla luce delle attuali
conoscenze sulle società non statali alcuni concetti di Marx.
Si può citare C. Meillassoux,
che ha dedicato una particolare attenzione alla definizione di
modelli di società in tale prospettiva.
L’autore considera il modo di produzione
(composto dalle forze produttive - cioè i produttori e i mezzi di produzione –
e dai rapporti sociali che si stabiliscono in relazione alla produzione)
l’elemento alla base di ogni tipo di organizzazione sociale.
Dà, però, una particolare attenzione ai fattori tecnici connessi con la
sussistenza.
l’orda, basata su rapporti di adesione,
sarebbe caratterizzata dalla caccia e dalla raccolta
la società proto agricola, basata sull’agricoltura vegetativa sarebbe legata all’esistenza
di piccoli gruppi di lavoro rappresentati dalle famiglie,
con discendenza matrilineare e residenza ginecolocale
la comunità domestica, basata sulla cerealicoltura, ma senza l’uso dell’aratro,
vedrebbe uno sviluppo del sistema di discendenza patrilineare
e del sistema di residenza virilocale;
gli anziani assumerebbero un ruolo egemone
nella circolazione dei beni e negli scambi matrimoniali.
M. Godelier, pur concordando sulla centralità del modo di produzione
nella caratterizzazione delle società,
lo interpreta in modo meno rigido e dà maggior peso ai rapporti sociali di produzione,
sostenendo che nelle varie situazioni diversi elementi
possono aver avuto questa funzione, dalle relazioni di parentela a quelle generazionali
ai rapporti politico-religiosi.
In questo modo non appare utile cercare di definire una lista chiusa di modelli di società.
In campo archeologico, dopo Childe che pure si era ispirato
ad alcuni concetti del marxismo,
soprattutto in Inghilterra ci sono autori che cercato di riprendere alcuni spunti
rivisitati dagli etno-antropologi francesi.
Hodder stesso, che comunque si ispira maggiormente
a posizioni neo-liberiste, ha tuttavia tratto alcuni elementi del suo pensiero
da autori come Bourdieu (Agency Theory).
Processi di trasformazione
La Paletnologia, anche se condivide con le discipline etno-antropologiche diversi punti,
si distingue da queste per l’ampia dimensione diacronica dell’oggetto
della sua ricerca e questo fattore ha portato a una particolare attenzione
verso lo studio dei processi di trasformazione su lungo periodo.
Agli inizi della disciplina, nel XIX secolo, quando il positivismo e l’evoluzionismo
erano le impostazioni teoriche prevalenti, per quanto incerte fossero
le conoscenze disponibili,
questa caratteristica ha contribuito ad attirare
l’interesse più ampio degli studiosi dei settori etno-antropologici.
In una prospettiva evoluzionista si ritiene che esista una legge generale
di spinta verso l’aumento della complessità tecnologica e sociale:
cambiano i tempi di sviluppo tra le varie società
per cui alcune sarebbero ferme a stadi già superati da altre.
In questo contesto si afferma lo schema delle tre età
(della pietra, del bronzo, del ferro, che in seguito si articolerà ulteriormente),
prima dell’elaborazione della teoria dell’evoluzione biologica.
La scuola storico-culturale (o diffusionista) critica l’idea di una tendenza universale
al progresso e propone di individuare alcune aree di precoce sviluppo,
da cui si diramano le innovazioni, per diffusione o per migrazione di popoli.
Alcuni autori, come O. Montelius, cercano di conciliare le due impostazioni.
In particolare per quel che riguarda l’Europa il Vicino Oriente viene visto
come l’area di origine delle principali innovazioni, tecniche e sociali,
nel corso della preistoria a partire dal Neolitico.
In seguito altri autori, come M. Gimbutas, hanno posto in evidenza anche il ruolo
dei gruppi provenienti dall’area a nord del Mar Nero,
a partire da un momento leggermente successivo.
Nella prima metà del XX secolo e anche in seguito il meccanismo
dello spostamento di gruppi umani (migrazionismo) che sostituiscono
fisicamente
i gruppi locali viene spesso utilizzato per spiegare l’affermazione
di nuovi stili nella produzione dei manufatti o di nuovi rituali funerari.
Anche se sono esistiti accanto al diffusionismo/migrazionismo forme più elaborate
(Childe)
di analisi dei fenomeni di contatto culturale e di trasformazione indotta
dal rapporto tra sistemi socio-culturali diversi, distinguendo tra diffusione e
diffusionismo,
e studi ispirati dal neo-evoluzionismo (Braidwood), tale impostazione è stata
quella prevalente fino alla fine degli anni’60,
quando alcuni autori della New Archaeology
(soprattutto C. Renfrew) hanno condotto una critica serrata,
che talvolta ha forse ecceduto nel negare l’apporto che i contatti culturali possono
aver avuto in determinate situazioni.
Lo studio dei fenomeni di contatto culturale tra gruppi diversi e di spostamento
di piccoli gruppi (evitando il concetto di migrazione, anche se in inglese il termine
ha un’accezione più ampia rispetto all’italiano) sono ripresi dalla fine degli ’70
con una maggiore consapevolezza critica.
Non si pensa in genere a forme di sostituzione fisica di un gruppo da parte di un altro,
ma si cerca di capire come possa essere avvenuto l’inserimento
di un gruppo in un territorio già occupato (o anche in territori disabitati,
come le isole lontane dalla costa), che trasformazioni reciproche si possono verificare,
quali siano stati i tempi del fenomeno.
Tra gli studi più noti in tale ambito, con particolare riferimento all’affermazione
dell’economia produttiva
in aree esterne rispetto a quella in cui si è originata, si possono ricordare
quello di J. Alexander sull’applicazione del concetto di frontiera
e quello di A. Ammerman e L. Cavalli Sforza, connesso con l’applicazione
di analisi del DNA moderno.
Recentemente le analisi per mezzo degli isotopi stabili su resti antropologici preistorici
e del DNA antico sono state utilizzate anche per affrontare su nuove basi
questo tipo di problema.
La teoria dei sistemi
Nell’ambito della New Archaeology diversi autori per spiegare il cambiamento
senza fare ricorso a fenomeni di diffusione o di migrazione
hanno fatto riferimento alla Teoria dei Sistemi,
applicata inizialmente in campo biologico e informatico e poi alle Scienze Umane.
I diversi tentativi si differenziano tra loro, ma i punti comuni
sono costituiti dalle caratteristiche di base del sistema,
che è visto come un insieme coerente, formato da più sottosistemi.
Ogni sistema tenderebbe all’autoconservazione,
mettendo in atto meccanismi di omeostasi per ripristinare l’equilibrio originale
in caso di interventi esterni, attraverso forme di feedback negativo.
Solo nei casi in cui gli elementi esterni di disturbo sono troppo forti
e soprattutto se agiscono su più sottosistemi (l’effetto moltiplicatore di Renfrew),
l’intero sistema può entrare in crisi e modificarsi radicalmente.
Tale teoria vuole essere anti-evoluzionista, in senso tradizionale,
in quanto non si pensa che ci sia una spinta universale al cambiamento
in senso progressivo, ma rientra in un ambito neo-evoluzionista,
dove maggior peso viene dato ai fenomeni di adattamento alle condizioni esterne.
La teoria dei sistemi applicata ai fenomeni di trasformazione
sociale in generale e in particolare alla preistoria ha ricevuto diverse critiche.
Non è detto che un sistema debba di per sé tendere all’autoconservazione
e non al mutamento.
I sottosistemi (diversi nelle proposte dei vari autori) sono nostre astrazioni
e non entrano realmente in interazione tra loro, come fanno invece gli individui
e i gruppi di individui.
Anche se si escludono la diffusione e la migrazione come meccanismi causali
delle trasformazioni, questi vengono comunque riportati all’esterno del sistema stesso:
mutamenti climatici; incrementi demografici; anche le innovazione tecnologiche,
nel momento in cui si affermano ampiamente e possono contribuire alla
trasformazione del sistema, divengono per definizione elementi esterni ad esso.
La Teoria delle Catastrofi
Renfrew, dopo essere stato uno dei principali sostenitori della teoria dei sistemi,
ha cercato di superare in parte queste critiche
facendo riferimento alla teoria delle catastrofi, una teoria di origine matematica
caratterizzata dal concetto di “soglia”
Gli elementi che compongno un sistema tendono a crescere (o a decrescere)
nel tempo: se superano una soglia critica l’intero sistema può collassare (“catastrofe”)
o riorganizzarsi in modo più efficiente (“anastrofe”).
Il problema principale per un’applicazione concreta di questa proposta
è costituito dalla difficoltà di quantificare tali elementi e i loro tassi di crescita o decrescita
sulla base dei dati prevalentemente disponibili nell’ambito dell’archeologia preistorica.
Peer Polity Interaction
Un ulteriore meccanismo di trasformazione proposto da Renfrew
è costituito dalla Peer Polity Interaction.
In questo caso chi entra in interazione sono i gruppi umani
di un’area culturalmente omogenea: tra di essi si tendono a sviluppare
forme di emulazione e competizione, fino a veri e propri episodi bellici,
che favoriscono la trasformazione interna dei singoli gruppi e dell’insieme.
Per competere, in modo più o meno pacifico, infatti,
i diversi gruppi umani tenderebbero ad aumentare la loro capacità produttiva
e la complessità della loro organizzazione sociale.
Anche in questa proposta gli apporti di gruppi esterni (scambi di beni, informazioni tecniche,
ecc.) avrebbero un’incidenza marginale. Ad esempio gli oggetti esotici
possono divenire un elemento utilizzato nelle sfide
condotte per mezzo dell’ostentazione, ma non provocano direttamente una
trasformazione locale.
L’aspetto più problematico di tale proposta è costituito dal fatto di basarsi
essenzialmente su un assunto di psicologia sociale, che tuttavia
non entrerebbe in azione in ogni situazione.
Lo sviluppo per contraddizioni
La maggior parte delle proposte ricordate per la New Archaeology risentono
di una matrice neoevoluzionista (importanza dell’adattamento)
e funzionalista (ogni elemento interno è funzionale alla coesione e
conservazione del sistema sociale).
Le tendenze di ispirazione neo-marxista (ma, come si è visto, con qualche incidenza
anche su autori come I. Hodder) tendono invece a porre in evidenza
come sia possibile che ogni sistema contenga in sé alcuni elementi di contrapposizione
interna, che sarebbero quelli che favoriscono il cambiamento,
senza necessariamente ricorre ad agenti esterni).
Gli etno-antropologi neo-marxisti hanno privilegiato
due principali contraddizioni interne, con divergenze di opinione tra loro:
la contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali di produzione
la contraddizione tra i gruppi umani che costituiscono una società
M. Godelier ha evidenziato l’importanza della prima contraddizione,
come se fossero due realtà, due strutture inconsce
che agirebbero al di fuori della consapevolezza umana:
la critica, anche in questo caso, potrebbe derivare dal fatto che si tratta piuttosto
di nostre astrazioni analitiche.
La seconda prospettiva (C. Meillassoux) riporta invece sui gruppi umani
(e non sui singoli individui, come avviene in alcune applicazioni dell’Agency Theory)
che entrano in contrapposizione tra loro la capacità di agire consapevolmente
per cercare di modificare la realtà.
Anche in società presumibilmente non molto articolate,
come si pensa che fossero in genere quelle preistoriche,
si possono verificare forme di contrapposizione interna
(ad esempio, tra più gruppi di parentela; tra più comunità residenziali nel caso di
insiemi sociali più ampi; tra giovani e anziani; tra elemento maschile e femminile),
che dovrebbero diventare oggetto della nostra indagine.
Accanto a queste contrapposizioni interne anche gli squilibri che si determinano
nel rapporto tra società diverse, come a suo tempo proposto da Childe,
possono avere un peso, in determinate situazioni, soprattutto se il grado di
complessità sociale ed economica è differente.
Anche nello sfruttamento delle risorse, infine,
si possono determinare contraddizioni, che da superare
con nuove soluzioni (Hassan).
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