T. PATTERSON, La dialettica dell`archeologia anglofona

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LA
DIALETTICA DELL’ARCHEOLOGIA ANGLOFONA DOPO IL
1950
L’archeologia conosce diverse traiettorie storiche e connessioni inter­
disciplinari nei paesi di lingua inglese. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli ar­
cheologi che si occupano della cultura dell’antica Grecia e Roma di età stori­
ca fanno parte dei dipartimenti di lettere classiche, mentre i loro colleghi che
si occupano delle culture di popoli o nazioni senza tradizione scritta, come il
Perù e la Cina, sono laureati in antropologia. In Gran Bretagna e negli altri
paesi del Commonwealth, tranne il Canada, i due gruppi si trovano general­
mente nello stesso dipartimento o istituto di archeologia. Da un lato questo
fatto riflette una diversa professionalizzazione dei corsi di studi e delle scien­
ze sociali nei vari paesi successiva al 1870 ca. Dall’altro, riflette una distinzio­
ne tecnica fra le attività che si è sviluppata man mano che gli esperti sono
andati specializzandosi, restringendo e definendo l’oggetto delle loro ricer­
che.
Poiché quest’ultimo – lo sviluppo storico delle società antiche – è co­
mune, non deve stupirci che gli archeologi dei paesi anglofoni e di altre parti
del mondo condividano determinate idee e problematiche. Essi hanno in gran
parte subito l’influenza degli stessi autori – Machiavelli, Hobbes, Locke,
Darwin, Spencer, Marx, Freud, ad esempio – i quali hanno tutti avuto qual­
cosa da dire sulla società e la storia. Molti archeologi sono probabilmente
degli empiristi che valutano dati e preferiscono mantenere la teoria sociale a
un livello implicito, piuttosto che esporla a un esame critico. Per empirismo
si intende che l’osservazione diretta dei dati archeologici, per questi studiosi,
costituisce la sola fonte di conoscenza del passato mentre i concetti astratti,
come quello di classe sociale, non danno accesso a quegli ambiti della realtà
che non possono essere oggetto di esperienza diretta. Essi credono, quindi,
che i manufatti e il loro contesto spaziale possano rivelare cosa è realmente
accaduto nel passato o come si presentava una data società pre-moderna.
Una conseguenza dell’empirismo è che molti archeologi non conside­
rano le premesse sottese agli interrogativi che loro stessi pongono ai dati
archeologici e che informano gli schemi interpretativi usati per organizzare
le informazioni raccolte dall’analisi di questi dati. Quando sono sollecitati a
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parlare dei fondamenti teorici del loro lavoro rispondono spesso che le loro
interpretazioni nascono da una ragionevole applicazione del buon senso, e
che i loro schemi interpretativi, mai troppo chiaramente specificati, sono il
risultato di una selezione da varie fonti di ispirazione teorica, spesso contra­
stanti una con l’altra. Il rischio dell’eclettismo, si sa, è quello di mascherare la
confusione.
Avendo affermato che molti archeologi evitano di affrontare i fonda­
menti teorici del loro lavoro, va aggiunto che altri invece si sono occupati di
questi problemi. Ciò che vorrei qui di seguito esaminare sono i rapporti dia­
lettici che hanno caratterizzato lo sviluppo del pensiero archeologico sulle
società antiche nei paesi anglofoni nel secondo dopoguerra.
1. Il Marxismo di V. Gordon Childe
Fra la metà degli anni ’30 e gli anni ’50 l’archeologo australiano Vere
Gordon Childe riuscì a sintetizzare in modo convincente lo sviluppo storico
delle civiltà (CHILDE 1936; 1942; 1944; 1950; TRIGGER 1978, pp. 104-114;
1986; 1987), rivitalizzando la prospettiva evoluzionista contenuta nella tra­
dizione illuminista scozzese, che era stata parzialmente ripresa nel Manifesto
di Marx e Engels (1976) e nei Grundrisse di Marx (1857-58).
Secondo gli illuministi, la società umana era progredita attraverso una
serie di fasi, ciascuna delle quali era marcata da una particolare forma di
economia di sussistenza, e il progresso era un processo guidato da leggi natu­
rali, legato alla trasformazione dei modi di sussistenza (MEEK 1976). Le pri­
me società – nella visione di Adam Smith, ad esempio – erano costituite da un
ristretto numero di cacciatori e raccoglitori. Aumentando di numero, coloro
che si erano stanziati in ambienti favorevoli si dedicarono all’agricoltura. A
questo seguì un significativo aumento della suddivisione del lavoro, dato che
gli artigiani – falegnami, tessitori e sarti, ad esempio – smettevano di produr­
re il cibo che serviva loro e si trasferivano nelle città per svolgere le loro
attività, barattando e scambiando prodotti con altri membri della comunità o
con altri paesi (SMITH 1762-63, pp. 200-220). Marx e Engels avevano con­
centrato la loro attenzione sullo sviluppo tecnologico, sul mutare dei rappor­
ti di proprietà e sulle lotte di classe sorte fra i produttori diretti e coloro che
possedevano o controllavano i mezzi di produzione, e che si servivano delle
merci e della forza lavoro dei produttori diretti.
In Man Makes Himself (1936) e in What Happened in History (1942),
Childe esaminava le forze che avevano stimolato o ostacolato lo sviluppo
storico delle società. Il progresso era una conseguenza delle innovazioni tec­
nologiche che trasformavano i mezzi di sussistenza. Le due trasformazioni
fondamentali da lui individuate erano la rivoluzione Neolitica e quella urba­
na.
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In questi studi, Childe ammetteva l’esistenza di culture di raccoglitori
avanzate o particolarmente prospere, come quella dei Kwakiutl della Costa
Nord-Ovest o quella dei cacciatori dell’Europa Occidentale nel Paleolitico
superiore, che usavano il surplus di cibo per il sostentamento di specialisti
che avevano creato eccezionali fioriture culturali, senza però contribuire alla
produzione di cibo. La maggior parte delle culture avanzate di caccia e rac­
colta scomparvero a causa della loro incapacità di adattarsi alle nuove condi­
zioni verificatesi alla fine dell’era glaciale; in alcune aree – come nel NordEst – alcune di queste tuttavia addomesticarono piante e animali e sviluppa­
rono economie fondate sulla produzione di cibo, in grado di sostentare un
più grande numero di persone. La terra e gli animali, in questo processo, si
trasformavano da oggetti a mezzi di produzione. La nuova economia garanti­
va la sopravvivenza di piccoli villaggi agricoli impegnati in colture annuali, e
la produttività veniva incrementata con l’irrigazione, l’allevamento, e altre
innovazioni tecnologiche che facevano risparmiare tempo e fatica. Gli agri­
coltori e gli allevatori dovevano produrre del surplus, oltre a ciò che consu­
mavano durante l’anno, per avere animali da riproduzione e sementi in serbo
per l’anno successivo. La nuova economia richiedeva anche «nuove forme di
cooperazione che erano consolidate e rafforzate da sanzioni magico-religiose, che venivano secondo lui a costituire quell’ideologia del Neolitico… [che,
alla fine,] avrebbe ostacolato lo sviluppo del sapere scientifico e l’affermazione di un’economia internazionale» (TRIGGER 1978, pp. 105-106; cfr. CHILDE
1936, pp. 110-116; 1942, p. 41).
La suddivisione del lavoro, a parte quella imposta dall’età e dal sesso,
era scarsamente sviluppata in questi gruppi locali, relativamente autonomi. I
loro membri avevano reciproci legami di cooperazione e condivisione e inte­
ressi comuni. Childe (1950, p. 45) affermava inoltre, sulla scorta di De la
division du travail social di Durkheim (1893) che gli individui in questi grup­
pi locali condividevano la stessa lingua e la stessa cultura, e che erano impa­
rentati l’uno con l’altro per discendenza e/o matrimonio. In altre parole, i
gruppi locali erano comunità fondate su vincoli di parentela più che società
su base statale.
Lo sviluppo culturale avveniva in quelle aree, come il Messico e il Vici­
no Oriente, in cui la visione del mondo caratteristica del Neolitico si era
scarsamente sviluppata e non impediva ulteriori innovazioni tecnologiche.
L’era che ha condotto alla rivoluzione urbana ha visto l’invenzione dell’aratro, l’addomesticamento di animali da allevamento, il trasporto dell’acqua e
la lavorazione del rame e del bronzo, assieme alla comparsa di una sempre
più complessa suddivisione tecnica del lavoro, con artigiani esperti che smet­
tevano di occuparsi della produzione di cibo. La rivoluzione urbana che ave­
va salvato questi lavoratori da un’esistenza potenzialmente nomade, ebbe
conseguenze altrettanto importanti nella loro vita quotidiana (CHILDE 1950,
p. 46).
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Più delle città, dei sistemi di scrittura, del commercio a lungo raggio o
dell’edilizia monumentale, fu la comparsa di una struttura fatta di classi so­
ciali, la più visibile espressione di relazioni sociali di sfruttamento, a segnare
l’inizio di quella che Childe considerava la seconda rivoluzione. La comparsa
di classi egemoni bloccò il progresso tecnologico nelle civiltà antiche e tra­
sformò i produttori diretti – sia agricoltori che artigiani – in servi che produ­
cevano i surplus di cui i governanti si appropriavano per soddisfare i loro
stessi bisogni e desideri e per assicurare l’ininterrotta riproduzione della loro
specie (CHILDE 1936, pp. 259-260; 1942, pp. 123-124). Essi usavano la vio­
lenza o minacciavano di usarla per controllare i gruppi subordinati e per
assicurarsi il regolare rifornimento di forza-lavoro e beni in surplus. Si ap­
poggiavano inoltre alle forze reazionarie della religione e della superstizione
per rafforzare la loro posizione e per inibire lo sviluppo delle scienze raziona­
li. Nella visione di Childe la comparsa di società divise in classi, a base statale, segnava un rallentamento nell’avanzata delle innovazioni tecnologiche e
del progresso sociale. In tali circostanze, affermava lo studioso, solo una li­
mitata espansione dell’economia era possibile.
I beni di lusso venivano venduti alle classi egemoni di stati confinanti
meno avanzati, in cambio di materie prime. La conquista di regioni adiacenti
accresceva la ricchezza interna e il potere di acquisto degli stati vittoriosi e
diffondeva il benessere nella classe emergente dei militari di professione
(TRIGGER 1978, p. 112; cfr. CHILDE 1942, p. 116-117). Ciò che distingueva
una civiltà antica dall’altra era, secondo Childe, il modo in cui le sue classi
egemoni raccoglievano beni e forza-lavoro in surplus dai produttori diretti.
Era inoltre convinto che queste prime società a base statale – ossia, civiltà –
fossero instabili. Quando si disintegravano la ricchezza tornava a circolare, le
idee (o quel che Childe definiva capitale culturale) sopravvivevano, e la liber­
tà dalle superstizioni e dal controllo politico di un sistema sociale cristallizza­
to facilitava [nuove] innovazioni tecnologiche e la loro applicazione pratica
(TRIGGER 1978, pp. 124-125).
Nel primissimo dopoguerra Childe aveva formulato una prospettiva
esplicitamente marxista sull’ascesa e il declino delle antiche civiltà, che tene­
va conto non solo dello sviluppo tecnologico ma anche dello sfruttamento,
dell’oppressione e della lotta di classe. Nella sua concezione l’ascesa di una
civiltà costituiva un beneficio parziale, poiché elevava gli standard di vita dei
pochi rappresentanti delle classi egemoni e determinava l’impoverimento della
stragrande maggioranza della popolazione. Ciò significava che gli interessi
dei governanti e dei produttori diretti erano essenzialmente contrastanti. E
questa non era un’idea gradita alle classi dominanti dell’America e dell’Inghilterra che miravano, negli anni immediatamente successivi alla Seconda
Guerra mondiale, a intimidire le classi lavoratrici esercitando su di esse un
più stretto controllo.
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2. L’evoluzionismo culturale degli anni ‘50
L’interesse degli archeologi statunitensi per l’evoluzionismo culturale
nel secondo dopoguerra rifletteva una più generale attenzione per la crescita
economica e lo sviluppo. Si postulava un modello di società articolato in base
e sovrastruttura. La struttura economica costituiva una base che influiva in
modo determinante sulle sovrastrutture politico-giuridiche e ideologiche. Si
recuperava anche la tradizione classica degli economisti politici che, a partire
da Adam Smith, avevano visto la società civile come un’economia autonoma
e autoregolata, separata dalla sfera politica. La società civile era, nella loro
visione, capace di progresso, un progresso che si articolava in una serie di fasi
caratterizzate da particolari modi di sussistenza, cui erano legate diverse for­
me di istituzioni politiche e ideologie. Poiché la vera fonte del valore era il
lavoro, la sempre maggiore suddivisione del lavoro e lo scambio erano i due
veri motori dello sviluppo (CLARKE 1982).
Va a Julian Steward, fra gli antropologi del dopoguerra, il merito di
aver fornito una delle più chiare formulazioni del concetto di evoluzionismo
culturale. Le sue concezioni erano condivise da rappresentanti di altre bran­
che delle scienze sociali, coinvolti nella ricostruzione delle economie del Giap­
pone e dell’Europa Occidentale fra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni
’50, e, in seguito, nello sviluppo economico capitalistico del Terzo Mondo.
La supremazia degli archeologi che difendevano un approccio comparativo
di stampo evoluzionista coincideva con la nascita della cosiddetta growth
coalition negli Stati Uniti del dopoguerra, e con l’egemonia politica ed eco­
nomica esercitata da questo paese.
Il risveglio dell’interesse nei confronti dell’evoluzionismo culturale coin­
cise anche con il clima politico oppressivo della Guerra Fredda e con il licen­
ziamento di centinaia di sindacalisti e docenti di sinistra avvenuta negli Stati
Uniti fra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50. Questo esercitò sul dibattito
politico e l’opinione pubblica statunitense un effetto paralizzante che si sente
ancor oggi. Steward, pur non parlando mai dell’adesione di Childe al pensie­
ro marxista in campo sociale, affermava tuttavia che la prospettiva di Childe
sull’evoluzione culturale era diversa dalla sua (STEWARD 1953, pp. 313-318;
LEACOCK 1982, pp. 250-252; PEACE 1988, pp. 420-421). Aveva buone ragio­
ni 1. Negli anni ’50 né Steward né nessun altro degli archeologi statunitensi
che difendevano l’evoluzionismo culturale parlava nelle proprie analisi di
sfruttamento, di lotta di classe, o del carattere oppressivo della formazione
dello stato e delle classi sociali. Per quel poco che tali circostanze fossero
menzionate, venivano sempre rappresentate come effetti necessari o naturali
dell’emergere stesso della civiltà.
La teoria dell’evoluzione culturale di Steward, che lui ed altri formula­
rono fra il 1948 e il 1960, era un adattamento di quella proposta nel 1946
dall’autorevole latifondista e archeologo dilettante peruviano Rafael Larco
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Hoyle, le cui opinioni erano in ultima analisi derivate da semplificazioni de­
gli studi di Childe (WILLEY 1946; PATTERSON 1989a). Larco Hoyle (1948)
sosteneva che le culture della costa settentrionale del Perù si erano evolute
attraverso una serie di fasi: caccia e raccolta, evoluzionista, classica, di fusio­
ne e infine imperiale, e che il motore di questo sviluppo era l’espansione
delle forze produttive agricole, in particolare la messa a punto dei sistemi di
irrigazione durante il periodo classico.
Steward modificò ed estese lo schema concettuale e la terminologia di
Larco per adattarli all’evoluzione delle antiche civiltà del Nuovo Mondo;
tale schema fu da lui ben presto utilizzato in Cultural Casuality and Law: A
Trial Formulation of the Development of Early Civilizations per spiegare l’ascesa delle antiche civiltà in entrambi gli emisferi (STEWARD 1948; 1949; 1953).
Lo schema evolutivo di Steward fu adottato nelle sue linee fondamentali da
Willey e Phillips (1958, pp. 67-71) a metà degli anni ’50 nel loro autorevole
studio Method and Theory in American Archaeology. Come Larco, Steward
pensava che l’adozione dell’agricoltura da parte di gruppi di cacciatori e pa­
stori in regioni semi-aride, come il Perù, costituisse una svolta determinante
nella storia dell’uomo. L’era dell’affermazione dell’agricoltura, a suo giudi­
zio, era stata lunga, e relativamente poche innovazioni tecnologiche si erano
verificate prima del consolidamento della vita stanziale nei villaggi. Queste
erano le basi per una serie di sviluppi avvenuti nell’“era formativa”, come
l’intensificazione della produzione agricola con l’introduzione dei sistemi di
irrigazione gestiti dalla comunità, la crescita della popolazione, l’espansione
verso aree prima disabitate, una maggiore specializzazione tecnica nel lavoro
con lo svilupparsi dell’artigianato nei villaggi, la costruzione di edifici di cul­
to, e infine, verso la fine di questa era, quando le classi egemoni riuscirono ad
accaparrarsi parte del prodotto totale, la comparsa di una suddivisione socia­
le del lavoro. Le piccole comunità locali, quindi, i cui membri erano legati da
rapporti di parentela, venivano lentamente assorbite in stati che raccoglieva­
no molte comunità, con governanti e capi religiosi che controllavano i siste­
mi di irrigazione (STEWARD 1949; 1955a, pp. 191-193; 1955b, pp. 59-64).
In questo scenario emersero e si svilupparono stati regionali cultural­
mente diversi. Le opere di irrigazione si estendevano, accrescendo la produ­
zione di cibo; il surplus di cibo consentiva a una più ampia fetta della popo­
lazione di abbandonare l’agricoltura per dedicarsi alle arti, all’artigianato e
agli interessi culturali emersi verso la fine dell’era formativa. Mentre si raffi­
navano le vecchie tecnologie e più rifiniti prodotti artistici venivano creati da
artigiani a tempo pieno, altamente specializzati, nessuna nuova tecnologia
veniva sviluppata in questi stati teocratici, sempre più competitivi, con le
loro caste di sacerdoti e di guerrieri. Caratterizzavano quest’era una architet­
tura monumentale, appannaggio delle classi più abbienti, un incremento del
commercio, e gli inizi di una condizione di perpetua belligeranza (STEWARD
1955a: 195-196). Nel 1950 Steward scriveva che:
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«L’ascesa e il declino dei regni negli antichi centri di civilizzazione in Egit­
to, Mesopotamia, India, Cina, Mesoamerica e Ande è spesso descritto come
ascesa e declino di una civiltà. È vero che le forme specifiche delle società
sviluppatesi in questi centri non sono sopravvissute, ma la maggior parte delle
fondamentali conquiste culturali, i tratti essenziali della civiltà, sono state tra­
mandate ad altre nazioni. In tutti questi centri sia la cultura che la società
avevano avuto una trasformazione notevole nelle fasi più antiche, e i processi
di sviluppo erano ovunque perlopiù gli stessi. Vi erano dapprima piccole co­
munità di primitivi agricoltori. Le comunità in seguito collaboravano alla co­
struzione di opere di irrigazione e la popolazione aumentava, stanziandosi in
modo più stabile. I villaggi si riunivano in stati sotto un governo teocratico…
La cultura infine cessava di svilupparsi, e gli stati di ciascun’area entravano in
competizione l’uno con l’altro» (STEWARD 1950, p. 103).
«A questa seguiva un’era di conquiste cicliche. Le conquiste seguivano tutte
uno schema piuttosto fisso… Ogni stato iniziava a lottare con gli altri per
imporre tributi e ottenere benefici. Uno di essi finiva per dominare gli altri,
riuscendo così a costruire un impero, ma tali imperi seguivano il loro corso e
cadevano dopo pochi anni solo per essere seguiti da altri imperi non molto
diversi dai precedenti» (STEWARD 1950, pp. 103-104).
«Dal punto di vista degli storici questa era di conquiste cicliche è piena di
grandi uomini, guerre e strategie belliche, centri di potere che si avvicendano,
e altri eventi sociali. Da un punto di vista di culture history i cambiamenti si
presentano molto meno significativi rispetto a quelli delle ere precedenti, in
cui si svilupparono i fondamenti della civiltà, o, nel Vicino Oriente, rispetto a
quelli della successiva Età del Ferro, quando gli schemi culturali si trasforma­
rono di nuovo e i centri di civilizzazione si spostarono in altrove…» (STEWARD
1950, p. 104).
«La rivoluzione industriale ha portato con sé una profonda trasformazione
culturale nell’Europa Occidentale, e innescato la competizione sulle colonie e
sulle aree da sfruttare. Il Giappone è entrato nella competizione appena acqui­
sito lo schema comune agli altri paesi. Il riassetto dei rapporti di potere causa­
to dalla sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale e da quella dell’Italia e del Giappone nella seconda è di ordine sociale. Quali nuovi schemi cultu­
rali ne risulteranno resta ancora da vedere» (STEWARD 1950, pp. 104-105).
Nel corso degli anni ’50 gli evoluzionisti culturali studiarono accurata­
mente la successione delle tipologie culturali in Perù, Messico e nel Vicino
Oriente. I loro studi proponevano una complessa concezione della storia del
mondo: in tutte queste aree, identici processi di sviluppo e successioni di fasi
avevano condotto alla formazione di civiltà arcaiche. Un processo che aveva
il suo culmine nella loro sottomissione all’Occidente con la comparsa del
capitalismo industriale. In questi anni, l’atteggiamento tipico degli evoluzio­
nisti culturali era di considerare cultura e natura come sfere concettualmente
distinte. Le popolazioni, nella loro visione, sfruttavano o impiegavano le ri­
sorse naturali per raggiungere determinati scopi; e questa appropriazione
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della natura avveniva nel contesto di vari accordi istituzionali che struttura­
vano l’organizzazione del lavoro e l’uso degli strumenti. Nelle parole di
Steward (1955a, p. 37), gli evoluzionisti culturali si occupavano di quegli
aspetti che erano «… più direttamente coinvolti nell’utilizzazione dell’ambiente secondo modalità culturalmente stabilite». Vale a dire che si concen­
travano sul nucleo culturale – quella costellazione di schemi sociali, politici e
religiosi più strettamente legati alle attività di sussistenza e ai rapporti econo­
mici – più che sugli aspetti secondari meno strettamente connessi al nucleo, che
dava alle culture che avevano simili nuclei una forma esteriore apparentemente
differente. Avevano capito che i rapporti economici esercitavano una forte
influenza sulla forma assunta da altri aspetti dell’organizzazione sociale.
Gli evoluzionisti culturali erano meno interessati all’adattamento o alle
interazioni fra una società e il suo ambiente biologico e fisico di quanto lo
fossero alla tecnologia e ai rapporti di produzione, aspetti questi che, nella
loro concezione, erano storicamente determinati (STEWARD 1955a, pp. 39­
42). Dal loro punto di vista, trasformazioni e sviluppi si verificavano quando
emergevano nuove tecnologie o forme istituzionali, come risultato di una
invenzione autonoma o di un prestito da altre culture. Molti fra di loro adot­
tavano una visione malthusiana generica, secondo cui l’avanzamento tecno­
logico coincideva con l’aumento della popolazione o lo seguiva, oppure era
una reazione ad un sempre maggiore squilibrio fra una società e le sue risorse
agricole. Alcuni, tuttavia, come William Sanders e Barbara Price (1968) o
Mark Cohen (1977), erano su posizioni malthusiane più convinte. Sostene­
vano che l’aumento della popolazione era la causa e non il risultato del pro­
gresso tecnologico. La pressione della popolazione sulle risorse esistenti spin­
geva le società a intensificare la produzione, adottando tecnologie più inten­
sive nella produzione di cibo.
Gli evoluzionisti culturali rifiutavano prospettive empiriste che vede­
vano la cultura in termini relativistici come insieme di modi comportamenta­
li codificati e trasmessi in sede sociale. Si occupavano, invece, della successio­
ne di tipi sociali idealizzati che erano caratterizzati da particolari mezzi di
sussistenza e delle forme di organizzazione sociale e di pensiero a questi fun­
zionali. Le forme istituzionali di integrazione specifiche di un tipo determi­
nato di società non riflettevano solo i suoi rapporti economici distintivi ma
riassumevano, nella struttura, forme di organizzazione anteriori, come la fa­
miglia, il vicinato, la comunità del villaggio, che si incontrano anche in tipo­
logie sociali organizzate su base statale. Questi studiosi erano seguaci del
funzionalismo, e accettavano la distinzione fra forme di analisi sincroniche e
diacroniche. Il loro obiettivo era diacronico: studiare come le culture si tra­
sformano. La loro prospettiva era regionale e comparativa, più che particola­
re o universale. Per raggiungere il loro scopo separavano lo studio dei cam­
biamenti e della crescita da quello della storia, e si occupavano di trasforma­
zioni evolutive piuttosto che storiche. Le prime erano cumulative, e riflette©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale –
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vano la crescita naturale o realizzavano il potenziale insito in quel tipo di
cultura: una graduale e continua accumulazione di piccoli passi in avanti.
Quando il potenziale evolutivo del tipo era infine esaurito, emergeva un nuo­
vo tipo culturale, qualitativamente diverso, coi suoi distintivi rapporti econo­
mici, politici e sociali. I mutamenti storici, d’altro canto, venivano rappresen­
tati come eventi unici, incidenti che influivano sulla crescita e lo sviluppo
normali della cultura.
Una seconda corrente di pensiero evoluzionista correva parallela al
determinismo economico di Steward e degli altri negli anni ’50. All’Università di Chicago, Robert Redfield, Robert Braidwood e Robert Adams adottaro­
no una prospettiva storica funzionalista nell’elaborazione delle tesi di
Durkheim sui tipi di comunità antecedenti all’ascesa della civiltà. Durkheim
(1843) sosteneva che poiché la moralità, la religione e la legge erano i tre
maggiori meccanismi di controllo della società, queste determinavano i senti­
menti e le idee di una comunità e regolavano le azioni dei suoi membri. La
differenziazione sociale aumentava a causa della concentrazione della popo­
lazione, che intensificava le interazioni fra gli individui. Questo incremento
nella comunicazione, che diminuiva le distinzioni fra diversi segmenti, por­
tando all’intensificarsi della densità morale nella comunità. Le trasformazio­
ni investivano la popolazione quando la coesione meccanica caratteristica di
questo tipo sociale iniziava a incrinarsi, i gruppi che la costituivano diveniva­
no parte di una tribù fondata su clan, e, in questo processo, acquisivano i loro
tratti distintivi – come il territorio, la specializzazione delle funzioni, l’autorità politica e il culto degli antenati.
Secondo Redfield (1953) la società tradizionale primitiva o pre-civilizzata era costituita da villaggi in cui non c’erano sacerdoti di professione e in
cui tutti i membri condividevano le stesse convinzioni di base; in altre parole,
la coesione della comunità era meccanica. I suoi membri avevano la stessa
visione della natura e gli stessi obiettivi nella vita. Con l’aumento della diffe­
renziazione sociale, tuttavia, «la società tradizionale … dette vita, al suo in­
terno, a una civiltà, mentre l’ordine morale, di conseguenza, sviluppava una
sorta di amministrazione pubblica gestita da una élite, o classe, che portava
avanti una espansione speculativa specializzata di alcuni dei valori della tra­
dizione nativa…» (REDFIELD 1953, p. 72). In questo processo l’ordine morale
dei segmenti locali iniziò a disintegrarsi, portando alla nascita di una civiltà.
Secondo Braidwood (1952, p. 6) la civilizzazione non era tanto il risul­
tato dell’accresciuta efficienza dei villaggi primitivi di produttori, quanto piut­
tosto dell’elaborazione e «… del successivo sviluppo delle forze sociali, poli­
tiche, morali e religiose che rendevano possibile l’integrazione della popola­
zione in aumento in una civiltà funzionante». Nella sua visione erano le nuo­
ve istituzioni, le forme di pensiero, e la comparsa di un ordine morale meno
tradizionale che sostenevano l’ascesa della civiltà dopo la nascita di villaggi
agricoli permanenti, templi, e città mercantili sulle pendici collinari e le aree
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fluviali del Vicino Oriente.
Secondo Adams (1956), la fase iniziale della civilizzazione era caratte­
rizzata da una rete regionale di villaggi agricoli che si integravano
«… attraverso individui la cui autorità derivava dalla loro posizione di por­
tavoce religiosi… Sembra probabile che, per un certo periodo, l’élite religiosa
abbia giocato un ruolo sempre più importante nell’amministrazione delle atti­
vità collettive, mentre le comunità divenivano più grandi e complesse» (ADAMS
1956, p. 228).
La maggior complessità ed eterogeneità della comunità – come risulta­
to di un’accresciuta differenziazione sociale – dovuta in parte alla creazione
di strutture templari, alla fine tuttavia ridusse l’efficacia che sanzioni pura­
mente religiose avevano nel cementare l’ordine morale e la coesione mecca­
nica della comunità. Nel corso del processo altre forme di autorità – militari
o civili – emersero a scapito dei sacerdoti e in contrasto con le loro attività
tradizionali. Gli effetti centrifughi di questo conflitto portarono infine alla
formazione dello stato e di una struttura sociale articolata in classi.
Gli antropologi e gli archeologi non erano gli unici ad applicare le tesi
di Durkheim all’ascesa delle civiltà. Anche lo storico dell’antichità Albert T.
Olmstead ritenne che la civilizzazione fosse progressiva e rappresentasse lo
stadio più avanzato dello sviluppo sociale. Secondo Olmstead, l’elemento
attivo andava cercato nelle élites civilizzate delle città e non presso i contadi­
ni, i nomadi e le tribù non civilizzate che abitavano l’hinterland dei centri
urbani. Descriveva così il processo:
«Verso la fine del Paleolitico gli uomini della nostra specie abitavano il Vici­
no Oriente. Allevavano bovini, ovini e suini e coltivavano orzo, grano e lino.
In seguito gli abitanti del Vicino Oriente si divisero: alcuni si diedero al noma­
dismo mentre altri si stanziarono nei villaggi. Mentre i nomadi rimanevano
essenzialmente immutati, la civiltà si sviluppò nei villaggi. Si costruirono mura
per proteggere i benestanti dai meno fortunati e dai nomadi, e fu scelto un
“re” che guidava le milizie del villaggio in guerra. Con l’aumentare della com­
plessità della vita, le funzioni divennero sempre più specializzate. Per assicura­
re che i campi dessero ricchi frutti, si onoravano le forze della fertilità, che si
definirono poi come veri dei e dee…» (OLMSTEAD 1948, p. 3).
La differenziazione sociale trasformava la società e minava la coesione
meccanica delle comunità primitive che circondavano le città. Gli agenti di
cambiamento erano gli abitanti civilizzati dei villaggi; questi costituivano una
élite da cui le innovazioni si diffondevano, prima nel resto della popolazione
cittadina, e poi, più lentamente, fra i contadini, i nomadi e le tribù non civi­
lizzate delle campagne. Le élite urbane esercitavano la loro influenza tramite
le istituzioni politico-giuridiche e le istituzioni morali e religiose che control­
lavano.
Negli anni ’50, quindi, gli archeologi reintrodussero una prospettiva
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evoluzionista nel dibattito storico. Si occupavano dei tratti di somiglianza
nello sviluppo di diverse tradizioni culturali più che dei loro tratti peculiari o
divergenti (ad esempio, BRAIDWOOD, WILLEY 1962). Andavano in cerca di fat­
tori che, nella successione di cause e effetti, si ripetevano regolarmente in
culture diverse. La loro metodologia era, nelle parole di Julian Steward (1955a,
p. 88), «… dichiaratamente scientifica e generalizzante, piuttosto che storica
e tesa al particolare». Veniva proposto l’impiego delle scienze per rimpiazza­
re o aggiornare le conoscenze storiche formulate nei termini della prospetti­
va empirica che aveva dominato il pensiero antropologico negli anni fra le
due guerre. La metodologia scientifica che propugnavano derivava in ultima
analisi da un positivismo logico che sottolineava l’importanza di concetti,
procedure e standard di prestazione. La razionalità del loro approccio ri­
spondeva alla crescente professionalizzazione della disciplina e alla richiesta
di cognizioni scientifiche sulla crescita e lo sviluppo delle civiltà. Lo scienti­
smo delle loro affermazioni va visto nel contesto dei dibattiti nazionali sulla
formazione e lo sviluppo della National Science Foundation e le forme di
sostegno che essa avrebbe offerto alle scienze sociali e all’archeologia in par­
ticolare. I primi finanziamenti concessi dalla NSF agli archeologi appoggia­
vano la ricerca evoluzionista.
Verso la fine degli anni ’50 si iniziarono a formulare critiche all’evoluzionismo culturale. I detrattori sollevavano tre problemi. Primo, mettevano
in discussione le premesse funzionaliste, la presunta associazione di una data
tecnologia con determinate idee e forme di organizzazione sociale. Secondo,
erano contrari alla separazione fra lo studio dei processi culturali e lo studio
della storia, e infine auspicavano invece ricerche che sintetizzassero e spie­
gassero gli specifici dettagli delle sequenze storico-culturali (ad es. BOCK 1963;
ROWE 1962).
3. Archeologia analitica e processuale dalla metà degli anni ’60 in poi
Le critiche alla prospettiva teorica empirista che dominava l’archeologia anglofona emersero negli anni ’60. Una delle linee in questo senso era
l’archeologia processuale (New Archaeology), formulata da Lewis Binford ed
altri negli Stati Uniti, e da Colin Renfrew in Inghilterra. Un’altra era l’archeologia analitica sviluppata da David Clarke in Inghilterra. Queste due criti­
che all’archeologia tradizionale e i loro programmi avevano radici teoriche
diverse, ed erano in fin dei conti incompatibili, sebbene vi sia stato un tenta­
tivo di includere l’impostazione di Clarke nell’archeologia processuale verso
la fine degli anni ’80 (EARLE, PREUCEL 1987).
Il termine New Archaeology, come ricorda Bruce Trigger (1989, pp.
294-295), fu introdotto da Joseph Caldwell (1959) in un articolo in cui sinte­
tizzava le nuove tendenze che stavano trasformando l’archeologia america©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale –
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na; fra queste c’erano un crescente interesse per l’ecologia e le forme di inse­
diamento, e una nuova visione evoluzionista secondo cui non tutti gli aspetti
della cultura avevano un ruolo altrettanto importante nello stimolare il cam­
biamento. La New Archaeology, nella forma che prese negli Stati Uniti, consi­
steva in diversi filoni autonomi di pensiero che risultano, in ultima analisi,
teoricamente incompatibili (GÁNDARA 1980; 1981).
In due iniziali prese di posizione polemiche Binford (1972a; 1972b)
propose una teoria della cultura in conflitto con quelle adottate sia dagli
archeologi tradizionali, che combinavano tipologie di manufatti e cultura, sia
dagli evoluzionisti culturali. Binford (1972a, pp. 22, 24-25) vedeva la cultura
come un sistema integrato e «un mezzo extra-somatico di adattamento per
l’organismo umano». Essa «entra in funzione per adattare l’organismo uma­
no, nel suo senso più ampio, alla totalità del suo ambiente, sia fisico che
sociale». Il sottosistema tecnologico rappresenta un’interfaccia con l’ambiente fisico; il sottosistema sociale «entra in funzione come mezzo extra-somatico per correlare gli individui fra loro in gruppi coesi, capaci di garantire
efficacemente la propria sussistenza e di manipolare la tecnologia». Il sottosi­
stema ideologico è composto da «elementi che spiegano e simboleggiano le
razionalizzazioni ideologiche per il sistema sociale e forniscono inoltre l’ambiente simbolico nel quale gli individui formano la propria cultura, cosa ne­
cessaria se costoro devono partecipare funzionalmente al sistema sociale».
Poiché la cultura era differenziata internamente, gli individui più che
condividerla vi prendevano parte in modo diverso, presumibilmente a secon­
da dell’età, del sesso, delle differenti esperienze o classi sociali. La complessi­
tà di un sistema culturale, nella visione di Binford, era una funzione della sua
differenziazione culturale interna e della specificità dei suoi vari sottosistemi.
In accordo con Leslie White e con Durkheim, sosteneva che «il grado di
condivisione di preferenze ideologiche comuni a tutti i partecipanti è inver­
samente proporzionale alla complessità del sistema nel suo insieme» (BINFORD
1972b, p. 199). Ossia, i membri di società semplici, indifferenziate al loro
interno, hanno convinzioni e opinioni comuni, mentre i membri di società
complesse, strutturalmente differenziate, occupano diverse posizioni sociali
e hanno diverse convinzioni e opinioni riguardo al loro ambiente sociale,
come risultato di quella differenziazione.
I mutamenti culturali, secondo Binford (1972c, pp. 436 ss.), si origina­
vano nelle comunità per l’azione di fattori esterni – come le alterazioni dell’ambiente naturale o i rapporti con le comunità vicine – che disturbavano
l’equilibrio adattivo esistente. Tale azione di disturbo ha quanto meno il po­
tenziale necessario per stimolare nuovi comportamenti e innovazioni che alla
fine riporteranno il sistema culturale in una qualche condizione di equilibrio
rispetto al campo in cui opera. Essa influisce sui sottosistemi tecnologici,
sociali e ideologici di quella cultura, e porta alla sua estinzione o riorganizza­
zione, oppure alla nascita di una forma più complessa come risultato di una
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maggiore differenziazione strutturale (BINFORD 1972d, p. 107). In altre paro­
le, il concetto di cambiamento per Binford era molto diverso da quello di
Steward e Willey, ad esempio, che attribuivano valore determinante al nucleo
economico, sia come fattore strutturante di altri aspetti della cultura sia come
motore delle innovazioni e del progresso tecnologico. La sua teoria del cam­
biamento era, in realtà, una teoria delle modalità con cui l’ordine sociale o la
stabilità venivano disturbati e disgregati.
Binford, verso la fine degli anni ’60, rivolse la sua attenzione a proble­
mi relativi alle procedure di verifica delle ipotesi e di spiegazione dei fenome­
ni. Questi, assieme allo sviluppo di protocolli che stabilivano i correlati ar­
cheologici di determinati tipi di comportamento umani, assunsero un sempre
maggior peso a partire dagli anni ’70 (BINFORD 1977; 1978). Col tempo,
Binford aveva, con altri, adottato una teoria della scienza e dell’analisi che
affondava, in fin dei conti, le sue radici nei dogmi del positivismo logico
(WATSON et al. 1971; 1984; WYLIE 1982; KELLEY, HANEN 1988). Ciò significa­
va che le procedure metodologiche delle scienze naturali potevano essere
applicate all’archeologia, e che la spiegazione dei fenomeni doveva essere
causale, includendo i casi individuali in leggi più generali. Ciò voleva dire che
gli aspetti di soggettività, di volontà e dei desideri dell’uomo non impedivano
di considerare la condotta sociale dell’uomo come un oggetto, e che le analisi
che tentavano di spiegare i fatti in termini di intenzioni, obiettivi o scopi
dovevano essere o rifiutate o trasformate in interpretazioni causali.
La forma interpretativa imposta dall’adozione di questa teoria della
scienza aveva numerose implicazioni. Innanzitutto, le interpretazioni erano
trans-storiche, nel senso che non si riferivano a determinati eventi storici;
conseguentemente gli archeologi processuali mantenevano sia la distinzione
fatta dagli evoluzionisti culturali fra lo studio dei processi culturali e lo studio
della storia, sia la convinzione che solo lo studio dei processi costituisse un’autentica attività scientifica. Poi, eliminando l’intenzionalità dall’analisi, gli in­
dividui venivano trasformati da agenti attivi che costruivano la loro storia in
circostanze non sempre volute da loro in apatici consumatori o oggetti passi­
vi di processi ed eventi estranei al loro controllo. Se esiste un termine carat­
teristico dell’archeologia processuale è adattamento – le attività di una socie­
tà che cambia in accordo e per tenere il passo con le trasformazioni dell’ambiente naturale e culturale. Infine, quando l’intenzionalità non era completa­
mente rimossa dalle loro analisi, ci si riferiva a forme di motivazione implici­
te o qualità che si presumevano insite nell’oggetto di ricerca – come la natu­
rale tendenza delle società ad andare verso l’equilibrio o adottare un com­
portamento volto all’ottimizzazione o alla massimizzazione.
Mentre Binford si rivolgeva alla middle range theory, Flannery e Renfrew
si interrogavano sui cambiamenti sociali e culturali. Flannery (1968) usava il
linguaggio della teoria dei sistemi per esplorare il passaggio dall’economia di
raccolta a quella basata sulla sempre maggiore capacità di coltivare specie
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selvatiche. Il cambiamento si verificava a causa di
«…una serie di mutamenti genetici avvenuti in una o due specie di piante
centroamericane utili all’uomo. Lo sfruttamento di tali piante era stato un
mezzo di approvvigionamento relativamente poco importante…, ma il feedback
positivo seguito a questi primi mutamenti genetici fece sì che un mezzo poco
importante aumentasse sproporzionatamente di importanza rispetto agli altri,
e infine cambiasse l’intero ecosistema» (FLANNERY 1968, p. 79).
Altre attività per procurarsi il cibo – come la caccia al cervo, ad esem­
pio – vennero spostate nel tempo, e vennero avviate nuove attività – come la
piantagione e il raccolto e la caccia agli uccelli acquatici –, mentre i sistemi
culturali si adattavano a queste nuove circostanze.
Flannery (1972, p. 399) iniziò poi ad indagare l’evoluzione culturale
delle civiltà, ossia gli stati o quelle «società umane [che] si sono evolute fino
a livelli di grande complessità socio-politica». Dopo aver descritto le forme
antecedenti di organizzazione socio-politica – bande, tribù e chiefdom – deli­
neava lo stato come una forma di organizzazione socio-politica con un gover­
no centralizzato, una classe dominante di professionisti, stratificazione socia­
le, specializzazione artigianale, monopolio della forza, regolamentazione le­
gislativa e strutture economiche controllate dalle élites e caratterizzate da
scambi reciproci, redistributivi e di mercato. Secondo Flannery (1972, pp.
408, 414), gli stati nacquero in risposta alle complesse relazioni e feedback
fra una serie di variabili o cause scatenanti. La formazione degli stati fu un
processo lungo e lento, comportante una sempre maggior differenziazione
interna e specializzazione dei sottosistemi culturali, e più stretti rapporti fra i
vari sottosistemi e i più alti livelli di controllo della società. Era convinto che:
«i meccanismi e i processi [con cui si forma lo stato] sono universali, non
solo nelle società umane ma anche nell’evoluzione di sistemi complessi in ge­
nerale. Le tensioni socio-ambientali [che selezionano tali meccanismi] non sono
necessariamente universali, ma possono essere specifiche di particolari regioni
e società» (FLANNERY 1972, p. 409).
Quando le tensioni socio-ambientali cozzano con l’ambiente di adatta­
mento, si generano meccanismi evolutivi di promozione e linearizzazione.
Nella promozione un’istituzione assume una posizione più elevata nella ge­
rarchia del controllo. Nella linearizzazione, gli agenti di controllo di ordine
inferiore sono scavalcati da quelli di ordine superiore. Promozione e lineariz­
zazione possono, comunque, generare tensioni e instabilità e determinare
patologie sociali – usurpazioni, interferenze e ipercoerenza – che ricordano
la descrizione della anomia fatta da Durkheim (1893). Flannery sostiene che
l’evoluzione dei sistemi di civilizzazione è un processo lento, graduale e con­
tinuo di risposte e adattamenti interni prima ai fattori socio-ambientali ester­
ni e poi alle patologie sociali che si sono sviluppate. Ne consegue che le
componenti del sistema culturale sono le soluzioni ottimali, o i migliori com©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale –
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promessi, in risposta ai problemi che in un dato momento erano prodotti
dall’ambiente naturale e sociale. L’opposizione cultura/natura degli evoluzio­
nisti culturali era quindi superata, e le forze produttive e i rapporti caratteri­
stici di un dato tipo di società venivano privati della loro specificità basata
sulla storia.
Negli anni ’70 anche Renfrew (1984c, pp. 275-276) adottò un approc­
cio per sistemi e quindi l’idea che la cultura fosse costituita da un numero di
sottosistemi correlati – quelli della sussistenza, della tecnologia, dello scam­
bio e quelli sociali, cognitivi e demografici – per esplorare le traiettorie della
cultura e delle trasformazioni sociali. Sosteneva che la crescita avveniva solo
fino a quando c’erano in un sottosistema trasformazioni che inducevano an­
che gli altri sottosistemi a modificarsi ulteriormente. Appoggiandosi all’idea
di Walter Rostow secondo cui si richiedevano determinate condizioni per
garantire l’avvio e una crescita a ritmi sostenuti, sosteneva che, per far nasce­
re una civiltà, occorrevano trasformazioni in almeno due dei sottosistemi che
aveva identificato.
Verso la fine del decennio Renfrew riconobbe che uno dei limiti dell’approccio sistematico era di considerare come graduali le trasformazioni.
La cultura era ancora considerata omeostatica, ed episodi di crescita sostenu­
ta spesso portavano a nuovi livelli di integrazione socio-culturale. Il proble­
ma, comunque, era che i dati archeologici suggerivano la presenza di feno­
meni di cambiamento improvviso, che comportavano «… non delle semplici
alterazioni di scala ma trasformazioni che imponevano una ristrutturazione
sostanziale» (RENFREW 1984a, p. 361). In altre parole, venivano superati i
limiti omeostatici della cultura, e i sistemi complessi di stati primitivi che
dipendevano fortemente dalla burocrazia centralizzata a causa dell’alto gra­
do di differenziazione strutturale interna potevano sgretolarsi (RENFREW 1984d,
p. 373). Per tali società la «… stabilità (nel senso di pace e prosperità) è
assicurata solo da una continua crescita. Il tasso di crescita zero non rappre­
senta per queste una condizione di stabilità, e valori negativi di crescita pos­
sono condurre rapidamente alla disintegrazione» (RENFREW 1984d, p. 374).
Renfrew introduceva i concetti di equilibrio a punti e teoria delle catastrofi
per interpretare fenomeni di cambiamento improvviso, morfogenesi e di­
scontinuità.
Riguardo all’ascesa della civiltà, uno dei problemi posti dalle teorie
sistemiche adottate dagli archeologi processuali, come Flannery e Renfrew,
era che il potere politico non trovava adeguata definizione. Quando veniva
menzionato, il potere era definito come «la capacità di esercitare controllo o
autorità sugli altri» (RENFREW 1984b, p. 24). Questa prospettiva lasciava fuo­
ri diversi punti essenziali. Primo, riunendo potere e autorità non si dava l’importanza necessaria alla coercizione, alla forza o alla resistenza all’azione degli
stati. Secondo, non si trovava una risposta alla domanda: da dove viene il
potere? Era il prodotto di altre trasformazioni sociali come per la tecnologia,
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o il risultato di cambiamenti di ordine diverso, come la crescita della popola­
zione o il mutamento ambientale? Era un aspetto universale delle società
umane, come sostengono alcuni pensatori postmoderni, o un fenomeno sto­
rico che si manifesta con la formazione di classi sociali e di uno stato e che
rappresenta l’uso organizzato delle forze da parte dei membri di una classe
per sottomettere quelli di un’altra?
Negli anni della sua formazione, negli Stati Uniti, l’archeologia proces­
suale aveva il suo centro di gravità nell’ambiente accademico. Divenne poi
egemone nei primi anni ’70 quando le sue prospettive, i protocolli e le proce­
dure furono codificate in vari regolamenti, stilati per l’applicazione della le­
gislazione in materia di gestione delle risorse culturali adottata dal governo
federale. Mentre il mercato del lavoro si andava trasformando, a partire dalla
metà degli anni ’70, gli archeologi processuali divennero sempre più dei tecnici
e funzionari dello stato, preoccupati di problemi metodologici, razionalità degli
strumenti e neutralità della valutazione. Cercavano concetti e procedure che po­
tessero essere uniformemente applicati con poco o nessun riguardo per il con­
testo storico e la sua specificità. Erano interessati alla funzione di controllo
delle informazioni esercitato da gerarchie e burocrazie. Nella loro idea la
funzione naturale dello stato era di mantenere tutte le variabili di un sistema
culturale entro limiti adeguati – limiti che contribuivano al mantenimento
dell’ordine e non minacciavano la sopravvivenza del sistema stesso.
Alla fine degli anni ’60 David Clarke inaugurò una critica più eclettica
alle pratiche tradizionali dell’archeologia. In Analytical Archaeology tentò di
incorporare nel metodo e nella teoria archeologica i nuovi sviluppi della sta­
tistica, dell’analisi locazionale e della teoria dei sistemi (CLARKE 1968). Si
proponeva di elaborare una serie di costrutti teorici che riguardassero speci­
ficamente gli oggetti studiati dagli archeologi. Come Binford, anch’egli era
interessato alla distribuzione dei materiali archeologici e ai processi naturali
e culturali che li producevano. Cercava modelli per tali processi nell’antropologia economica e nella geografia. Il suo tentativo è molto chiaro in The
Economic Context of Trade and Industry in Barbarian Europe till Roman Times,
in cui, fra le altre cose, illustrava l’ineguale sviluppo sociale dell’Europa du­
rante il Neolitico e l’Età del Bronzo, sollevava interrogativi sull’autosufficienza dei villaggi del Neolitico, e faceva una distinzione fra la produzione di
beni di lusso (ovvero merci di scambio) e la produzione destinata al consumo
(CLARKE 1979a, pp. 268-287).
Clarke (1979c, p. 85) riconosceva anche che la ricerca archeologica era
influenzata e limitata da diversi fattori: era «legata all’interno a un contesto
mutevole ed all’esterno allo spirito dei tempi». La disciplina dell’archeologia
era emersa nel contesto di diversi ambiti regionali, nazionali, linguistici ed
educativi. Per questo si erano sviluppate delle scuole regionali, e queste ulti­
me avevano una preferenza per certi corpora teorici e «… modi di descrivere,
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di interpretare e spiegare» (CLARKE 1979b, p. 28). A suo giudizio, inoltre,
alcune scuole avevano risolto determinati problemi meglio di altre, e le più
intense comunicazioni e lo scambio di studenti stavano producendo «approc­
ci fra scuole diverse condivisi a livello internazionale».
4. Fermento teorico e controcorrenti marxiste negli anni ’80
L’impatto delle varie critiche all’archeologia processuale si fece sempre
più evidente verso la fine degli anni ’70. La ricerca di leggi universali sul
comportamento umano non poteva spiegare la variabilità osservata nello svi­
luppo storico di particolari culture; lo studio dei processi era separato da
quello della storia. Il loro funzionalismo, che dava uguale peso alla totalità
dei sottosistemi di una cultura, li obbligava alla fine a ripiegare sui bisogni e i
desideri dell’uomo per spiegare il cambiamento. I loro modelli di trasforma­
zione sociale davano la priorità, sia nell’analisi che nella descrizione, agli
aspetti sincronici più che a quelli diacronici della società. Ponendo l’accento
sulla sfera ecologica ed economica della società trascuravano le relazioni so­
ciali e la visione dei popoli antichi del mondo in cui vivevano. I loro discorsi
davano l’illusione che si sapesse sullo sviluppo storico di determinate culture
di più di quanto non fosse in realtà noto, specie per regioni in cui erano state
svolte relativamente poche ricerche. Le loro spiegazioni, paludate nel lin­
guaggio scientifico, non riconoscevano adeguatamente quanto le culture ege­
moni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, ad esempio, avessero plasmato
la teoria e la pratica dell’archeologia e influenzato le ricostruzioni delle cul­
ture antiche (GILMAN 1976; LEONE 1982; WILK 1985; PATTERSON 1986a; 1986b;
TRIGGER 1998, pp. 30-34).
Su queste osservazioni critiche maturarono diverse alternative all’archeologia processuale. Alcune si fondavano sullo strutturalismo, mentre altre
si basavano su questo o quell’aspetto del pensiero sociale marxista, e fra que­
ste molte erano già state decantate di tutte le conclusioni politiche tratte da
Marx (HODDER 1982; SPRIGGS 1984). Altre ancora si rifacevano ai tentativi
degli antropologi francesi di provare la rilevanza degli scritti di Marx per
l’antropologia e di riunire strutturalismo e marxismo, oppure commentava­
no l’insuccesso di tali tentativi (ad es., FRIEDMAN, ROWLANDS 1977; GLEDHILL
1981; TILLEY 1981; 1982; SAUNDERS 1990). Quella che in seguito si sarebbe
chiamata archeologia post-processuale affondava le sue radici sia nel fermen­
to di questo periodo che nell’ispirazione, gli insegnamenti e gli scritti di David
Clarke (cfr. HODDER 1981).
L’archeologia post-processuale è in effetti una denominazione eteroge­
nea, adottata dai suoi difensori per riunire opinioni individuali e campi d’azione divergenti (PATTERSON 1989b; KOHL 1993; PREUCEL 1995). Invece di cerca­
re di districare le diverse correnti di pensiero, marxiste e di altro tipo, da loro
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mescolate assieme, è più utile puntare sul lavoro di quegli archeologi che
hanno usato il metodo e la teoria di Marx per comprendere meglio lo svilup­
po storico delle società studiate. Mi sembra che gli archeologi che si sono
ispirati al pensiero sociale marxista abbiano fatto le seguenti affermazioni:
– vi è una discontinuità strutturale fra società a base statale e società a base
non statale;
– le società a base statale, suddivise in classi, sono espressioni di sfruttamento;
– la divisione del lavoro, anche secondo il sesso e i legami parentali, si trasforma durante la formazione dello stato;
– la formazione delle classi e dello stato è un processo rapido;
– la formazione delle classi e dello stato produce disuguaglianze nello sviluppo sociale;
– è fondamentale esaminare le dinamiche interne e le contraddizioni delle
società in cui è in atto un processo di formazione delle classi e dello stato
(ZAGARELL 1986a, 1986b; GAILEY, PATTERSON 1987a, 1987b).
Un buon punto di partenza per la nostra trattazione delle prospettive
marxiste nell’archeologia sono Archaeology of Trade di Phil Kohl (1975) e
Bronze Age Dynamics in Southeast Spain di Antonio Gilman (1976), due stu­
di presentati alla prima sessione su marxismo e archeologia mai tenuta nell’incontro annuale della American Anthropological Association.
Kohl (1975) era insoddisfatto del modo in cui gli archeologi processua­
li, e Renfrew in particolare, avevano affrontato il problema dello scambio.
Come si ricorderà, Renfrew (1969) sosteneva che il commercio aveva gioca­
to un ruolo primario nello sviluppo delle civiltà egee. Dal punto di vista
concettuale individuava cinque sottosistemi, due dei quali erano tecnologia e
scambio. Kohl faceva notare che il modello di Renfrew escludeva il commer­
cio dal contesto socio-economico a cui apparteneva e separava lo scambio
dalle relazioni economiche con cui gli oggetti scambiati venivano prodotti e
usati. Seguendo argomentazioni contenute nei Grundrisse di Marx (1857­
58), Kohl sosteneva che la produzione, lo scambio e il consumo di articoli
erano solo diversi momenti dei rapporti di produzione, e che era essenziale
osservare le condizioni imposte dalle strutture di classe e dall’accesso diffe­
renziato ai mezzi di produzione delle varie classi sociali.
Anche Gilman (1976) criticava il ruolo determinante che Renfrew at­
tribuiva al commercio. Affermava che le considerazioni degli archeologi pro­
cessuali che vedevano il commercio come spinta esterna all’emergere e allo
svilupparsi della civiltà dell’Età del Bronzo in aree come la Spagna sud-orientale trascuravano cambiamenti interni – come l’introduzione dei sistemi di
irrigazione, dell’aratro, dell’arboricoltura mediterranea basata su vite e oli­
vo, e della pesca di altura – che avevano gettato le basi per la produzione di
quel surplus sociale di cui si era in seguito appropriata una élite guerriera in
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ascesa, che faceva uso di oggetti di metallo commerciabili. E sottolineava inoltre
che «l’evoluzione verso la stratificazione sociale avvenne nel sud est più rapida­
mente che in altre aree della Spagna dove l’intensificazione delle colture aveva un
impatto meno determinante e [in cui la gente] era in grado di mantenere l’ordine
sociale tradizionale» (GILMAN 1976, p. 317). L’osservazione che i processi di
formazione delle classi producono uno sviluppo disuguale in un’area è im­
portante, poiché è in netto contrasto con le affermazioni degli archeologi
processuali come Renfrew (1986), che asserisce che i processi di formazione
delle classi e dello stato producono paesaggi politico-economici omogenei,
composti da comunità allo stesso livello di sviluppo socio-politico.
Kohl (1978) e Gilman (1981) elaborarono ben presto le loro teorie in
una serie di articoli su «Current Anthropology», in cui venivano riportati
anche i commenti favorevoli o critici dei colleghi e le loro reazioni. Kohl
ribadiva l’importanza di considerare commercio e produzione come due aspetti
di un insieme complesso di relazioni sociali di produzione che si andavano
sviluppando in modo diverso in varie zone dell’Asia sud occidentale nel cor­
so del terzo millennio a.C. E sottolineava che, mentre il commercio legava le
diverse formazioni regionali sociali in una rete, le società regionali stesse si
sviluppavano seguendo diverse traiettorie. Questo schema non veniva assi­
milato ad un sistema-mondo con un nucleo e una periferia, ma piuttosto ad
un’economia mondiale con molti nuclei, che non coincideva con una singola
entità politica (KOHL 1987).
Gilman (1981) criticava le osservazioni funzionaliste degli archeologi
processuali che si concentravano sui benefici apparentemente offerti dalle
classi dominanti più che sullo sfruttamento da esse esercitato, ripetendo sue
precedenti affermazioni sull’esistenza di una connessione fra i mutamenti nelle
forze produttive e i rapporti di proprietà – ossia nelle relazioni sociali di
produzione – che avevano influenzato la stratificazione sociale nella Spagna
sud-orientale. Gilman (1984) andava esplorando le implicazioni di tali osser­
vazioni nel suo articolo successivo, chiedendosi se l’analisi marxista poteva
gettare luce sulle società non stratificate tradizionalmente studiate dagli ar­
cheologi. Particolare attenzione era dedicata alle culture europee del Paleoli­
tico Superiore, che erano caratterizzate da innovazioni tecnologiche e dalla
comparsa di uno stile, e che gli archeologi processuali, e soprattutto Binford,
vedevano come «… manifestazioni tecnologiche e sociali del raggiungimento
biologico di una piena capacità culturale» (GILMAN 1984, p. 119). In contra­
sto con tale visione, la rivoluzione del Paleolitico Superiore comportava «…un
cambiamento determinante nell’equilibrio della sicurezza sociale, mutamen­
to determinato dallo sviluppo delle forze di produzione», e che tale cambia­
mento comportava il restringimento delle alleanze di gruppo e dei rapporti
con altri gruppi (GILMAN 1984, p. 122). A suo giudizio «i cambiamenti nell’organizzazione sociale nascevano da uno spostamento negli interessi di grup­
po, originati alla lontana, ma non determinati, da tecnologie più efficienti»
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(GILMAN 1984, p. 123).
Uno degli obiettivi di Gilman (1984, pp. 123-124) nel secondo articolo
era ridare forza alla «nozione fondamentalmente corretta del comunismo
primitivo». L’idea di un comunismo primitivo suscitò un aspro dibattito dalla
fine degli anni ’80, con particolare riguardo allo sviluppo storico della for­
mazione sociale dei San in Sud Africa. Da una parte Eleanor Leacock, Richard
Lee e altri sostenevano
«… che le società pastorizie dedite al saccheggio, alla raccolta, al foraggio,
possono essere comprese solo come il prodotto di una triplice dinamica: in
primo luogo, la dinamica interna di rapporti comunitari di gestione dei pasco­
li; in secondo luogo, la dinamica delle loro interazioni storiche con agricolto­
ri, pastori e stati; e in terzo luogo, la dinamica di articolazione e integrazione
all’interno del sistema mondiale moderno» (LEE 1998, p. 180).
Dall’altra parte Edwin Wilmsen (1989, p. 3), che si fondava sia sulla
teoria dei sistemi-mondo che su prospettive post-strutturaliste, sosteneva che
la condizione marginale dei gruppi di lingua San, dediti all’economia di rac­
colta, nell’economia politica del Sudafrica,
«… è proporzionale al loro essere relegati in una sottoclasse, in un processo
storico iniziato prima di questo millennio e culminato nelle prime decadi di
questo secolo. L’isolamento in cui si dice si trovino è una creazione legata
all’idea che ne abbiamo noi, non alla loro percezione della storia.».
Per Lee ed altri il comunismo primitivo è un modo di produzione di­
stinto, caratterizzato dalla condivisione e dal controllo comunitario dei mez­
zi di produzione. Per Wilmsen il comunismo primitivo non esiste; ciò signifi­
ca che la psicologia e le relazioni sociali del popolo San non sono in fondo
differenti da quelle di altri individui coinvolti nel moderno sistema mondia­
le. La sua visione postula, a mio giudizio, che oppressione e disuguaglianza
siano tratti naturali di tutti i rapporti sociali e della condizione umana, più
che elementi che si presentano in date circostanze 2.
Nelle sue indagini sulla transizione verso la produzione di cibo l’archeologa inglese Barbara Bender prendeva in considerazione le dinamiche inter­
ne delle società comunitarie caratterizzate dal modo di produzione comuni­
sta primitivo. Come Gilman, non si concentrava sui rapporti fra ambiente e
tecnologie quanto invece su «l’articolazione fra rapporti di produzione, ossia
i rapporti attraverso cui una società riproduce se stessa come unità sociale ed
economica, e le forze di produzione – le risorse, le tecniche, le unità di lavoro
di cui è composta la capacità produttiva» (BENDER 1981, p. 150).
Il livello delle forze produttive, dal suo punto di vista, determinava
solo ciò che non poteva succedere, invece che ciò che poteva verificarsi. E
questo perché le forze produttive sono in fin dei conti dominate dai rapporti
sociali di produzione. Bender (1978; 1981; 1985a; 1985b; 1990) sottolinea­
va l’importanza di osservare l’ambiente sociale e i rapporti sociali di produ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale –
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zione che plasmano e limitano lo sviluppo delle forze produttive. Mutamenti
nelle caratteristiche dei rapporti sociali di un gruppo e nelle sue alleanze con
altri gruppi costituiscono un ambiente favorevole ai cambiamenti nelle forze
produttive, all’intensificazione della produzione, e all’emergere di società
socialmente differenziate.
Bender (1985a, p. 52) notava anche che le analisi marxiste nell’archeologia britannica si stavano sviluppando in direzioni molto diverse da quelle
dell’archeologia statunitense. Entrambe si ispiravano ai primi studi di V.
Gordon Childe, ma alcuni inglesi si rifacevano ai tentativi degli antropologi
francesi, come Maurice Godelier, che cercavano di combinare le teorie di
Marx con lo strutturalismo. Notes Toward an Epigenetic Model for the
Evolution of ‘Civilisation’ di Jonathan Friedman e Mike Rowlands (1977),
compreso nel loro The Evolution of Social Systems, è forse l’esempio classico
di questo approccio (cfr. Gledhill 1981).
Friedman e Rowlands offrivano un modello complesso per l’evoluzione delle civiltà antiche, che superficialmente ricordava quello creato da Steward
trent’anni prima. Si prospettava come un processo unilineare, perché veniva
presa in esame solo una traiettoria di sviluppo che partiva da una serie fissa di
condizioni; si situava la dinamica dello sviluppo nelle strutture invece che
negli uomini in quanto autori della loro storia, sottoposti a condizioni non
scelte da loro. Il modello derivava dal precedente studio di Friedman (1975)
sulle oscillazioni nei sistemi politici dell’altopiano birmano, dai sistemi tribali
agli stati asiatici, e si concentrava sull’emergere di nuove strutture di domi­
nio. Nella loro idea i sistemi tribali generavano dei processi ciclici a breve
termine, riflessi nell’ascesa e nel declino dei chiefdoms, e degli effetti a lungo
termine, cumulativi e irreversibili – le contraddizioni fra sistemi – che, se
combinati con l’interazione fra società e variazioni ambientali, culminavano
in processi interdipendenti e irregolari di evoluzione sociale e decadenza
(GLEDHILL 1981, pp. 17, 20).
Friedman e Rowlands sostenevano anche che le civiltà nate al di fuori
delle aree in cui erano emersi i primi stati seguivano traiettorie di sviluppo
diverse. Era quindi necessario modellare i processi evolutivi in termini di
unità più vaste delle unità socio-politiche spesso studiate dagli archeologi. In
breve, il loro modello incorporava la prospettiva dei sistemi-mondo o del
rapporto fra centro e periferia, e comportava che dall’ascesa degli stati risul­
tassero processi di sviluppo irregolari. La transizione da un sistema tribale a
uno stato asiatico portava un clan conico ad abbandonare i processi ciclici di
crescita, espansione e decadenza. Friedman e Rowlands spiegavano la transi­
zione con gli effetti sociali ed economici prodotti dallo scambio di oggetti e
dall’integrazione di questi nella società. Ciò avveniva quando un segmento
locale di un clan conico affermava il suo controllo sul mercato dei beni di
lusso, acquisendo così un più alto status sociale. E questo alimentava la ten­
denza a una ulteriore differenziazione interna della società e a una sempre
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maggior espansione attraverso lo scambio di tali beni di lusso. Questo a sua
volta faceva aumentare la produzione di merci di scambio e l’emergenza di
una suddivisione del lavoro su base regionale, in cui gli stati centrali produce­
vano merci e le aree periferiche fornivano le materie prime. In questo proces­
so, il possesso di terre coltivabili diveniva un bene, il che consolidava il domi­
nio di una classe abbiente capace di accumulare mezzi di produzione; l’apparato statale veniva quindi ad assumere una posizione più sovrastrutturale
(GLEDHILL 1981, pp. 23-24).
Usando dati provenienti dall’America centrale, dal Sud Est degli Stati
Uniti e dal Vicino Oriente, John Gledhill analizzò lo scambio e gli sviluppi da
esso prodotti nelle aree periferiche, insieme alle dinamiche interne degli stati
arcaici (GLEDHILL 1978; 1984; GLEDHILL, LARSEN 1982). Usando un modello
centro-periferia sosteneva che i rapporti commerciali con l’America Centrale
avevano influenzato lo sviluppo sociale delle regioni sud-orientali degli Stati
Uniti. Scriveva che:
«L’ingresso nella rete commerciale messicana esigeva una risposta ad un
tipo specifico di domanda, che non poteva essere generato localmente sulla
stessa scala. Il commercio a lunga distanza era legato a un processo locale di
gerarchizzazione politica, in cui chi si trovava in cima alla gerarchia promuo­
veva la produzione specializzata per l’esportazione, per ricevere in cambio
merci di lusso… Il Sud-Est degli Stati Uniti era sia geograficamente che strut­
turalmente periferico, ed è chiaro che componenti marginali, specializzate e
dipendenti dal sistema mondiale dominate da centri distanti sono estrema­
mente vulnerabili. Un processo di sviluppo socio-politico legato al commercio
può portare lo sviluppo oltre il livello che può essere sostenuto se i collegamenti
di area vengono interrotti. Tali recessioni, influenzando le strutture socio-politiche, determineranno stress a livello sociale e acuiranno qualsiasi condizio­
ne di stress che si produca nel corso dello sviluppo» (GLEDHILL 1978, p. 268).
Gledhill (1984; GLEDHILL, LARSEN 1982) rivolse poi la sua attenzione
agli stati arcaici e al concetto marxiano, ancora poco sviluppato, di modo di
produzione asiatico che era stato adottato da alcuni mesoamericanisti nelle
loro descrizioni e analisi dello stato azteco. Sottolineò le contraddizioni che
c’erano all’interno della classe dominante di quella struttura sociale, contrad­
dizioni che erano determinate dall’espansione stessa degli aztechi. Qui lo
stato non era un ente che mediava fra gli interessi particolari dei diversi seg­
menti della classe dominante, poiché «la centralità politica è di per sé conti­
nuamente minacciata negli imperi e i conflitti e la competitività ai vertici
della gerarchia sociale comportano trasformazioni nel campo politico-amministrativo e socio-economico» (GLEDHILL 1984, p. 141). Questo voleva dire
che sorgevano contrasti fra gli interessi del governante e quelli delle classi
dominanti; e si assisteva tanto «…all’emergere di specifici organismi di lotta
di classe, come le cricche di corte», quanto alla nascita di domini privati
(GLEDHILL 1984, p. 141).
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Nel 1986 Christine Gailey e io abbiamo elaborato due lavori sulla for­
mazione delle classi e dello stato (GAILEY, PATTERSON 1987a; 1987b). Nel pri­
mo sostenevamo che l’ascesa di una civiltà – ovvero, la formazione di classi e
stato – implicava delle conquiste all’esterno e repressione all’interno. Portava
con sé lo sfruttamento – l’emergere di schemi di produzione, di distribuzio­
ne, di consumo e culturali fondati sull’appartenenza a una classe. Era un
processo che creava dei popoli di confine, i cui rapporti di produzione muta­
vano a seconda dei loro rapporti tributari o di scambio con la vicina forma­
zione statale. Poiché alcuni stati erano più abili degli altri nello specificare il
lavoro e le merci che venivano richieste alle classi e comunità subordinate, e
poiché alcuni popoli, più chiusi, erano avevano un maggior grado di resisten­
za a tali imposizioni, la formazione dello stato tendeva a produrre mosaici
eterogenei di società più che entità con uguali strutture socio-politiche. Af­
fermavamo inoltre che gli stati erano (e sono ancora) distruttivi nei confronti
delle comunità parentelari al loro interno. Etnocidio e genocidio erano, e
sono, aspetti della formazione delle classi e dello stato. La formazione di
classi e stato era inoltre una fase in cui si verificavano fenomeni di etnogene­
si, ossia la creazione di nuove forme culturali (GAILEY, PATTERSON 1987a).
Gailey ed io sostenevamo anche che la formazione di classi e di uno
stato può essere spiegata come un’articolazione di modi di produzione co­
munitari e tributari diversi. Mentre gli stati con una forte tendenza tributaria
specificavano il tributo che volevano, gli stati con debole tendenza tributaria
erano incapaci di stabilire in modo coerente il lavoro e le merci da richiedere
alle comunità soggette, perché le comunità su base parentale riuscivano a
mantenere il controllo o sui propri membri o sulle merci prodotte. Si deline­
avano così diverse traiettorie di sviluppo a seconda che tali comunità fossero
coinvolte in rapporti tributari o di scambio, o che riuscissero invece a liberar­
sene (GAILEY, PATTERSON 1987a).
Nel secondo studio abbiamo riproposto l’idea marxiana che le struttu­
re di classe siano una manifestazione di rapporti sociali di sfruttamento, e che
ciò che distingue una formazione sociale da un’altra sia il modo in cui il
surplus di merci e di lavoro viene fatto produrre ai suoi membri. Era evidente
inoltre che la formazione delle classi aveva effetti diversi sugli uomini e sulle
donne. E sostenevamo anche che gli interessi delle strutture statali emergenti
in queste civiltà arcaiche non erano necessariamente condivisi dalle diverse
componenti della classe dominante. Gli stati espansionisti, come l’impero
Inca, erano nati da tentativi di neutralizzare il dissenso interno, o di compen­
sare fratture nella produzione e nel consumo sorretti o gestiti dallo stato,
oppure infine di consolidare i rapporti tributari con comunità ed entità poli­
tiche vicine. La dialettica della resistenza e gli sforzi per acquisire il dominio
erano un terreno fertile sia per l’etnogenesi – la creazione di nuove forme e
pratiche culturali – sia per lo sviluppo della mercatura e del commercio nelle
regioni di frontiera (GAILEY, PATTERSON 1987b).
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Nei nostri studi si affermava la rapidità del processo di formazione di
classi e stato, che era spesso contenuto nell’arco di pochi anni o di una gene­
razione o due al massimo. Non erano processi graduali come quelli con cui i
chiefdoms lentamente si evolvevano in stati. Fra le questioni sollevate da que­
sti studi, affrontate da Gailey (1987) e da me individualmente in altro luogo,
c’è anche quella di stabilire cosa siano i chiefdoms, e in che circostanze queste
comunità organizzate gerarchicamente su base parentelare si trasformino in
stati.
Una delle premesse della teoria marxiana è che l’emergere dello stato
sia strettamente legato al processo di formazione delle classi e alla progressi­
va autonomia acquisita dalla politica. Il legame che unisce i membri di una
società umana risiede nella vita comunitaria, in cui l’opposizione fra privato
e pubblico è inesistente o scarsamente sviluppata. Questo legame si spezza,
tuttavia, con la comparsa delle classi sociali – ossia quando gli uomini inizia­
no a perseguire interessi individuali o di una singola classe nel contesto delle
istituzioni pubbliche della società comunitaria che permangono. Queste isti­
tuzioni e la stessa società comunitaria si trasformano, in questo processo,
man mano che le strutture dei vecchi mezzi di produzione vengono sostituite
da quelle dei nuovi. L’attenzione va quindi al duplice carattere dei rapporti di
produzione e alle modalità con cui si trasformano. Questo da un lato ci porta
a considerare in che modo la società è organizzata per la produzione, la cir­
colazione, la distribuzione e il consumo, e ci impone, dall’altro, di esaminare
come la stessa organizzazione in cui si verificano la produzione di merci, di
conoscenze e di esseri umani venga riprodotta. Bisogna quindi considerare
anche le contraddizioni che esistono all’interno dei rapporti di produzione e
come queste si risolvano con la dissoluzione della società comunitaria e l’emergere della società civile.
Nelle strutture sociali prive di classi, con mezzi di produzione comuni­
tari, le categorie sociali che regolano i rapporti di produzione sono di tipo
non economico, e la vera natura dell’economia resta in secondo piano; anche
la struttura di classe è costituita da una gerarchia di categorie sociali che non
possono essere ricondotte direttamente a rapporti di classe di tipo economi­
co. Ma tale gerarchia di categorie sociali non economiche nasconde sia i reali
rapporti di classe economici sia le vere contraddizioni che essi generano. In
una simile situazione i rapporti di classe economici non rivelano la loro vera
natura, mentre le categorie sociali gerarchiche della struttura di classe si pre­
sentano come rapporti “naturali”.
La formazione della struttura di classe è, in ultima analisi, fondata sull’ordinamento economico della società – l’accumulazione disuguale di sur­
plus di prodotto da parte delle varie categorie sociali che formano tale gerar­
chia. La formazione della struttura di classe è condizione per la formazione
di rapporti di classe economici nella misura in cui tale processo definisce la
posizione delle diverse categorie sociali nei processi di produzione e determi©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale –
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na una riorganizzazione di quelli di lavorazione, in cui trovano posto lo sfrut­
tamento e l’estorsione da parte di una o più di queste categorie. La riorganiz­
zazione dei processi di lavorazione, che determina una progressiva differen­
ziazione delle attività di queste categorie, crea le condizioni per il futuro
sviluppo delle contraddizioni nate dall’affermarsi dello sfruttamento e dell’estorsione.
La costituzione dello stato è legata alle condizioni in cui si costituisce la
struttura di classe e alle condizioni nelle quali la classe dominante si riprodu­
ce quando emergono i reali rapporti di classe economici. Lo stato che di
conseguenza emerge nel contesto della transizione da non stato a stato deve
essere – almeno in parte – organizzato sulla base delle categorie sociali della
struttura di classe. Lo stato appare “fragile”, nel senso che la sua legittimità e
il suo potere dipendono dal controllo sui simboli ideologici. La sua struttura
è condizionata, ed instabile, poiché esso esiste simultaneamente dentro e al
di sopra della società. Non dà stabilità alla struttura di classe, né previene la
formazione di rapporti di classe economici reali.
Gli organi dello stato si incaricano dell’amministrazione della giustizia,
della conduzione delle guerre e delle relazioni diplomatiche, e di altre attività
in precedenza svolte dalla comunità. Ed agiscono nell’interesse dello stato e
dell’intera società. È questa, tuttavia, la contraddizione di fondo della società
civile. Lo stato è simultaneamente il rappresentante della classe nel cui inte­
resse è stato organizzato e il mediatore nei contrasti che nascono fra gli indi­
vidui di quella classe e in generale fra le classi in conflitto nella società. L’autonomia della politica e dello stato è un prodotto dell’era moderna. Lo stato
si pone al di sopra della società solo quando i rapporti di classe economici di
appropriazione divengono dominanti. E allora si impone una oggettivazione
ideologica dei singoli individui: essi cessano di esistere come persone reali e
si presentano come entità formali – persone legali o civili – agli occhi dello
stato.
Da quando i marxisti hanno tentato di riunire lo studio del processo
sociale e lo studio della storia, l’archeologia storica è diventata una delle
roccaforti di questo approccio. Mark Leone (1995), Randall McGuire e Robert
Paynter (1991), e Charles Orser (1996), fra gli altri, hanno scelto come cam­
po di ricerca lo sviluppo storico del capitalismo – un tema sul quale Marx
fece delle osservazioni assai originali, molte delle quali ancora attuali. E sono
tutti convinti che il solo modo per comprendere particolari accordi o istitu­
zioni sociali sia capire come si sono sviluppati storicamente. Vedono i mem­
bri della società come agenti attivi, che lavorano per garantirsi buone condi­
zioni materiali, invece che adattarsi passivamente e stoicamente al mondo
che li circonda. Pur non ricercando delle spiegazioni universalmente valide
per il cambiamento, si sono tuttavia occupati dell’elaborazione di teorie sulle
condizioni che fanno da sfondo alla comparsa del capitalismo e al suo succes­
sivo sviluppo in diverse parti del mondo. Il loro metodo è al tempo stesso
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particolarista e comparativo. Utilizzano cognizioni derivate dall’esame detta­
gliato di un caso per fare luce su altri casi paragonabili.
5. Alcuni studi degli anni ’90 sulla formazione di classi e stato
Negli anni ’90 gli archeologi processuali hanno iniziato ad affrontare
interrogativi posti dagli studi di ispirazione marxiana sulla formazione di
classi e stato. Il dibattito che ne è scaturito ha preso diverse forme. Ad un
primo livello, è stato caratterizzato da un certo grado di convergenza. Autori
che si erano occupati dell’evoluzione della civiltà negli anni ’70 ora discute­
vano di processi di formazione dello stato (FLANNERY 1999). Alcuni ammette­
vano «…l’importanza di fattori ‘marxiani’ come la competizione politica, la
lotta di classe e la ricerca del potere» (SPENCER 1990, p. 5), o parlavano nei
loro scritti di «…ricchezze e lavoro [che] venivano estratti dai produttori
agricoli, probabilmente per sostentare le élite rurali…» (WRIGHT 1999, p.
196). Altri suggerivano che la formazione dello stato determinava fenomeni
di etnogenesi e sostenevano che i governanti degli stratificati stati arcaici «…
si attendevano che i singoli cittadini rinunciassero alla violenza, mentre lo
stato poteva fare guerra, coscrivere soldati, riscuotere tasse ed esigere tribu­
ti» (MARCUS, FLANNERY 1996, p. 26, 171). Questi studiosi ammettono che gli
episodi di formazione dello stato sono spesso molto rapidi, che gli stati si
frantumano e che molti di essi furono stroncati sul nascere (FLANNERY 1999;
SPENCER 1990, p. 14, 19; MARCUS, FLANNERY 1996, 156). Si dà anche molta
più importanza che in passato alle peculiarità di specifici episodi di formazio­
ne di classi e di stato – a Uruk o a Oaxaca, ad esempio – nel trarre le loro
conclusioni sui processi coinvolti.
Alcuni archeologi processuali hanno riciclato il loro evoluzionismo cul­
turale, almeno per il momento, rifiutando il gradualismo imposto dai model­
li precedenti e adottando il punto di vista della teoria degli equilibri a punti
presa in prestito dalla biologia evolutiva. Secondo questa teoria la formazio­
ne di classi e stato «…avviene in momenti di rapida evoluzione che interrom­
pono i periodi di stabilità in un’evoluzione più lenta» (MARCUS, FLANNERY
1996, p. 156; SPENCER 1990). Flannery (1999) ha esaminato i processi politi­
ci – come l’alternarsi dei capi, la trasmissione distorta e l’espansione territo­
riale, che sono a suo giudizio aspetti integranti di particolari casi di formazio­
ne di stati – il Natal, la Costa d’Oro, Hunza, le Hawaii e il Madagascar. E
vede in questi un’affinità con i processi di promozione e linearizzazione da
lui descritti in precedenza. A un livello generale, si ritiene tuttora che la for­
mazione dello stato generi una differenziazione sociale in continuo aumento;
l’unica differenza è che ora sembra avvenire più a scatti che per gradi. A mio
giudizio, il punto debole di questo approccio continua ad essere il fatto che
ancora non si arriva ad affrontare adeguatamente la dialettica dei processi
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formativi di classi e stato che intervengono quando i membri di un gruppo
tentano di sfruttare i membri di altri gruppi e questi ultimi resistono o tenta­
no di mitigare tali pretese.
Molti archeologi processuali continuano a sostenere l’idea che svilup­
po sociale significhi aumento della complessità sociale – cioè che le tribù
diventano chiefdom, e almeno alcuni di questi ultimi diventano stati. Si tende
ad accantonare l’idea che il chiefdom sia una fase uniforme nell’evoluzione
culturale, adottando la distinzione formulata da Tim Earle (1991) fra chiefdom
semplice e complesso. Il chiefdom semplice avrebbe un solo livello gerarchi­
co mentre quello complesso due. Earle sottolinea inoltre che il chiefdom è
stato spesso rappresentato come fondato o sul gruppo o sull’individuo. Nel
primo caso si «… accentua l’importanza della definizione del gruppo attra­
verso l’investimento in strutture corporative di lavoro [mentre nel secondo
si] … accentua l’individuazione di una coscienza di élite, attraverso orna­
menti legati allo status (spesso oggetti di lusso) e la costruzione di residenze
speciali e monumenti funebri» (EARLE 1991, p. 3). Una terza prospettiva di­
stingue i capi che ridistribuiscono da quelli che «… consolidavano il loro
potere riscuotendo tributi più che pensare al beneficio della società nel suo
insieme» (FEINMAN, NEITZEL 1984, p. 44).
Per i marxisti queste tipologie si applicano a due tipi ben distinti di
società. Da un lato, c’è il chiefdom semplice, in cui il capo raccoglie e dispen­
sa le ricchezze ed organizza i progetti comunitari attraverso cui i membri
della comunità affermano e riproducono la loro appartenenza alla comunità.
Mentre i membri di tali società hanno una posizione ambigua e possono ad­
dirittura appartenere a lignaggi ereditari, le società stesse non sono stratifica­
te in classi e non presentano relazioni sociali di sfruttamento. In breve, rap­
presentano in un certo senso una variante del modo di produzione comunita­
rio. Dall’altro lato c’è invece il chiefdom avanzato o complesso, in cui il capo
e la nobiltà ereditaria detengono il potere e riscuotono tributi. Controllano i
mezzi di produzione e hanno un accesso privilegiato o esclusivo ad alcune
delle merci e dei servizi dei produttori diretti. In breve, presentano una stra­
tificazione per classi e tentano rapidamente di creare istituzioni e pratiche
che assicurino la riproduzione sociale dei rapporti sociali di sfruttamento e
dell’ineguaglianza sociale. Si tratta di stati tributari, caratterizzati dal modo
di produzione tributario, che tentano di risolvere le contraddizioni generate
da una struttura sociale caratterizzata dallo sfruttamento e dalla resistenza
delle classi subordinate e delle popolazioni soggette.
Abbiamo qui un problema di terminologia e definizioni. Per molti ar­
cheologi processuali solo i chiefdoms avanzati o complessi si evolvono in
stati. Per molti marxisti questi governi complessi sono già degli stati, perché
caratterizzati da rapporti sociali di sfruttamento e strutture di classe. Dal
punto di vista dei marxisti forse le domande che gli archeologi processuali
dovrebbero porsi sono: come, e in quali circostanze si trasformano in struttu©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale –
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re di classe i rapporti sociali su base familiare dei chiefdoms semplici? In
quali condizioni gli uomini e le donne iniziano a perseguire interessi indivi­
duali o di classe nell’ambito delle istituzioni pubbliche della struttura sociale
comunitaria ancora esistenti? E come si dissolvono e si trasformano tali isti­
tuzioni pubbliche nel processo? E in quali circostanze gli individui o i gruppi
riescono a imporre rapporti sociali di sfruttamento ai loro simili e vicini, e in
quali casi, ancora, i loro tentativi vengono neutralizzati con successo? Gailey
(1987), ad esempio, ha già affrontato tali interrogativi da un punto di vista
marxista e Flannery (1999, pp. 14-15), fra gli altri, li sta ora studiando da un
punto di vista processualista.
Elizabeth Brumfiel ha, a mio giudizio, dato il contributo più significati­
vo e articolato a questo dibattito a partire dalla metà degli anni ’80 (cfr.
BRUMFIEL 1992). Basandosi su dati riguardanti lo stato azteco del Messico
centrale, ha prima sollevato interrogativi sulla formazione dello stato, affer­
mando che le considerazioni sull’interazione dialettica fra ecologia, strutture
sociali esistenti e dinamiche politiche potrebbero significativamente aiutarci
a comprendere lo svolgimento dei processi (BRUMFIEL 1983). Poi si è dedicata
a indagini sulla formazione delle classi, la competizione tra fazioni e su come
la disuguaglianza sociale abbia influenzato la produzione, la distribuzione e il
consumo nel Messico azteco (BRUMFIEL 1987a; 1991a; 1994). Al tempo stes­
so ha esaminato il sistema tributario, il commercio, i mercati, la specializza­
zione artigianale, e la suddivisione del lavoro nello stato azteco (BRUMFIEL
1986; 1987b; 1991b; 1991c). Ha inoltre investigato sull’identità di genere e
etnica (1994; 1998) e sugli effetti della formazione dello stato sulla condizio­
ne femminile e sulla suddivisione del lavoro fra i sessi (1991c; 1996a; 1996b).
Nelle sue ricerche ha impiegato una sofisticata metodologia basata su molte­
plici ipotesi di lavoro e sull’utilizzo di informazioni estrapolate da dati etno­
storici e/o archeologici per formulare ipotesi verificabili sulla formazione di
classi e stato, il rapporto fra i sessi, o il ruolo dell’ideologia.
Spero che il dialogo che si è avviato possa essere approfondito ed allar­
gato per promuovere lo scambio di idee, di commenti e critiche costruttive, e
un dibattito dai toni amichevoli. Solo così avremo davvero modo di com­
prendere più chiaramente l’emergere degli stati e di porre domande o alter­
native con solide basi teoriche, che possano servire a dar forma alle future
indagini sui temi emersi.
Ringraziamenti
Per la trattazione di questi argomenti mi hanno enormemente aiutato le con­
versazioni reali avute negli anni con Wendy Ashmore, Barbara Bender, Elizabeth
Brumfiel, Carole Crumley, Stanely Diamond, Christine Gailey, Antonio Gilman, John
Gledhill, Peter Gran, Philip Kohl, Richard Lee, Mark Leone, Randy McGuire, Bill
Marquardt, Bob Paynter, Tony Ranere, Mario Sanoja, Karen Spalding, Bruce Trigger,
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Iraida Vargas, Eric Wolf, Alison Wylie, e Alan Zagarell e le conversazioni immagina­
rie con altri colleghi, sia vivi che morti, i quali, tutti, mi hanno aiutato a chiarire i
miei pensieri e argomentazioni.
THOMAS C. PATTERSON
Bibliografia
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1
Come ha fatto notare William Peace (1988), l’influenza di Childe si fece sentire nella
Columbia University e nella University of Chicago negli anni postbellici. Alcuni studenti alla
Columbia erano sensibili al marxismo dei suoi studi, e Childe ha tenuto una vivace corrispon­
denza con Robert Braidwood, dell’università di Chicago, che si occupava delle origini dell’agricoltura e delle città nel Vicino Oriente.
2
Le differenze fra punto di vista evoluzionista e punto di vista marxista riguardo allo
sviluppo storico della disuguaglianza sono stati argomento di numerosi convegni (ad es.,
UPHAM 1990).
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