4 Dürrenmatt Di Pietro

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Il mostro, l’altro e l’intruso.
Immagini, riflessi, speculazioni e proiezioni
nel Minotauro di Dürrenmatt
di Roberto Di Pietro
«Il filosofo che disse “Deus est anima brutorum”
aveva ragione; ma doveva approfondire l’argomento».
Voltaire, Dizionario filosofico
Prima di passare la torcia olimpica del mito di Teseo e Arianna nelle mani di
Dürrenmatt, Borges affronta il labirinto di Thlön, fatto di finzioni, specchi, avatar,
sdoppiamenti, maschere, imposture, enciclopedie, irrealtà e simboli. E, nel cercare
l’uscita, si rende conto di esserne ancora, e per sempre, prigioniero: «[i]o so d’un
labirinto greco che è una linea unica, retta. In questa linea si sono perduti tanti
filosofi che ben vi si potrà perdere un mero detective»1.
L’aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico ma anche numero zero, rappresenta
l’inizio e, per metonimia, la fine2: l’uno coincide con l’altra. E proprio dalla fine
del mito, e al di fuori di esso, che Borges, affatto casualmente, conclude ̶
riportandoci quindi al suo inizio – La casa di Asterione: «[l]o crederesti,
Arianna?» disse Teseo. «Il Minotauro non s’è quasi difeso»3.
Circa la natura dell’aleph, lo stesso Borges precisa che
com’è noto, [corrisponde] alla prima lettera dell’alfabeto della lingua sacra. La sua
applicazione all’àmbito della mia storia non sembra casuale. Per la Cabala, quella lettera
rappresenta l’En Soph, l’illimitata e pura divinità; fu anche detto che essa ha la figura d’un uomo
che indica il cielo e la terra, per significare che il mondo inferiore è specchio e mappa del
superiore; per la Mengenlehre, è il simbolo dei numeri transfiniti, nei quali il tutto non è maggiore
di alcuno dei componenti4.
Ma, come spesso avviene nei testi di Borges, non è tutto, poiché l’origine
pittografica della lettera alef, dell’alfabeto protosinaitico, raffigura in realtà un
toro:
[…] per gli antichi questo animale [rappresenta] la forza e, più in generale l’energia: forza
motrice, forza riproduttiva, energia economica, domestica, agricola... Senza questa energia
fondamentale, la società e l’individuo restano bloccati in una stasi immanente che non prevede
cambiamenti né trasformazione. Chi tirerebbe l’aratro? Chi attingerebbe le grandi quantità d’acqua
necessaria all’agricoltura? Chi muoverebbe i “mezzi di trasporto”? […] L’alfabeto comincia
dunque col toro! Seguiamo il destino di questo animale, di questo alef. Che cosa diventa
nell’evoluzione che porta dal disegno alla lettera alfabetica? In una prima fase, l’immagine del toro
1
J. L. Borges, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1984, a c. di D. Porzio, vol. I, p. 738. Il racconto, che dà il titolo al libro, è volutamente posto in chiusura, creando un effetto ciclico,
palingenetico. 3
J. L. Borges, Op. cit., p. 900. 4
Ivi, p. 821. 2
rappresenta solo e unicamente il toro: si tratta dunque di un pittogramma, e l’immagine
dell’animale è completa, testa e corpo. Poi, il toro diventa portatore di un’idea di forza, di vigore,
di energia, e il pittogramma si trasforma in ideogramma. Coloro che utilizzano questo segno si
saranno probabilmente detti che la rappresentazione completa dell’animale è ormai fastidiosa e
superflua per la trasmissione del messaggio: forza, vigore, energia, ecc. Si assiste dunque a una
riduzione dell’immagine, e come segno resta soltanto la testa del toro. La parte rappresenta tutto:
si tratta di metonimia. Il passaggio dal pittogramma all’ideogramma, dalla “scrittura di cose” alla
“scrittura di idee” segue un doppio movimento: ridimensionamento dell’immagine e aumento del
senso metaforico veicolato dall’immagine stessa. Riduzione iconica e aumento semantico 5.
Perché ci sia mito deve esserci inizio, mentre perché ci sia tragedia deve
accadere un crimine6, un’infrazione. La responsabilità, diretta o indiretta, dei
personaggi riguarda la trasgressione, il prevaricamento o il non rispetto delle leggi
divine. Per dirla con Kott7, si ha tragedia quando il basso spezza il suo legame di
corrispondenze con l’alto, quando il macrocosmo non coincide più col
microcosmo e lo specchio viene infranto. L’inconsapevole effrazione del
trasgressore è di fondamentale importanza per la catarsi, destinata al pubblico, il
quale invece è dotato di tutti gli elementi per capire l’entità, l’importanza e la
gravità della colpa da espiare. Il punto focale del mito è nel mancato
riconoscimento dell’alterità, in quanto altro, divino. L’incontro dell’alto col basso
è per l’uomo irreversibilmente tragico, finisce con la sua punizione. Il mito si
5
M. A. Quaknin, I misteri dell’alfabeto. Le origini della scrittura, trad. it. A. Borghi e F. Scala,
Atlante, Monteveglio (BO) 2003, pp. 101-102. Il toro era anche animale sacro e simbolo di Zeus,
nonché uno dei suoi travestimenti preferiti. Per avere un’idea di come il mito – e tutto ciò che ne
segue, contaminazione di altri miti inclusa – si sviluppi a partire dall’aleph e vi torni
incessantemente, vedere G. Trévoux, Lettere, numeri, dèi. La storia dei simboli alfabetici e
matematici attraverso una nuova analisi dei racconti mitici, trad. it. di R. Mattiauda, Geneva,
ECIG, di cui cito qui, come esempio, un passo, p. 113: «[l]a lettera A ebbe l’onore di occupare il
primo posto nell’alfabeto fenicio per il fatto che la costellazione del Toro fu la prima ad essere
usata come modello per disegnare una lettera; infatti “toro” si diceva alf […], il mese della
Figliatura delle vacche era il primo mese dell’anno accadico ed era stato deciso che la lista delle
lettere coincidesse con il calendario accadico. La A della lista degli alberi significava “Parto” ed
era rappresentata da un albero resinoso, da cui deriva la tradizione dell’abete natalizio. La nuova A
rappresenta anch’essa un parto, dato che simbolizza quello delle giovani vacche, è il simbolico
parto di tutti gli animali domestici e, per estensione, quello di tutti gli animali in generale e di tutti
gli esseri viventi. La lettera A ha dei progenitori facilmente individuabili e ha conservato quasi
invariata la sua forma primitiva attraverso i secoli. Negli alfabeti occidentali essa ha
semplicemente subito un capovolgimento: infatti le corna del bue sono rivolte a terra e il suo
sottogola al cielo. Essa non è sempre stata pronunciata come la a francese o italiana, avendo preso
il suono “ê” (in Egitto) e “ô” (in Libia). Del resto, presso i Fenici e gli Ebrei indicava soltanto
un’aspirazione muta, l’equivalente del nostro apostrofo ‘ e doveva essere raddoppiata con una
vocale non scritta, suggerita unicamente dalla consuetudine. Presso gli Ittiti, la testa di bue si
pronunciava MU, forse per analogia onomatopeica con il muggito dell’animale. Dioniso era
chiamato il dio “dal piede di toro”, per indicare che zoppicava, procedendo soltanto sulla punta del
piede». 6
La parola ‘accadere’, deriva da ‘cadere’ e dunque da ‘caso’, designando l’imprevedibilità, e
l’indipendenza dall’azione umana, in quanto proprio di ciò che ‘cade’ dall’alto. 7
I. Kott, Mangiare dio, a c. di E. Capriolo, SE, Milano 1990. svela dopo l’azione, ma contemporaneamente la precede, è atemporale, analogico:
fine e inizio coincidono. Come l’aleph, appunto.
Partendo da lontano, come Dürrenmatt fa notare8, il mito si manifesta in modo
del tutto imprevisto, scatenando il tragico, di cui la rappresentazione costituisce
semplicemente il fotofinish di un’azione, iniziata appunto con un crimine.
Tuttavia, anche l’azione tragica ha bisogno di un inizio, poiché la sua
rappresentazione scenica è, in realtà, la sua fine. L’inizio della fine si situa al di
fuori di essa ed è fondamentale per la sua realizzazione. È dunque necessario
procedere a ritroso, cercare altri miti, altri contrasti fra l’alto e il basso, altri
crimini, le cui espiazioni si protraggono nel presente, secondo un andamento
circolare, a spirale, labirintico appunto.
Per favorire questo processo à rebours, che ha spesso il fondamento presente
della colpa di un figlio nell’azione pregressa del padre, è indispensabile consultare
le genealogie dei personaggi, poiché
[l]a colpa è come un masso che sbarra la strada; è palpabile, incombente. Forse il colpevole la
subisce non meno della vittima. Dinanzi alla colpa vale solo il calcolo spietato delle forze. Dinanzi
al colpevole c’è sempre un ultima vaghezza. Non si riesce mai ad accertare sino a che punto sia
davvero tale, perché il colpevole fa corpo con la colpa e ne seguirà la meccanica. Forse
schiacciato, forse abbandonato, forse liberato. Mentre la colpa rotola avanti su altri, a formare altre
storie, altre vittime9.
Il mito assorbe, include, cita, contagia, riflette e proietta altri miti. Nello
specifico, il mito del Minotauro, incrocia quello di Dedalo e Icaro, Europa e
Cadmo, Minosse e i suoi fratelli, riprendendo le imprese di cui sarà capace
Teseo10.
Se dunque l’antecedente è un fatto essenziale allo svolgimento del mito,
bisogna cercare la colpa, scorrendo le discendenze familiari, fino al crimine
originario, e la traccia lasciata dai simboli, con attenzione.
8
«Perché è la tragedia greca la premessa dell’unità di luogo, tempo e azione. Non è l’unità
aristotelica a rendere possibile la tragedia greca, ma è la tragedia greca a rendere possibile l’unità
aristotelica. Per quanto astratta possa sembrare una norma estetica, essa contiene pur sempre
l’opera d’arte che l’ha generata […]. Per antefatto intendo la vicenda che precede l’azione scenica,
e che ne costituisce la base indispensabile […]. Inoltre l’azione scenica è di solito di durata ridotta
rispetto alla vicenda che rappresenta; spesso inizia nel mezzo degli avvenimenti o addirittura verso
la fine: perché Sofocle possa dare inizio alla sua tragedia, Edipo deve aver già ucciso il padre e
sposato la madre, vicende che richiedono un tempo considerevole. Più l’azione scenica è fedele al
principio aristotelico dell’unità, e più condensa la sua trama: perciò, se si osserva l’unità di
Aristotele, l’antefatto acquisto un peso determinante», F. Dürrenmatt, Lo scrittore nel tempo.
Scritti su letteratura, teatro e cinema, trad. it. di B. Baumbusch e G. Ciabatti, Einaudi, Torino
1982, pp. 22-23. 9
R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, Milano 1998, p. 115. 10
A loro volta, questi miti si collegano e rimandano ad altri. Per un approfondimento di questi
temi e delle loro relazioni, si rimanda il lettore a R. Graves, I miti greci, trad. it. di E. Morpurgo,
Longanesi, Milano 2005. Il primo, necessario accorgimento, è proprio non farsi fuorviare dal simbolo
stesso. Qui infatti il labirinto non lo è. Piuttosto, come sottolinea Dürrenmatt, esso
è una metafora, rinvia ad altro11. Per quanto, secondo la formula di Ricœur12, il
simbolo dia a pensare, resta un’elaborazione umana atta ad «afferrare ciò che
altrimenti non sarebbe rappresentabile e poter quindi sviluppare una riflessione
costruttiva»13. La parola ‘simbolo’ etimologicamente ‘tiene insieme’ (dal gr. sýn
“insieme” e bállō “gettare”) l’evento, l’epifania e il racconto del divino con la
conseguente elaborazione umana, quell’“afferrare” con mano «ciò che ha visto»14,
ovvero la violazione della distanza necessaria tra il sopra e il sotto, che è alla base
della frattura occorsa. Responsabile unico di questa effrazione è l’uomo, la cui
hybris impedisce il riconoscimento dei propri limiti e ne presume
l’autoproclamazione a dio.
Asterione, questo il nome del Minotauro, fu generato dall’unione di Pasifae,
moglie di Minosse, con un toro, inviato da Poseidone. Minosse15 era invece figlio
di Europa (figlia di Agenore, a sua volta figlio di Poseidone) e Zeus, trasformatosi
per l’occasione in un toro bianco16.
Tutti i personaggi citati hanno in qualche modo a che fare con un toro: che sia
un’apparizione, un travestimento o un mancato sacrificio. Ora, visto l’invito
semantico, che la parola stessa (toro, aleph) fornisce, a tornare all’origine, la
domanda da porre è: esiste un altro mito che parla di un travestimento, un toro e
un mancato sacrificio, che si situa all’inizio dei tempi?
Il mito è quello di Prometeo, il quale ingannando per due volte Zeus (una in
occasione del sacrificio, l’altra nel furto del fuoco) e favorendo gli uomini17,
segnerà il peccato originale e la frattura indissolubile, che scinderà per sempre i
due piani, quello divino da quello umano. La cosa interessante da notare è proprio
il furto della téchne, ovvero della tecnica, quel fuoco sacro che successivamente,
guidato dalla ragione, di cui Prometeo è primo tedoforo, sarà la scienza.
11
F. Durrennmatt, Oltre i limiti. Colloqui con il grande narratore svizzero, trad. it. M. Zapparoli,
Giampiero Casagrande editore, Lugano 1991, p. 100. In questo libro è possibile leggere le
osservazioni sul Minotauro dell’autore stesso. 12
P. Ricœur, Il simbolo dà a pensare, a c. di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 2002. 13
H. Biedermann, Enciclopedia dei simboli, a c. di L. Felici, Garzanti, Milano 2009, p. IX. Il
corsivo è mio e vuole sottolineare l’importanza della riflessione sia come azione necessaria di
fronte al simbolo, sia la valenza della sua etimologia (dal lat. re-flectère “ripiegare, tornare
indietro”), che deve essere presente ogni qual volta si incontri questo vocabolo nel presente testo. 14
Ibid. 15
«Nella storia della famiglia di Minosse ritornano le nozze con un toro. Minosse aveva come
sposa Pasifae […]. Si racconta che Pasifae si fosse innamorata di un toro meravigliosamente bello
e luminoso che gli dèi – Zeus o Poseidone – avevano mandato a Creta. Il toro veniva certamente
dal mare e perciò si chiava Poseidon. Naturalmente si affermava che anche questo toro fosse stato
Zeus. Per gli antichi Cretesi, il toro era certamente una forma d’apparizione del loro dio supremo»,
K. Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia. Il racconto del mito, la nascita della civiltà, trad. it. di
V. Tedeschi, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 100. 16
Per un maggiore approfondimento dei miti citati si rimanda sempre a R. Graves, Op. cit. 17
In realtà, gli inganni sarebbero tre, calcolando quello che coinvolge Era, di cui Omero parla
nell’Iliade, libro XIV. Quest’ultima, a sua volta, essendo stata accettata dall’uomo – che diventa perciò
un accessorio del crimine – sarà causa di un doppio affronto, una duplice colpa:
l’emancipazione dagli dèi e il passaggio da creatura a creatore (della
tecnica/tecnologia).
Queste brevi, necessarie premesse sono la scenografia ideale per capire la
tragedia messa in scena da Dürrenmatt nel suo Minotauro, nonché il lapidario
commento borgesiano, in cui lo specchio, le pareti di vetro, di cui il labirinto è
composto, costituiscono l’elemento essenziale della presente riflessione.
Asterione è una creatura, la cui violenza riflette la forza primordiale del toro.
Egli è incolpevole del male che compie. O meglio, i suoi crimini, l’uccisione di
giovani fanciulle, sono piuttosto colposi, secondo una distinzione col dolo, che i
greci conoscevano bene18. Il Minotauro è una creatura per metà uomo e per metà
animale, dunque rappresenta l’uomo primordiale, l’uomo inconsapevole e
selvaggio, ma anche più vicino agli dèi, il cui atteggiamento davanti al diverso,
all’altro, allo sconosciuto era quello di compartecipazione attraverso i riti, le
danze, il gioco e le lotte, fino ad arrivare all’elaborazione e all’accettazione del
sacro, in quanto diverso19.
Dürrenmatt presenta il suo Asterione così. Di fronte allo specchio è come un
bambino (altra metafora per ‘giovane’ uomo) che vuole giocare, danzare, mettersi
in relazione. Davanti alla fanciulla, esita, resta stupito, non è in grado di
razionalizzare. Il suo gioco si trasforma, contro la sua volontà, in un brutale e
spietato omicidio, di cui non ha coscienza:
[d]ormì e sognò la fanciulla dai capelli neri e dai grandi occhi, l’inseguì, giocò con lei, l’attirò
a sé, l’amo, e quando aprì gli occhi c’era qualcosa sul suo petto, artigliato nel suo ciuffo incrostato.
Gli sfiorava il naso con le ali e tuffava da qualche parte accanto a lui il nudo collo biancogiallastro
con la piccola testa, gli occhi rossi e il poderoso becco stranamente ricurvo. Sulle pareti s’era
posato un fitto groviglio di penne, colli, occhi, becchi, e tracciava cerchi su di lui, oscurando il
chiarore dell’alba piombava giù, si tuffava, strappava, beccava, scarnificava, scavava, divorava,
strideva, volava via, tornava in volo, piombava di nuovo giù, si rispecchiava nel cadere e nel
risalire, senza che lui capisse perché piombava giù, si tuffava, strappava, risaliva, girava, tanto era
avvolto dallo sfarfallare e dallo sbattere delle ali, e quando, a giri sempre più alti, si dissolse nel
nulla luminosissimo del cielo ora sfavillante, il sole irruppe attraverso le pareti di vetro e gli
stampò nel cervello la sua immagine, disco possente e rotante che infliggeva raffiche di fuoco nel
cielo in segno d’ira per il misfatto di sua figlia Pasifae che aveva partorito una creatura ̶ ingiuria
agli dei e maledizione all’uomo ̶ condannata a non essere dio, né uomo, né animale, bensì solo
minotauro, colpevole e incolpevole insieme20.
Il sogno evoca Prometeo, in particolare la sua punizione, che lo vede incatenato
al Caucaso con l’aquila a beccargli il fegato; neanche il tempo di chiarire che il
tutto è effetto del crimine (l’immagine della ruota rimanda all’idea di ciclicità) di
18
Vernant e Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, Torino, Einaudi 1976, p. 36. J. Huizinga, Homo ludens, trad. it. C. van Schendel, Einaudi, Torino 1973. 20
F. Dürrenmatt, Minotauro. Una ballata, in Racconti, trad. it. U. Gandini, Feltrinelli, Milano
1996, pp. 361-362 19
Pasifae (a sua volta dovuto a Minosse), ricaduto (accaduto) su di lui, che entra in
scena Teseo:
[d]avanti a lui stava un essere che assomigliava alla fanciulla e non era la fanciulla; reggeva
uno stracciato mantello nella sinistra e nella destra una spada, e il minotauro non sapeva cosa
fossero mantello o spada, sapeva solo […] che i minotauri e le fanciulle lo avevano abbandonato e
anche la fanciulla che aveva preso doveva essersi di nuovo mossa e dileguata, poiché non era più
lì21.
Il travestimento di Teseo ne fa una copia, non esatta, ma verosimile del
Minotauro. I due si trovano di fronte a specchio e dunque si riflettono in un
immagine rovesciata. Dürrenmatt coglie l’occasione di mettere in scena le due
diverse interpretazioni che lo stupore, l’origine della filosofia, rende possibile: la
meraviglia e la paura22. Il Minotauro è spaesato, non crede ai suoi occhi. Questa
volta decide di comportarsi diversamente: «[…] danzava la gioia di non essere più
solo, danzava la speranza d’incontrare altri minotauri, le fanciulle e gli esseri
uguali a quello con cui ora danzava»23.
Teseo è l’uomo prometeico, colui che ha imparato a pre-vedere, progettare,
tendere trappole con dolo, pre-meditare. Egli non ha soltanto un piano per uscire
dal labirinto, grazie al filo «rosso» di Arianna24, ma ha anche escogitato uno
stratagemma per ingannare e uccidere il mostro. La vergogna25, nello scorgere
«l’innocente candore» del minotauro26, non gli impedisce di utilizzare l’arma
«celata sotto al mantello»27, che in quanto protesi, figlia della tecnica, rappresenta
l’afferrare criminoso del potere, la cui responsabilità non è più attribuibile alla sua
mano28.
Ma chi uccide veramente Teseo?
Lo specchio riflette. Il Minotauro è Teseo e Teseo è il Minotauro. Il vero
mostro è la vittima, il mostro travestito è il carnefice. Il chiasmo si genera, non
soltanto perché l’immagine riflessa è notoriamente un rovescio, ma anche perché
lo specchio riflette il soggetto e ciò che egli ha alle sue spalle. Entrambi hanno
davanti e dietro un labirinto (di vetro, dunque fatto di altri specchi). L’uomo
nuovo, prometeico uccide l’uomo vecchio, selvaggio, declamando la propria
21
Ibid. Come nota Emanuele Severino la parola thaûma, che per Platone (Teeteto, 155d) e Aristotele
(Metafisica, I, 2, 982b, 12) costituisce il fondamento della filosofia, è mal tradotta e mal
interpretata dalla tradizione. Essa infatti rimanda sì all’idea di stupore e meraviglia, ma anche,
proprio per questo, a quello di paura, trauma, spavento. 23
F. Dürrenmatt, Minotauro. Una ballata, in Racconti, cit., p. 363. 24
Ivi, p. 367. Da sottolineare, il colore che richiama il sangue, dunque il crimine. 25
Sulla vergogna prometeica, G. Anders, L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima
nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, trad. it. L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri,
Torino 2007, vol. I. 26
Ibid.
27
Ibid. 28
Sul rapporto protesi, tecnica e responsabilità, U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età
della tecnica, Feltrinelli, Milano 2002. 22
superiorità, attraverso il filo della ragione, che nel guadagnare l’uscita, si noti
bene la nuova metafora, dovrà riavvolgere fino alla matassa. Questa, prima di
entrare nel labirinto, era alle sue spalle mentre, una volta uscito gli è davanti. Il
labirinto è la matassa che l’uomo avvolge, svolge e riavvolge, sempre in linea
retta.
Lo stupore, se vogliamo il pensiero, che si protrae in avanti ma è fatalmente
costretto alla riflessione, rimanda al punto di partenza. Per il Minotauro il labirinto
è casa e lui ne è signore indiscusso. Ciò che dentro vi avviene, per quanto
spregevole, è un accadimento che va oltre la sua capacità di intendere. Il
Minotauro riconosce l’altro, mentre Teseo, seppur ospite, profana, viola e domina,
seguendo i suoi piani di conquista, senza tener conto delle conseguenze e anzi a
dispetto di precetti e leggi sacre.
Compiuta la missione, Teseo partirà per altre avventure. Andrà letteralmente
avanti, senza più voltarsi, senza più pensare o sognare il Minotauro (come invece
lui fece con le fanciulle morte): non era e non sarà in grado di riconoscere e
accettare l’altro, neanche quando le sue sembianze rimandano palesemente al
divino29.
Tra le molteplici metafore che lo specchio-labirinto assume vi è dunque quella
della vista, del riconoscimento e della prospettiva. Credendo di liberarsi, Teseo,
l’intruso (nel labirinto, come nel mondo e nella natura) chiude qualunque
possibilità di riconciliarsi con l’Altro. Per Teseo il labirinto è una conquista, il
superamento della fede e dell’assoggettamento al divino, ma come allo specchio,
nel suo passato, così come nel suo presente, vi è ancora e sempre un nuovo
labirinto.
Se è dunque vera l’affermazione di Lévinas, a proposito del rapporto con
l’altro, «l’etica, già di per se stessa, è un’“ottica”»30, bisogna ammettere una volta
per tutte che dalla prospettiva umana, prometeica non vi è più necessità di
riflettere, bensì proiettare verso l’alto una nuova immagine di potere, controllo e
indipendenza. L’uomo confonde la potenza del divino, le leggi che generano e
regolano la creazione, con il potere, ovvero la forma più degradante e bassa della
potenza stessa. Al contrario, gli dèi, consapevoli della fragilità umana, non hanno
bisogno di mostrare la loro forza. Da qui nasce il fraintendimento che porta a
razionalizzare la legge divina, trasformandola in semplice giurisprudenza31,
regole, assunti e principî che saranno costretti al paradossale, infausto compito di
inseguire e porre un freno alla follia umana, costantemente protesa a superare i
propri limiti.
In questo senso, la linea retta di cui parla Borges è sia il progresso sia la
necessità di andare avanti, seguire il filo, dando sempre le spalle al passato. La
29
Per quanto riguarda travestimento, mascheramento e riconoscimento, cito, su tutti, l’incontroscontro tra Dioniso e Penteo nelle Baccanti di Euripide. 30
E. Lévinas, Totalità e infinito, trad. it. A. Dall’Asta, Jaka Book, Milano 1980, p. 27. 31
Il contrasto fra Gerichtigkeit e Justiz (la differenza è appunto nella sfumatura prettamente
terrena della seconda) è fra i più evidenti dell’opera di Dürrenmatt. Emblematica è l’opera
Giustizia, trad. it. G. Agabio, Garzanti, Milano 1986. concezione progressiva della storia, delle scienze e della giurisprudenza stessa, ne
sono il chiaro esempio: nate dalla necessità di comprendere e spiegare l’universo,
si trasformano col tempo nella possibilità di trasformare e assoggettare lo stesso.
Il mondo è un libro, che l’uomo impara a leggere e a riscrivere32: al libro di Dio,
si sostituisce l’enciclopedia. Il sapere enciclopedico però, ha per Borges l’evidente
limite di essere contraddittorio, approssimativo, in costante bisogno di
aggiornamento, allo stesso tempo incompleto e infinito33.
La filosofia, in quanto specchio posto a mediare tra scienza e religione34, ha
ancora la capacità di intuire la finzione della realtà, la sua costruzione su misura a
immagine e somiglianza dell’uomo. E proprio in Finzioni, Borges cita, tra gli altri,
alcuni filosofi che tentarono di uscire dal rettilineo labirinto greco: Leibniz,
Spinoza, Vaihinger e Schopenhauer (in ordine di citazione35). Il primo, come
chiosa Deleuze, attraverso la rotondità, il piegamento e lo spiegamento delle
monadi, espresso dalla piega36; il secondo individua Dio come causa e principio
della realtà (res extensa) e del pensiero (res cogitans); il terzo svela l’artificialità
del mondo, scientifico ed enciclopedico, costruito come se fosse vero37; il quarto
dimostra quanto lo stesso sia espressione di volontà e rappresentazione, non
realtà.
Questo mondo, allora, in quanto proiezione, riflesso e miraggio, è
necessariamente divenuto un orbis tertius rispetto a quello di Dio e dell’uomo.
Thlön è un’utopia, un luogo-non-luogo, assemblato matematicamente, unendo
tante e diverse eterotopie.
In altre parole, ciò che l’uomo proietta, attraverso lo specchio deformante,
anamorfico della città, la sua creazione principale, non è altro che l’illusione di
essere in controllo. La città, che per Dürrenmatt è l’inferno, di cui l’uomo non può
liberarsi38, è l’ennesima spirale labirintica: il migliore dei mondi possibili, senza
finestre sull’altro39.
«Lo crederesti, Arianna? […] Il Minotauro non s’è quasi difeso».
Pensando il contrario, Teseo libera il Minotauro dall’umanità.
Il mostro è l’intruso.
32
Su questo concetto, che diventerà fondamentale soprattutto dal passaggio della concezione greca
del divino pagano a quella cristiana, H. Blumenberg, La leggibilità del mondo. Il libro come
metafora della natura, trad. it. B. Argenton, Il Mulino, Bologna 1984. 33
Anche Borges, come Dürrenmatt, non manca di sottolineare la paradossalità della condizione
umana, la quale più fugge tutto ciò che non è a sua misura, più ne è travalicata. 34
È importante sottolineare che fin dai greci, strumenti principali delle speculazioni filosofiche
sono state la geometria e l’ottica. 35
Rispettivamente p. 628, p. 631, p. 631, p. 634, J. Borges, Op. cit. 36
G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, a c. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004 37
H. Vaihinger, La filosofia del “come se”. Sistema delle finzioni scientifiche, etico-pratiche e
religiose del genere umano, tra. it. F. Voltaggio, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma 1967. 38
Tutta l’opera di Dürrenmatt è in realtà una dimostrazione dell’inefficacia della razionalità
umana. Nello specifico mi riferisco però a La visita della vecchia signora e al racconto La città. 39
I due concetti sono entrambi d’ispirazione leibniziana. 
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