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STORIA DELLA
FILOSOFIA
Metodo e
strumenti
1. Significato e problemi
La filosofia è una materia difficile?
Come studiare un autore?
Come si legge un’opera filosofica?
Come leggere un’opera: alcuni esempi
Esempio A Platone: Apologia di Socrate
Esempio B Cartesio: Discorso sul metodo
Esempio C John Stuart Mill: On liberty
Come si legge un brano?
2. “Vedere” e visualizzare la filosofia
Che cos’è una mappa concettuale
Visualizzazioni grafiche
Come costruire mappe, schemi e altre visualizzazioni
Arte e filosofia
Jacques Lipchitz,
La danzatrice, 1913-1914.
Parigi, Museo di Arte Moderna.
© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS
1. SIGNIFICATO E PROBLEMI
La filosofia è una materia difficile?
Come materia di studio la filosofia può presentare alcune difficoltà, dovute principalmente all’elevato livello di astrazione dei concetti e dei ragionamenti che le sono propri e al carattere tecnico del suo apparato terminologico.
Benché la filosofia tratti anche problemi presenti all’attenzione e alla riflessione comuni,
essa opera con strumenti logici e concettuali particolarmente sofisticati, molto lontani da
quelli abitualmente impiegati per elaborare ed esprimere le nostre concezioni e valutazioni
(quella che potremmo chiamare la nostra filosofia spontanea o implicita).
A queste difficoltà di ordine tecnico va aggiunto un ulteriore aspetto della filosofia, che
può inizialmente disorientare chi si accosta ad essa, ma che, al tempo stesso, ne costituisce
il fascino: la filosofia tende a rappresentarci un “mondo capovolto”. Il discorso filosofico, infatti, spesso capovolge e contraddice la visione immediata delle cose, rovescia atteggiamenti consolidati, mette in discussione quello che appare scontato al senso comune. Così, la filosofia pone problemi dove problemi non sembrano esserci e mette in crisi certezze e verità.
Consideriamo, ad esempio, la filosofia di Parmenide. Collocandosi dal punto di vista della pura ragione, opposto a quello della sensibilità e dell’opinione, essa afferma che solo l’essere è, mentre il non-essere non è ed è impossibile che sia; in tale prospettiva, insieme al nonessere sono messe in discussione le idee di molteplicità e mutamento che sono alla base sia
del senso comune sia delle teorie sostenute dai filosofi della natura.
In questo senso la filosofia richiede una preliminare disponibilità ad analizzare criticamente la propria “visione del mondo”, le proprie verità, le proprie certezze, per cimentarsi in un
rinnovato sforzo di analisi e di comprensione.
Non va dimenticato, infine, che la filosofia, come e più di altri linguaggi “alti” entrati a far
parte dell’istruzione scolastica, fino a poco tempo fa apparteneva a una cultura per pochi, patrimonio di una ristretta élite.
Come studiare un autore?
Vorremmo ora avanzare qualche suggerimento per lo studio della disciplina. Con questo,
ovviamente, non intendiamo affatto sovrapporci ai criteri didattici che l’insegnante pone a
fondamento della sua proposta agli studenti. Riteniamo utile, piuttosto, fornire alcune indicazioni generali di metodo.
a. Il contesto storico-culturale
Innanzitutto è fondamentale collocare ogni autore nella sua epoca, per comprenderne il
grado di partecipazione alle vicende e ai problemi del tempo, la specifica posizione rispetto
al dibattito culturale e filosofico a lui contemporaneo.
L’autore fa suoi i problemi e le concezioni della filosofia del suo tempo? Come li ripensa
o li riformula? Se ne allontana, li critica, li rifiuta? Perché?
Solo in questo modo la storia della filosofia non si riduce a una frettolosa “carrellata” di filosofi, o ad una “staffetta” nella quale determinate idee siano consegnate da un filosofo all’altro.
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b. L’interpretazione
Il pensiero di un autore può essere soggetto, in epoche diverse o anche tra filosofi e studiosi di una medesima epoca, a “letture” e interpretazioni diverse.
Ma qual è il pensiero autentico di un autore? È possibile determinarlo in modo univoco?
Qui si pone la questione fondamentale dell’interpretazione, le cui implicazioni culturali sono tanto rilevanti da aver determinato la nascita, nel secolo scorso, di un vero e proprio indirizzo filosofico: l’Ermeneutica (o teoria dell’interpretazione).
Con riferimento alla storia della filosofia si è osservato, ad esempio, che ogni epoca ha il
“suo” Socrate (o i suoi “Socrati”). Ma lo stesso si potrebbe dire per Platone, per Aristotele e
per ogni grande filosofo.
Accostandosi ad un autore è comunque necessario optare per un’interpretazione, assunta
come “centrale”, a cui far capo in prima istanza. Intorno ad essa, tuttavia, si dovrebbe poi costruire una “rete” di “letture” diverse. Naturalmente in un manuale scolastico ciò è possibile
solo per accenni o attraverso una rassegna sia pur minima e incompleta di “analisi e interpretazioni”, che consenta di suggerire punti di vista e angolazioni diverse intorno a un dato tema o autore. In questa scelta è implicito un invito ad applicare, soprattutto nel corso di lavori di approfondimento, un approccio simile: fare riferimento a diverse interpretazioni e, poi,
provare a indirizzarsi, in maniera motivata, verso una di queste.
c. Le questioni e le idee-chiave
Per ogni filosofo è possibile cogliere alcune questioni e idee-chiave attorno alle quali ruota tutto il suo pensiero; talvolta può essere una sola. Individuarle significa dotarsi di una bussola sicura per viaggiare attraverso gli autori e le loro opere.
Di ogni autore ci si deve chiedere:
Qual è stato il tema centrale della sua filosofia? Qual è stata la verità o quale il messaggio che ci ha voluto comunicare? Perché per lui un dato problema o una data idea hanno assunto un ruolo dominante?
d. I concetti filosofici
I concetti filosofici richiamano talvolta nozioni analoghe comunemente possedute e impiegate nel linguaggio quotidiano. Quei concetti, però, sono dotati di un significato preciso, che
va adeguatamente conosciuto se non si vuole cadere in grossolani errori e fraintendimenti. Si
tratta, quindi, di percorrere un itinerario che, muovendo dal senso comune, porti alla costruzione del concetto filosofico, quasi si trattasse di apprendere un nuovo linguaggio. Lo stesso
concetto, poi, in autori e contesti filosofici diversi può assumere una pluralità di significati e
valenze, che di volta in volta sarà necessario precisare e porre in luce.
e. Ricostruire argomentazioni
Un tratto fondamentale della filosofia, comune ad ogni sapere razionale, è che ogni affermazione deve essere giustificata, cioè sostenuta da ragioni valide. La lettura di un testo filosofico ci porrà sempre di fronte a delle argomentazioni. Seguirle nel loro svolgimento, analizzarne i nessi e valutarne il diverso grado di rigore, costituisce uno dei compiti più impegnativi dell’attività di studio, da affrontare con la necessaria gradualità.
Come si legge un’opera filosofica?
Nel corso degli studi di filosofia si presenterà certamente l’occasione di leggere una o più
opere integrali di autori diversi, mentre rientra nella pratica didattica quotidiana la lettura di
brani antologici.
In entrambi i casi, è quindi importante offrire alcune indicazioni di lavoro in rapporto alla
lettura del testo filosofico.
Innanzitutto, per ogni testo ci si dovrà domandare:
• Di che tipo di testo si tratta? È un dialogo? un racconto? un saggio? Perché è stata scelta dall’autore proprio questa forma testuale?
• A chi si rivolge il testo? Chi è, per così dire, il suo lettore ideale, quali caratteristiche gli
sono attribuite?
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• Qual è l’intento che muove l’autore in rapporto al suo lettore ideale: criticare, persuadere, sollecitare, spingere alla ricerca?
• Quale autore si profila dall’analisi del testo, ovvero quali caratteristiche evidenzia, quale atteggiamento, quale punto di vista?
Quanto al contenuto del testo, si porrà una prima domanda apparentemente semplice:
• Di che cosa tratta l’opera?
• Quale argomento, problema o tesi ne costituisce il centro?
È evidente, inoltre, che al lettore si chiede non solo di compiere un lavoro lineare di analisi del testo nel suo sviluppo, ma anche di tenere sempre aperta la domanda sul senso complessivo dell’opera, su ciò che essa vuole dire.
A tal fine sono determinanti:
• la ricerca di idee-chiave e l’analisi dei concetti fondamentali;
• l’individuazione dei nessi tra i concetti o tra le diverse parti dell’argomentazione;
• il riconoscimento del tipo di argomentazione.
Per arrivare gradualmente a definire ciò che l’autore intende esprimere, si potrà anche fare riferimento alle tecniche impiegate per le schematizzazioni e il riassunto.
Un lavoro specifico riguarderà la terminologia, l’individuazione del significato specifico –
per quell’autore e in quel contesto – di alcuni termini filosofici adottati.
Come leggere un’opera: alcuni esempi
Proponiamo, a titolo esemplificativo, uno schema delle fasi e delle operazioni in cui si potrebbe articolare la lettura di un’opera filosofica, scelta tra quelle più facilmente accessibili
nel corso del triennio di studi.
Esempio A
PlAtonE: Apologia
di Socrate
La contestualizzazione dell’opera
Le fonti da cui ricavare questo genere di informazioni possono essere molteplici, dal manuale all’introduzione preposta, in genere, alle edizioni scolastiche dell’opera. Volendo andare oltre, si può utilizzare qualche “Storia della filosofia antica”, strumento sempre importante di consultazione.
Ci domanderemo a quale periodo della vita e dell’attività filosofica di Platone possa risalire questo testo. Sappiamo che Platone lo scrisse dopo la morte di Socrate, probabilmente dopo che lo stesso Platone era tornato in Atene. Passato il timore che, oltre al maestro, si volessero colpire anche i suoi discepoli, egli scrisse questa “Apologia”, questa difesa di Socrate.
Dagli studiosi questo testo viene considerato tra i primi della produzione scritta di Platone,
forse il secondo, dopo la composizione dell’Eutifrone. Appartiene dunque a pieno titolo ai
“dialoghi socratici”, alle opere giovanili nelle quali è più forte la risonanza e la forza dell’insegnamento socratico.
L’ambientazione storica
Dopo la caduta dei Trenta Tiranni e il ritorno della democrazia in Atene, viene intentato un
processo a Socrate, accusato di essere uno – o il principale – dei cattivi maestri che erano responsabili delle sciagure di Atene, dalla sconfitta nella guerra del Peloponneso fino, appunto, alla tirannide dei Trenta.
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Titolo
Apologia di Socrate. “Apologia” sta a significare “discorso in difesa”, “scritto a difesa”.
Difendere Socrate: da quali accuse? Quelle che lo avevano portato in giudizio? Ma Socrate
non era già morto, a seguito della condanna che gli era stata inflitta? Che senso ha, allora,
una difesa di Socrate post mortem?
Prefazione e indice
Non ci sono nell’opera originale né l’uno né l’altra, ma si possono trovare “Sommari” del
testo come quello che qui parzialmente riportiamo.
Primo discorso di Socrate: egli è rimasto sgomentato dall’abilità oratoria dei suoi accusatori; essi, però, non hanno detto nulla di vero, mentre Socrate dirà tutta la verità,
anche se in quella maniera in cui è solito esprimersi nelle sue abituali conversazioni.
È necessario perciò che i giudici badino solo alla verità di quel che viene detto (17a18a). Distinzione tra accusatori recenti e accusatori più antichi: questi ultimi sono più
pericolosi dei primi, perché hanno avuto molto tempo per spargere le loro calunnie
senza che ci fosse nessuno a contraddirli e perché non è possibile trascinarli in tribunale (II 18a-19a). Qual è l’accusa più antica: Socrate investiga le cose che sono sotto
terra e quelle che sono in cielo, tenta di far apparire migliore la ragione peggiore e insegna tutto questo agli altri; l’eco di queste accuse si trova anche in Aristofane. Ma Socrate non sa nulla della scienza della natura (III 19a-d). Socrate non insegna queste cose, e tanto meno si fa pagare. Elogio ironico dei sofisti, maestri di virtù ed educatori
(IV 19d-20c). Ma come sono nate queste calunnie? La sapienza umana di Socrate ed
il responso dell’oracolo di Delfi: “nessuno è più sapiente di Socrate” (V 20c-21a). Socrate vuole provare il senso di questo responso: egli sa che il dio non può mentire, ma
sa anche di non sapere. È per questo che Socrate interroga quelli che hanno fama di
sapienti, e per primi i politici: ed il risultato è che questi credono di sapere, ma non
sanno, e forse per questo sono meno sapienti di Socrate, che non sa, ma neppure crede di sapere, cioè sa di non sapere (VI 21b-c). Eguale conclusione dei colloqui con i
poeti (VII 21e-22c). Eguale conclusione dei colloqui con gli artigiani (VIII 22c-e). È da
questa ricerca ed investigazione che sono nati gli odi e le calunnie; interpretazione
dell’oracolo: massima sapienza per l’uomo è sapere che non sa (IX 22c-23c).
lEttURA RAPIDA
Questo tipo di lettura può offrirci una serie importante di informazioni relative alla struttura narrativa, al tema e alle parole-chiave.
Struttura narrativa
L’opera è scandita dai tre discorsi pronunciati da Socrate a sua difesa dinanzi ai giudici. Il
testo, quindi, ha l’andamento di un’arringa difensiva: nel nostro caso è lo stesso imputato a
difendere se stesso, come pare abbia fatto Socrate durante il processo del 399 a.C.
Tema dell’opera
Al centro è la figura di Socrate, uomo e pensatore.
Chi è Socrate, questo ateniese accusato di colpe gravi nei confronti della città e dei suoi
concittadini? È responsabile di ciò che gli viene imputato? Quale immagine hanno dato di lui
gli accusatori e quale immagine egli ha fornito di sé?
Parole-chiave
Innanzitutto sapienza. Di lì sono nati l’odio e l’avversione verso Socrate, contro la sua “sapienza”. “Sapienza” ha due accezioni, a seconda che si parli della “sapienza” di coloro che
si considerano sapienti o di quella di Socrate, il quale dice che la sua sapienza è un “sapere
di non sapere”.
L’altra parola-chiave potrebbe essere la missione di Socrate. In che cosa consisteva? Chi
gliela aveva assegnata?
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La terza parola-chiave è vivere, anzi vivere bene, vivere rettamente.
La quarta e ultima parola-chiave è morte, quella che ora aspetta Socrate, ma che aspetta
anche ogni uomo. Che cosa è la morte? È il peggiore dei mali oppure no?
Possono però essere scelte anche altre parole-chiave, ad esempio accuse e difesa, le accuse rivolte a Socrate e le argomentazioni con le quali Socrate si difende. Oppure potrebbe essere scelto anche un taglio di lettura particolare come: Socrate e Atene.
lEttURA AnAlItICA
Se la prima lettura ci ha fornito una iniziale visione di situazioni e temi, una “lettura lenta” consentirà di approfondire e mettere alla prova le parole-chiave prescelte e di riconsiderare l’“immagine” di Socrate che abbiamo percepito.
La “lettura lenta” è analitica: consisterà in un leggere e rileggere formulando ipotesi di interpretazione. Al centro della nostra analisi sarà la domanda già avanzata nel corso della lettura rapida: qual è il tema, l’argomento di cui tratta l’opera e che cosa viene detto di questo
tema o di questo argomento?
Si procede, in questo caso, gradualmente, identificando volta per volta i passaggi del testo,
gli snodi del discorso e delle argomentazioni.
In questa sede si possono fare solo degli esempi.
Ora qualcuno potrebbe intervenire: “Ma insomma, Socrate, qual è l’attività che svolgi tu? Da dove ti sono venute queste calunnie? Perché, sicuramente, se tu non avessi
fatto nulla fuor dall’ordinario rispetto agli altri non ti sarebbe venuta questa fama con
queste dicerie, se tu non avessi compiuto nulla di diverso da tutti gli altri. Rivela dunque a noi che cos’è mai questo, perché noi non vogliamo prendere in esame il tuo caso, così, senza ponderazione.” Se qualcuno parla in questo modo a me pare che dica
bene e io tenterò di dimostrarvi che cos’è quel che mi ha procurato questa nomea e
queste voci calunniose. Ascoltatemi dunque. E forse a qualcuno di voi sembra che io
scherzi; ma voi sapete bene che io dirò tutta la verità. Io dunque, cittadini Ateniesi, mi
sono procurato questo nome per una certa sapienza. E qual è poi questa sapienza?
Quella che viene considerata sapienza umana: e in realtà io rischio di essere saggio in
questa sapienza. Quelli invece, di cui parlavo poco fa, potrebbero essere saggi in una
sapienza che è più grande rispetto a quella umana, oppure io non so che cosa dire.
Io, in realtà, questo tipo di sapienza non la conosco e se qualcuno invece lo afferma,
mente e parla per spargere calunnie sul mio conto. E ora, cittadini ateniesi, non fate
trambusto, neppure se sembrerà che io dica qualcosa di troppo grande, perché non è
la mia parola che io dico, ma io riferirò che chi parla per voi è ben degno di considerazione. Della mia sapienza, se pure essa è sapienza e quale, io chiamerò testimone
davanti a voi il dio di Delfi. Voi avete certamente conosciuto Cherefonte. Egli fu un
mio compagno fin da ragazzo ed è pure amico alla vostra parte popolare e, insieme a
voi, prese parte a questo esilio, e con voi fece ritorno. E voi sapete anche che uomo
era Cherefonte e come era ben determinato verso quello che si volgeva a fare. Ed ecco una volta che egli recatosi a Delfi osò fare all’oracolo questa domanda, e, come vi
chiedo, non rumoreggiate cittadini, faceva appunto domanda se vi era qualcuno più
sapiente di me. E la Pizia rispose che non v’era nessuno che fosse più saggio. E di queste cose suo fratello che è qui presente potrà farvi da testimone, perché lui è morto.
Considerate dunque i motivi per i quali io vi dico queste cose: voglio dimostrarvi infatti donde è nata la calunnia contro di me. Dopo aver udito questo responso, io ragionai così fra me e me: “Che cosa mai intende significare il dio? Che cosa mai sottintende ai suoi enigmi? Perché io, per quel che mi riguarda, so di non essere sapiente,
né molto né poco. Allora che cosa mai vuol dire affermando che io sono il più sapiente di tutti gli altri? Perché, sicuramente, egli non mente, giacché non è lecito a lui mentire”. E per lungo tempo io fui incerto su che cosa volesse dire. Poi, per quanto contro mia voglia, mi misi a farne una ricerca così. Mi recai da uno di quelli che godono
la fama di essere sapienti, perché in questo modo avrei potuto confutare l’oracolo, facendo conoscere al vaticinio quanto segue: “Ecco costui è più sapiente di me, mentre
tu affermavi che lo ero io”. Mentre dunque stavo esaminando questo tale, non vi è alcun bisogno che io ve ne dica il nome, era uno dei politici esaminando il quale e dialogando con lui, io provai questa esperienza: mi sembrava che quest’uomo avesse la
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fama e fosse sapiente per molti altri uomini e, in particolare modo, per se stesso, ma
che in realtà non lo fosse; e allora tentai anche di fargli intendere che credeva di essere sapiente, ma che in realtà non lo era. Da quel momento dunque fui odiato non
solo da lui, ma anche da molti di quelli che erano presenti. E mentre me ne andavo
via da lui consideravo tra me e me che ero più sapiente di lui: era molto probabile che
nessuno di noi due sapesse nulla di bello e di buono, ma costui credeva di sapere, pur
non sapendo, io invece, poiché non so, non penso nemmeno di sapere. Mi sembrò
dunque di essere più sapiente di lui, proprio di questo pochettino, perché io, quel che
non so, non credo nemmeno di saperlo.
da Apologia di Socrate, a cura di Gino Giardini, Newton & Compton Editori, Roma 1997
Partiamo, come spesso accade nel discorso filosofico, da una domanda, in questo caso implicita, a cui Socrate risponde: c’è una “sapienza” di cui Socrate riconosca di essere sapiente? Egli ha già escluso che questa sapienza sia quella dei Sofisti, che a pagamento sanno insegnare la “virtù dell’uomo e del cittadino”. Il contesto in cui ha luogo questa parte del discorso – ricordiamolo – è quello della arringa difensiva che sarebbe stata pronunciata da Socrate. Più che ai giudici Socrate si rivolge ai cittadini di Atene. Afferma che la sua è una certa sapienza umana. In che cosa consiste questa sapienza umana? Socrate non ce lo dice. Se
ci aspettavamo che lo spiegasse subito, saremo rimasti al momento delusi. Socrate riprende
il riferimento ai Sofisti (“Quelli invece di cui parlavo poco fa...”): essi sono sapienti di una
sapienza più che umana. Socrate è più interessato a distinguere, anzi a separare nettamente
la sua “sapienza umana” dalla “sapienza più che umana” dei Sofisti.
Socrate vuol dire di sé che non è un Sofista, che non gli si possono attribuire le accuse rivolte ai Sofisti (“far apparire la ragione peggiore migliore”, diceva in precedenza riferendo
una delle accuse che gli venivano rivolte).
Afferma con forza: “la sapienza di costoro non la conosco”, chi lo sostiene mente ed è un
calunniatore.
Riassumendo, di che “sapienza” è sapiente Socrate? Di una sapienza umana, che non deve
essere scambiata con la sapienza più che umana dei Sofisti.
Ora nel discorso di Socrate c’è una evoluzione. Anche stilisticamente egli la annunzia: “E
ora, cittadini ateniesi, non fate trambusto, [...] chi parla per voi è ben degno di considerazione”.
La comprensione delle informazioni necessarie
Anche l’Apologia contiene nomi e riferimenti a situazioni che è necessario conoscere, per
poter comprendere in tutto il loro significato le affermazioni di Socrate. Questo vale per ogni
altra opera.
Chi è Cherefonte, che cosa c’è a Delfi, di quale dio si tratta, chi è la Pizia, che cosa è un
oracolo. Nei testi di storia o in enciclopedie ci dovrebbero essere informazioni su tutti o quasi questi aspetti oppure dovremo acquisirle altrove.
Di Cherefonte forse ci possiamo accontentare di quello che scrive Platone. Uomo “ben degno di considerazione” lo definisce Socrate, “amico alla vostra parte popolare”, quindi della
parte democratica. Si sa che fuggì come altri democratici al momento dell’insediamento dei
Trenta Tiranni e che ritornò, con Trasibulo, quando ebbe termine quella dittatura. Dunque
Socrate riferisce la testimonianza sì di un suo amico, ma che è persona di fede democratica
e degna di fiducia.
Delfi è per i Greci un luogo molto importante. Non solo è la sede di un santuario del dio
Apollo, a cui molti Greci sono devoti, ma è soprattutto il santuario a cui le póleis si rivolgevano per ottenere oracoli relativi all’insediamento di nuove colonie fuori della madrepatria.
L’oracolo è il responso che il dio emetteva attraverso i sacerdoti o le sacerdotesse del tempio di Delfi.
La Pizia era una di queste sacerdotesse. Dunque, il responso che viene dato al quesito posto da Cherefonte è particolarmente significativo e rilevante: viene da un’autorità religiosa
che tutti i Greci riconoscono. Dunque, Socrate è stato dichiarato il più sapiente di tutti gli uomini dall’oracolo di Delfi.
L’individuazione e la rassegna dei concetti
Ma di quale sapienza Socrate è il più sapiente?
Torna il concetto centrale di “sapienza”, ma Socrate, abbiamo visto, distingue nettamente
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la sua sapienza da quella degli altri. Dunque dovremo definire la sapienza di Socrate, quella
dei Sofisti, poi quella dei poeti, quella dei politici, quella degli artigiani.
Più in generale, in questa, come in ogni altra opera filosofica, individuare, riconoscere e
definire concetti è fondamentale.
È consigliabile, in un quaderno di appunti, dedicare un’apposita sezione alla raccolta di definizioni o affermazioni relative ai concetti. Facendo attenzione, però, che non si confondano tra di loro aspetti appartenenti a diversi concetti: la sapienza di Socrate non va confusa
con quella dei Sofisti. Anche in assenza di una esplicita definizione del concetto, è possibile
– riordinando logicamente le diverse affermazioni – giungere a una definizione del concetto
in questione.
Il significato dell’opera
Di che cosa parla l’Apologia? È la difesa di Socrate? La si può considerare una trascrizione più o meno fedele dei discorsi pronunciati da Socrate in quella occasione? Il personaggio
principale è “Socrate”: ma chi parla è il Socrate storico, oppure è Platone? Quelle che vengono riportate sono le idee e le posizioni di Socrate o quelle del suo pur eccezionale discepolo? Siamo in grado di stabilire ciò che è di Socrate e ciò che è di Platone?
Per provare a rispondere a queste intricate questioni dovremmo svolgere delle ricerche di
tipo, come si dice in linguaggio tecnico, co-testuale. Dovremmo cioè analizzare altri dialoghi platonici appartenenti al primo periodo platonico, quello socratico appunto, per ritrovare
temi, impostazioni, concetti e problemi analoghi a quelli dell’Apologia. Poi dovremmo tener
conto anche di altre opere, filosofiche e non, come la commedia Le Nuvole di Aristofane e
gli scritti di Senofonte (anch’egli scrisse un’Apologia di Socrate). Molti, dopo la morte di Socrate, si considerarono i continuatori del pensiero socratico, ma chi ne fu l’autentico erede e
interprete?
Quale scopo voleva raggiungere Platone con la sua Apologia? Voleva difendere la figura e
l’opera di Socrate? riprendere e continuare la sua “missione”, presentarsi come il vero interprete e continuatore della missione e del pensiero di Socrate? A chi si rivolgeva? Chi erano
i lettori del suo testo? i cittadini di Atene? il gruppo dirigente democratico? i discepoli di Socrate? quei cittadini di Atene che intendevano o potevano essere convinti a prendersi cura
della loro anima e delle sorti della città?
La figura di Socrate
Quale “Socrate” viene proposto nell’Apologia? Quale delle immagini di Socrate vuole proporre Platone? il Socrate anomalo, quello che inquietava anche Senofonte? oppure una figura meno difficile da accettare, più accomodante? Ma non sembra che Platone intenda smussare gli angoli di un personaggio e di una attività che spesso avevano suscitato odi ed avversioni, puntualmente ricordati.
In più di un caso nell’Apologia sappiamo, “sentiamo” che gli Ateniesi protestano e si indignano per alcune affermazioni di Socrate, che, per parte sua, riconferma il suo ruolo di “tafàno”, che sollecita, stimola e critica pungendo ai fianchi la città, ma che rifiuta l’accusa di
non aver voluto e cercato il bene della pólis. Egli, invece, di tale ricerca ha fatto la sua prima preoccupazione, quella a cui ha sacrificato tutto.
Lo stile dell’Apologia
Tutto il testo dell’opera è nella forma del discorso diretto, poiché vuole presentare quanto
pronunciato da Socrate in sua difesa, in occasione del processo. Intende riprodurre proprio
quelle modalità del dialogare socratico che erano uno dei tratti distintivi di questo pensatore,
con quel domandare e quell’argomentare capaci di mettere in difficoltà e sconcertare l’interlocutore.
Nella parte centrale dell’opera “Socrate” riferisce quegli incontri e quei dialoghi con poeti e politici che gli hanno attirato tanta avversione. “Socrate” si difende, ma spesso contrattacca, conferma le sue scelte e la validità del suo impegno.
Platone dà all’opera un ritmo incalzante, attraverso un dialogo teso e drammatico tra Socrate e gli Ateniesi. Sembra di sentir aleggiare la domanda che Platone più volte si è posto e
avrà posto: come è stato possibile mandare a morte il più giusto di tutti gli uomini?
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Esempio B
CARtEsIo: Discorso
sul metodo
Il titolo
Titolo “facile”, almeno all’apparenza. Un’opera sul “metodo”, ma quale metodo? Il titolo
completo dell’opera è più esplicito: Discorso sul metodo per ben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze. L’accento, oltre che sul metodo, cade su “ragione” e su
“scienze”. Che rapporto c’è tra le une e l’altra? Notiamo anche che, invece del più impegnativo titolo di Trattato sul metodo, viene usato quello di “discorso”, che è più colloquiale, che
fa pensare a un testo in cui il tema non sia sviluppato in modo sistematico.
Il contesto del Discorso
Cartesio aveva poco più di quarant’anni quando terminò quest’opera (era nato nel 1596).
Era ormai definitivamente tornato in Olanda, sua patria d’elezione, abbandonando così la
Francia. L’Olanda è per lui un posto più tranquillo e meno dispersivo e mondano di Parigi e
della Francia, e ha una tradizione di tolleranza. Anche se vive in un Paese calvinista, Cartesio è attento a non mettersi in urto con la Chiesa di Roma: già si è fatto una fama di pensatore innovatore e di critico del sapere tradizionale.
Cartesio, comunque, è inserito a pieno titolo nel clima culturale del Seicento francese, molto vivo e animato da fermenti e nuove idee.
Ma in Francia la Scolastica è ancora forte e ben radicata: non solo nelle Università e nella
cultura della Chiesa cattolica, ma anche nei Collegi, essa è l’asse della formazione dei giovani. Lo scontro tra innovatori e conservatori è forte. Le notizie che provengono da Roma
non sono incoraggianti: Galileo è stato condannato per la sua difesa dell’eliocentrismo e costretto all’abiura. Il Sant’Uffizio e il tribunale dell’Inquisizione sono controllori arcigni e intransigenti dell’ortodossia tridentina, contro ogni presa di posizione che possa far sospettare
un ulteriore attacco alla dottrina cattolica.
Lo stesso Cartesio sarà indotto, anche dalla condanna di Galileo, a non stampare l’opera intera di cui il Discorso doveva costituire la premessa metodologica, poiché nella parte più propriamente scientifica (uscita, poi, con il titolo Il mondo) si schierava a favore
dell’eliocentrismo.
Prefazione e indice
Al testo vero e proprio dell’opera non viene premessa una prefazione, ma un testo breve in
cui Cartesio descrive molto succintamente le sei parti in cui ha suddiviso lo scritto. Tali parti riguardano:
1. considerazioni relative alle scienze, prevalentemente considerazioni critiche sul sapere
dominante nel suo tempo;
2. le regole del metodo;
3. le regole della morale provvisoria;
4. la metafisica con riferimento all’esistenza di Dio e dell’anima;
5. questioni di fisica;
6. indicazioni necessarie per andare avanti nello studio della natura.
La prima considerazione da fare è che nell’opera non si parla solo di “metodo”, anzi che
una sola delle parti è dedicata a questo tema. Ma è il titolo stesso dato da Cartesio a sottolinearne la centralità.
Oltre la suddivisione in queste sei parti, di cui Cartesio ha indicato succintamente il contenuto, manca un indice che ne illustri l’articolazione in maniera più dettagliata e circostanziata. Possiamo, però, utilizzare la scansione e la titolazione dei paragrafi fatta, ad esempio, dal
curatore di una delle tante edizioni italiane dell’opera.
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DiScorSo Del metoDo
[Premessa dell’autore]
Parte prima
Introduzione. Il buon senso – I sentieri incontrati dall’autore. – Scopo del presente
scritto. – Gli studi giovanili del Cartesio. – Osservazioni particolari sulle discipline studiate. – Esperienza del mondo. – Verso la solitudine.
Parte seconda
Ritiro invernale. Prime riflessioni – Risoluzione critica del giovane filosofo e riserve che
la circondano. – I fondamenti del nuovo metodo. – Prime applicazioni di esso. – Nuova risoluzione del filosofo.
Parte terza
Quattro massime di “morale provvisoria”. – Nuova esperienza del mondo ... – ... e
nuovo ritiro in solitudine.
Parte quarta
Le meditazioni cartesiane. Dalla negazione di ogni sapere al “cogito ergo sum”. – Dall’affermazione del pensiero alla scoperta dell’anima. – Il criterio di certezza. Dal dubbio alla scoperta di Dio. – Lo spazio e la materia. – Critica della conoscenza sensibile.
– La sola evidenza razionale è decisiva.
Parte quinta
Effetti delle meditazioni cartesiane. Sommario di un trattato “sulla natura delle cose
materiali”. – Ipotesi sulla creazione del mondo. – Dell’organismo umano. – Spiegazione del movimento del cuore e del sangue. La circolazione del sangue. – Altre nozioni
di fisiologia. – Psicologia degli animali irragionevoli. – Il linguaggio: prerogativa umana. – Dell’anima ragionevole. – Sua immortalità.
Parte sesta
Perché il Cartesio non pubblicò il suo trattato “del mondo o della Luce”. – Intendimenti del Cartesio quanto alla nuova fisica. – Pensieri intorno alle esperienze. – Ragioni
che indussero l’autore a non rendere di pubblica ragione i suoi studi di fisica. Ragioni
soggettive. – Dubbi sulla utilità della pubblicazione. – Avvertimenti al lettore. – Conclusione: propositi dell’autore per l’avvenire.
da Discorso sul metodo, a cura di Antonio Lantrua, Editore Laterza, Bari
lEttURA RAPIDA
Cartesio scoraggia chi intende fare una lettura veloce del Discorso già nelle primissime righe del testo, quando dice che il discorso è troppo lungo per essere letto tutto in una volta.
Pur senza avere questa pretesa, possiamo ricavare da una lettura veloce, fatta a tappe, alcuni temi e questioni-chiave che non appaiono dall’elenco delle sei parti.
Innanzitutto il carattere autobiografico dell’opera: Cartesio fa frequenti riferimenti al suo
itinerario intellettuale. Ma questo non significa che intenda autocelebrarsi. Al contrario, egli
vuole smorzare l’impatto della sua posizione, presentando il suo metodo non come quello
che tutti debbano seguire, ma con il solo intento di far vedere come ha cercato di condurre la
sua ragione.
Successivamente una questione centrale della sua filosofia: quella del dubbio. Un dubbio
scettico? Un dubbio metodico? Perché mettere tutto in dubbio? Anche le scienze?
Nella quarta parte, relativa alla metafisica, il tema che emerge è prima quello del Cogito
ergo sum, l’evidenza nel suo fondamento. Il “Cogito” è la parte di un ragionamento? di un
sillogismo? Come si passa dal “Cogito” all’affermazione di una res cogitans?
Sempre nella metafisica vi è la prova dell’esistenza di Dio: dall’idea di Dio si può arrivare all’esistenza di Dio? Quale funzione viene assegnata a Dio nella filosofia cartesiana? e nel-
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la fisica cartesiana, oggetto della quinta parte?
Il meccanicismo da Cartesio viene esteso anche all’uomo? Qual è il rapporto tra corpo e
anima, res cogitans e res extensa, strettamente uniti? Come spiegare il rapporto di due sostanze eterogenee?
lEttURA AnAlItICA
Scegliamo per la lettura analitica la Prima parte, in cui gli argomenti principali sono due:
il buon senso, cioè la ragione, e la critica della cultura del suo tempo.
Quanto al primo tema, selezioniamo le affermazioni che Cartesio fa sulla ragione.
Sulla ragione (il buon senso) dice che:
• è “la cosa meglio distribuita al mondo”;
• “ciascuno pensa di esserne ben provvisto”;
• è “la capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso”;
• “è naturalmente uguale in tutti gli uomini”;
• “non è sufficiente aver un bell’ingegno: la cosa importante è applicarlo bene”;
• “è la sola cosa che ci rende uomini e ci distingue dalle bestie”.
Domandiamoci quali di queste affermazioni si presentino come nuove e quali, invece, abbiamo trovato più volte nel corso della storia della filosofia. C’è già una affermazione che rimanda al metodo e alla sua importanza: non è importante avere un bell’ingegno (l’esprit
bon), ma applicarlo bene.
Di seguito, Cartesio analizza criticamente la cultura del suo tempo. A questo riguardo
parla di “studi letterari”, ma bisogna tener presente che gli studi umanistici (Litterae humaniores) allora prevedevano oltre, ad esempio, alla retorica, alla poesia, alla morale e alla metafisica, anche la fisica e la matematica. Ancora una volta questo ci ricorda che per la comprensione di un testo abbiamo bisogno di disporre di informazioni specifiche, come questa
appena citata. Se attribuissimo a “studi letterari” il significato attuale, ne potrebbero derivare fraintendimenti.
Vi sono state acquisizioni positive per Cartesio come risultato di questi studi? Sembra di
no: “avevo scoperto sempre più la mia ignoranza”. Cartesio è uno studente, meglio un exalunno, molto critico nei confronti della scuola: egli, però, non critica la scuola in cui ha studiato, ma il curriculum degli studi. Ma procediamo gradualmente a ricostruire l’argomentazione cartesiana in alcuni passaggi.
Non è tutto negativo quel che Cartesio ha tratto dal suo studio: “continuavo ad apprezzare
gli esercizi ai quali ci si dedica nelle scuole”. Ad esempio, egli sa che le lingue sono importanti per comprendere i libri antichi, che la poesia ha una dolcezza e una delicatezza che incantano, e così via.
Ma fin troppo tempo Cartesio ha dedicato a queste attività. Non si può “viaggiare” troppo
nel passato. È importante conoscere usi e costumi di altri popoli, ma se si passa troppo tempo a viaggiare nel passato “si finisce per diventare stranieri nel proprio Paese”. Anche in questo Cartesio potrebbe andare d’accordo con gli studenti di oggi, che chiedono più spazio per
la cultura e la storia contemporanea. Allora quale mentalità dava grandissima importanza e
molto spazio alla cultura degli antichi?
Di nuovo la piena comprensione di queste affermazioni rimanda al contesto, alla convinzione, di cui la parte più avanzata della cultura moderna era portatrice, che la modernità fosse più
importante dell’antichità, che i moderni fossero superiori agli antichi. Non è ancora questa la
tesi cartesiana, ma sicuramente vengono denunziati i limiti della cultura umanistica: più ci si
preoccupa di conoscere le cose del passato, più si rischia di restare ignoranti di quelle del nostro tempo. Oltretutto non si tratterà di “favole” che fanno ritenere possibile ciò che non lo è?
Continua a parlare di un modello di cultura umanistica? Vediamo. Dichiara stima per l’eloquenza, la retorica e la poesia. Ma coloro che ragionano meglio o elaborano meglio i loro
pensieri, non hanno bisogno della retorica per essere persuasivi, si può essere buoni poeti
senza conoscere l’arte poetica. Qui, decisamente, la critica colpisce due capisaldi della cultura umanistica.
Nel passaggio successivo si parla delle matematiche. La considerazione che le riguarda è
positiva: i loro ragionamenti sono evidenti e certi. In Cartesio sono due parole-chiave, soprat© ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS
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tutto la prima, l’evidenza. Per averne conferma basta andare alla prima regola del metodo
cartesiano: non accetterò mai niente per vero che non sia evidente alla mia mente. E allora
che cosa non va nelle matematiche? Hanno fondamenti fermi e solidi, ma con questi non si
è costruito nulla di più rilevante. La critica allora riguarda l’uso delle matematiche.
Fa un passo avanti in questa direzione Cartesio? Dove, nelle pagine seguenti del Discorso,
l’autore considera il loro modo di procedere quasi un modello? e perché?
Il lettore, sia quello esperto sia chi non lo è, si pone, si deve porre molte domande, formulando ipotesi, cercando nel testo le risposte.
Chi sono i destinatari del Discorso?
Possiamo ricostruire a chi si rivolgeva Cartesio da alcune indicazioni che, naturalmente, ricaviamo dal testo.
Innanzitutto il fatto che l’opera sia stata scritta in francese, ci fa capire che il lettore a cui
pensa Cartesio, più del latino, che era stato ed era ancora la lingua della cultura dotta (ma anche di una cultura tradizionale), conosce il francese, forse la sua lingua madre, oppure una
lingua che ha appreso e che preferisce. Il francese cominciava ad affermarsi allora come lingua “internazionale”. La scelta del francese fa pensare a un lettore moderno, aperto al nuovo, un lettore colto, ma non un dotto, o ad uno specialista.
Uomini dotati di “buon senso”, cioè uomini che hanno tanta razionalità quanta ne serve e
che nella ragione hanno fiducia. Alla ragione, di cui “ciascuno pensa di esserne così ben
provvisto che anche i più difficili da accontentare, non hanno l’abitudine di desiderarne più
di quanta ne abbiano”, è significativamente dedicata l’apertura del Discorso. La ragione non
era un principio “neutro”, pacifico: non lo era particolarmente allora, tempo di intolleranze
religiose, di conflitti di fede. E forse, allora, di “buon senso”, pensava Cartesio, ce ne sarebbe stato bisogno.
Uomini “aperti”, ma moderati, non dei rivoluzionari. Cartesio li tranquillizza con la prima regola della sua morale provvisoria: “obbedire alle leggi e ai costumi del mio Paese”. Quindi si
rivolge a un suddito rispettoso delle leggi e dello Stato. Ma forse anche a un credente, a cui Cartesio pensa quando aggiunge che intende osservare “costantemente la religione nella quale Dio
mi ha fatto la grazia di essere educato fin dall’infanzia”. Infine, precisa che vuole regolarsi “secondo le opinioni più moderate e più lontane dagli eccessi”. Si è detto anche che si rivolge a un
uomo pratico, visti i continui riferimenti all’importanza dell’esperienza nella vita.
Ma forse tra i suoi lettori pensa che vi saranno anche personaggi autorevoli e forse non
sempre ben disposti verso di lui e le sue idee. Cartesio intende tranquillizzare anche costoro
e smussare dubbi e critiche. Ma da quello che scrive nella sesta parte, si capisce che egli scrive anche pensando ai posteri che leggeranno la sua opera e li invita a non credere che vengano da lui certe tesi se non le ha divulgate egli stesso.
Quale immagine di sé vuol dare l’autore?
Sarebbe importante selezionare tutte le espressioni significative presenti in questa opera
(che si presenta con un chiaro taglio autobiografico e che è scritta, dunque, in prima persona) per far emergere con nettezza l’immagine di sé che Cartesio vuole comunicare. Individuiamo alcune delle espressioni che si trovano già nelle prime pagine.
• “Non ho mai presunto che il mio ingegno fosse in nulla superiore a quello dei più”;
• “Penso di aver avuto molta fortuna nell’essermi imbattuto fin da giovane in certi percorsi [...] da cui ho formato un metodo”;
• Egli parla anche della “mediocrità del mio ingegno”;
• “Nei giudizi che do di me stesso io cerco di inclinare piuttosto verso la diffidenza che verso la presunzione”;
• “Può darsi che io mi sbagli”, “so quanto siamo soggetti a sbagliarci”;
• “Il mio scopo non è di insegnare il metodo che ciascuno deve seguire per ben condurre
la propria ragione, ma di far vedere in quale maniera ho cercato di condurre la mia”.
Quale immagine di sé vuol comunicare? Quella di una persona che ha un ingegno “mediocre”, che è stata fortunata, che non è presuntuosa, che sa di poter sbagliare. Non propone un
metodo per tutti, non vuole insegnare il metodo, ma dire quale è stato il suo. Modestia, cautela, moderazione, nessuna presunzione, disponibilità a mettersi in discussione: questa la sua
autopresentazione.
Ma è tutto qui? Ci sono anche affermazioni che ci danno un Cartesio consapevole dei suoi
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mezzi, della sua fama e dei risultati raggiunti o che può raggiungere? Fai attenzione, ad esempio, al fatto che, pur essendosi premurato di presentarsi come uomo di capacità e ingegno medi, egli, nella prima parte dell’opera critica radicalmente tutto il sapere dell’epoca. Mostra di
non voler essere presuntuoso, ma nel suo intento di critica radicale sa di mettersi “al di sopra”
della cultura del tempo, è convinto di poter dar luogo a un nuovo edificio del sapere.
Cerca le espressioni che comprovano questa seconda linea interpretativa. Quale aspetto
prevale? Quali espressioni sono più frequenti? Quale ipotesi puoi fare su questo doppio registro di presentazione di sé?
Lo stile del Discorso
Già nel titolo dell’opera Cartesio evita di parlare di Trattato sul metodo, opta per un più
modesto Discorso, che è meno impegnativo sia per chi scrive che per chi legge.
Un “discorso”, quasi una riflessione ad alta voce. Comunque, anche il titolo preannunzia
uno stile colloquiale, discorsivo, di dialogo con i suoi lettori. Lo stile, in qualche modo, concorre a smorzare la novità del contenuto, ma non impedisce di cogliere a pieno la novità dell’impostazione e delle tesi che vengono presentate.
L’autore parla di sé: anche dal punto di vista stilistico è evidente il taglio autobiografico,
cioè il fatto che ci troviamo all’inizio di una biografia intellettuale. Quasi ogni capoverso inizia facendo riferimento, con varie scelte stilistiche, all’“io” dell’autore. Citiamone alcune:
“Per quanto mi riguarda...”; “Non ho alcun timore di dire...”; “Tuttavia può darsi che mi sbagli...”; “Il mio scopo non è quello...”.
Ma non è solo nella prima parte che vi è questa scelta stilistica. La seconda apre allo stesso modo, ancora con un taglio biografico: non come una biografia intellettuale, ma con riferimento a vicende personali. “Ero allora in Germania, richiamatovi dalle guerre che ancora
non sono finite”. In maniera blanda, quasi indiretta, parla di quella che la storiografia chiamerà la “Guerra dei Trent’anni”. Lo stile continua a muoversi su questo registro personale e
colloquiale: “Consideravo anche che i popoli...”, “Così pensai che anche le scienze dei libri...”. Questo stile consente a Cartesio di fare affermazioni e considerazioni senza dar loro
mai un tono di definitività, di assolutezza, di validità universale. Sta parlando di sé, delle proprie esperienze e delle proprie considerazioni; esprime il suo punto di vista.
Nello stile è evidente, dunque, la centralità del soggetto, del “soggetto” Cartesio, ma anche
del “soggetto” umano. Anche così si manifesta uno degli aspetti più significativi della modernità, che lo stesso Cartesio contribuirà a consolidare ed espandere.
Qual è lo scopo dell’opera?
Lo scopo o gli scopi possono essere dichiarati esplicitamente nel testo, oppure si possono
ricavare da ciò che viene detto, anche tenendo conto del contesto in cui l’opera si inserisce:
i temi, i problemi, i dibattiti e le polemiche all’ordine del giorno. Per capire lo scopo dell’opera serve far riferimento non solo al testo, ma anche al contesto.
Nel nostro caso uno scopo viene dichiarato già nel titolo e nel sottotitolo: presentare un metodo per ben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze. Ma oltre a questo scopo, che è sicuramente preminente, ve ne sono altri: presentare la sua morale, sia pure provvisoria, la sua metafisica e alcuni tratti della sua concezione della natura e dell’uomo, tutti aspetti
che in qualche modo hanno a che fare con il metodo o perché vi si richiamano, o perché ne rappresentano una applicazione, o perché appartengono a una impostazione che con il metodo condivide aspetti anche fondamentali: ad esempio, il fondamento razionale da dare al sapere.
Cartesio vuole presentare la sua filosofia nei suoi aspetti autentici, volendo evitare che gli
si attribuiscano tesi che non gli appartengono.
Non basta. Cartesio vuole criticare e superare l’impostazione della Scolastica che ancora
era negli studi letterari la cultura dominante, ma lo era soprattutto nella cultura della Chiesa
cattolica.
Criticare la cultura del suo tempo, quella che era il fondamento dell’asse educativo, significa proporre, soprattutto in campo filosofico e scientifico, la sostituzione della Scolastica
con l’impostazione cartesiana, razionalista e scientifica, presentandola, però, come non pericolosa per la fede, per le gerarchie della Chiesa, già così diffidenti e preoccupate che le novità della cultura possano scalzare le verità della Chiesa.
Intento “rivoluzionario”, quindi, quello di Cartesio, che, tuttavia, cerca di accreditare come non pericoloso o eversivo.
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Esempio C
JoHn stUARt MIll: On
liberty
Si può considerare On liberty (Saggio sulla libertà) un best-seller della storia della filosofia. Ha avuto – nel corso di più di un secolo – edizioni in molte lingue e ancor oggi viene
considerato un testo attuale, ripreso e meditato da pensatori politici contemporanei. Dunque,
senza alcuna forzatura, questo testo ci consentirà di operare anche sul versante dell’attualizzazione e della problematizzazione.
La contestualizzazione dell’opera
A più livelli si può e si deve fare la contestualizzazione di questa opera. Innanzitutto sul
piano personale, con riferimento alla vita di John Stuart Mill. Era stata la moglie a esortarlo
a scrivere un saggio sulla libertà. Nel 1855 comincia a pensare a quest’opera, che viene edita nel 1858, poco dopo la morte della moglie avvenuta nello stesso anno. È dedicata alla moglie amatissima, chiamata “ispiratrice e, in parte, autrice di tutto il meglio della mia opera”.
Mill considera la libertà “la fiaccola della civiltà occidentale” e ritiene questo scritto – come dice nell’Autobiografia – quello, fra i suoi, che probabilmente sopravvivrà più a lungo di
qualunque altro.
Ma il solo piano personale, ovviamente, non basta. Un altro livello di contestualizzazione,
quello storico-politico, è necessario ed ha un ampio respiro. La vicenda di Mill è anche quella di chi ha svolto attività politica in prima persona, sempre su posizioni “progressiste”, sia
come pioniere del Commonwealth, cioè dell’autogoverno dei dominions inglesi, sia come intellettuale impegnato a garantire un’adeguata rappresentanza parlamentare alla classe operaia, o a difendere i diritti degli Irlandesi, o a riconoscere il diritto di voto alle donne. Queste
battaglie avvengono in uno dei Paesi dove – in quell’epoca – il livello delle libertà civili e
politiche è tra i più avanzati, se non il più avanzato: basterebbe ricordare il Reform bill del
1832 o la legislazione sulla tutela del lavoro.
Un livello ulteriore di contestualizzazione riguarda la dimensione politico-culturale. Questa ha a che fare con le riflessioni preoccupate che i primi segni, avvertibili solo in alcuni
Paesi, di una civiltà di massa potevano suscitare. Se ne potrebbero citare diverse anche in
pensatori non politici, come ad esempio in Søren Kierkegaard.
Ma i referenti a cui lo stesso Mill guarda sono il tedesco Wilhelm von Humboldt e il francese Alexis de Tocqueville, autore quest’ultimo di una delle opere più famose e citate sull’America, appunto La Democrazia in America, su cui Mill pubblica una recensione.
Quale tema appassiona e preoccupa questi pensatori? La “tirannia della maggioranza” sull’individuo, tirannia che la società e l’opinione pubblica possono esercitare, limitando sempre più la libertà dell’individuo.
Che cosa sosteneva, ad esempio, Tocqueville nella sua opera sulla democrazia americana?
Che la fede nell’opinione pubblica è in America una sorta di religione e la maggioranza è il
suo profeta. Una lettura “parallela” delle due opere, o, comunque, un riferimento ampio all’opera del pensatore francese, sarebbe auspicabile.
Il motto di On liberty
In un testo, anche il motto posto in apertura può dirci molte cose del senso dell’opera. È il
caso particolarmente di questo scritto. Mill vi premette una frase di Humboldt, pensatore liberale del primo Ottocento, tratta da un’opera il cui titolo è già significativo: Idee per un saggio sui limiti dell’attività dello Stato.
“Il grande principio, cui direttamente convergono tutti gli argomenti sviluppati in queste pagine, è l’assoluta ed essenziale importanza dello sviluppo umano nella sua più ricca diversità”.
Scriveva Mill nella sua Autobiografia che il suo scritto sulla libertà voleva sottolineare
l’importanza per l’uomo e per la società di una larga varietà di caratteri e di una completa libertà della natura umana di espandersi in direzioni innumerevoli e contrastanti. Si noti che
l’accento non viene posto tanto sullo sviluppo umano, quanto sulla “più ricca diversità” che
lo deve caratterizzare. Anzi si precisa che la natura umana si deve espandere in direzioni innumerevoli e contrastanti. Perché questa sottolineatura del contrasto e della conflittualità? La
ricchezza delle diversità umane è posta come il fattore positivo dello sviluppo umano. Ma
quale pericolo può insidiare questo sviluppo e come si può combatterlo?
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Indice e prefazione
L’indice ci dà informazioni preziose sul contenuto di un’opera. On liberty è suddiviso in
cinque capitoli. Di questi il primo contiene l’Introduzione, e avremo modo di parlarne tra poco. Seguono quattro capitoli. Togliendo l’ultimo, intitolato Applicazioni, restano i seguenti:
Della libertà di pensiero e di discussione; Dell’individualità come elemento del bene comune; Dei limiti all’autorità della società sull’individuo.
Se ne possono ricavare tre nuclei tematici: l’individuo, la libertà, la società, nei quali il
primo e il terzo sembrano se non in opposizione, certo in qualche modo alternativi l’uno all’altro. Si parla infatti dei limiti da porre all’autorità della società sull’individuo, della necessità di salvaguardare l’individuo. Eppure l’individuo non viene contrapposto alla dimensione sociale e collettiva della vita, poiché si dice che l’individuo è “un elemento del bene comune”. Ma in che senso l’individualità è parte del bene comune? Non è un controsenso affermarlo? Quali sono i limiti da porre all’autorità della società (attenzione: autorità della società, non dello Stato)? Non vi sono anche dei limiti da porre all’individuo? Perché è messa
così in rilievo la libertà di pensiero e di discussione, cioè quali aspetti di novità presenta un
tema come questo, che non è certo nuovo nel dibattito culturale e politico dell’Occidente?
Come va inteso e che rilevanza può avere in Mill?
Scopo dell’opera
Lo scopo dell’opera si trova già in queste domande. Ma possiamo esplicitarlo selezionando due affermazioni, tratte dall’Introduzione che qui di seguito verrà analizzata. La seconda,
come si vedrà, definisce esplicitamente lo scopo del saggio.
1. “Vi è in generale nel mondo una crescente inclinazione a estendere indebitamente i poteri della società sull’individuo, [...] a rafforzare la società e diminuire il potere dell’individuo, [...] a imporre agli altri, come norme di condotta, le proprie opinioni e tendenze”.
2. “Scopo di questo saggio è formulare un principio molto semplice, che determini in assoluto i rapporti di coartazione e controllo tra società e individuo”.
Analisi dell’Introduzione
Dedichiamo all’Introduzione sia la lettura rapida che quella analitica. Cercheremo, analizzando il testo, di ricostruire i temi trattati e il loro sviluppo; metteremo a fuoco i concetti
principali e a tal fine selezioneremo tesi e passaggi.
La questione di fondo sta già nelle prime righe ed è dichiarata con chiarezza. A proposito
della libertà civile o sociale ci si domanda (l’abbiamo formulata noi come domanda, ma era
implicita): qual è la natura e quali sono i limiti del potere che la società può legittimamente
esercitare sull’individuo?
Profeticamente, e forse giustamente, Mill dichiara che questo sarà “il problema fondamentale del futuro” (dunque, il problema fondamentale del XX secolo).
lEttURA RAPIDA
La lettura rapida mostra, nella prima parte dell’Introduzione, una ricostruzione storica delle tappe fondamentali della lotta tra libertà e autorità. Attraverso quali passaggi e fasi è passata questa lotta e che cosa si è inteso con libertà?
Allora (alla metà del XIX secolo) il rapporto tra libertà e autorità stava per cambiare, il problema si poneva in modo diverso. È la società che rischia di essere il “tiranno degli individui”. Come opera questa tirannia? Come è possibile difendersene? Fino a dove possono arrivare l’interferenza e l’autorità della società sull’individuo?
La tesi principale di Mill è che il potere della società può esercitarsi solo per evitare danno agli altri. Per tutto il resto, per tutto ciò che riguarda soltanto lui, non devono essere posti limiti.
LETTURA ANALITICA
Ricostruiamo ora nella lettura analitica i “passaggi del testo”, cioè lo sviluppo degli argomenti, facciamo la “rassegna dei concetti” e della loro “trama”. Insomma mettiamo assieme quelle attività sul testo che, negli esempi precedenti, abbiamo distinto.
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Ovviamente sappiamo che il fulcro del discorso è la libertà. Ma, che cos’è la libertà, o meglio, che cosa è stata?
Mill ricostruisce la storia della liberà civile in Occidente, nelle sue fasi principali. Sarà possibile vedere come e perché il concetto di libertà è cambiato e come si pone oggi.
Si faccia attenzione alla distanza tra la definizione iniziale e finale di libertà. C’è un minimo comun denominatore nelle definizioni di libertà che si incontreranno?
Prima accezione di libertà civile: protezione dalla tirannia dei governanti.
• Perché proteggersi dai governanti? Perché sono considerati “antagonistici al popolo” e
perché il loro potere è pericoloso.
• Come mai? Perché c’è il rischio che i governanti usino il loro potere contro i propri
sudditi.
• Ma perché ricorrere a governanti che, invece di operare per il popolo, lavorano per il proprio interesse?
Per tenere a bada gli avvoltoi, che volevano depredare e tormentare i più deboli, afferma
Mill, si è dovuto ricorrere al “re degli avvoltoi”. Ma anche da lui bisogna difendersi, perché
potrebbe attaccare il “gregge” dei deboli.
Ecco come si è arrivati al primo concetto di libertà per i cittadini: “porre dei limiti al potere sulla comunità concesso al governante”. Come? Cercando di ottenere libertà, cioè diritti
politici e creando vincoli costituzionali, ad esempio un organismo che esprima il consenso
della comunità agli atti del potere politico.
Per la “rassegna dei concetti”, a quello fondamentale di libertà possiamo collegare quelli
di governante, di popolo, di diritti politici e di vincoli costituzionali. La rete di rapporti che
li collega l’abbiamo vista. Possiamo anche visualizzarla con una “mappa concettuale” oppure disegnando i rapporti tra governanti e governati.
Ma poi, secondo la ricostruzione di Mill, la situazione è cambiata e il testo ce lo segnala:
“tuttavia, a un certo punto del progresso umano, gli uomini cessarono di pensare che i governanti dovessero necessariamente essere un potere indipendente”. Cambia la situazione, cambia la concezione del potere politico e il concetto di libertà.
Ora il potere politico (afferma sempre Mill, guardando naturalmente al sistema liberale):
• non è indipendente (rispetto ai governati);
• non ha interessi opposti (a quelli dei governati);
• è concesso in esercizio (dal popolo ai governanti);
• è revocabile a piacimento dalla comunità.
Ne deriva la richiesta di un “governo temporaneo ed elettivo”.
Ma a questo punto c’è un’ulteriore evoluzione: non più la limitazione del potere, ma
“l’identificazione dei governanti con il popolo, la coincidenza del loro interesse e volontà
con quelli della nazione”.
Appare un nuovo concetto, una nuova protagonista: la Nazione.
Va ridisegnata la rete dei concetti. Ora è la “Nazione” ad essere al centro di una ideale mappa concettuale. Dalla sua volontà dipende il potere; è lei che affida il potere; è nei suoi confronti che i governanti sono responsabili, è da lei che loro sono amovibili.
In sintesi, il potere del governo è il potere della Nazione, ma questo è anche il governo del
popolo: siamo alla concezione democratica.
Anche se non lo dice esplicitamente, Mill pensa che in questo passaggio che identifica popolo e potere si sia fatto un errore, un grave errore. Ormai coloro che ammettono limiti al governo sono “delle brillanti, isolate eccezioni tra i pensatori politici del Continente”.
Il ragionamento dei sostenitori della democrazia è il seguente: se il potere è del popolo, nelle mani del popolo, che bisogno c’è che il popolo lo limiti?
A questo punto, però, vengono formulate le critiche rivolte alla democrazia. “Il ‘popolo’
che esercita il potere non coincide sempre con coloro sui quali quest’ultimo viene esercitato”. “La volontà del popolo significa in termini pratici la volontà della parte più numerosa”.
“Il popolo può desiderare opprimere una propria parte”. Mill pone così il tema della “tirannia della maggioranza” come rischio della democrazia.
Si ricordi che il lavoro di contestualizzazione ci ha fatto sapere che chi scrive non è un pensatore reazionario, ma un progressista, il quale, proprio nella recensione alla Democrazia in
America di Tocqueville, afferma che “ove lo spirito pubblico non venga coltivato grazie a
una partecipazione estensiva dei più agli affari del governo” il carattere di un popolo sarà essenzialmente volgare e servile. Ma questo non gli impedisce di cogliere i rischi che – afferma – si possono avvertire in un processo di democratizzazione della società.
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Comunque, non ci sarebbe novità nella ripresa di uno degli argomenti che sono stati più
volte usati contro la democrazia. Dov’è allora la novità della posizione di Mill?
Sta nella sua convinzione che dove la società è tiranna, questa sua attività non si ferma solo alla dimensione politica, ma entra in campi in cui non dovrebbe entrare “rendendo schiava l’anima stessa.” La tirannia della maggioranza è divenuta “tirannia dell’opinione e del
sentimento predominanti, della tendenza della società a imporre come norme di condotta [...]
le proprie idee e usanze”. Qual è l’intento di questa “tirannia”? “Ostacolare lo sviluppo – e
prevenire, se possibile, la formazione – di qualsiasi individualità discordante, e costringere
tutti i caratteri a conformarsi al suo modello”.
Ricordate il motto di Humboldt? Ora si capisce perché Mill lo abbia premesso a questo saggio sulla libertà. Proprio lo sviluppo dell’umanità “nella sua più ricca diversità” è a rischio.
Bisogna mettere un limite all’interferenza dell’opinione collettiva sull’indipendenza individuale. Bisogna trovare un equilibrio tra indipendenza individuale e controllo sociale, identificando alcune regole di condotta.
Ma quale sarà il principio su cui poggeranno queste regole? Mill lo dice dopo qualche pagina. “L’umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà
d’azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi”, solo “per evitare danno agli altri”. Tolto questo aspetto, per ogni altro che riguarda soltanto l’individuo la sua indipendenza è, di
diritto, assoluta.
Alla fine di questo ragionamento – ma anche di un excursus storico – quale definizione viene data di libertà?
Mill la chiama la regione della libertà umana, che è composta di:
• libertà di coscienza, cioè libertà di pensiero, di sentimento, libertà di opinione in tutti i
campi;
• libertà di espressione;
• libertà di gusti e occupazioni;
• libertà di modellare il piano della nostra vita, secondo il nostro carattere;
• libertà di agire come vogliamo, purché le nostre azioni non danneggino gli altri.
Possiamo chiudere con due affermazioni di Mill in qualche modo riassuntive della sua posizione:
“Ciascuno è l’unico autentico guardiano della propria salute, sia fisica sia mentale e spirituale”.
“Gli uomini traggono maggior vantaggio dal permettere a ciascuno di vivere come gli sembra meglio che dal costringerlo a vivere come sembra meglio agli altri”.
Lo stile dell’opera
Lo stile di un’opera è importante come ulteriore elemento che ci parla del messaggio che
contiene.
Qual è lo stile di Mill nel Saggio sulla libertà? Uno stile lineare che pone con chiarezza i problemi, le tendenze e le soluzioni possibili. Lineare è la sua argomentazione, che procede individuando alternative ben delineate, tra le quali non vengono proposte mediazioni o confusioni.
Mill non pensa tanto a fare un discorso “oggettivo” sulla questione, quanto a prendere posizione, impegnando se stesso. Così parla spesso in prima persona, affermando con nettezza
i propri dissensi e le proprie idee. Anche così mostra il grado di coinvolgimento e di identificazione con il tema e con le tesi sostenute. Nel suo scritto si espone direttamente, manifestando il suo dissenso verso una posizione che sa molto diffusa e sempre più forte e, quando
parla delle poche brillanti eccezioni tra i pensatori politici che vogliono ancora mettere limiti al potere politico, sta probabilmente parlando anche di sé.
Problematizzazione e attualizzazione
Tra le varie operazioni che possiamo compiere sui testi, particolarmente sul testo filosofico, vi è quella di far nostri, almeno in via d’ipotesi, le domande e i problemi che lo stesso
pensatore si è posto.
Può essere una problematizzazione che supera il contesto in cui quelle domande si sono poste,
formulandole, intendendole o riformulandole come questioni che conservano valore anche oggi.
Oppure, ed è il nostro caso, il testo stesso presenta questioni che così come sono formulate e per
il contesto in cui si inseriscono, mantengono pienamente la loro attualità. Può essere che “domani” si pongano in modo diverso, per il mutamento della situazione o della riflessione.
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Proprio Mill ci ha detto che quello del rapporto tra autorità sociale e indipendenza individuale era (per lui) un problema del futuro. Ora il suo futuro è il nostro tempo, perciò possiamo porre a noi stessi quell’interrogativo che Mill poneva.
• Come conseguire l’equilibrio tra indipendenza individuale e controllo sociale?
• Su che cosa e fino a dove può operare il controllo sociale?
• Quali sono le forme specifiche in cui – oggi – sembra esercitarsi con più forza il controllo sociale?
• Dove possono essere tracciati i confini della libertà individuale?
• Quali potrebbero essere le “regole di condotta” che stabiliscono il confine tra lo spazio
della collettività e quello dell’individuo?
• Chi è chiamato a “scrivere” queste regole?
Che cosa pensare di certe limitazioni che lo stesso Mill pone alla sua dottrina? Questa non
vale, infatti, per i bambini, e non dovrebbe valere neppure per i “giovani che per legge sono
ancora minori d’età”, perché sono tra coloro che devono essere protetti dalle proprie azioni
e dalle minacce esterne.
Per lo stesso motivo, afferma, la dottrina non va bene per le società arretrate che sono – per
così dire – “minorenni”. Come si vede, vi sono non pochi aspetti della concezione di Mill che
vanno problematizzati, o che sono stati da più parti contestati, come interni a una visione eurocentrica o addirittura “coloniale” del rapporto fra Paese “avanzato” e Paese “arretrato” e
“minorenne”.
Fa, inoltre, riflettere un’affermazione come la seguente: “La libertà, come principio, non è
applicabile in alcuna situazione precedente il momento in cui gli uomini sono diventati capaci di migliorare attraverso la discussione libera e tra eguali”, e, ancor più, può suscitare
dubbi e perplessità quest’ultima affermazione: “Il dispotismo è una forma legittima di governo, quando si ha a che fare con barbari, purché il fine sia il loro progresso”.
Alcuni pensatori, comunque, hanno ritenuto On liberty un testo ancora valido proprio perché pone un forte principio di limitazione dell’intervento statale in tutti gli ambiti della società civile. Quello che viene temuto, perché visto o intravisto nel nostro presente, è l’uniformità di modi di vita, di opinioni, di interessi. Come ci si può difendere da quest’onda montante, pericolosissima e che “rende schiava l’anima”? “Impedendo che un potere regni incontrollato”, diceva Mill auspicando che gli uomini siano eccentrici, che venga salvaguardata la
pluralità dei percorsi; perché la libertà mantenga il suo ruolo di fondamentale fattore di progresso è indispensabile che “i potenziali centri indipendenti di irradiamento del progresso
siano tanti quanti gli individui”. Ma questi potenziali centri di indipendenza elaborano sulle
questioni una pluralità di punti di vista e, dunque, sembra che il conflitto, il dissenso svolgano, come garanzia di una “società aperta”, un ruolo fondamentale. Può essere, come sostengono oggi alcuni pensatori, che, trovato il consenso su alcune istituzioni di base della società, tutto il resto sia campo del dissenso? Si possono contrastare con la ricetta di Mill le spinte all’omologazione e all’omogeneizzazione che vengono dalla società?
Come si vede, questi temi sono alcuni fra quelli più rilevanti per la cultura attuale. La lettura dell’opera inevitabilmente porta a chiedersi: è così – o è solo così – che si difendono libertà ed individuo?
Come si legge un brano?
Nel caso specifico di singoli brani antologici, va osservato che i limiti quantitativi di tali
testi, spesso risultanti da un’opportuna riduzione dell’originale (mediante l’omissione di alcuni passaggi), rendono al tempo stesso più semplice e più complicato il lavoro di analisi e
di comprensione.
Proprio l’incompletezza del testo renderà necessario possedere o acquisire alcune informazioni preliminari sull’opera da cui il brano è tratto: non solo la data di composizione e di pubblicazione, ma la fase di elaborazione del pensiero dell’autore a cui appartiene, le questioni
che vi sono affrontate, il contesto – ad esempio, i dibattiti o la pubblicazioni di opere consimili – in cui si inserisce.
D’altro canto, il brano potrà risultare di più semplice lettura, perché al suo interno saranno
state messe a fuoco un’affermazione, una tesi, un’argomentazione ritenute importanti. Il lavoro di analisi, a sua volta, può essere più accurato e analitico, frase per frase, periodo per
periodo, al fine di seguire ogni passaggio di un ragionamento, di un’argomentazione.
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2. “VEDERE” E VISUALIZZARE LA FILOSOFIA
La filosofia non si dovrebbe poter “vedere”. È il campo dell’astrazione, spesso dei discorsi e dei ragionamenti più rarefatti, più lontani da ciò che è visibile. Il suo “sguardo” è solo
quello della mente.
Ma la conclusione sarebbe troppo sbrigativa. Una visibilità al ragionamento filosofico si
può dare e non si tratta di una scorciatoia di dubbia legittimità, da riservare, comunque, a chi
non è in grado di seguire la strada maestra del ragionamento astratto e delle sue argomentazioni. Al contrario, bisogna prima aver messo in funzione il pensiero, trovato concetti portanti, idee dominanti, imparato a connettere concetti tra di loro e a ripercorrere argomentazioni.
“Vedere” aiuta, favorisce la “messa a fuoco” dei passaggi nei ragionamenti, dei temi comuni, delle dimostrazioni e delle spiegazioni.
Il discorso filosofico può essere rappresentato nella trama dei concetti che lo attraversa, nei
nodi problematici che lo caratterizzano, nelle differenze tra le tesi dei filosofi, nella messa in
evidenza dei problemi principali e delle loro soluzioni.
Dunque, si può accompagnare il ragionamento astratto con la sua visualizzazione. Non è
una “banalizzazione” del discorso filosofico, ma un’altra sua modalità di presentazione, altrettanto valida di quella che usa il codice verbale.
Si tratterà di usare e, soprattutto, di costruire mappe concettuali, schemi, raffigurazioni,
di capirne i criteri.
Che cos’è una mappa concettuale
Le mappe concettuali sono – è noto – uno strumento “per far emergere i significati insiti
nei materiali da apprendere” (J. D. Novak D. B. Gowin, Imparando ad imparare, SEI, Torino 1989); o meglio ancora, le connessioni di significato tra i concetti. Quando si parla di
concetti si intende “una ‘regolarità’, un insieme di caratteristiche costanti, riscontrate negli
eventi o negli oggetti e designata con un nome”.
Il termine “mappa” in senso figurato indica la rappresentazione schematica di una rete concettuale. Una mappa concettuale evidenzia dunque i nessi logici tra concetti, così come sono
espressi nelle proposizioni. Se dico: “il ferro è un metallo”, questa è una proposizione in cui
è stabilita, appunto, una connessione tra i due concetti di “ferro” e “metallo”.
In genere le mappe concettuali assumono una configurazione gerarchica, dai concetti generali (o più importanti o più inclusivi) posti in alto, a quelli meno generali, meno inclusivi.
È abbastanza evidente come possa essere proficuo l’uso di mappe concettuali in filosofia,
cioè in una materia tutta costruita su elementi e contenuti astratti, su “concetti”, relazioni tra
concetti, gerarchie di concetti.
Sarà così possibile mettere a fuoco le idee-chiave e le loro relazioni, evidenziare concetti
e proposizioni, sollecitando l’analisi o la ricostruzione di argomentazioni.
Oltre che in sede di verifica dell’apprendimento, le mappe possono essere prezioso strumento da usare nelle prove di ingresso, per “vedere” come lo studente strutturi e colleghi i
concetti. Nel corso del processo di apprendimento, esse permettono di accertare con immediatezza dove lo studente ha mal compreso o frainteso significati e connessioni e, quindi, di
comprendere e correggere gli “errori”.
Per imparare a costruire mappe si possono seguire strade diverse a seconda di situazioni,
competenze degli studenti, materiale da apprendere, ecc. Ad esempio, si può partire da una
lista di concetti – arché, materia, principio – chiedendo agli studenti di individuarne le connessioni mediante verbi-legame. Oppure si possono proporre liste di concetti da ordinare gerarchicamente. Ad esempio, per la metafisica di Aristotele la lista potrebbe essere: accidente, forma, essere, sostanza, materia...
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Un buon esercizio può essere quello di partire da un testo, da un brano antologico. Su questo testo si chiederà agli alunni di compiere alcune attività, guidate o meno: sottolineare le
frasi più importanti, a volte sostituire ad intere frasi delle “nominalizzazioni”, individuare i
concetti-chiave del testo e altri concetti.
Qui di seguito vengono proposti tre esempi di costruzione di mappe concettuali a partire da testi di Platone, di Cartesio e dello studioso dell’Esistenzialismo Pietro Chiodi, su cui
ipotizziamo che siano state svolte le attività preliminari appena descritte.
PlAtonE: Repubblica, libro II
– E va bene dissi ho capito. Ma così, a quanto sembra, non ricerchiamo più soltanto
come nasca una città qualsiasi, ma come una città lussuosa. E forse non è male, ché
lo studio di un simile Stato ci farà comprendere meglio ove, negli Stati, s’impianti la
giustizia e l’ingiustizia. Ad ogni modo la vera città a me sembra quella che ho già descritto, in quanto è sana; ma se volete che se ne prenda un’altra in esame, città malata, nulla ce lo impedisce. Alcuni, infatti, come credo, non saranno contenti di queste
regole, né del nostro regime; ad essi faran comodo [a questo punto all’elenco che segue si può pensare di sostituire un unico nome o “concetto”, ad esempio quello di “superfluo”] letti, tavole ed altri arredi; non solo, ma prelibati bocconi ed unguenti, e profumi e cortigiane e dolci, e tutto in abbondanza e di qualità diverse. E fra le cose necessarie non saran più messe soltanto quelle di cui prima abbiamo parlato, come le case, i vestiti, le calzature: ma ci sarà bisogno anche della pittura, degli ornamenti, e ci
vorrà oro, avorio, ed ogni altro tipo di preziosi. No?
– Eh sì – disse.
– E così la città dovrà essere ingrandita, ché, la prima, quella sana, non basta più: occorrerà, dunque, riempirla di gran quantità di cose e di innumerevole folla, che pur
non essendo necessarie si trovan tuttavia nelle città: [anche in questo caso si potrebbe trovare un unico nome che riassuma tutti questi uomini e attività] come, ad esempio, cacciatori di ogni specie e coloro che son dediti all’arte imitativa, come quei molti che si occupano di forme e di colori, e gli altri che si occupano di musica, poeti e
loro esecutori, rapsodi, attori, ballerine, impresari: e fabbricanti di ogni specie di suppellettili, soprattutto di belletti e cosmetici da donna. E avremo così bisogno di una
sempre maggiore quantità di servizi. Non pare anche a te che occorreranno pedagoghi, balie, nutrici, pettinatrici, barbieri e cuochi e macellai? Ed avremo bisogno anche
di porcai. Tutto questo, invece, non si trovava affatto nella nostra prima città, ché non
ne avevamo bisogno; in questa, invece, tutto è indispensabile. E ci occorreranno anche animali d’ogni specie, dal momento che c’è chi se ne nutre. Non è così?
– E come no!
– E poi, con un tale tenore di vita, molto più di prima avremo bisogno di medici?
– Molto più.
E così il paese che prima bastava a nutrire i suoi abitanti diverrà troppo piccolo per tutti i bisogni: o non è da dirsi?
– Proprio così! – affermò.
– Occorrerà quindi occupare, a nostro favore, il territorio dei vicini, se vogliamo avere terra sufficiente ai nostri pascoli e ai nostri coltivati. Ma anche i vicini avranno lo
stesso bisogno del territorio nostro, se, presi dalla smania di oltrepassare i limiti del giusto, come noi si abbandonino ad insaziabile desiderio di ricchezze.
– Per forza, o Socrate – egli rispose.
– E di qui la guerra, Glaucone; oppure no?
– Proprio così disse.
– Non è ora il momento di dire – affermai – se la guerra sia un bene o un male: limitiamoci a dire che intanto abbiamo scoperto l’origine della guerra proprio in questa
passione che è per gli Stati ed i privati il più funesto flagello che possa toccare.
– Senz’altro.
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Per ipotesi alcuni concetti li abbiamo già identificati e messi in evidenza (città sana, città
malata o città lussuosa, necessario, superfluo, origine della guerra...); altri – o una specificazione di quelli indicati – possono essere ricavati lavorando sulle frasi sottolineate.
Si dovrà ora scegliere il tema – e quindi il titolo – della mappa. Scelte diverse conducono
a realizzare mappe differenti: ad esempio “la città malata” o “la città sana”, oppure “dalla città sana alla città malata”, o ancora “l’origine della guerra”.
A seconda della scelta fatta sistemeremo in alto nella mappa il concetto più importante (nel
caso del titolo “la città malata” sarà questo il concetto cardine), poi ordineremo gli altri “concetti” connessi al primo in modo da specificare in che cosa consista il suo essere “malata”,
come sia strutturata, che cosa faccia, come operi la “città malata”.
la città malata
cerca
il lusso, il superfluo
perciò
richiede
più beni
deve ampliare
altre attività
e professioni
il suo territorio
mediante
la guerra
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CARtEsIo: I
principi della filosofia, Parte I,9
Con la parola pensare intendo tutto quello che avviene in noi in modo da essere percepito immediatamente da noi stessi; ecco perché non solo intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso che pensare. Se infatti dico di vedere o camminare, e da questo arguisco di esistere, se intendo parlare dell’azione che si fa con i
miei occhi o con le mie gambe, questa conclusione non è così infallibile, che io non
abbia qualche motivo di dubitarne, per la ragione che può accadere che io pensi di
vedere o di camminare, benché non apra affatto gli occhi e non mi muova dal mio posto; ciò infatti mi accade talvolta dormendo, e lo stesso potrebbe forse accadere se non
avessi corpo; mentre se intendo parlare solo dell’azione del mio pensiero, o del sentimento, cioè della conoscenza che è in me, per la quale a me sembra di vedere o di
camminare, questa stessa conclusione è così assolutamente vera, che non mi è possibile dubitarne, per la ragione che si riferisce all’anima, che sola ha la facoltà di sentire o di pensare in qualsiasi altro modo.
Oltre, ovviamente, a “pensare”, si sottolineerà “percepito”. Si potrebbe sottolineare tutta la
frase: “tutto quello che avviene in noi in modo da essere percepito immediatamente da noi
stessi”. Successivamente anche “intendere”, “volere”, “immaginare” e “sentire”.
Per il seguito del brano ho almeno due possibilità: o seguire passo passo il testo distinguendo tra “l’azione” del vedere, del camminare, ecc, oppure andare subito a sottolineare “azione del mio pensiero o del sentimento”, “conoscenza che è in me … del vedere e del camminare”. Aggiungerò “conclusione assolutamente vera”, oppure ‘indubitabile’.
E, infine, la ragione per cui non posso dubitare di questa conclusione: “si riferisce all’anima, che sola ha la facoltà di sentire o pensare”.
Se ora passiamo alla costruzione della mappa possiamo mettere come “concetto” superiore il “pensare”, ma anche partire dall’“anima”.
Nel primo caso il titolo della mappa concettuale sarà, come nel passo di Cartesio “Il pensare”, nel secondo diverrà “L’anima e il pensare”.
Sviluppando la prima mappa avremo:
il pensare
è
ciò che avviene in noi
ed è
percepito immediatamente da noi
ossia
intendere volere immaginare sentire
che sono
azioni
dell’anima
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Se invece il titolo della mappa è “L’anima e il pensare”, la mappa potrebbe essere così:
l’anima
ha
la facoltà
di
pensare
cioè di
intendere volere immaginare sentire
che avvengono in noi
e sono
pecepiti immediatamente da noi
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PIEtRo CHIoDI: Il
pensiero esistenzialista
l’esistenza
La nozione di “esistenza” è certamente la chiave di volta della problematica esistenzialistica, e costituisce quindi la via di accesso più naturale alla sua comprensione. Ma
proprio per questo essa porta in sé latente il pericolo dei più gravi equivoci, il primo
dei quali è connesso alla definizione dell’esistenzialismo come “filosofia dell’esistenza”. Questa designazione, che ha il valore di tutte le etichette, può indurre chi avvicini il fenomeno esistenzialistico per la prima volta, a credere che esso sia caratterizzato dalla scelta privilegiata dell’esistenza a proprio oggetto, in luogo dell’essenza, dello
spirito, della materia, di Dio, della società. Niente di più fuorviante. Perché, proprio al
contrario, l’esistenza ha per l’esistenzialismo il carattere fondamentale della inoggettivabilità: l’esistenza e ciò che non può mai essere oggettivato, contrapposto come oggetto ad un soggetto che filosofi, perché essa è invece la natura costitutiva di questo
soggetto stesso.
Ma se l’esistenza è la natura del soggetto filosofante, ed è come tale caratterizzata dalla inoggettivabilità, ne viene che essa è propria esclusivamente dell’unico soggetto filosofante a noi noto, l’uomo. Questo secondo carattere dell’esistenza sottrae il termine al suo uso tradizionale, in cui esso, contrapposto ad essenza, valeva a determinare
tutti gli enti forniti di realtà attuale (Dio, l’albero, l’uomo, la nuvola, ecc). L’esistenza è
inoggettivabile ed è propria esclusivamente dell’uomo. A questi due caratteri ne va aggiunto subito un terzo. L’esistenza è un modo di essere finito. La finitudine dell’esistenza è strettamente connessa alla sua inoggettivabilità e non generalizzabilità; questi due
caratteri sono infatti determinazioni limitative e negative dell’essere che definiscono:
essi dicono ciò che l’esistenza non è e non può essere. Nel cuore stesso dell’esistenza
si annida dunque un non-essere, e questo spiega il peso decisivo che la negatività e il
nulla avranno nello sviluppo della problematica esistenziale. Qui basti osservare che il
negativo è per l’esistenzialismo un carattere costitutivo della realtà esistenziale e non
una determinazione secondaria, connessa o al nostro modo di vedere il positivo o alla dialettica attraverso cui il positivo prende consapevolezza di sé.
Inoggettivitabilità, non generalizzabilità, finitudine e negatività sono dunque i caratteri che l’esistenza assume in una problematica esistenzialistica. Ma questi caratteri, pur
valendo a identificare quell’ente a cui va riservata l’esistenza, non ci dicono ancora
nulla sul suo modo di essere. In altre parole, questi caratteri definiscono l’esistenza sul
piano di una caratterizzabilità esterna, di una contrapponibilità ad altri enti (piano ontico), ma nulla ci dicono dell’unità interna, del modo di essere di questo ente (piano
ontologico). [...]
Il modo di essere dell’esistenza non è la realtà o la necessità, ma la possibilità. [...] Il
modo di essere dell’esistenza non-oggettivabile, non-generalizzabile, finita e negativa
è quello della possibilità reale. Il piano categoriale su cui deve dunque muoversi una
filosofia dell’esistenza è quello della possibilità. Che il modo di essere dell’esistenza sia
la possibilità significa che l’esistenza è un poter-essere. L’esistenza, come modo di essere dell’uomo, non è ciò che è per “natura”, non è una realtà prestabilita ed immodificabile, come quella delle cose o degli animali. La tigre non può che essere tigre,
l’agnello agnello, l’angelo angelo e il demone demone; ma l’uomo sarà in ogni caso
ciò che ha deciso di essere, tigre o agnello, angelo o demone, oppure angelo e demone. E questo perché il suo modo di essere è un poter essere, un uscir fuori verso la decisione e l’autoplasmazione, un ex-sistere. L’esistenza è, dunque, incertezza, problematicità, rischio, decisione, slancio in avanti. Slancio verso che cosa? Qui cominciano
a dividersi le correnti dell’esistenzialismo, a seconda delle risposte: Dio, il mondo, se
stesso, la libertà, il nulla.
Leggendo con attenzione il testo emergono i tratti che, secondo la lettura di Chiodi, appartengono all’esistenza: inoggettivitabilità, non generalizzabilità, finitudine e negatività. Per
ciascuno di questi caratteri è agevole trovare nel testo il significato corrispondente.
“Inoggettivitabile” è ciò che non può essere inteso come un oggetto che sta dinnanzi a un
soggetto che filosofa.
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L’esistenza “è propria esclusivamente … dell’uomo”. Ed è quanto Chiodi intende dire con
“non generalizzabile”, cioè non estensibile, per esempio, alle nuvole o a Dio.
L’esistenza è il modo d’essere di un essere finito, come l’uomo. Se questi sono i primi tratti, ne deriva il quarto: la negatività.
Un’altra parte della mappa dovrebbe essere dedicata alla “possibilità” come modo di essere dell’esistenza. La possibilità è “poter essere”, è “un uscir fuori verso la decisione e l’autoplasmazione, un ex-sistere”. In quanto tale è “incertezza, problematicità, rischio, decisione, slancio in avanti”.
Il risultato di questo lavoro potrebbe portare a una mappa così impostata:
l’esistenza
propria solo dell’uomo
è
ha
è
come modo di
essere
non oggettivabile
cioè
non può essere ridotta
a oggetto
non generalizzabile
cioè
attribuibile
solo all’uomo
finita
segnata da
negatività
cioè
la possibilità
che si
deduce
limitata
è
dai caratteri
precedenti
poter essere
poter decidere
autoplasmarsi
perciò è
incertezza
problematicità
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rischio slancio
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Costruire mappe diverse
Come si è visto, in filosofia sullo stesso argomento possono essere costruite diverse mappe:
non vi è un’unica mappa “vera”, ma diversi modi di rappresentare concetti e connessioni.
Così di Talete possiamo rappresentare
il pensiero nel seguente modo:
talete
afferma che
l’acqua
“Acqua” e “principio di tutte le cose”
sono concetti, “afferma che” ed “è”
sono parole-legame.
è
principio di tutte le cose
Oppure posso dire:
per talete
l’acqua
è
Ma se a questa mappa aggiungo come
connotazione del principio “acqua”, oltre
a “materiale” e “vivente”, anche “divino”
(con riferimento al frammento attribuito a
Talete in cui si afferma che tutto è pieno di
dèi), il significato della filosofia di Talete
cambia, assumendo una coloritura “religiosa”.
un principio
materiale
che genera
vivente
tutte le cose
Se produco, invece, una mappa come la
seguente, accentuo l’aspetto scientifico
della filosofia di Talete:
talete
seleziona
tra i fenomeni naturali
quelli relativi all’umido
principio dei quali
è
l’acqua
Si possono costruire – è bene ribadirlo – tante mappe quante sono le interpretazioni possibili dell’autore, oppure quante sono le prospettive teoriche relative ad un problema.
Come abbiamo potuto notare, la tecnica della costruzione delle mappe e delle visualizzazioni non è complicata. La complicazione, se mai, sta nel dotarsi degli elementi necessari a
costruirle, poiché ciò esige un lavoro di comprensione profonda, di individuazione dei concetti essenziali.
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Visualizzazioni grafiche
Con le mappe si “vede” la filosofia utilizzando prevalentemente le parole. Anche le immagini, tuttavia, possono avere una funzione.
Consideriamone alcune riprese dall’Atlante illustrato di filosofia di Ubaldo Nicola, ed. Demetra 1999.
Platone – L’Idea del Bene (il paradigma del Sole)
L’immagine platonica del Sole, utilizzata per “spiegare” la funzione dell’Idea del Bene, è una delle più famose.
La raffigurazione è suddivisa in due parti. Quella inferiore riproduce il paradigma del Sole che illumina e
rende possibile all’uomo percepire con la vista gli oggetti. Quella superiore mostra, invece, l’Idea del Bene,
che, afferma Platone, conferisce essere e conoscibilità alle Idee. Una freccia parte dall’Idea del Bene e arriva
fino alla mente dell’uomo, a significare che questa Idea consente la conoscenza, illuminando la mente umana
e rendendo così possibile la visione delle Idee. Così vi è anche una freccia che dalla testa dell’uomo va fino
alle Idee, che l’uomo può conoscere. Ma la raffigurazione sottolinea in modo netto la differenza che vi è – nella concezione platonica – tra il mondo delle Idee e il mondo sensibile: e viene usato il termine “partecipazione” per significare la modalità del rapporto tra le Idee e le cose.
Plotino – Le tappe dell’emanazione
Il disegno qui riportato rappresenta immediatamente la struttura gerarchica e verticale della realtà secondo
Plotino, con l’Uno a occupare la posizione più elevata.
La catena Uno-Spirito-Anima-materia è ben visibile. Ed è chiara anche la collocazione della materia ai livelli più bassi di realtà (e con caratteri grafici minori rispetto a quelli degli altri gradi risultanti dall’emanazione): è la materia prope nihil, “quasi niente”.
Accanto alla via dell’exitus c’è anche quella del reditus, cioè dell’ascesa dell’uomo verso l’Uno con la mediazione dell’Eros, dell’arte, della forma e del pensiero.
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Come costruire mappe, schemi e altre visualizzazioni
Come abbiamo potuto notare, la tecnica della costruzione delle mappe e delle visualizzazioni non è complicata. La complicazione, se mai, sta nel dotarsi degli “ingredienti” necessari a costruirle, poiché avere
questi ingredienti esige un lavoro di comprensione profonda, di semplificazione e di essenzializzazione
concettuale.
Bisognerà stabilire innanzitutto a quale livello si vuole porre la nostra costruzione visiva:
• si può ricostruire la struttura di un singolo concetto;
• si possono evidenziare le caratteristiche di una parte della filosofia, dall’etica alla metafisica, ecc.;
• si possono mettere in evidenza le suddivisioni fondamentali della filosofia di un pensatore;
• si può confrontarla con quella di un altro o di altri;
• si possono delineare i caratteri principali del pensiero di un secolo, di un’età, di una civiltà;
• si può ricostruire l’intero percorso di un problema, ad esempio quello della conoscenza, in tutto il pensiero occidentale.
Ognuna di queste scelte impone vincoli e pone difficoltà specifiche; confondere i piani o sovrapporre
concetti e parti delle filosofie, genererebbe confusione o sarebbe sintomo di confusione. I “mattoni” dell’edificio da costruire sono parole-chiave, concetti essenziali, relazioni tra concetti, connessioni tra parole-chiave.
Una volta raccolti questi elementi costruttivi, ci vuole un “progetto”, un disegno d’insieme, come in
un’opera di architettura. Ancora una volta si tratterà di avere in mente un disegno della filosofia, dell’indirizzo di pensiero, della parte della filosofia che si vuole rappresentare.
Il lavoro di visualizzazione – almeno fino a quando non si diventerà esperti – e forse anche dopo – è un
lavoro per tentativi, per successive fasi di approssimazione all’idea che abbiamo in mente o a una rappresentazione adeguata di ciò che vogliamo visualizzare. Si deve sempre tener presente – lo si è già detto per
le mappe concettuali, ma in filosofia questa raccomandazione è essenziale – che non c’è una sola rappresentazione valida e corretta, perché diversi possono essere i punti di vista, le interpretazioni, le prospettive
che si vogliono evidenziare. L’importante in filosofia è “giustificare”, “spiegare”, “argomentare”, “fondare” quel che si afferma. Il lavoro di visualizzazione si potrà prolungare in un discorso, in una “legenda”,
ma potrebbe rimanere anche “senza parole”, come un messaggio che ha in sé tutti gli elementi necessari. È
appena il caso di dire che questo lavoro grafico-visuale può trovare nel computer un prezioso e valido “aiutante”, che suggerisce nuove possibilità espressive e rende più facile il prova e riprova.
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Arte e filosofia
Anche la storia dell’arte è ricca di rappresentazioni utilizzabili per l’insegnamento della filosofia.
Con l’intento di offrire spunti per un lavoro didattico che coniughi insieme arte e filosofia,
vengono proposti alcuni esempi di opere d’arte che si prestano anche a una lettura filosofica
perché contengono rappresentazioni della filosofia (come nel caso della Scuola di Atene di
Raffaello) o perché esprimono e rappresentano orientamenti culturali e di pensiero, o perché
si ispirano a tematiche filosofiche (come il sentimento dell’angoscia di Kierkegaard nell’Urlo di Munch).
Il Doriforo di Policleto
Il grande scultore greco Policleto (nato ad Argo nel 480 a.C. ma operante a Olimpia e in
Attica) fu l’autore del Canone, un trattato (andato perduto) che conteneva l’insieme di regole da applicare nella riproduzione del corpo umano, secondo un modello basato su una proporzione matematica tale da assicurare l’ordine armonico da cui dipendeva la bellezza.
Tali regole egli le applicò, ad esempio, nel Doriforo (ovvero “portatore di lancia”): qui l’equilibrio dinamico tra le
varie parti del corpo viene assicurato da un’altezza della
testa pari a un ottavo di quella del corpo e dalla corrispondenza: a) tra la flessione di una gamba e un abbassamento della spalla dal lato opposto; b) tra la gamba portante e il braccio abbassato sullo stesso lato; c) tra l’altra
gamba piegata e il braccio flesso sullo stesso lato.
Si tratta di un canone estetico rintracciabile,
con tutte le varianti possibili, in molte altre opere d’arte di quel periodo.
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Miniature sul De civitate Dei di Agostino
Le immagini riprodotte (uno dei tanti esempi del periodo medievale, miniature tratte dal
codice del De civitate Dei, Scuola di Canterbury, XI-XII sec. Firenze, Biblioteca Medicea
Laurenziana) assurgono a simboli della concezione agostiniana e sono capaci di rappresentarla e comunicarla anche ai “non filosofi”, al popolo pio ma non colto, attraverso una sorta
di insegnamento per immagini, che accompagnerà per secoli il magistero ecclesiastico.
3
2
1
1. la Città terrena: le fatiche dell’uomo
1. la Città celeste: la Chiesa
2. la Città terrena: le disgrazie dell’uomo
2. la Città celeste: i vari ordini degli eletti
3. Il giudizio particolare dell’anima
3. la Città celeste: il Cristo
Netta, qui, è la rappresentazione delle differenze tra le due Città, a sinistra quella terrena e
a destra quella celeste.
Per ciò che riguarda la Città terrena in basso a sinistra vi sono descritte le fatiche dell’uomo, tratteggiate con la descrizione del lavoro dei campi; sopra sono invece descritte le disgrazie dell’uomo, a cominciare dalla più tremenda, la guerra, frutto della peggiore malvagità, cioè dell’“amore di sé portato fino al disprezzo di Dio”; più in alto ancora, infine, viene
raffigurato il giudizio dell’anima (con la bilancia che soppesa meriti e colpe), da cui deriverà il suo destino ultimo, tra i diavoli o tra gli angeli.
Per ciò che riguarda la Città celeste: in basso vi è rappresentata in tutta la propria solennità la Chiesa, con le sue gerarchie; sopra, invece, sono raffigurati i vari ordini degli eletti, chiamati in Cielo dall’“amore di Dio portato fino al disprezzo di sé”; in alto, infine, vi è il
Cristo, contornato dagli angeli.
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La flagellazione di Cristo di Piero della Francesca
Nella Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca
(Urbino, Galleria Nazionale delle Marche), ma anche in
altre sue opere (ad esempio nel Battesimo di Cristo della
National Gallery di Londra), è possibile verificare il pieno affermarsi di quella tecnica della prospettiva che è stata ‘scoperta’ dagli artisti del Rinascimento e su cui lo
stesso Piero ha scritto un trattato teorico, De prospectiva
pingendi.
Si tratta della dimostrazione esemplare di una vera e
propria “scienza dell’arte” (Dino Formaggio), cioè di
quella connessione tra arte e scienza che è uno degli
aspetti costitutivi della cultura rinascimentale.
Disegno dal De prospectiva pingendi.
Piero della Francesca, Flagellazione di Cristo, 1459 (?).
Nel dipinto sono evidenti la costruzione di uno spazio prospettico e una perfetta proporzione geometrica tra le varie parti dell’opera.
Al di là del suo carattere geometrico, la prospettiva implica inoltre uno ‘sguardo’ sulle cose dal punto di vista dell’uomo: anch’essa, dunque, è segno dell’Umanesimo.
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La Scuola di Atene di Raffaello Sanzio
Proprio nel Rinascimento viene realizzata
l’opera artistica in cui troviamo la più celebre
rappresentazione pittorica della filosofia: la
Scuola di Atene di Raffaello (Stanze Vaticane,
Roma).
Scuola di Atene
1. Platone
2. Aristotele
3. Socrate
4. Senofonte
5. Eschine (o Alcibiade)
6. Alcibiade (o Alessandro)
7. Zenone
8. Epicuro
9. Federico Gonzaga
10. Averroè
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11. Pitagora
12. Francesco Maria della Rovere (?)
13. Eraclito (Michelangelo)
14. Diogene
15.Euclide
(Parmenide)
16. Zoroastro
17. Tolomeo
18. Autoritratto di Raffaello
19. Ritratto del Sodoma
Platone e Aristotele sono ritratti al centro
della raffigurazione come i due paradigmi del
pensiero filosofico: Platone con la mano e il
dito indica la direzione che porta verso il mondo delle Idee, verso la trascendenza, oltre il
mondo del divenire, mostrando all’uomo la via
di un mondo soprasensibile, del “vero” mondo;
Aristotele, invece, indica il mondo terrestre,
del divenire, il mondo delle sostanze, la realtà
in cui il pensiero umano deve operare.
Ma nell’affresco viene riprodotto l’intero
olimpo della filosofia greca: Eraclito, Parmenide, ecc. L’arte qui testimonia, in forma insuperabile, l’operazione intellettuale di recupero e
reinterpretazione della classicità attuata dal Rinascimento italiano.
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Viandante sul mare di nebbia e Monaco in riva al mare di Caspar David
Friedrich
Dall’analisi dei quadri del pittore tedesco Caspar David Friedrich (1774-1840) è possibile
recuperare alcuni aspetti del pensiero romantico.
Nel primo quadro, Viandante
sul mare di nebbia, la figura
umana, solitaria, posta in primo
piano rivela tutta la sua solitudine dinnanzi all’immensità della
natura, all’assoluto, dalla cui
profondità inattingibile (il “sublime”) affiorano solo vette e
nubi: emblema di quella coincidenza tra finito e infinito cui
l’anima romantica vanamente
aspira.
Nel secondo quadro, Monaco
in riva al mare, si può cogliere la
presenza di tre zone contrastanti:
una chiara in basso, desolata,
con la piccola figura di un monaco; una intermedia, cupa, che descrive un mare color verde-azzurro-nerastro, entro cui penetra
appena la figura del monaco;
una superiore, che descrive la
vastità del cielo e che è invece
azzurra e luminosa, occupando
gran parte del quadro. Tale contrasto e disarmonia, scrive a commento Friedrich Schlegel,
“dà all’uomo l’apparenza dell’infelicità, dell’incompiutezza, della mancanza di nessi. L’uomo è stato destinato a sposare l’infinito con il finito; la completa coincidenza è però del tutto irraggiungibile”.
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L’urlo e Angoscia di Edvard Munch
Nel panorama delle Avanguardie che – tra il
XIX ed il XX secolo – mettono in discussione
i canoni estetici dell’Ottocento, in particolare
il verismo positivista, si colloca il pittore norvegese Edvard Munch (1863-1944).
In lui forte ed esplicita è l’influenza di Kierkegaard e, più in generale, del moto di pensiero che – nello stesso periodo – contribuisce a
mettere in crisi l’idea positivista di “ragione”.
Il concetto kierkagaardiano di angoscia, che
sarà dominante nell’Esistenzialismo novecentesco, traspare in opere celebri come L’urlo e
Angoscia.
Nella prima l’angoscia si manifesta non solo
nel volto in primo piano, ma anche nelle lingue
rosso sangue che percorrono il cielo al tramonto del sole, e nelle torsioni ossessive dell’ambiente naturale (alla destra del quadro), come
se ad “urlare” fosse la natura stessa.
Nella seconda, invece, l’angoscia traspare
dai volti degli individui che compongono la
“folla solitaria” che avanza verso chi osserva il
quadro, manifestando una silenziosa sofferenza e paura di vivere.
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La Danza di Henri Matisse
Nel capolavoro di Henri Matisse, La Danza (1909-1910), si è voluto vedere l’influsso – tra
gli altri – di Bergson, della sua “evoluzione creatrice”; ma traspare anche il “sì alla vita” di
Nietzsche.
Il vivere si manifesta come una danza, in cui l’energia vitale dell’uomo è espressione stessa della natura, dell’armonia del mondo: “il suolo è l’orizzonte terrestre, la curva del mondo;
il cielo ha la profondità turchina degli spazi interstellari; le figure danzano giganti tra la terra e il firmamento” (Giulio Carlo Argan).
Lo stesso Matisse, nel commento al quadro, descrive lo sforzo estremo di esprimere questa spinta in avanti della realtà, dell’essere, nei corpi, nella terra e nel cielo, attraverso colori “classici” ma portati alla massima
intensità, rendendo il cielo “più blu
dei blu” e lo stesso facendo “per il
verde della terra e per il vermiglione vibrante dei corpi”.
Allestimento de La Danza di Matisse all’Hermitage di Amsterdam.
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Umberto Boccioni e la rappresentazione del movimento
Il concetto di tempo-durata di Bergson sembra essere rappresentato efficacemente anche attraverso le opere dei pittori futuristi, per la loro capacità di descrivere il
movimento e, allo stesso tempo, di scomporre gli oggetti e rappresentarli da più angolazioni e punti di vista.
Nella scultura di Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio
(1913), si realizza una “sintesi dinamica” del tempo e dello spazio nella velocità,
attraverso un corpo che, nel movimento espresso da una statua di bronzo, si deforma fendendo lo spazio. In tale rappresentazione del corpo in movimento il
passato e il futuro si congiungono in una sintesi dinamica, ‘fluida’, attraverso il
presente, con una fusione bergsoniana delle sequenze temporali, che non vengono più rappresentate come successione di istanti.
Le muse inquietanti di Giorgio de Chirico
Nella pittura metafisica di Giorgio De Chirico
(1888-1978) si manifesta una netta presa di distanza dal Futurismo, attraverso un distacco dalla
realtà e, soprattutto, dal movimento del tempo.
Nel celebre quadro Le muse inquietanti, lo spazio,
in fondo al quale sono collocati insieme un palazzo ad architettura classica e l’edificio di un’industria con due ciminiere, risulta del tutto vuoto di
ogni presenza umana. Vi sono solo due Muse, una
in piedi ed una seduta, dalla forma ambigua di colonna, statua e manichino, più alcuni oggetti apparentemente insignificanti, ad accentuare l’inspiegabilità e l’arcano dell’insieme, il senso di
vuoto, di immobilità, di silenzio assurdo che pervade la rappresentazione.
Dietro il freddo scrupolo – ma anche l’assenza
di significato – con cui gli oggetti sono messi insieme, vi è un vuoto umano che può far pensare
ad una pittura, sì, “metafisica”, ma nella quale ciò
che viene realmente rappresentato è la crisi della
Metafisica del Soggetto. Si è parlato, in tal senso,
di un’influenza di Schopenhauer e Nietzsche, prima ancora che si affermi, nella filosofia europea,
il pensiero di Heidegger.
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Il modello rosso di René Magritte
Il dipinto Il modello rosso (1937) di René Magritte delinea la visione surrealista della realtà. Il
Surrealismo è un movimento che si afferma sotto il segno di Freud e dell’inconscio, a cui i suoi
esponenti si richiamano esplicitamente. Essi intendono descrivere il “lavoro onirico”, ossia “le
particolari modalità con cui le immagini si organizzano nel sogno”. Nel quadro si è voluto vedere “all’opera il meccanismo psichico della condensazione, tipico del sogno: ciò che contiene
(la scarpa) è diventato ciò che è contenuto (il
piede)” (Ubaldo Nicola).
Angelus Novus di Paul Klee
L’acquerello Angelus Novus del pittore Paul
Klee è stato acquistato nel 1921 dal filosofo
Walter Benjamin che ne ha fatto un oggetto di riflessione, in particolare nella sua nona Tesi di filosofia della storia. “C’è un quadro di Klee che
s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo
che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su
cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la
bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia
deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al
passato. Dove ci appare una catena di eventi,
egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi
piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i
morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta
spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue
ali, ed è cosi forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente
nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che
chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
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L’arte nel cyberspazio
Ma già avanza all’orizzonte la nuova arte del cyberspazio di Internet: quale immagine e
quale arte per la filosofia del Nuovo Millennio?
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