Numero Dicembre `11

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Dicembre '11
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Dicembre '11
Numero Dicembre '11
EDITORIALE
Ultimo numero del 2011 per “Fuori dal Mucchio”, l'appuntamento mensile sulle pagine –
fisiche e virtuali – del Mucchio dedicato a quanto di più interessante accade nell'ambito
dell'underground musicale tricolore. Un'annata nella quale non sono mancati i buoni dischi,
come dimostra la lista delle nomination al nostro premio dedicato al miglior album d'esordio,
che come ricordiamo è stato vinto da Iosonouncane in volata su I Cani; ma anche un'annata
caratterizzata da una produzione sempre più elevata, per far fronte alla quale abbiamo da un
lato aumentato il numero medio delle recensioni presenti in questo spazio, dall'altro ci siamo
ulteriormente concentrati sul lavoro di selezione a priori, in modo da proporvi soltanto le cose
maggiormente degne di nota.
In attesa di scoprire cosa ci riserverà il 2012, non ci rimane che lasciarvi alla lettura e
augurare a chi di voi sarà tanto fortunato da farle delle ottime vacanze.
Come si dice in questi casi, buona fine e buon principio; oppure, per citare un film di culto,
“buon anno e tante care cose”. Oltre che, come d'abitudine, buone letture e buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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FAST ANIMALS AND SLOW KIDS
Si sono formati a Perugia nel 2008, e dopo l’EP “Questo è un cioccolatino” uscito nel 2010
per la To Lose La Track, è arrivato “Cavalli”, il primo album uscito tra l’altro per la Ice For
Everyone, vale a dire l'etichetta degli Zen Circus. Sono quattro ragazzi che vogliono
irrompere e non soprassedere. Le loro canzoni cantate in italiano sono come una martellata
centrata che infila il chiodo al muro, e la base è davvero buona per appendere il quadro
dritto. Dal vivo piacciono almeno quanto i loro produttori, che infatti se li portano
orgogliosamente in tour. Ne parliamo con il cantante e chitarrista Aimone Romizi.
C'è un riferimento musicale che vi trova tutti d'accordo e che vi ha portati a definire la
vostra idea di gruppo?
Un riferimento unico per tutti è sempre difficile da individuare anche perché noi nella nostra
unicità, tendiamo ad ascoltare tantissima musica. Mi vengono in mente gli At The Drive-In
che forse sono quelli che ci hanno influenzato maggiormente.
I vostri testi sono come pensieri quasi sempre disimpegnati che accompagnano il
suono che considero d'altro canto molto solido e d'impatto. Come mai questa scelta?
In realtà i nostri testi sono solo in apparenza "disimpegnati". Ti spiego. È un po' come
quando vedi un quadro: all'inizio ti accorgi solo dell'aspetto generale, dell'aspetto istintivo.
Poi, guardandolo con più attenzione, ti accorgi di un piccolo particolare e poi di un altro e un
altro ancora e pian piano il quadro diventa totalmente diverso e prende significati che prima
non riuscivi a percepire e per i nostri testi è un po' la stessa cosa.
L'immagine che vorreste dare di voi è sbarazzina e giocherellona se ci portano
davanti la copertina. In che senso vi sentite ad esempio un album da colorare?
Un album da colorare ti rende felice. Noi, in realtà, ci sentiamo solo quelli che suonano
dentro a tale album da colorare, senza dover necessariamente essere sbarazzini o
giocherelloni. Il concetto è che tramite l'utilizzo di bei pennarelli di mille colori, speriamo di
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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renderti più felice. Una cosa come: "colora, sii felice, beviti una birra o, che so, abbraccia la
tua ragazza, guarda un paesaggio, corri su un prato". Una cosa così.
Da quale canzone è iniziata la composizione del disco e come avete organizzato la
vostra ideazione creativa?
In realtà non c'è stata una vera e propria “composizione di disco”. “Cavalli” è più che altro un
best of della nostra vita di band, il meglio delle idee che sono venute ai nostri cervelli.
Abbiamo preso le canzoni che sono maturate in quest'ultimo anno (la prima è stata
"Mangio") e le abbiamo messe assieme, cercando di non perdere di vista il significato che
ciascuna possedeva. Il disco è quindi una sorta di mosaico fatto di tasselli diversi fra loro.
Il vostro modo di cantare come un megafono è voluto e studiato o vi è venuto
naturale allo stadio embrionale del vostro gruppo?
Influenze musicali, carenze vocali e tante parole da raccontare, credo siano i tre punti focali
che hanno portato a sviluppare il nostro modo di cantare in direzione del ‘megafono’. È stato
quindi tutto inconsapevolmente naturale.
Qual è il vostro intento nei confronti di chi vi ascolta? Cosa vorreste vi dicesse?
Il nostro intento è chiaramente piacergli, ma magari ci basterebbe anche riuscire a farlo
pensare a qualcosa, qualsiasi cosa, purché tale pensiero gli rimanga in testa.
Per
quanto riguarda quello che vorremmo sentirci dire è molto probabilmente: ‘complimenti!’ Ci
piace un bel po' gonfiare il nostro ego.
Cosa deve avere una vostra canzone per soddisfarvi?
Qui non saprei davvero come risponderti. Posso solo dirti che se anche un singolo aspetto
della canzone non convince uno di noi quattro o si cambia l'arrangiamento o si butta via
l'intera canzone. Non ci sono scuse.
Dove e come è stato registrato il vostro disco e come sono andati quei giorni, cosa
pensate d'aver imparato in più come esperienza musicale?
Il nostro disco è stato registrato al Sam World Studio di Lari. Uno studio fantastico, gestito
da persone squisite. Quelli sono stati giorni di musica, giorni di concentrazione, giorni che ci
hanno fatto pensare alla verità confermata che dietro la magia di un disco ci sia tanta fatica
ed impegno. Credo comunque che la cosa più importante che abbiamo capito è che se un
gruppo suona bene il disco suonerà bene. Questo non è poco.
Chi ha partecipato al disco come musicisti aggiunti, e come hanno reso più belle le
vostre canzoni?
Andrea Appino in qualità di produttore artistico e Giulio Ragno Favero in qualità di
produttore tecnico. Ci hanno aiutato sopratutto sui suoni e in alcuni casi anche in aspetti di
arrangiamento.
Faccio sempre gli esempi di "Guerra" - che grazie a Giulio ha raggiunto secondo noi
l'identità musicale a cui mentalmente puntavamo - e di "Lì" che con le chitarre (anche banjo)
di Appino ha ottenuto quel non so ché di crepuscolare che ci è piaciuto parecchio.
Appino cosa vi ha detto esattamente del disco prima di produrlo?
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Ci ha detto: ‘Voi spaccate!’. Appino e tutti gli Zen Circus sono delle persone incredibili.
Dove vorreste passare il fine settimana come musicisti, potendo anche usare una
macchina del tempo?
Al CBGB's nella fine degli anni 70 non sarebbe male.
Come vivete il vostro essere musicisti in questi anni? Quali sono le difficoltà nuove
dei gruppi di oggi?
Noi siamo un caso un po' strano in realtà. Stiamo girando per i palchi più importanti e belli
d'Italia assieme agli Zen Circus e a Locusta. Loro fanno in modo di farci trovare sempre a
nostro agio e ci aiutano in tutte le problematiche che ci si presentano. È quindi per noi un
momento idilliaco, cosa molto strana per una band emergente come noi. Le difficoltà delle
nuove band sono infatti tutte incentrate nel trovare gli spazi dove suonare e nel riuscire a
farsi un pubblico che apprezzi la proposta. Ogni volta che ripenso a quello che stanno
facendo per noi mi viene un sorrisone a cinquemila denti.
Per avere il disco cosa bisogna fare, oltre venire ai vostri concerti?
Dal 18 novembre basta andare in qualsiasi negozio di dischi e ordinarlo. Che bella frase.
Contatti: www.myspace.com/fastanimalsandslowkids
Francesca Ognibene
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IN MY JUNE
Il trio degli In My June si affaccia alla musica da un anno appena e già si trova con un afflato
emotivo/creativo tale da portarlo a concepire “Blind Alley”: davvero un ottimo esordio,
appena uscito per la giovane etichetta Garage Records. Si muovono su territori acustici,
dalla melodia che sa osare spingendo sull’intensità ma non dimenticandosi delle ferite da
accarezzare teneramente, attraverso il violoncello di Laura e la voce struggente di Paolo,
che suona anche la chitarra assieme a Ricky.
Come nasce il vostro gruppo e qual è il vostro intento con cotanto progetto che
prevede un violoncello, due chitarre e voci?

In My June nasce nel dicembre 2010 per il bisogno e la necessità di affrontare aspetti ed
emozioni che tendevamo a nascondere, ma che hanno preso sopravvento su di noi e il
risultato finale ci piaceva, così abbiamo continuato. Paolo, voce e chitarra e Ricky, chitarra e
cori, suonano assieme da parecchi anni nel gruppo noise Anarcotici, ed entrambi avevano
da parte idee e pezzi in acustico, così li hanno messi assieme per questo progetto molto
spontaneamente come l'incontro con Laura, già violoncellista e soprano con un’intensa
attività concertistica e che ha dato quel tocco in più ad ogni singolo brano. Quindi non c'è
stato nessun intento alla base da raggiungere per sviluppare le melodie e i testi in un
determinato modo o di utilizzare determinati strumenti. Tutto è avvenuto per naturale
alchimia e ci siamo sentiti piacevolmente trascinati.
Qual è stato il primo vero momento in cui vi siete sentiti una band fatta con un
comune denominatore e il resto da condividere?

Sicuramente il giorno della prima prova emotivamente è stato molto forte, perché non si
sapeva cosa sarebbe uscito e questo ci ha colpiti molto. Il fatto di esser entrati in studio due
mesi dopo per il provino ed ascoltare i pezzi ci ha dato quella sicurezza in più per
approfondire il nostro percorso. Rendersi poi conto nei concerti che la gente
s'immedesimava con la nostra musica e condivideva i nostri stati d'animo è stato, anche
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quello, sicuramente un motivo non indifferente.
Come suddividete i compiti compositivi tra di voi? Come mettete assieme i pezzetti di
storie, gli strascichi di seta per la melodia, l'equidistanza tra vigore e passione, che
compongono le vostre canzoni?
La maggior parte delle volte i pezzi vengono scritti singolarmente, arrangiati con le chitarre
e successivamente viene inserito il violoncello. In base a come suona la canzone si decide
se modificare alcune parti o lasciarle così come sono. Altre volte invece si parte da un
abbozzo di chitarra, si costruisce un accompagnamento e alla fine viene messo il testo. L'
equidistanza tra vigore e passione non viene studiata prima, ma è solamente uno sviluppo
naturale del brano e di quello che prova chi lo sta scrivendo, così come la melodia vocale, è
solo uno scavare dentro e portarlo fuori sotto forma di note. Generalmente dopo il primo
abbozzo i pezzi non subiscono
grandi cambiamenti.
Tra i vostri ascolti, chi pensate di aver apprezzato talmente tanto da rappresentare
una crescita nel vostro modo di scrivere le canzoni?
Noi siamo cresciuti sostanzialmente con la scena punk-rock, ascoltiamo molto noise, doom,
acustica e la scena alternativa italiana. Ognuno ovviamente ha i propri punti di riferimento
che possono andare dagli Stooges a Tom Waits, passando per Social Distortion e Mark
Lanegan. Durante la realizzazione di questo disco però abbiamo ascoltato molto Nick Drake,
Elliott Smith e i Neurosis.
Qual è stata la prima canzone del disco? E vi ha dato l'incipt per le altre canzoni?
Il primo pezzo suonato assieme è stato “Nothing Last Until” e non c'ha dato l'incipt per altri
pezzi, ma un motivo per proseguire.
Come descriveresti i vostri testi? C'è molta solitudine, mal di vivere e
rassegnazione...
Soli lo siamo tutti, in un modo o nell'altro. Non si tratta di rassegnazione ma di una presa di
coscienza, del fatto che ti svegli, apri gli occhi e ti fa male quello che vedi, quello che senti,
quello che stai per fare e vuoi cambiare perché senti che non ti appartiene, ma sei
comunque in qualche brutto modo costretto a lasciare le cose come sono, assimilando
oltretutto la superficialità e l'ignoranza di tanta gente. I nostri testi sono solamente un modo
di essere sinceri con noi stessi. Poi ognuno lo chiama come vuole, ma in questo vicolo cieco
prima o poi ci finiamo tutti, basta solo non chiudere gli occhi.
Dove e come avete registrato l'album?
L'album è stato registrato, mixato e masterizzato presso il Garage Studio a San
Vendemiano (TV) da Ruggero Pol. Le parti musicali le abbiamo registrate su bobina e tutto
in presa diretta e sempre su nastro abbiamo fatto le sovraincisioni di chitarre, piano e
violoncello. La voce è stata fatta invece a parte. Per quanto riguarda il violoncello, ogni
brano è stato sovrainciso in diverse tonalità per un finale distorto e per ottenere una traccia
unica con più sfumature, inoltre abbiamo utilizzato un ukulele e un contrabbasso. Le due
chitarre sono state microfonate invece in maniera diversa, per creare una contrapposizione
tra ‘marcio’ e pulito.
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Chi ha ideato invece la vostra copertina e come identifica voi e/o le vostre canzoni?
Le foto di copertina sono state fatte dal nostro amico fotografo Alberto Barbaresco. E la
cosa particolare è che non c'è nessuna montatura, sono piccoli arbusti che hanno assunto
forma umana ,un po’ come noi. La prima volta che li abbiamo visti siamo rimasti
letteralmente colpiti e ci è venuta l'idea di usarle per il disco, perché hanno nei colori e nelle
forme, quel senso di tristezza, fragilità e ricerca di ‘qualcosa’ che aleggia spesso nella
nostra musica.
Com'è nata la collaborazione con la Garage Records?
Conosciamo Ruggero e Marco della Garage fin da prima che nascesse l'etichetta. Una volta
terminata la composizione dei pezzi non abbiamo fatto altro che fare il provino con loro e
subito dopo eravamo al Garage Studio a registrare il disco. Sono persone che veramente ci
credono, cosa non facile di questi tempi. E seguono il disco in ogni minimo particolare, che
va dalla registrazione, alla produzione, alla promozione, con tante idee che spaccano, basta
vedere per esempio il Garage Live!
Per avere il vostro disco cosa bisogna fare?

Sul sito dell'etichetta www.garagerecords.eu si può ascoltare l'intero album in streaming. Se
si vuole acquistarlo fisicamente, basta richiederlo nei negozi di dischi o tramite Audioglobe.
Per i canali in digitale è in vendita su iTunes e moltissimi altri, oppure se preferite lo trovate
in vendita ai nostri concerti.
Contatti: www.garagerecords.it
Francesca Ognibene

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LA CRISI
Vi ho mai detto che mi piacciono le persone ciniche? Se non l’avessi mai fatto ecco
l’occasione giusta. Un rapido scambio di email con Mayo, cantante dei La Crisi, che hanno
come spunto il recente “III - Paura a colazione” e diventano invece la scusa per parlare
d’altro. Del resto con un nome del genere le associazioni sono anche banali a farsi.
Insomma, se avrete la pazienza di leggere tutto quanto capirete anche il perché di questo
incipit bislacco.
Ho trovato “Paura a colazione” abbastanza diverso dai lavori precedenti, e mi sembra
tu abbia lavorato molto sulle parti vocali. Sei d'accordo? Come vi approcciate ad un
disco nuovo?
Mah... Certamente stavolta ho avuto molto più da fare con le corde vocali, ma non direi che
questo sia stato cercato. Diciamo che di fatto ho dovuto faticare un po' di più ad adattarle
alla musica che abbiamo prodotto. Certi pezzi sono di sicuro i più "estremi" che abbiamo
fatto fin'ora e quindi anche la mia voce ha dovuto adeguarsi. Poi, in verità, è del tutto più
simile e fedele a quanto proponiamo dal vivo quindi per me è OK. Fino ad ora i dischi sono
venuti fuori da soli. Si scrivono pezzi, quando se ne ha una manciata magari si decide di fare
un album e allora se ne scrivono degli altri. Stavolta siamo partiti da zero, dopo aver
pubblicato i due 7” ci siamo detti che era ora di un disco nuovo, così ci siamo dati una
scadenza e abbiamo iniziato a scrivere. Le ispirazioni sono tutto quanto, da quello che si
ascolta a quello che si vede: avevamo un "idea" di cosa fare, dell’atmosfera da dare al disco,
ma come al solito è venuto fuori tutto diverso da quello che pensavamo! L'importante è
essere soddisfatti del risultato e anche stavolta devo dirti che lo siamo.
Mi piace pensare alla vostra musica come ad un hardcore "adulto", che ha sempre
l'incazzatura e la voglia di reagire ma lo fa con meno slogan e più contenuti. Quando
hai iniziato nel 2003 come avevi immaginato il gruppo? È molto differente da com'è
ora?
Mi fa piacere che tu ci "veda" così, sono belle parole e in un certo senso è proprio come
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dici. Alla fine, lo si voglia o no, siamo adulti ed è giusto che la musica rispecchi questo. I
motivi per restare incazzati non mancano, solo che li si affronta con un ottica diversa. La
band ora è decisamente diversa da com’era all'inizio e non solo perché il 50 percento di
essa è cambiato. La formazione ora è solida, il gruppo ha una sua "identità" ben definita; No,
non avevo un'idea precisa di come sarebbe stata allora ma sicuramente il modo in cui ci
siamo evoluti ci rende tutti molto orgogliosi. Forse l'intento originale era di fare qualcosa di
più "vecchio" in termini di suono, ma devo dire che essere più "contemporanei" non solo è
più “onesto" ma è anche la cosa che rende la band che siamo, quell'essere "adulti" di cui
parlavi prima.
Per la registrazione vi siete di nuovo avvalsi di Kurt Ballou; quali sono i motivi che vi
hanno spinti a tornare a Salem? In America sono ancora più avanti di noi come suoni
e produzioni?
Sia chiaro, in Italia, oggi, ci sono i mezzi necessari e i tecnici competenti per fare dischi di
altissimo livello, e lo dimostrano i numerosi dischi validi che escono con produzioni italiane.
Ormai uno studio può avere la stessa tecnologia ovunque, forse i fonici e i produttori devono
ancora "crescere" in alcuni settori, ma anche li c'è gente davvero bravissima e credo che fra
qualche anno tra progressi tecnologici ed esperienza non avremo nulla da invidiare rispetto
ai migliori. I giovani fonici hanno la testa per fare le stesse cose che si fanno in America ma
mancano di esperienza, i più esperti sono ancora molto legati alle "regole" di produzione di
una volta, quelle del rock, del metal... ma registrare un disco hardcore è una cosa diversa,
come dice proprio Kurt Ballou, sono proprio le basi che cambiano, questo ragionamento in
Italia non è facile da far passare. Noi comunque siamo tornati a Salem per vari motivi, quello
economico -alla fine i costi sono più o meno gli stessi per un risultato mediamente migliorequello metodico -stare da soli, lontani da lavori, fidanzate e cazzi vari, concentrati sulle
registrazioni è molto più produttivo che non fare avanti e indietro casa/studio e affiata ancora
di più la banda- e non ultimo anche il fattore divertimento: vuoi mettere uscire dallo studio ed
essere a 15 minuti da Boston invece di ritrovarti davanti a 30 minuti di tangenziale est? E
non dimenticare infine che il lavoro fatto con Kurt in precedenza è comunque superlativo, per
cui per quanto ci riguarda perché non fare il bis?
Autoproduzione. Al di la dei discorsi retorici è stata una scelta, una conseguenza o
una casualità? Una scelta del genere secondo te è più facile da fare oggi con internet
o non è cambiato molto rispetto a quindici anni fa?
È stata una scelta guidata da una constatazione, quindi di fatto una conseguenza. Non
avendo una distribuzione nazionale o estera, ci siamo trovati negli anni ad essere noi i
venditori diretti dei nostri dischi tramite i live. Oggi chi compra ancora dischi e cd sono gli
"appassionati" di musica, gli stessi che vanno - quando possono - ai concerti, gli altri per lo
più scaricano MP3 e basta. A quel punto che senso ha avere un etichetta che ti stampa
1000 dischi, te ne da 300/350 se va bene e quando li hai finiti devi ricomprarli (a prezzo da
distributore) per averli disponibili ai concerti e vendere pure quelli? A quel punto conviene di
più fare tutto da soli, si spende meno e si guadagna di più, oltre ad avere il controllo totale su
tutta la produzione. Certo aumentano a dismisura i problemi e le spese iniziali sono notevoli,
ma devo dirti che alla fine la soddisfazione è tanta. Ovviamente internet ha facilitato e
velocizzato il tutto, quindici anni fa mediamente non si sapeva nemmeno dove andare per
stampare un disco! Adesso volendo fai tutto via mail! È quasi più "stupido" non farlo che
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farlo.
Si potrebbero fare facili domande sulla lungimiranza nel chiamare il gruppo "La Crisi"
al giorno d'oggi, ma a parte le considerazioni economiche tu come vedi la situazione
attuale? Finirà mai questa crisi? E a parte una crisi economica non c'è soprattutto una
crisi culturale?
Ah... Se avessi brevettato e depositato il nome! Pensa se mi dessero un centesimo per ogni
volta che viene scritta, pubblicata o pronunciata in radio o in tv la parola Crisi! (risate, ndr) Il
nostro nome è sulla bocca di tutti! Io, sinceramente, sono abbastanza scettico al riguardo, il
mio innato cinismo mi porta a dire che non finirà mai. La crisi si nutre della crisi stessa, sia
essa economica che culturale, da quella economica ci si ingegna per venirne fuori, da quella
culturale si producono le sottoculture che poi diventano a loro volte culture. Più che una crisi
di cultura -quella economica è evidente- direi che la gente ne ha pieni le scatole e quando
sono piene, veramente piene, la cultura non è così di grande aiuto. A pensarci bene di
cultura in Italia ce n'è a tonnellate, se vuoi ti ci affoghi! Ma il fatto è che pure quella sta
andando ad intasarci gli scroti e quindi eccoci qua in questa situazione. Ma tanto pare che a
dicembre del 2012 si risolve tutto stando al calendario Maya...
Contatti: www.lacrisi.com
Giorgio Sala
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M+A
Giovani, carini e con le mani in pasta nell’elettronica più melodica, ma non per questo meno
intricata. Michele e Alessandro ci raccontano la gestazione di “Things. Yes”, piccolo
gioiellino electro-pop che dalle nostre parti sembra venir messo (ingiustamente) da parte.
Partiamo dal principio, dal vostro disco omonimo autoprodotto qualche tempo fa. Da
dove nasce la vostra tendenza verso un certo tipo di elettronica tendente al pop di
matrice indie?
MICHELE: Non ti saprei dire da dove nasca la tendenza verso un certo tipo di elettronica
anche perché l’idea è proprio quella di creare un flusso di influenze che confondano chi si
aspetta un certo tipo di elettronica. Sicuramente, c’è la propensione ad una composizione
vorticosa, che se da un lato crea molte aporie nei pezzi, dall’altro offre una grande dinamicità
volta a scrostare la patina di certa musica pop.
Siete giovanissimi, ma dai solchi del vostro disco fuoriesce una cura e sensibilità
musicale molto matura. Qual è stata la vostra evoluzione musicale sin da piccoli?
M: Siamo nati entrambi dentro un contesto musicale, e questo più che altro ha facilitato le
cose per quanto riguarda il reperimento materiale di strumenti. Io li trovai fin da piccolo, nella
mansarda dei miei nonni. Avevo la mania dell’antiquariato e cercavo di tutto. Così, tra una
cosa e l’altra, sono riuscito a trovare anche una chitarra e un basso. Sicuramente una
componente decisiva è che sia io che Alessandro abbiamo imparato facendo... Ci siamo
subito messi a lavorare alla costruzione di canzoni: abbiamo subito messo le mani sul tornio.
Il vostro disco “Things. Yes” esce per la Monotreme Records. Come avete fatto a
raggiungerli? Siete stati voi a farvi avanti oppure loro a scovarvi?
A: A dir la verità è nata in maniera molto semplice. Nella nostra vita, come band, non
abbiamo mai dato troppo tempo alla “promozione”, ma dopo aver registrato gli ultimi pezzi
abbiamo deciso di prenderci un pomeriggio per inviare qualche email a quelle label per cui
avevamo un debole. Quel giorno mandammo parecchie email e mi ricordo che Monotreme
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fu una delle prime che ci rispose (quasi all’istante). Ci stupì molto la tempestività. Nel giro di
poco, ci propose subito se volevamo realizzare l’album con lei e così iniziammo a scambiarci
informazioni, fino ad arrivare poi al contratto. La cosa è ancora molto fresca, con il tempo si
vedrà, ma per ora ci troviamo davvero bene.
“Things. Yes” ha subito una doppia gestazione, prendendo e riarrangiando le canzoni
presenti sul vostro esordio omonimo, arricchendole di dettagli e sfumature che prima
non c’erano. Come siete arrivati alla sua forma definitiva?
A: Non dovrei dirlo ma in realtà abbiamo rifinito l’album solo perché altrimenti avremmo
pubblicato due dischi identici. Data la nostra frenesia, quella che era partita come la
semplice aggiunta di uno o due pezzi è diventata una rielaborazione generale. “Things. Yes”
è il pacchetto compiuto di un sacco di cose irrisolte.
All’interno del disco, spesso e volentieri le voci s’impastano all’amalgama del flusso
sonoro diventando strumento, piuttosto che mezzo tramite cui esprimere concetti e
sensazioni. Sembrano esprimere qualcosa, ma poi si perdono nelle modulazioni
sonore, riecheggiando come echi inafferrabili. C’è un disegno preciso dietro di essi
oppure fungono da semplici “strumenti”?
M: Abbiamo sempre utilizzato le voci come fossero strumenti, questo è sicuro. Montiamo le
parti vocali come qualsiasi altro strumento. D’altro lato c’è anche un disegno dietro quei testi
che in realtà testi non sono. Sono giochi linguistici, come mettere realtà dentro realtà: la
realtà di quello che si dice e la realtà delle vesti di ciò che si dice. E’ una sorta di
dispiegamento di un discorso che diventa vertiginoso, sempre sull’orlo. Sono testi senza
volto. Ascoltandoli capita quello che il linguista Goffrey Pullum descrive con un esempio
molto chiaro. Se a un inglese dici:” Here is a hat, here is a scarf, here is a dlove”, dove
l’ultima parola non ha alcun significato in inglese, inevitabilmente l'interlocutore lo sostituirà
con la parola “glove” (guanto). Poi ci sono altre cose, ma sicuramente l'approccio testuale è
estremamente tributario nei confronti del “Grammelot” di Dario Fo.
L’artwork del disco ha una conformazione molto semplice, ma d’impatto immediato.
Vi ispirate a qualche corrente o movimento in particolare?
A: No nessuna corrente. Abbiamo cercato di trovare un compresso tra qualcosa che
potesse generare curiosità che, allo stesso tempo, non apparisse una di quelle cose già
viste mille volte. Qualcosa che potesse risultare "nostro". Presente quando fai una
compilation ad una tua amica o ad un tuo amico, che per fare un po' il bellino in copertina
arrangi o disegni qualcosa di dolce? Ecco, noi volevamo ricreare questa sensazione di
intimità. Ci piaceva l'idea che il cd assomigliasse ad un piccolo "pacchetto regalo" come
quelli che ci si scambia fra giovani innamorati.
I titoli delle vostre composizioni sono spesso atipici, intramezzati da parentesi o
segni d’interpunzione, che lasciano quasi pensare ad una sorta di riflessione
intimista, o comunque dipingono un disegno enigmatico. C’è qualcosa dietro oppure
è solo una fantasia infondata?
M: Non ci sono dei contenuti o dei messaggi enigmatici. C’è un approccio quasi pittografico
se vuoi, ma più che altro, senza troppe frottole, io e Ale ci divertiamo a fare delle cagate. E ci
divertiamo ancor di più a vedere che queste cagate vengono prese sul serio.
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Avete la giovane età come carta vincente verso un mondo musicale in continuo
fermento. Quali sono le difficoltà che trovate nel far girare la vostra musica in Italia,
dato che le vostre qualità sono state notate prima di tutto all’estero?
M: C’è, in Italia, un problema di circolazione. La musica che circola molto spesso si perde
nell’evanescenza. O in molti altri casi, comunissimi purtroppo, si celebra l’incoronazione
senza che ci sia il re. Per il resto è un classico...All’Italia il contatto con il vergine fa paura
ma, non appena sei stato collaudato, ti trattano come il figlio glorioso tornato vincitore, cosa
che abbiamo già notato e che ci fa un po’ ridere. Siamo sempre lo stesso gruppo, e
soprattutto, molte canzoni dell’album sono le stesse di quelle precedenti. Eppure molte
persone, anche amici, trattano le canzoni in maniera diversa dopo questa storia
dell’etichetta. Viva l’alloccaggine insomma!
Contatti: www.ma-official.com
Luca Minutolo
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MARCO NOTARI
Gravita nel cielo la navicella spaziale di Marco Notari, che prende il nome di “Io?”
(Libellula/Audioglobe), terza prova musicale del trentenne cantautore che muove i suoi passi
da una delle nostre città più europee, e misteriose, Torino, per continuare a lunghe falcate
per il territorio nazionale, in attesa di fare quelli che lo porteranno, con pieno diritto, a varcare
il confine italiano. Fin dal suo album d'esordio, “Oltre lo specchio”, per proseguire con
“Babele”, la ricerca personale, e la propria realtà, interiore, e del tempo in cui si vive, sono
state le micce che hanno detonato la sua polvere creativa, arrivando con “Io?”, già dal titolo,
a dimostrare che tutto questo prosegue, e non vuole di certo terminare, fino a quando ci
saranno orecchie per ascoltare e parole da dire. Come quelle dell'astronauta Marco Notari,
qui incontrato, ben presente col suo pianeta su questa terra.
Perché non partire a domandare chiedendo di un'altra domanda, quel titolo così
evocativo, di risposte, o meglio di dubbi, che alla fine del percorso dell'album
troveranno forse le loro risposte: perché “Io?”?
Il disco prende il titolo dal suo primo brano, in cui ho immaginato me stesso nel grembo di
mia madre poco prima di nascere, un attimo in cui ho l’impressione sia già racchiuso tutto il
senso della nostra esistenza. La scelta di intitolare così l’album nasce dal fatto che in questi
due anni mi sono posto molte domande su chi sono, cercando in qualche modo di prendere
consapevolezza della mia natura di essere umano. Così è successo che nei brani io sia
andato più a fondo dentro me stesso rispetto al passato: ci sono molti riferimenti espliciti a
persone a cui voglio ed ho voluto bene, e l’urgenza di fissare in un supporto destinato a
resistere al tempo, persone e cose che per loro natura sono destinate a passare. Il punto di
domanda dopo la parola Io rappresenta la capacità di continuare a porsi delle domande su
se stessi e mettersi in discussione, per non fermarsi, ma per continuare ad evolversi e
mantenere una mentalità aperta verso gli altri e le loro idee anche quando sono diverse dalle
nostre. Inoltre nonostante il titolo appaia molto legato all’ego credo che questo disco sia
piuttosto un percorso per cercare di liberarsene, un po’ come “I, me, mine” di George
Harrison.
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Già dalla copertina sembra un album alieno a questo mondo, che guardi gravitando
dalla sua orbita, in attesa di rimetterci piede quando qualcosa cambierà...quasi un
tunnel stellare quel vortice di colori che ha disegnato Tommaso Cerasuolo dei
Perturbazione... Quando si potrà di nuovo scendere?
Sì, effettivamente ci sono molti riferimenti allo spazio ed anche alla fantascienza in diversi
brani del disco: “Le stelle ci cambieranno pelle”, “Apollo 11”, “L’invasione degli ultracorpi”. In
realtà non vedo il mondo come un posto in cui aspettare che qualcosa cambi per rimetterci
piede, ma come un posto che io posso contribuire a cambiare con le azioni che compio ogni
giorno. Fortunatamente in questo ultimo periodo mi sembra di cogliere diversi segnali
positivi, soprattutto tra le persone della mia generazione e di quella dei ventenni, che
potrebbero indicare il risveglio di una coscienza collettiva e l’inizio di una rivoluzione etica.
Ad esempio mi trovo perfettamente in sintonia con il movimento degli indignados, credo che
rappresenti bene la volontà dei cittadini, dei giovani in particolare, di riappropriarsi di tutto ciò
di cui siamo stati progressivamente privati, ovvero del controllo della democrazia e delle
nostre vite. E’ sacrosanto battersi per valori quali uguaglianza, progresso, solidarietà, libertà
di accesso alla cultura, sostenibilità ecologica e sviluppo, che dovrebbero essere alla base di
ogni società civile e che oggi purtroppo spesso non ci vengono garantiti. Questi temi tra
l’altro sono ricorrenti anche in diversi brani del mio disco: “Hamsik” tratteggia un quadro dello
sfacelo socio-politico dell’Italia di questi anni, “La terra senza l’uomo” parla dei nostri abusi
sul pianeta e sulle altre specie e “L’invasione degli ultracorpi” racconta attraverso gli occhi di
due ragazzi la guerra del petrolio degli ultimi anni ed il tentativo di mascherarla come una
guerra ideologica.
L'album vive anche del felice incontro con il già citato Tommaso Cerasuolo e Dario
Brunori, in un album ricco di sfaccettature anche in questo senso, facendo avvertire
un bel respiro, disponibile, all'incontro. Come ti relazioni con la tua generazione
musicale, quanta disponibilità e possibilità esiste, sia di incontrarsi e collaborare,
creare insieme, in questi tempi di crisi?
Le collaborazioni con Tommaso e Dario sono nate molto spontaneamente, da rapporti di
amicizia che si sono sviluppati in questi anni supportati da una reciproca stima artistica.
Credo che mai come in questo momento di profonda crisi sia necessario oltre che stimolante
artisticamente fare network, sia tra i musicisti che tra gli addetti ai lavori che si occupano di
questo settore. Tra artisti devo dire che questo accade molto spesso e con naturalezza, ed il
mio disco ne è solo uno dei tanti esempi. Tra addetti ai lavori invece ho l’impressione che
molti continuino a coltivare il proprio orticello, quando sarebbe molto utile per la
sopravvivenza di tutti una maggiore condivisione ed apertura reciproca. In questo senso
sono molto favorevole alle strutture che sempre più si stanno sviluppando, gestite in prima
persona da artisti, come Tempesta, Trovarobato, Libellula e molte altre.
Nella tua produzione artistica, un posto importante ricoprono anche i video legati alle
tue canzoni, capaci di conquistare premi importanti. Vuoi parlarci della loro
realizzazione, come per quello di “Le stelle ci cambieranno pelle”, primo singolo
estratto da “Io?”?
Per “Le stelle ci cambieranno pelle” volevo un video che ricordasse certe atmosfere, quelle
che vanno da Melies a Gondry per intenderci. Quando ho visto alcuni lavori realizzati da
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Marco Missano ho pensato che lui fosse la persona ideale a cui affidare il compito. Il video è
un insieme di stop motion e scene in girato. Per queste ultime lo staff di Marco ha realizzato
delle scenografie di cartone e dei costumi bellissimi: nel video io e la mia band siamo prima
astronauti nello spazio e poi marinai in un sottomarino che esplora i fondali del mare.
Abbiamo raccolto talmente tanto materiale che alla fine abbiamo deciso, partendo dal brano
che dura tre minuti, di realizzare un video di quattro minuti e trenta. Così con Andrea
Bergesio abbiamo registrato una session di archi che abbiamo utilizzato come “colonna
sonora” per la prima parte del video ed una versione del brano leggermente più lunga. Il
risultato penso sia stato davvero molto buono, tant’è che il video si è aggiudicato il PIVI 2011
come miglior video indipendente dell’anno, ottenendo inoltre una nomination in tutte le altre
categorie.
È un album che vive di ricordi, molto personali, che escono fuori anche dalla tua
presentazione, passo dopo passo, di ogni brano. Ed è molto bello quello che dichiara,
della possibilità di poter incontrare ancora gli altri partendo dalla propria esperienza,
nella disponibilità all'incontro. Ma è ancora così, credi davvero nel potersi incontrare?
Sì, ci credo fermamente, semplicemente perché riuscire a vincere il proprio egoismo, aprirsi
agli altri ed incontrarli è qualcosa in grado di darci un profondo benessere interiore.
Purtroppo spesso il mondo in cui viviamo ci spinge nella direzione opposta, verso una
ricerca incondizionata e senza fine di potere e successo a scapito di qualsiasi altra cosa. Ho
l’impressione che proprio questo sia alla base del malessere odierno delle persone, perché
ci porta a vedere gli altri come un ostacolo al raggiungimento dei nostri obiettivi invece che
come nostri simili e a vivere costantemente proiettati in un futuro che non sarà mai come ce
lo aspettiamo.
A questo punto una domanda d'obbligo, riguardo all'incontro col proprio pubblico,
con chi ascolta e vive le emozioni che si è capaci di incanalare in una canzone, in un
atto creativo. Anche perché ho letto che ami incontrarlo, e confrontarti con esso.
Come e quando avviene questo incontro, ai concerti, in altri tempi e modi?
Succede in effetti innanzitutto ai concerti. Mi piace molto fermarmi a chiacchierare con chi è
venuto ad ascoltarmi prima e dopo il concerto, per capire cosa ha trovato interessante nella
mia musica e perché è stato portato ad avvicinarsi ad essa. In questo modo nel corso degli
anni sono nati anche dei bei rapporti di amicizia, perché tutto sommato se qualcuno si
riconosce in ciò che canto significa che condividiamo una visione simile di alcune cose. Un
altro luogo in cui mi rapporto molto con che ascolta le mie canzoni è il web. Naturalmente
non è come incontrare qualcuno di persona, ma è pur sempre un modo per tenersi in
contatto e condividere opinioni e discussioni. Un po’ come era una volta scriversi le lettere.
Un album profondamente, anche se sembra appunto lontano dalla Terra, legato ad
essa, a partire dalle immagini contenute nel libretto che accompagna l'album, in cui ci
sono foto di te seduto in mezzo a un allevamento di pennuti, e di te atterrato, con la
tua tuta e navicella spaziale, in mezzo a una discarica di rifiuti...perché questi due
luoghi?
Cerco, per quanto possibile, di essere un consumatore attento, e per la realizzazione di
“Io?” ho seguito un percorso di eco-sostenibilità: l’album è stampato in carta FSC, il tour è ad
impatto zero in collaborazione con Lifegate ed il merchandising è stato realizzato dalla
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Cooperativa Tessuto Sociale che utilizza esclusivamente cotone organico e fair trade. Per
cui con il fotografo Lorenzo Serra e con mia moglie Maddalena Di Santo, che ha realizzato le
scenografie, abbiamo deciso di incentrare lo shooting fotografico su quelle che sono le
aberrazioni a cui ci porta l’iper-consumismo in cui viviamo oggi. Abbiamo scelto quindi due
luoghi volutamente “dimenticati” dalla nostra società, un pollaio industriale e una discarica a
cielo aperto, che però rappresentano appieno ciò che siamo. Sono luoghi surreali alla vista,
per quanto di fatto tristemente reali, ed abbiamo voluto accentuare questo aspetto
“ambientandoli” con delle scenografie in cartone riciclato. Per quanto riguarda la scelta del
pollaio ha senz’altro influito anche il fatto che sia io che mia moglie siamo vegetariani
convinti.
Ma come “nasci” musicalmente, come compi i tuoi primi passi, nell'elegante Torino,
fino ad arrivare a quelli compiuti in “Io?”, che dimostra di essere un'ulteriore
evoluzione nel tuo percorso fin qui compiuto dopo i precedenti “Oltre lo specchio” e
“Babele”?
Entrambi i miei genitori strimpellano la chitarra ed il pianoforte, per cui fin da bambino mi
sono trovato in casa questi strumenti ed anche un po’ per emulazione ho cominciato a
suonarli. Verso i diciotto anni ho cominciato a scrivere canzoni, e la trafila per arrivare a
pubblicare il primo disco è stata giustamente lunga e fatta di concorsi, partecipazioni a
festival e così via. Il primo evento che mi ha fatto capire che forse avrei potuto seguire una
carriera del genere è stato l’invito a suonare al “Tora Tora Festival” nel 2003. Da lì è nata
anche la collaborazione con i Madam, la band che tuttora lavora con me in studio e dal vivo.
Dall’incontro con Giulio Casale nel 2005 e dalla sua volontà di produrre artisticamente le mie
canzoni è poi nato il contatto con la sua etichetta discografica e la possibilità di realizzare il
primo album “Oltre lo specchio” nel 2006 ed il successivo “Babele” nel 2008. Questo nuovo
album invece esce per Libellula e mi sono avvalso come produttore artistico di Andrea
Bergesio, che credo abbia svolto un lavoro eccezionale insieme a Taketo Gohara che ha
mixato i brani.
Un album a tratti carico di pessimismo, ma che vive nella sua evoluzione ottimistica,
in questo cerchio che si chiude con la ripresa finale di “Io?”. Citando il film “Prima
della pioggia” di Milcho Manchevski, il cerchio non è perfetto, e si può uscire dal
circolo vizioso degli eventi, forse...
Sì, la circolarità della vita è un concetto che mi affascina molto, e lo abbiamo voluto rendere
con il reprise strumentale alla fine del disco e con la disposizione dei colori in copertina. Ciò
che mi colpisce è il fatto che lo stesso concetto dell’inizio di una vita contenga già quello
della sua fine. Inoltre gli anziani ed i bambini sono simili sotto molti punti di vista, ed anche in
questo c’è circolarità. Come osservi giustamente tu il cerchio si può rompere, che da un lato
può voler dire che con le nostre scelte possiamo modificare il corso degli eventi, dall’altro
che la nostra vita e la nostra morte sono anche legate al caso. Penso che il corso della vita
di ogni persona sia determinato in maniera più o meno equilibrata da un incontro di queste
due componenti.
E il futuro, cosa ti aspetta, per quello recente e più distante? Già nuovi progetti in
cantiere?
In questo momento mi sto dedicando innanzitutto al tour per promuovere “Io?”. Sto poi
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lavorando con Tommaso dei Perturbazione per presentare le tavole che ha realizzato per
l’artwork in alcune location particolari parallelamente ad un mio concerto. Inoltre sto
portando avanti un progetto legato alla realizzazione di “Io?” anche in inglese per il mercato
estero.
Contatti: www.marconotari.it
Giacomo d'Alelio
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MOJO FILTER
Guardano ai suoni del passato, ma hanno le idee ben piantate in questo millennio: ecco i
Mojo Filter, una di quelle band che – per fortuna verrebbe da dire – dà lustro anche al rock
della nostra penisola, con un approccio reale, disincantato, ma non privo di speranze ed
aspettative. Inoltre conoscono bene le dinamiche del mercato discografico e le loro
aspettative sono legate anche alla crescita del pubblico italiano, che dovrebbe accantonare
la proverbiale esterofilia, per guardare al bello del rock fatto in casa. E i Mojo Filter hanno
tutti i numeri per soddisfare chi si pasce di Lynyrd Skynyrd, Led Zeppelin e Faces, forti di
un’attitudine che li porta su tutti i palchi dove sia possibile accendere un amplificatore e
sprigionare energia in concerto. Li abbiamo incontrai in occasione dell’uscita del loro
secondo album “Mr. Love Revolution”.
Il nome Mojo Filter è bellissimo e perfetto per il vostro sound, come nasce? E la band
che percorso ha compiuto prima di questo album, puoi presentarla ai nostri lettori?
“Mojo Filter”, cioè “filtro magico” è contenuto in un verso di “Come Togheter” dei Beatles, da
qui il nostro nome. Il “Mojo” era anche un elemento ricorrente nel blues rurale, utilizzato da
Preston Foster per “Got My Mojo Working”, brano reso celebre da Muddy Waters. La band
nasce qualche anno fa da Alessandro Battistini: dopo anni passati sui palchi milanesi,
Alessandro ha deciso di intraprendere un percorso orientato al materiale originale,
chiudendo le relazioni con un certo tipo di scena. Ha trovato in Daniele Togni un bassista
assolutamente adatto e da lì è partito un lavoro intenso, tutt’ora in corso. Nel 2009 ho fatto il
mio ingresso. Proprio in quel periodo si stava concretizzando il lavoro per “The Spell”, il
nostro primo album ufficiale. La struttura della band è il risultato di un percorso naturale:
dopo un paio di line-up, ora i Mojo Filter sono formati da quattro elementi estremamente
simili nell’approccio al rock and roll, simili nell’atteggiamento, nel background e
nell’estrazione musicale. Quasi per caso - e per Jennifer Longo lo è davvero - ognuno di noi
è la persona giusta nel posto giusto, al momento giusto.
È incredibile con anche in Italia si stia diffondendo la passione per l’hard rock anni 70
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(con tutte le sue varianti), un genere che da noi ha avuto sempre pochi adepti, a
differenza del metal e del prog.
Nella tua recensione di “Mrs Love Revolution” ci hai accostato ad alcune realtà italiane di
assoluto rispetto, che sono sulla strada da tempo. Ognuno si sta sudando la propria
credibilità a suon di dischi e live. In Italia è dura! Se penso ai Rival Sons o ai Vintage
Trouble, mi vien da pensare che all’estero sia leggermente diverso. Se poi ci metto che
“Rolling Stone” USA ha organizzato un contest per scegliere la miglior band emergente ed
hanno vinto gli Sheepdogs (un meltin’ pot fra Allman Brothers, CSN, Santana e Beatles,
palesemente vintage), allora in Italia siamo messi male! Noi ci auguriamo che la gente ritrovi
il piacere di assistere ad un concerto dal vivo, fatto da musicisti che se la sudano. Ma questi
sono anni bui, di standardizzazioni e talent show, che non hanno fatto altro che danneggiare
la scena.
Voi come siete arrivati a definire la vostra musica e quali sono i vostri riferimenti
musicali?
Innanzitutto, in questi anni non abbiamo mai messo in dubbio la nostra identità e non
abbiamo mai ragionato a tavolino sulla direzione da dare ad un pezzo. Tutto nasce da un
background marchiato da Led Zeppelin, Creedence, Who e da tutta la scena 60s e 70s, che
sia essa d’estrazione British o Americana. Alessandro ha una visione molto chiara dei brani
che compone. In studio la direzione arriva da sola, con estrema naturalezza.
Secondo te, in un periodo confuso come quello attuale, dove anche le major non
hanno le ricette per risollevare la discografica, quale può essere il futuro per
diffondere la propria musica. Suonare dal vivo, restare in casa a cercare contatti su
Internet o altro ancora?
Io ti posso solo dire che tipo di ingredienti abbiamo scelto noi per la nostra ricetta. E cioè il
suonare dal vivo il più possibile. Ci sentiamo molto blue collar in questo. Stiamo anche alla
larga dai contest. Forse ci stiamo precludendo delle possibilità, ma per un musicista il live è
una necessità e deve essere la naturale conseguenza del lavoro in studio.
Il titolo del vostro album “Mrs. Love Revolution”, sembra offrire una chiave di lettura
legata quasi a tematiche degli anni 60 o forse c’è maggior malizia. E, in generale, di
cosa parlano i testi delle vostre canzoni?
La “mojo woman” e il titolo dell’album sono due elementi che si intrecciano. Bellezza,
rivoluzione, indipendenza e arte son tutti elementi al femminile e – per quanto ci riguarda –
hanno tutti una collocazione storica ben precisa, che ci rappresenta. Negli anni 60 e 70 c’era
molto più colore e fermento. Alessandro è un autore che parte principalmente dalla musica e
da un’idea di base, per poi sviluppare un testo che potrebbe essere easy, come “Lick Me
Up” o “Las Vegas”, oppure più legato ad una frustrazione autobiografica, come ad esempio
“What I’ve Got”, in un battito di ciglia puoi essere dall’altra parte del mondo, ma in realtà non
sai dove andare. E l’unica cosa che la società ti chiede è se stai cercando un lavoro serio.
Suonando un rock vintage, quanto è importante per voi la strumentazione e
l’amplificazione, per riprodurre un certo tipo di suono?
È basilare. Noi utilizziamo una strumentazione decisamente vintage e artigianale, fatta con
elementi ricercati, fondamentali per riprodurre i suoni 60s e 70s...per non standardizzarci.
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Qualcuno sottovaluta questo aspetto, ma è un elemento distintivo importante. Nella
primavera scorsa ci siamo confrontati sull’argomento con Luther Dickinson (Black Crowes e
North Mississippi Allstars), trovando estrema sintonia. Noi siamo lì da sempre. Ora anche la
scena indie sta tornando a quell’approccio. Ad esempio i Verdena incidono da tempo in
analogico e questo è lodevole ed indice di un certo tipo di visione.
Nella recensione ho scritto che il vostro album meriterebbe la pubblicazione in vinile,
ci avete pensato? Amate il vinile o siete figli della generazioni del CD? E cosa
dovrebbe, secondo voi, succedere per ritrovare il classic rock in cima alle classifiche?
Noi ci riteniamo figli del vinile visto che i nostri genitori ci han cresciuti con i dischi dei Led
Zeppelin, di Marley e di Dylan. Il mio primo acquisto è stato il vinile di “Love You Live” degli
Stones, seguito a ruota da Nebraska di Springsteen, avevo 14-15 anni credo. Oggi
ripieghiamo spesso sul CD visto che ci consente di girare in tour con un po’ di buona musica
sul furgone. Da questo punto di vista la radio non ci è d’aiuto... E credo che ritrovare del
classic rock in radio o in classifica sia piuttosto dura.
Progetti futuri?
Fra gennaio e marzo faremo diverse date fra Aosta, le Marche e tutto quello che ci sta in
mezzo. La set-list sarà anche caratterizzata da diverse canzoni inedite: mentre il nostro
co-produttore Jono Manson terminava le sessioni di mixaggio di “Mrs Love Revolution” nel
suo studio di Santa Fe, Alessandro ha lavorato intensamente a nuovi brani. L’ossatura del
nuovo disco è già stata definita e abbiamo diverso materiale sul quale lavorare. Quindi, dopo
il tour, potrebbe essere che la primavera prossima sia dedicata alla lavorazione di un nuovo
album.
Buona fortuna ragazzi, il rock ce l’avete nel sangue e... gli amuleti non vi mancano!
Contatti: www.mojofilter.it
Gianni Della Cioppa
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MORKOBOT
Nonostante le apparenze, i Morkobot prendono la propria musica come un affare
maledettamente serio. Lin, Lan e Len ci parlano delle proprie origini, e svelano quale
messaggio misterioso si cela dietro le sincopi di “Morbo”.
La vostra storia la conoscono in molti, ma magari per qualche neofita del messaggio
di Morkobot, ci illustrate da dove venite, cosa fate e perché avete scelto un pianeta in
rovina come il nostro? 

La storia dei messaggeri di MoRkObOt è un loop che da 7 anni a questa parte sta
monopolizzando ogni nostra intervista atta a chiarire le intenzioni di MoRkObOt nei riguardi
dei tuoi simili. Visto l’andamento dei fatti, i dischi realizzati, dei concerti consquenziali, siamo
giunti alla conclusione che la monopolizzazione è assai limitativa per il controllo di un essere
umano sicché d’ora in avanti attueremo la temibile tecnica della manopolizzazione.
Installando da due o più manopole ad ogni essere vivente ci risulterà assai più facile
controllarlo, applicando lo stesso principio del controllo dei suoni e dei pedali. Ciò ci porterà
nel giro di al massimo 4 album (circa 10 anni, per intendersi) alla totale trasformazione del
genere umano in una nuova razza: il genere upiede. Il genere Upiede viene controllato come
i pedali, viene schiacciato con i piedi e il suo controllo può essere impostato grazie alla
manopolizzazione, utilizzando (appunto) enormi manopole che installeremo personalmente
su ognuno di voi. 
 

Quale messaggio si nasconde tra i solchi di “Morbo”? 

Premesso che il messaggio di “MoRbO” non è evidente in quanto non vi è contenuta parola
alcuna, l’abbiamo nascosto tra le deflagrazioni di due bassi e una batteria. Ciò vuol dire che
non deve essere spiegato, ma deve essere trovato. Un po’ come la fede nelle religioni ed un
po’ come Emilio Fede tra qualche mese. Questo è ciò che riguarda la versione in vinile di
“MoRbO”. Per quanto riguarda la versione in CD, non avendo tale supporto i sopraccitati
solchi, non è stato possibile nascondere alcun messaggio, esso arriva all’ascoltatore così
com’è: chiaro e tondo (proprio come un CD). Ma in questo modo tutto quadra e, siccome
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non ha senso che un supporto circolare possa quadrare, ecco il perché di una copertina così
virtuosa: per avvicinare il “MoRbO” a un’opera d’arte, come fosse un quadro. In questo modo
abbiamo fatto quadrare il cerchio.
 

Rispetto ai dischi precedenti, “Morbo” suona più secco e diretto, quasi a voler
asciugare il messaggio e renderlo più accessibile all'udito umano. Con quale funzione
è stato concepito? 

Raccogliendo le prime impressioni divulgate tra voi misere forme di vita pare che “MoRbO”
sia il nostro disco più accessibile. A questo punto ci sorge un dubbio (e non da poco!):
perché “MoRbO” risulta meno diretto e meno accessibile soltanto a noi messaggeri che lo
abbiamo concepito ed eseguito? Perché solo noi abbiamo incontrato mille difficoltà per
eseguire gli elaborati calcolo scientifici che determinano il tempo e l’andamento dei brani in
esso contenuti? Forse solo un ascolto attento, ripetuto, costante e ad un volume consono al
contenuto di “MoRbO” potrà illuminare i padiglioni auricolari di voi umani? (e non dire che
non si risponde ad una domanda con un’altra domanda, perché con il prossimo disco
saremo noi a fare le interviste ai giornalisti, e guai a voi se non verranno pubblicate!).

 

La vostra scelta di suonare quasi completamente strumentali (due bassi ed una
batteria) accantona completamente il fatto di utilizzare la lingua, anche italiana, per
rendere il messaggio di Morkobot più fruibile. Avete mai pensato un modo, anche non
convenzionale, di utilizzare le voci in maniera più incisiva, e non da contorno come
fino ad ora? 

Includere la voce nei brani che MoRkObOt propone non è un’idea da sottovalutare. Per ora
stiamo (sotto)valutando l’utilizzo della voce soltanto per divulgare il nostro importante
messaggio soltanto mediante spaventose interviste radiofoniche (e poi viste le continue
ripetizioni che usiamo nelle frasi, siamo sicuri che ci convenga usare la parola? Ad esempio
abbiamo appena scritto la parola “soltanto” inutilmente per ben 2 volte nella stessa frase).
Tempo fa abbiamo provato a realizzare alcune interviste soltanto (oh no! Ancora!)
strumentali, ma abbiamo notato che vi erano alcuni problemi di ricezione dati all’altro capo
della radio. Di seguito quindi abbiamo provato ad aggiungere effetti a pedale tra il microfono
e il mixer della radio per manopolizzare il suono delle nostre voci. Il giorno in cui utilizzeremo
le voci come parte preponderante nelle nostre composizioni ci vedremo costretti ad utilizzare
un nuovo mezzo di comunicazione: le vette delle classifiche di vendita.
Da quando la vostra navicella è atterrata sul pianeta terra, come vi ha accolto la
scena musicale italiana? E secondo il vostro sguardo “diverso” dove sta andando
adesso? 

“Oh, ma come avete scritto MoRkObOt?!? M grande! o piccola! R grande! k piccola! O
grande! b piccola! O grande! t piccola....figa, ràga, ma voi siete troppo fuori, figa oh!!!” (cit.).

Dopo aver esaminato attentamente questi curiosi comportamenti sociali da parte
dell’essere umano italiano, abbiamo realizzato che (per fortuna) c’è vita oltre le Alpi.
Consapevoli (e rammaricati) del fatto che le usanze alimentari oltre tali monti hanno
qualcosa di assai buffo abbiamo iniziato a perlustrare le terre e le genti dell’Europa
settentrionale. Sarà uno studio ancora lungo e pieno di sorprese, ma siamo fiduciosi del fatto
che i discendenti dei Vichinghi sapranno concedersi alla manopolizzazione dei propri
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encefali. Il recente tour europeo a bordo dell’Ufomammut ne è stata la prova. E’ assai
curioso e paradossale il fatto che per ottenere una prova di qualcosa si necessiti di molte
prove nella sala prove. 


Marco Berry o Raz Degan sono mai venuti a scocciarvi per un'intervista su
“Mistero”? 

Dopo un’attenta analisi estratta da un motore di ricerca siamo giunti alla conclusione che i
nomi da te menzionati facciano parte del becero mondo dello spettacolo e
dell’intrattenimento. Ci avvaliamo della facoltà di non rispondere. 

Lanciate un messaggio a questa umanità allo sbando totale.
(immaginateci ora nella scena fina di ogni episodio di He-Man, con uno sfondo di bucolici
paesaggi immaginari dai colori tenui e leggermente oscuri, pronti a proferire la morale della
giornata) Ricordate ragazzi, siate sempre buoni e generosi con i più bisognosi, siate sempre
cordiali con le persone deboli, porgete sempre l’altra guancia e sappiate che in ognuno di voi
c’è del buono e se qualcuno vi vuole fare del male non esitate ad appenderlo per il proprio
organo genitale (qualunque esso sia) e torturatelo a più non posso fino ad allagare la stanza
di sangue, dopo di ché, fategli ingoiare i brandelli rimasti e, nel mentre con l’altra mano,
inciderete la sua cute all’altezza delle budella e le estrarrete e le disseminerete ovunque e
con il sangue rimasto disegnerete sui muri immense croci rovesciate che decorerete con le
feci della vostra vittima. (ora dovrebbe partire la sigla finale). 


Ok, tolte le maschere, dietro i Morkobot sembra non esserci solamente una trovata
scenica. Se volete spogliarvi di tutta questa apparenza e far sentire la sostanza anche
fuori dai vostri dischi (dove ce n'è moltissima), fatelo pure. Altrimenti potete tacere
per sempre.
Dietro a MoRkObOt, più che una trovata scenica (perché, che ci crediate o no, è tutto vero),
si cela un valido pretesto per attuare subdoli fini sociali ed infime operazioni economiche. Ma
questo, ovviamente, non si deve sapere.
Contatti: http://morkobot.wordpress.com
Luca Minutolo
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MUSICA PER BAMBINI
Manuel Bongiorni è da oltre dieci anni la mente di uno dei progetti musicali più originali in
circolazione, Musica Per Bambini: trasfigurazione teatral-fiabesca di un presente - e di un
futuro, nel caso specifico dell'album appena pubblicato da Trovarobato, “Dei nuovi animali”,
a tre anni di distanza da “Dio contro Diavolo”, dove tra gli ospiti troviamo Caparezza e
Giovanni Gulino dei Marta Sui Tubi - paradossale, ricca di riferimenti e strabordante di
parole. Lo abbiamo interpellato sulla sua creazione (lo affiancano nell'impresa Mirko e
Manzo) e sul nuovo disco.
Nel disco precedente si metteva in scena uno scontro tra Dio e il Diavolo, questa
volta sei passato direttamente alla creazione del mondo...
Sì, diciamo che a livello di featuring il disco prima era più appetibile, quando hai a
disposizione Dio e Diavolo non puoi chiedere di più.
Questa volta però si parla di miti fondanti, la Creazione è il tema centrale...
Grossomodo noi contiamo gli anni a partire da un evento che si presume essere la venuta
al mondo del figlio di Dio. È sempre quello il riferimento, al di là del fatto che la gente ci
creda o meno o bestemmi. È ancora la misura del periodo storico in cui viviamo, ma prima o
poi sono convinto che ci sarà un altro evento chiave: è su questa idea che si scherza in “Dei
nuovi animali”, sulla creazione di un nuovo punto di riferimento, di un nuovo Dio, questa
volta creato dall'uomo. È l'uomo questa volta a creare, lo crea immortale e questa cosa a
lungo termine è destinata a funzionare meglio, non c'è più un mortale che crea un immortale
ma avviene il contrario. La venuta di questo nuovo “animale” è il tema del disco...
Invece di profetizzare sventura o raccontare un futuro inumano, questo futuro hai
deciso di inventartelo. Naturalmente basandoti suoi tuoi personalissimi parametri.
Il futuro lo si può aspettare oppure inventare, di sicuro non si può prevederlo.
Questo è un po' più disco di canzoni, la ricerca si muove a tratti in una direzione più
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pop, sei d'accordo?
Secondo me Musica Per Bambini è pop, solo di un genere a volte un po' spigoloso. In
questa fase, credo involontariamente, mi sono concentrato maggiormente sul rendere
scorrevoli alcuni elementi. Forse è vero, ci sono episodi vicini ad una idea di pop “normale”,
ma in generale direi che faccio comunque musica pop anormale.
Ti piace molto utilizzare modi di raccontare arcaici o antichi, legati alla dimensione
del cantastorie, per leggere il presente o, in questo caso, il futuro...
Diciamo che l'approccio di Musica Per Bambini è un po' fuori dal tempo, e quindi anche per
raccontare il futuro si può utilizzare uno stilema, un archetipo antico... questi stilemi ci sono,
sono lì, sono belli e funzionano, e dunque perché non utilizzarli?
C'è sempre una sottotraccia medievale nella tua musica, o almeno io la percepisco. I
CCCP, ad esempio, sostenevano di vivere in un infinito medioevo.
Io non sono d'accordo su questo. Qualsiasi periodo storico, peraltro, è medio se rapportato
al periodo precedente e a quello successivo. Se loro intendevano dire che c'è una analogia
con l'oggi, ecco, io ci vedo una quintalata di differenze. Diciamo che se uno è abituato a
vedere certe dinamiche, se ha un occhio allenato in tal senso, tenderà a vederle anche
quando ce ne sono altre, magari più interessanti.
La narrazione, il racconto sono parti integranti del vostro progetto. Questa volta per
creare continuità avete utilizzato un divertente e ricorrente intermezzo che parla di un
simulatore di spettri...
Diciamo che c'erano dei brani che, pur essendo il disco orientato al futuro, facevano
riferimento al presente, anche se magari si trattava di un presente distorto, irreale. E così,
come espediente narrativo, immagino che nel futuro questi ragazzini vadano a cercare le
tombe dei defunti, i quali spiegano come sono morti, uno schema utilizzato spesso in
letteratura. Il problema è che quello che racconta la storia non è un vero spettro ma uno
spettro simulato. Nel futuro inventeranno questa specie di pistola che spari sulla tomba
affinché lo spettro racconti la sua storia. Ma siccome il simulatore è rotto, esce fuori sempre
lo stesso spettro, che ogni volta si lamenta per essere stato disturbato (ride, Ndr)...
Ti piace anche, in un certo senso, rendere visibili, in maniera ludica, i meccanismi
narrativi...
Più che altro lo trovo divertente, se poi viene fuori anche questo aspetto sono contento.
C'è comunque una volontà di coinvolgere attivamente chi ascolta, non so se c'entri
qualcosa il lavoro che fai con le scuole...
Noi facciamo quello che gli americani definiscono “edutainment” (presso il “Parco delle
fiabe” del Castello di Gropparello, nell'appennino piacentino, Ndr), ma a dire il vero non sono
sicuro che il mio lavoro influenzi quello che faccio, anche se è possibile che alcuni aspetti
della mia attività si riversino indirettamente in questa mia passione musicale.
Il disco precedente è forse il primo vostro ad avere avuto una certa visibilità, ai
concerti avete notato la presenza di un nuovo pubblico, al di là di quello che
immagino essere il vostro zoccolo duro?
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Numero Dicembre '11
In genere incontriamo questo zoccolo duro di cui parli, anche se lo preferiremmo con
un'altra desinenza... (ride, Ndr) No, a parte gli scherzi è molto divertente andare in giro, ce la
godiamo, non è che questa cosa ci abbia cambiato la vita ma è sempre tutto molto
divertente. Mi piace soprattutto il fatto che, avendo avuto l'opportunità di girare, ci siamo
inventati un tipo di spettacolo che secondo me è inedito. Sfruttiamo questa occasione per
fare qualcosa di nuovo e divertente. La cosa più importante è sempre la storia che si
racconta, e noi cerchiamo di raccontare nel modo più divertente possibile. Diciamo che per
noi le risate sono soprattutto un mezzo.
Contatti: www.musicaperbambini.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 28
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Numero Dicembre '11
ALLBORN
New Rock Generation
Vrec/Venus
Esordiscono con la sfrontatezza dei loro diciotto anni i veronesi Allborn e lo fanno regalando
senza filtri il ventaglio delle loro influenze, che assembla Iron Maiden, Metallica, AC/DC, in
un gioco di rimandi che è gusto scovare brano dopo brano. Come loro stessi affermano,
questo è solo un primo tassello, che sintetizza alcuni anni di concerti e canzoni scritte,
gettate, riprese e riscritte, un desiderio di fermare un tempo breve, ma significativo perché,
nonostante la giovane età, i cinque Allborn è macinano musica sin dall’infanzia, anche con
altre esperienze, prima di ritrovarsi uniti sotto un unico tetto. Nei nove brani di “New Rock
Generation”, c’è quella spontaneità che luccica negli occhi di qualunque giovane che suona
il rock, e brilla di un’ingenuità pulita che fa tenerezza, ma quando attaccano “Life Goes On”,
“Nightmare”, “Rock’n'Love”, con la voce inspiegabilmente matura del baby Manuel Fabi, c’è
solo il gusto di refrain freschi e trainanti, quelli che hanno da sempre reso il rock la musica
delle nuove generazioni. Semplici, ancora in fase di sviluppo e definizione, gli Allborn
giocano con i loro idoli, sanno che la strada è ancora lunga, ma ascoltarli è un piacere
autentico. Il tempo dirà il resto.
Contatti: www.allborn.net
Gianni Della Cioppa
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Numero Dicembre '11
BUENRETIRO
In penombra
Deambula/Acid Cobra
Prodotti in occasione di questo nuovo album dall'infaticabile Amaury Cambuzat, i pescaresi
BuenRetiro esistono in realtà da un bel po' d'anni, dal 1999 per la precisione, anche se il loro
debutto ufficiale, dopo una lunga serie di demo e autoproduzioni, risale al 2007. Il fondatore
degli Ulan Bator ha assecondato al meglio la psichedelia robusta e cupa del quartetto,
tirando fuori un suono pastoso, dai colori accesi ma adeguatamente sbavati, assecondando
una tendenza a divagare di chiara matrice post rock (ma un post rock che non ama troppo la
luce del giorno, si ascolti “Xenon”, sinistra e pagana, con un basso spesso e corposo e
chitarre lancinanti all'inseguimento di un crescendo sempre sul punto di esplodere). È un
peccato (ma forse una inevitabile necessità, a pensarci bene), che i testi e le melodie siano il
più delle volte un semplice pretesto, per il resto la capacità di suggestione, di creare trame
avvincenti e dinamiche, è senza alcun dubbio uno dei punti di forza della formazione,
efficace interprete di una psichedelia più attitudinale che strettamente filologica (sebbene un
brano come “Gaia” riporti alla mente pagine dimenticate del nostro tardo beat in procinto di
diventare progressive ma ancora imprigionato in una caleidoscopica visione del mondo).
Comunque la si voglia vedere, “In penombra” arriva esattamente dove vuole arrivare.
Contatti: www.deambularecords.com
Alessandro Besselva Averame
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Numero Dicembre '11
CHERRY LIPS
Blow It Away
Vrec/Venus
A costo di sembrare sessista, vi debbo confessare una cosa: ho sempre diffidato dalle girl
band. Non perché il gentil sesso non sappia cosa sia il rock, ma perché spesso dietro una
band tutta al femminile si celano calcoli di marketing che poco hanno a che fare con la
musica. Fine della premessa, eccoci a parlare del nuovo lavoro, il secondo, delle Cherry
Lips. Dopo un album d’esordio decisamente più tranquillo con “Blow It Away” il quartetto ha
virato decisamente verso il rock più o meno “classico”. Riff di chitarra taglienti, melodie
abrasive ed una sezione ritmica solida e senza fronzoli le coordinate attuali del progetto, lo
sguardo che volge al rock scandinavo, e forse non è un caso che il precedente lavoro in
Svezia sia arrivato in classifica e che Chris Laney abbia collaborato con loro alla stesura di
un pezzo. La produzione, curata dal trentino Marco Dal Lago, è ineccepibile sul piano della
qualità ma un po’ troppo pulita per i miei gusti, con le chitarre sempre un po’ soffocate e la
voce in primo piano. Qualche brano spicca sul resto, “This Time” per la prova vocale e “U
Know U Can” per l’arrangiamento, e nel complesso il lavoro è buono anche se manca il
guizzo in più capace di catturare l’ascoltatore. Siamo certi però che imboccata la strada del
rock le Cherry Lips non si arrenderanno e continueranno la caccia al riff perfetto.
Contatti: http://www.myspace.com/cherrylipsrock
Giorgio Sala
Pagina 31
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Numero Dicembre '11
CINETECA MECCANICA
Deviazioni
Danze Moderne
Ritorna l'elettrowave sul territorio nazionale con i Cineteca Meccanica, band che si muove
dall'esperienza di due figure di spicco della scena underground milanese degli anni 90:
Davide De Santis e Alessandro Ruberto. “Deviazioni” (Danze Moderne) il titolo del primo
album uscito per la casa discografica Danze Moderne con la loro nuova incarnazione
artistica, rintracciabile da ottobre sia nei – si dice in Rete – migliori negozi specializzati di
musica alternativa che sulle principali piattaforme di distribuzione digitale (iTunes). De Santis
e Ruberto sono due veterani, complici di numerosi progetti musicali che hanno caratterizzato
gli ultimi due decenni (U-Bahn Enfants, 2+2=5, Scunt, Valis). Alla new wave italiana per
eccellenza (CCCP, Diaframma, Neon, Krisma) mischiano le sonorità elettroniche catturate
da Oltremanica (John Foxx, Gary Numan e Ultravox), rispazzolando dalla polvere degli
scaffali musicali, che chi mastica e ascolta musica da un po' avrà di sicuro nel proprio
archivio personale, qualcosa che ha un sapore rétro, che però non guasta, incuriosendo
nelle quattordici tracce che compongono questo “nuovo” progetto, portando una “deviazione”
nel panorama di offerte d'ascolto in circolazione sul territorio. Effetto revival per i più navigati,
risultando una possibilità in più per chi ascolta da meno tempo, anagraficamente e
musicalmente più affetto da “esprit de jeunesse”, ha dalla sua il valore aggiunto dei tappeti
sonori a base di tastiera e pulsazioni ritmiche, sincopate ed elettriche, di Alessandro
Ruberto, e la voce e i testi da altrove di Davide De Santis, creando un effetto straniante che
trasporta sul nastro trasportatore, e traghettatore, del tempo e delle emozioni a base di
inconscio, e di “escavazione” nell'intimo. Delle “Deviazioni” da avvicinare con spirito di
esplorazione di novità provenienti dal nostro passato recente.
Contatti: www.cinetecameccanica.it
Giacomo d'Alelio
Pagina 32
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Numero Dicembre '11
COMFORT
Proximity To Temporality
482 Music
“Proximity To Temporality” è il terzo album del gruppo pisano, che come nel disco
precedente, “Sleep Talking Shared”, si apre a tanti ospiti e a tante trame musicali da
intessere che vanno dall’ambient al jazz impro e all’elettronica, e dal post-rock, alle colonne
sonore cinematografiche. Non a caso quindi “Chi mai”, brano di Morricone, viene qui
riarrangiato dal buon Alessandro Baris – batterista e motore per gruppo – in una versione
elettroacustica/dub. Il disco nuovo, come preannunciato nel precedente con un gran finale
slabbrato e decisamente più ambient del solito, ha confermato il passaggio fatto di suoni
ancora più slegati rispetto ai primi Confort. Un'ulteriore differenza sostanziale del disco sta
nella scelta degli ospiti, che se prima erano stati tutti italiani, per “Proximity To Temporality”
sono quasi tutti esteri: Joseph Costa dei L’Altra, Lindsay Anderson sempre dei L’Altra e dei
Telefon Tel Aviv, Anna Tolin (Audrey) e Beppe Scardino. Il disco ha un’anima più pulsante
grazie alle voci femminili e ai suoni caldi del dub elettronic, che con delle tastiere sempre
minimali ed evanescenti e incalzanti solo assieme alla tromba come in “A-100” colpiscono
per il passaggio leggero e il suono uniforme nonostante tutto. Al contrario, “Frenzied
Euphoria” ha il capo spezzato in mille parti e non si sa dove andrà con la sua base
dub/tromba malinconica, capace di stendere supino anche un cagnolino alla vista del
padrone, ma sul brano la scrittura è pari al vibrare del vento che si muove sinuoso sulle cose
e le tocca e dà loro una voce che la batteria post-rock scuoterà per bene. Bella prova.
Contatti: www.comfortcollective.com
Francesca Ognibene
Pagina 33
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Numero Dicembre '11
CREEP
Creep è morto
TRB
Ora: musicalmente questo è un buon disco. OK, magari è ritagliato sui canoni dell'hip hop
che va per la maggiore adesso (che a chi scrive e crediamo alla stragrande maggioranza di
voi che leggete piace un po' a metà), ma è fatto indubitabilmente bene. Sia come tecnica
produttiva, che come campionario di idee. In più, la prestazione di Creep al microfono è più
che convincente: bella voce, scura al punto giusto, buon flow, ottima padronanza delle
metriche. Però, accidenti: 'sta roba del gangsta all'italiana che pervade ogni singolo
frammento di “Creep è morto” ci suona un po' sospetta. I casi sono due, ma la conclusione è
una sola. Primo caso: Creep è in realtà un tranquillo ragazzotto di Prato che in realtà si fa il
viaggione? In questo caso è facile, zero, bocciato, ridicolo. Secondo caso: quello che rappa
Creep è vero, la sua attitudine illegal-nichilista è praticata sul campo, i guai con la legge li ha
avuti davvero? In questo caso ovvio che la sua credibilità e il valore delle sue rime aumenta,
ma sta di fatto che c'è un tale autocompiacimento da farti dire che allora la sua capacità di
(auto)analisi è zero virgola poco. I Dogo, quando fanno i gangsta, hanno spesso e volentieri
delle frecciate assai acute e assai intelligenti. Qua no. Qua c'è solo un lungo elenco di
quanto si è sporchi e cattivi. Stucchevole. E, a pensare che sarà ascoltato da ragazzini che
vivono ancora con la paghetta a casa dei genitori, quasi preoccupante.
Contatti: www.facebook.com/karatecreep
Damir Ivic
Pagina 34
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Numero Dicembre '11
DAVIDE FERRARIO
F
Novunque/Self
Apparso nei mesi scorsi come autoproduzione, l’esordio da solista di Davide Ferrario,
chitarrista di Franco Battiato e Gianna Nannini, vede ora la luce per label milanese
Novunque. Il lavoro di anni svolto da Ferrario, dopo la militanza con gli FSC – e la
partecipazione a un Sanremo Giovani nel 2007 – dà alla luce un pop di fattura buona, come
una stoffa ben tagliata. Musica italiana. Volendo, radiofonica, se ci fosse un poco di curiosità
verso prodotti non necessariamente veicolati dalla televisione o trainati da lanci pubblicitari
imponenti. Né impegnata né consolatoria. Né musona né piaciona.
“Non capiranno”, che Ferrario ha eseguito spesso nei concerti di Battiato, esprime la
difficoltà di farsi sorprendere, la resistenza al coinvolgimento, che, insieme al cinismo e alla
dimenticanza, finiscono per essere una sorta di bava tematica che scivola in tutte le canzoni.
Si affida a un avvolgente accompagnamento di piano “Stanze vuote”; si affida alle cure di
Lele Battista il singolo “Cercando un senso”, muovendosi su un ponte che porta dai Police ai
Subsonica. La traccia iniziale “Come ieri” è segnata da linee di basso scure, darkeggianti;
quella finale, “Non ci sono altre domande”, è una ballata sull’amore potenzialmente eterno.
Il limite “industriale” di “F” è quel muoversi in territori non marchiati: poco orecchiabile per
piacere agli ascoltatori più pigri e distratti; poco indie per gli esigenti cultori del rock
alternativo. Peccato.
Contatti: www.davideferrario.com
Gianluca Veltri
Pagina 35
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Numero Dicembre '11
DÉMODÉ
Le parole al vento
autoprodotto
Il sestetto friulano arriva al debutto sulla lunga distanza ad appena pochi mesi dall'uscita di
un eccellente mini-album omonimo, breve saggio di eclettismo strutturale e funzionale (mai
velleitario, insomma) che anticipava, in versione ridotta, quello che si trova su questo “Le
parole al vento”: una musica che è folk nell'animo (comunicativa, non elitaria, avvicinabile da
pubblici anche piuttosto diversi, e contemporaneamente estremamente colta, a conoscenza
di innumerevoli linguaggi popular appartenenti a tradizioni anche molto lontane tra loro), un
po' musica da camera e un po' jazz nell'utilizzo della strumentazione (il secondo è forse
l'elemento ad emergere in maniera più netta, ma non è un caso che il sestetto abbia scelto
per registrare lo studio di Stefano Amerio, ingegnere del suono specializzato del settore dal
curriculum sterminato). In tutto ciò, pur sballottando l'ascoltatore da un luogo all'altro (le
cadenze esotiche di “China Boid” assumono d'un tratto le movenze sincopate di Dave
Brubeck, tanto per fare un esempio, qua e là escono fuori disegni obliqui alla Stormy Six), i
Démodé, fedeli al loro nome, mantengono una certa aria d'antan, un gioco di colori seppia e
di pagine ingiallite sovrapposto con sottile ironia su schemi per nulla prevedibili e soprattutto
privi di patinature o autocompiacimenti. Ancora una volta lo ribadiamo: bravi, davvero molto
bravi.
Contatti: www.wearedemode.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 36
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Numero Dicembre '11
DISTANTI
Mamba Nero
To Lose La Track
Fa un buio pesto nelle stanze tormentate dei Distanti. Già dalla copertina raffigurante un
rogo in piena opera, si percepisce il mood oscuro rabbioso del seguito di “Enciclopedia
popolare della vita quotidiana”. Laddove vasi di fiori cimiteriali adornavano un disco
tracimante di furore post-adolescenziale espresso con una irruenza punk trascinante, nei
solchi del programmatico “Mamba nero” è la pece a coprire il sangue sgorgato un anno fa.
Rappreso e grumoso, il secondo disco ufficiale della band forlivese è una staffilata
emozionale da nodo in gola, un ematoma al cuore difficile da smaltire. Ed è appunto dalla
“Tolleranza al dolore” che la gestazione tormentata di questo disco tanto breve quanto
intenso ha partorito cinque gemme veloci come il punk, (auto)distruttivamente sublimi, che
sputano nel momento fugace di un quarto d’ora scarso, il veleno urticante ed appiccicoso
che compone la grana di questo EP che ha l’atteggiamento sfrontato di un vero e proprio LP.
Nel disco regna una confusione inquieta, in cui chitarre, basso e batteria cercano di
fuoriuscire da una caos (de)generato, mentre la voce costruisce nenie sbilenche, biascicate
ringhiando per un pezzo di calore umano (l’emo-zionante “Astronomie” che deflagra in un
flusso di coscienza veloce ed inarrestabile), in bilico costante tra vesti auliche in versi e
basso istinto carnale (La cavalcata finale “Foglia di fico” dove i tra denti digrignati da cane
rabbioso fuoriescono versi sotto la coltre di spleen strumentale: “ora mastica foglie di fico
senza sputi/deuteragonista in piedi di una settimana modello”, che inesorabilmente sfocia in
un altalena di singulti elettrici). Un saliscendi emozionale assolutamente tracimante di
passione pura, quella che distingue i Distanti fin dal primo EP omonimo, e che prosegue,
muta e si evolve con “Mamba Nero”, disco breve e rapido che fa da contraltare proteso
verso una naturale evoluzione nel melato baratro della maturità. Non abbiate paura di farvi
male.
Contatti: http://distanti.wordpress.com/
Luca Minutolo
Pagina 37
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Numero Dicembre '11
ESDEM
A Latex Society
Cold Noise
Quello degli Esdem, band maceratese, è una mistura industrial densa di oscurità funeste,
in cui l’elettronica ed una spiccata attitudine dark, contribuiscono a rendere tutto il mood
generale di “A Latex Society” ancor più sinistramente meccanico e freddo.
Secondo parto discografico del quartetto, il piccolo quadro dedicato alla “Società di lattice”
brancola nell’automatismo industriale tipico dei maestri di genere (Nine Inch Nails in primis),
senza però introdurre nulla di innovativo in un genere che, seppur evocativo di una
alienazione sociale sempreverde, al giorno d’oggi si trova in uno stato di calma piatta,
bloccato nel pieno di una bonaccia artistica. Che il disco sia intriso di un aria ossessiva,
morbosa, e ingabbiato in una pesantezza reiterata, non risulta sufficiente a far scorrere le
sue dieci tracce, in cui semplicemente si fa difficoltà a distinguerle l’una dall’altra, legate da
un sottile filo di ripetitività e prive di caratteristiche distintive, a tratti fin troppo autoreferenziali
e figlie di una visione post-siderale adatte a sottofondo di un film sci-fi di seconda categoria
(gli intermezzi electro-strumentali di “Me Suffering” o di “The Cold Neon Light” strappano più
di un innocuo sbadiglio). Fra le nenie vagamente malate di “While Alice’s Washing Dishes”
ed un innocuo mordente electro che attanaglia completamente “A Latex Society”, scivola via
un disco che stenta a lasciare il segno. A poco servono l’onnipresente Giulio “Ragno” Favero
ed il restauratore dell’elettronica Giovanni Ferliga a muovere le manopole in regia, che non
sempre implicano un sinonimo di qualità indiscussa. Fortunatamente un cuore pulsante lo
abbiamo ancora, e dunque infondere un pizzico di calore umano (tentativo centrato a metà
nell’intermezzo electro-pop di “Goodbye Child”) a tutto questo freddo e sterile industrial,
potrebbe rappresentare per gli Esdem una via di fuga facilmente percorribile.
Contatti: www.esdem.it
Luca Minutolo
Pagina 38
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Numero Dicembre '11
EUPHORICA
In viaggio
autoprodotto
Dalle terre patrie del nord, in territorio bergamasco, arriva il rock intrecciato all'indie acustico
degli Euphorica, che con il loro primo progetto autoprodotto, l'album “In viaggio”, sono in
circolazione fin da quest'estate, riscuotendo approvazione non solo in territorio nazionale,
ma arrivando a far parlare di loro a Cincinnati, con il consenso della Migrate Music News,
che dice: “How about some great acoustic rock music from Italy? Let me introduce you to
Bergamo, Italy's own Euphorica...”. Ci hanno creduto davvero Davide Zanni (chitarra
acustica e voce) e Salvatore Lentini (basso), fin dal loro primo incontro avvenuto a inizio
2009, concludendo la chiamata alle armi d'armata con l'arrivo di Paolo Armati (chitarra
acustica e seconde voci) e Roberto Pittet (batteria e percussioni). Dopo un primo periodo di
sperimentazioni e produzione di brani originali in italiano, è arrivato il grande passo: nel
giugno 2011 si chiudono al Lab Diesel 24062 di Costa Volpino (BG), dove danno alle luci il
loro “In viaggio”. Sette brani, che non passano inosservati, cospargendosi a macchia d'olio
tra gli ingranaggi d'ascolto del web e dei passaggi in radio locali e indipendenti, raccogliendo
premi (Ranzanico Music Fest 2010; Ritmi Globali Europei 2011, con la possibilità di produrre
un videoclip professionale...). Valorizzato dall'energia trascinante di due chitarre, il
contraccolpo emotivo del basso, e la rincorsa alla conquista dell'eterna meta, che più corri
più si allontana, di batteria e percussioni, con testi sinceri e pieni della speranza, che spesso
è sottratta a un passo dalla sua realizzazione, passando a malinconia per ciò che non è più,
non sarà, o forse sarà, ma oggi ancora no... “Lontano”, com'è il titolo di uno dei brani più
sentiti dell'album... prende il volo “In viaggio”, parlando di amore, guardando dentro se
stessi, su ali che impennano più veloci, verso il cielo, per smorzarsi a un pelo sopra l'acqua,
e poi riprendere quota. Ci credono, i quattro Euphorica, dandosi ambizioni anche per
l'estero, se solo quell'autoproduzione diventasse attenzione di qualcuno che investisse su di
loro. Ma non è la storia di tanta musica che meriterebbe in Italia, e non solo? Se c'è
qualcuno che volesse farsi avanti, ci sarebbero molte voci da ascoltare...Una di queste è
Euphorica.
Contatti: www.euphorica.it
Giacomo d'Alelio
Pagina 39
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Numero Dicembre '11
FROZEN FARMER
EP
Ghost/Venus
C'erano una volta i Midwest, giovane (allora, per lo meno) formazione varesina autrice di un
rock fortemente legato con le radici statunitensi e di un paio di album più che buoni. Poi, più
niente, fino al ritorno di due di loro – Francesco Scalise (voce e banjo) e Paolo Grassi
(percussioni) – con i Frozen Farmer, di cui rappresentano due quinti. Notevoli, quantomeno
idealmente, i punti di contatto tra le due band, ché anche nelle cinque canzoni che
compongono questo EP d'esordio sono evidenti i debiti pagati con la tradizione folk e,
ancora di più, country e bluegrass a stelle e strisce. Si potrebbe parlare a buon diritto di
Americana, allora, anche in virtù del fatto che i brani nascono in gran parte dalle esperienze
personali dello stesso Scalise negli States; e tuttavia, al di là delle definizioni, ciò che conta è
la qualità della scrittura, degli arrangiamenti (sufficientemente vari e ricchi nella loro tensione
elettroacustica) e dell'esecuzione, sempre tendente verso l'alto. Un debutto più che
soddisfacente, che entro una certa misura riprende un discorso interrotto fin troppo presto
ampliandolo però e arricchendolo di sfumature nuove, e che ha nell'intensa “Pain Of Sorrow”
e in una “Death” dai due volti i propri apici.
Contatti: www.myspace.com/frozenfarmer
Aurelio Pasini
Pagina 40
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Numero Dicembre '11
GARDEN WALL
Assurdo
Lizard
Se la memoria non m’inganna “Assurdo” dovrebbe essere l’ottavo album dei friulani Garden
Wall, un traguardo prestigioso in un’Italia che fa e disfa gruppi a ritmo incessante. Il merito è
(quasi) tutto di Alessandro Serravalle, elemento cardine della band, che con il suo essere
geniale, paranoico, terribilmente lucido e privo di filtri, porta la sua scrittura dove per molti è
impossibile anche solo avvicinarsi. In un percorso iniziato con il prog-rock, il nostro ha
affrontato gli impulsi del metal tecnologico e del thrash progressivo, per arrivare oggi fino a
noi, con un lavoro che è sintesi ed allo stesso futuro di quanto sin qui proposto. Perdersi nei
reticolati di “Assurdo” è un’esperienza che amplifica le percezioni sensoriali, ci sono alcuni
passaggi magnificamente terribili, in un susseguirsi di schemi destrutturati, dove anche il
supporto lirico è un gioco ad incastri, con Alessandro che duella tra voce e chitarra – ma le
tastiere hanno un ruolo fondamentale - per dare un senso alle pulsazioni emotive di
“Iperbole”, “Transigurationfunky” e “Negative”. Persino un brano, apparentemente leggero
come “Butterfly Song” diventa il pretesto per rincorrere fantasmi, anche se forse loro sono
più reali degli umani. E nella sequela di “no” che addobba la conclusiva “Isterctomia” c’è
forse la visione della vita (e della morte) del leader. Un album che lotta contro i demoni che
abbiamo dentro.
Contatti: www.gardenwallband.com
Gianni Della Cioppa
Pagina 41
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Numero Dicembre '11
GORAN D. SANCHEZ
Diaul
autoprodotto
Se non hai nessuno che ti produce un disco beh, fattelo da solo. Un’idea vecchia come il
rock che però è dura a morire, se gente come i Goran D. Sanchez, gruppo nelle cui fila
militano componenti di Detroit, De Crew e Rhyme, ha pensato bene di registrarsi un EP,
“Diaul”, e venderlo solo ai concerti o tramite download. Ad accompagnare la presentazione
alla “stampa” (messa così sembra anche una cosa seria) c’è un bel comunicato che sostiene
come la loro sia la vera musica del diavolo, ovvero la musica che il figlio di Satana si ascolta
sul suo iPod. Ovviamente non possiamo avere certezze (se no sai quanto venderebbero?)
ma la loro miscela di HC, screamcore e metal lo rende plausibile. Sei pezzi in bilico tra
sludge (la title track) e punk (“Don’t Bother Me”) dove la voce urla quanto basta e la musica
è nera come la pece. Una menzione va poi al video di “Weed or Weedout You” (finezza!)
girato dal fotografo erotico Danilo Pasquali: cercatelo perché ne vale la pena. Sulla musica
che dire? Loro sostengono che nessuno glielo avrebbe prodotto, io penso invece che con
tutta la musica inutile che esce qualcuno un po’ sveglio potevano anche trovarlo. In ogni
caso sono due euro tra i meglio spesi in musica nel 2011.
Contatti: http://gorandsanchez.bandcamp.com
Giorgio Sala
Pagina 42
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Numero Dicembre '11
HOME
Eleven
Tannen/Audioglobe
Veronesi di residenza, californiani per vocazione, i tre ragazzi che formano gli Home,
suonano rock‘n'roll puro e semplice, del tipo che o muovi il culo o non hai capito nulla.
Oppure sei morto (dunque ascoltare rock ‘n’ roll passa legittimamente in secondo piano).
Niente compromessi e niente fronzoli; tutto è ricondotto all’essenziale, in questo progetto
discografico. “Eleven” è il titolo del nuovo disco (terzo lavoro, dopo “Home Is Where The
Heart Is” del 2006 e il fortunato “The Right Way” del 2009) come undici sono i brani in
scaletta per poco più di mezz’ora di musica. L’album è un frullatore sonoro che cita, tra i
tanti, i Beatles e le armonie vocali dei Beach Boys, fino ad arrivare a... uh... Cyndi Lauper,
della quale la band offre in chiusura una rivisitazione inaspettata (più nella scelta che nel
risultato) del brano “The Goonies ‘R’ Good Enough”. D’altro canto è proprio il non essere
anacronisticamente integralisti, ciò che salva gli Home dal sembrare un trio di nostalgici con
la banana in testa e il cravattino in popeline. Brani come l’opener “Cowards” o “There’s No
Need To Complicate Life...” sono illuminanti, in tal senso. Non innovano, non hanno la
pretesa di farlo, ma ad un orecchio allenato suonano comunque personali, da non
sottovalutare. Fin dal primo riff il trio pare affermare “siamo qui solo e unicamente per farvi
divertire, divertendoci” ed è in verità un palese inganno. Gli Home sanno essere molto più
generosi ed intelligenti di così, ma la loro musica invita a non pensarci troppo.
Contatti: www.thehomesite.it
Giovanni Linke
Pagina 43
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Numero Dicembre '11
IL RE TARANTOLA ED EMMA FILTRINO
Il nostro amore sa di tabacco
Kandinsky-La stalla domestica/Audioglobe
A due anni di distanza dall'esordio con "Musica sgangherata", titolo che racchiude al meglio
lo stile del duo bresciano, Il Re Tarantola ed Emma Filtrino escono con "Il nostro amore sa di
tabacco", lavoro auto-prodotto insieme alla Kandinsky Records. La giovane coppia, formata
da Manuel Bonzi (chitarra e voce, già componente del duo Gli Eroi) e da Emma Ducoli
(charleston e rullante), dopo aver suonato con Giorgio Canali & Rossofuoco, Selton e Ettore
Giuradei, continua a cercare una propria strada, cavalcando il folk e l'alternative in modo del
tutto minimalista, accompagnandosi con testi che si dividono tra l'ironia e un'accennata
protesta sociale (presente soprattutto nel precedente album). La loro musica sghemba è
fatta di una semplicità disarmante che può ricordare il Bugo degli inizi ("Fiesta") e allo stesso
tempo Le Luci della Centrale Elettrica ("I Love You Maddalena"). Il disco è stato anticipato
dal video casalingo di "Scarpe croate", anch'esso dall'impatto immediato e originale. Un
album che, in un periodo che vede proliferare band che ripropongono l'esempio degli White
Stripes, si fa largo, sgomitando a colpi di rullante e di tastiere giocattolo. Dopo l'ascolto, la
curiosità di vederli dal vivo diventa quasi un'esigenza, per capire come la semplicità del duo
possa rivestire diversamente i brani del disco, adattandoli ai pochi strumenti presenti sul
palco. Perché, come cantano nel brano che dà il titolo al disco, sarà anche una "musica
sgangherata", ma di certo ha la capacità di divertire.
Contatti: http://www.myspace.com/ilretarantola
Marco Annicchiarico
Pagina 44
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Numero Dicembre '11
IN MY JUNE
Blind Alley
Garage/Audioglobe
Preparatevi a immergervi in una mareggiata molto agitata e malinconica. Un turbinio dei
sensi che vi coinvolgerà in trame delicate ma anche decise. Tra le chitarre e il violoncello e
la voce rotta e inquieta, drammatica e implorante, si confortano le note cercando le orecchie
giuste e i momenti più intimi e angolosi per arrivare agli altri nella loro intensità. Sfumature
sottili celebrano la costruzione solida e spontanea di “Blind Alley”, portando l’esordio del trio
a non avere falle incolmabili.
Vederci crescere forti e sani, senza traumi e delusioni, è il desiderio più grande di ogni
genitore, ma poi al di là del fiume, raggiungiamo una strada nostra, dove cominciamo a
cercare tutte le nostre fragilità più forti, le nostre unicità che ci contraddistinguono diventano
difetti e i nostri desideri li trasformiamo in ossessioni, le persone riescono a leggerci dentro
perché diventiamo marci, soli e senza più il bisogno di mostrarci simpatici e belli, e
rimaniamo così perché se hai un problema è come se avessi la peste. Questo spirito sembra
aleggiare tra i testi in inglese dei giovani In My June, che si sono compresi tra di loro
attraverso questi suoni maledettamente malinconici, riportati anche inconsapevolmente dopo
tanti ascolti dei loro vari beniamini. Hanno avuto buoni maestri, sicuramente, ma dopo
questa eccellente riorganizzazione dei loro sentimenti musicali, che li trova lucidi e devoti a
rock acustico, sono già curiosa di ascoltare le canzoni nuove di zecca con la
consapevolezza di avere orecchie, occhi e cuori in sognante attesa per le loro musiche.
Contatti: http://www.myspace.com/inmyjune
Francesca Ognibene
Pagina 45
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Numero Dicembre '11
IROL
Perso nel tempo
Big Things Music
Sorpresa piacevolissima, questo disco. Sorpresa perché da un rapper nato nel 1993 puoi
aspettarti un paio di cose: o il nulla, o l'imitazione degli stilemi che vanno per la maggiore
oggi. Invece, il sammarinese Irol piazza un lavoro che possiede una posatezza, un gusto e
una maturità che molti colleghi suoi anche di vent'anni più anziani (e da vent'anni in giro) mai
sono riusciti e riuscirebbero a mettere insieme. Certo, bisogna specificare che non è il caso
di gridare al capolavoro: qualche ingenuità c'è ancora nei testi, nel flow la cadenza regionale
ancora ben presente penalizza un bel po' la resa, quindi insomma spazi dove migliorare ce
ne sono. Però, complici delle basi molto azzeccate nell'avvolgere e sostenere il flow di Irol, in
“Perso nel tempo” si respira una bella sensazione di equilibrio fra parti, con tanto di buon
gusto stilistico. “Abbiamo iniziato a lavorare a 'Perso nel tempo' lo scorso dicembre e molto
di quello che ho scritto lo devo soprattutto alle basi musicali di Smith. Ha saputo infatti capire
il mio stile e le mie necessità e ha realizzato delle basi ad hoc, ben lontane da quelle della
nuova scuola”: questo quanto dichiarato dall'MC. Analisi lucidissima e perfettamente
condivisibile. Insomma, Irol è uno da seguire, tenetelo d'occhio.
Contatti: www.facebook.com/pages/IROL/261227113892254?sk=wall&filter=12
Damir Ivic
Pagina 46
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Numero Dicembre '11
KAUFMAN
Magnolia
Penthar-Mizar/Halidon
Che splendida sorpresa questi bresciani Kaufman! Rock con tanto pop, guidato da raggianti
melodie e ti viene da chiederti cosa altro deve fare una band in Italia per meritarsi una vera
ribalta, una vetrina, che invece finisce sempre ai soliti vecchi cantautori, agli stessi cantanti
di musica leggera o a qualche patacca uscita dai reality show. Eppure basterebbe così poco
per trasformare i Kaufman nei nuovi idoli del pop rock made in Italy, infatti in questi dodici
tracce non c’è un solo nervo fuori posto: talento, ispirazione, abilità di scrittura, alcuni
ritornelli che incantano ed un senso della melodia raro a trovarsi e “Labbra”, “Josephine”,
“Luna” e “Lavanderia automatica”, sono qui a dimostrarlo. Nella stupenda “Improvvisamente
tu” il leader Lorenzo Lombardi (voce e chitarra), divide il microfono con l’ospite Omar Pedrini,
mentre in “New York” l’armonica è suonata da Antonio Filippini, il calciatore innamorato del
rock (ma la parata di ospiti è lunga). Ma a parte queste segnalazioni, la sensazione è che i
Kaufman possiedono la “lucentezza”, come amava dire Stephen King, quel tocco in più, quel
qualcosa che li rende unici, anche nei dolci e stralunati testi. E per finire, un plauso alla
bellissima copertina. Bravi e ancora bravi!
Contatti: www.kaufmansound.com
Gianni Della Cioppa
Pagina 47
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Numero Dicembre '11
LA MONCADA
Torino sommersa
autoprodotto
È un gruppo tutto forma e sostanza quello dei La Moncada, che pesca i propri membri dal
sottobosco indipendente italiano (Albanopower, Treehorn, Airportman e Fuh), per tirare su
un progetto che vanta più di un guizzo. Forma che prende spunto dalle stanze intime e
scoscese dei flussi di coscienza, in cui la sostanza strumentale viene plasmata a suon di
post-rock corposo e mai autoreferenziale, che permettono alla band di dipingere paesaggi
dalle tinte fosche, in cui potenza strumentale, caratura lirica e slanci melodici sono ben
calibrati.
Disco dal titolo sinistramente profetico, “Torino sommersa” vanta il piglio dell’esperienza da
band veterana, che riesce a mescolare con le giuste dosi cavalcate post-rock intarsiate da
intagli folk ed una maestosità strumentale mai manieristica, che si perde spesso e volentieri
in spirali noise adagiate su di una coltre strumentale lieve (la coda lisergica di “Fine di un
farabutto”, che strizza l’occhio ai periodi di agitazione sonica dei Marlene Kuntz), oppure in
delicate ballate folk dal sapore d’oltreoceano, che deflagrano in maestose scorribande
elettriche (“Valore”), dove si nascondono aliti rivoluzionari (“Revolucion”) o semplici
chiaroscuri crepuscolari (la title track “Torino sommersa”). Ciò che incuriosisce nel disco
d’esordio dei La Moncada è la propensione a ribaltare, nei frangenti più intensi, la densità
musicale generando intelaiature strumentali sature e dense che, se ammaestrate con
scaltrezza, potrebbero regalare dolci e piacevoli sussulti post-rock. Come sempre non
abbiamo fretta, restando in attesa che la pioggia smetta di cadere.
Contatti: http://www.myspace.com/mattiacalvoband
Luca Minutolo
Pagina 48
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Numero Dicembre '11
LE GORILLE
Nautilus
autoprodotto
È musica estremamente cinematografica, quella proposta dal trio Le Gorille, che
difficilmente trova un senso ed una compiutezza se separata dal cordone che lo lega al
grande schermo.
In “Nautilus” si avvicendano scorribande interamente strumentali che oscillano tra le visioni
surf-rock dei Lively Ones (“Gli aborigeni” cavalca la cresta dell'onda senza particolari
increspature), suggestive atmosfere da B-movies poliziotteschi (le tastierine farfisa di “Nella
piramide” sono inequivocabili) e un'attitudine funk che strizza l'occhio spesso e volentieri alla
blaxploitation dei sobborghi di Harlem. Sì, tutto questo lo fanno già i Calibro 35, di cui hanno
già sciorinato e spolpato l'intero repertorio cinematografico italiano, e i Le Gorille ne
rosicchiano le ossa, (ri)proponendo sommariamente le stesse suggestioni da pellicola
impolverata e dai colori sfumati di corse spericolate in fuga dalla polizia, denaro, sesso e
malavita che hanno abbondantemente condito la tradizione poliziottesca nostrana. Manca il
mordente, manca la personalità, in un progetto che riprende quelle atmosfere in modo
assolutamente filologico e piatto, senza alcuna variazione di forma e (poca) sostanza,
“Nautilus” risulta una raccolta da sottofondo ideale per la serie “Chips” o per un aperitivo chic
al tempo stesso.
Contatti: www.myspace.com/legorille
Luca Minutolo
Pagina 49
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Numero Dicembre '11
LE-LI
Black Album
Garrincha
John e Leli sono i Le-Li. Uno dei dischi preferiti da John è il “Black Album” dei Metallica (uno
dei preferiti di Leli è il “White Album” dei Beatles). Secondo album, per l’officina acustica del
duo vicentino-bolognese, che apre le porte a due nuovi componenti: il sassofonista Elia
Dalla Casa e il polistrumentista Andrea Bergamin. “Fishbowl” è un valzer giocattoloso che ha
i modi delle ballate lunari dei Cocteau Twins. Non un minuetto ma un valzer maledetto, à la
Tom Waits, è “Il valzer dell’addio”. Una manciata di canzoni sono in inglese, l’altra metà in
italiano. Canzoni piccole su cui andrebbe scritto sopra “FRAGILE”, ad alto rischio di
frangibilità. Del resto, è proprio Leli a cantare nella canzone migliore del disco, “Troppo
lontano”, “le cose più complesse sono fragili”. Carillon, ukulele, autoharp, glockenspiel,
organo Bontempi, kalimba. Il sassofono e il clarinetto diventano la rete protettiva dei tanti
suoni. E poi il sitar che apre “Valentin’s day”, omaggio alla macchina dei sogni cinematici di
Bollywood; il vetro soffiato di “Bambola”; “Paris-Orly”, la chicca in francese; “Alla Befana” la
lettera mai scritta da bambina.
È fanciullesco, il pop fiabesco dei Le-Li. Com’è d’obbligo nella naiveté, sa pescare nelle
temperie adolescenziali dei tempi andati, come nella graziosa “A cosa servono le tonsille?”,
che nei suoi 5/4 declama il de profundis di un organo – le tonsille, appunto – ucciso da una
moda anni Ottanta. O a raccontare un ormai remoto passato di Ramones, nelle delicatessen
di “Sheena Was A Punk Rocker”. Passato ribadito dalla cover dei Stooges “No Fun”. Un
discolo piccolo e bello, come un prezioso bicchiere, decorato con colori screziati.
Contatti: www.garrinchadischi.it
Gianluca Veltri
Pagina 50
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Numero Dicembre '11
LEGITTIMO BRIGANTAGGIO
Liberamente tratto
Cinico Disincanto/Audioglobe
In occasione della recensione dell'album precedente, “Il cielo degli esclusi”, esattamente
due anni fa, mi auguravo che il gruppo di Latina riuscisse a spingere un po' avanti la paletta
di quel folk un po' combat e un po' duro e puro (ma non senza ironia), teatrale ed elettrico,
che con tanta efficacia gli riusciva di allestire, cercando di guardare oltre, di trovare una
direzione che mantenesse quel rigore ma allo stesso tempo riuscisse a scrollarsi un po' di
dosso quel senso di già sentito. Beh, “Liberamente tratto”, il nuovo lavoro, è sicuramente un
passo avanti in tal senso. Se non nella scrittura (in parte sì, comunque), sicuramente nei
suoni, nell'invadere un po' il territorio rock senza rinunciare alle fisarmonica (essenziale negli
equilibri della formazione) né a certi passaggi in levare (molto meno funzionante come
scelta, almeno per chi scrive, ma solo perché si tratta ormai di un cliché indelebile del folk
più movimentato). Un esempio assai riuscito di questo sconfinamento è “La lettera viola”,
attraversata da un riff persistente che resta immediatamente impresso. Un passo in avanti
ulteriore, dicevamo, verso la sintesi ancora più definita, ce lo auguriamo, di una nuova
ipotesi di folk elettrico, capace di osare un po' di più.
Contatti: www.legittimobrigantaggio.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 51
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Numero Dicembre '11
LETTERA 22
Contorno occhi
ForEars
Quello dei Lettera 22 è un rock in italiano prodotto con gusto, con muri di chitarre power pop
appena un po' arzigogolati e linee melodiche che si abbandonano all'italianità senza per
questo assumere le sembianza di un blando pop radiofonico malamente travestito da indie
rock (succede molto più spesso di quanto possiate immaginare, eccome se succede). La
band di Castelfidardo, provincia di Ancona, ha natali recenti (l'estate del 2010), è nata su
iniziativa di alcuni ex componenti degli Specially Mild, gruppo con un paio di EP all'attivo e
qualche riconoscimento ottenuto esibendosi in vari concorsi, e in Daniele Landi ha trovato un
produttore in grado di calibrare ed equilibrare le varie spinte (cantautorato rock di ampio
respiro, new wave, emocore), producendo un lavoro di discreta fattura, promettente e
piuttosto fresco. I testi sono sufficientemente originali da non passare in secondo piano,
l'impasto complessivo e solido e dinamico, con picchi di creatività in brani come “Cliché”,
dove i fiati intervengono a rendere più corposo il tutto, o in “Ore”, un ipotetico incrocio tra
Benvegnù e Baustelle che sembra illustrare la direttrice ideale su cui fare scorrere la musica
del gruppo.
Contatti: www.forears.net
Alessandro Besselva Averame
Pagina 52
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Numero Dicembre '11
LOVE YOURSELF FIRST
Non taggarmi nelle foto la vita non mi piace EP
La Fame Dischi
Non c'è da confondere con il titolo di un libro, uno dei tanti in circolazione nei territori
americani a caccia di santoni e cure dimagranti per l'esistenza, l'autore di un EP che sembra
nascere dal nulla, ma che ha da dire ben più che nulla, anzi... Love Yourself First,
all'anagrafe del mondo Michele Maraglino, è un giovane cantautore tarantino, classe '84, che
ha già alle spalle altre produzioni, d'Ep, totalmente self-made, come ci tiene a puntualizzare
all'interno del suo ultimo lavoro, “suonato, registrato, mixato da Michele Maraglino, nella
prima metà di settembre 2011, nella cameretta”. In circolazione da qualche mese nella sua
nuova incarnazione artistica, Maraglino ha fatto uscire l'EP con quattro tracce, “40 anni fa”,
“Al supermercato”, “Un giorno strano”, “Naemmeno originale”, per essere sviluppato ora
nella sua versione Plus ascoltabile nei suoi vari siti, che per l'ampliamento del progetto con
“Il lato peggiore”, “Giorni”, “La verità”, “Continui a farti in 4”, vede per questi ultimi tre brani
l'arrivo nella “cameretta” di Gianluca Di Vincenzo, alle chitarre e vari effetti. “C’era una volta
un giovane cantautore di nome Michele Maraglino che aspettava trepidante che il suo fonico
di fiducia allestisse lo studio nuovo per entrarci e registrare finalmente il suo primo disco
ufficiale. L’attesa però era insopportabile e per ingannarla il nostro giovane cantautore si
chiuse nella sua cameretta con la chitarra del suo coinquilino, il microfono e il PC, dando vita
ad alcune canzoni.” Così si definisce lo stesso Maraglino, aggiungendo anche che è un
“punk lo-fi domestico senza pretese”. Il tutto contenuto nel sito de La Fame Dischi
(www.lafamedischi.tk), giovane e sotterranea - e quindi da correre a conoscere! - realtà, che
nasce come progetto di contenimento e diffusione alla conoscenza di tutti coloro che
altrimenti non potrebbero avere un loro canale di sbocco. Perché, come si può leggere
sempre dalla loro pagina, “Le canzoni migliori le scrive la fame”. In buona compagnia con
Are We Real? e Marazzita nella scuderia de La Fame Dischi, Love Yourself First si propone
con un lo-fi davvero coinvolgente, con chitarre, percussioni che corrono in testi che scorrono
in parole dolorose, soffiate via, graffiate via, dalla vita che di cartapesta costruisce fondali
posticci in cui muoversi lontani dalla propria verità. Provenienti da altrove grazie all'effetto
imbuto della registrazione a bassa fedeltà, le tracce lasciano traccia, in episodi che massimo
durano 3 minuti netti, attaccando addosso, nell'anima, la voglia di riascoltare più e più volte,
ricordandosi, forse, alla fine di ogni somministrazione, di Love Yourself First.
Contatti: www.soundcloud.com/loveyourselfirst
Giacomo d'Alelio
Pagina 53
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Numero Dicembre '11
LUCIA MANCA
Lucia Manca
Novunque/Self
È un viaggio dolce e sognato, capace di guardare la realtà, privo di contaminazioni
dannose a corromperne la sincerità pura, quello che compie la giovane cantautrice salentina
Lucia Manca nel suo primo album dal titolo che è semplicemente “Lucia Manca”,
dimostrando già con questo che la volontà è quella di dare spazio solo a quello che c'è di più
vero e nascosto, in un angolo riposto di se stessi, lì in attesa di essere fatto uscire. Un
cammino che si prefigura già dal video del brano scelto, “Dea”, per anticipare l'uscita
dell'album (il 22 novembre, sia in versione fisica che sullo spazio internauta): in una casetta
di legno, in mezzo alla natura di un bosco, la tessitura di una bambola, la cui nascita
avvenuta, potrà compiersi il viaggio, solcando anche la liquidità del mare, fino a dare una
nuova casa a quella bambola, forse semplicemente tornando a casa. Voce, che ha
personalità e originalità, racconta l'amore, in atmosfere senza tempo, declinandosi alla vita,
in sonorità pop, avvolte di sogno, coinvolgendosi di folk, e correndo in tratti rock (“Il mio
canto”). Interamente composto, per testi e musiche, da Lucia Manca, tranne “Tutte le
parole”, di Giuliano Dottori degli Amor Fou, e “Il ritorno”, scritto a quattro mani sempre con
Dottori, l'album e le sue dieci tracce nascono proprio grazie al sostegno di Giuliano Dottori,
che l'ha prodotto artisticamente, per arrivare a essere masterizzato in USA, al Sae Mastering
di Phoenix. Dopo il primo episodio solista per lei nel 2007 con l'EP “Sospesa”, l'inevitabile, e
preannunciata, anche dall'attenzione dei media a livello nazionale, realizzazione di un
progetto a più ampio respiro, che consegna agli ascolti un dono da maneggiare con cura,
lavandosi di dosso quella nebbia sporca di immondizia che circola nell'aria. Ma forse i tempi
dell'immondizia sono passati.
Contatti: www.myspace.com/luciamanca
Giacomo d'Alelio
Pagina 54
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Numero Dicembre '11
MAPUCHE
L'uomo nudo
Viceversa/Halidon
Canzoni elaborate tra le quattro mura di una cameretta, con strumentazione essenziale e
sentimento lo-fi, registrate successivamente in uno studio della campagna siracusana da
Lorenzo Urciullo AKA Colapesce, mantenendo gli stessi identici presupposti sonori e
compositivi iniziali: il debutto di Enrico Lanza a nome Mapuche è sostanzialmente questo,
con l'aggiunta - elemento decisivo, in ogni caso - di una voce non esattamente canonica, un
poco imprecisa ma dotata di personalità e di una certa propensione alla teatralità del
cantastorie (in “L'uomo nudo ad esempio”). Immaginate, a grandi linee, una specie di terza
via tra il primo Bugo e uno degli innumerevoli eredi di Rino Gaetano, anche se considerarlo
un collega di Brunori SAS (ascoltando “Io non ho il clitoride” la tentazione è davvero
fortissima) è tutto sommato fuorviante. Le sue sono piccole storie di indignazione
(sentimento non necessariamente rivolto al mondo: Lanza non fa sconti a nessuno, neppure
a se stesso) raccontate con godibile irruenza, alle quali contribuisce occasionalmente
qualche amico infittendo qua e là le trame (Cesare Basile suona l'ukulele ne “L'atto
situazionista”, ad esempio). Nulla di davvero imprescindibile, ma disco sicuramente godibile.
Contatti: www.myspace.com/mapuche80
Alessandro Besselva Averame
Pagina 55
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Numero Dicembre '11
MARAITON
Papa
Autoprodotto
Il primo minuto dell'album è caratterizzato dalla sola voce di Andy Casanova che riemerge
dalle pellicole di "Stupri italiani" per introdurre un basso martellante sul quale prenderà vita il
secondo brano "Sissy". A questo punto bastano soltanto pochi secondi per capire chi sono i
Maraiton: non una band alle prime armi, bensì "un progetto di cinque persone" (2 bassi, 2
voci, batteria e un fonico, questa la loro autopresentazione) maturo, collaudato e con le idee
ben chiare in testa. Perché su un oliato e sincopato incedere math-core strumentale, con
tanto di improvvisi cambi di ritmo, le due componenti vocali si intrecciano perfettamente - la
prima con un approccio aggressivo-recitativo, la seconda con uno un poco più melodico e
sofferto - garantendo così un risultato finale ben equilibrato con dei testi per niente banali.
Ovviamente tra queste nove tracce (per una durata totale di poco più 26') la maggior parte è
molto più sbilanciata verso la veemenza che non verso la melodia. Per fortuna, aggiungiamo
noi. In questo lavoro completamente figlio della filosofia do-it-yourself non ci sono infatti
ruffianerie di sorta, né verso l'ascoltatore né verso scene musicali potenzialmente affini: la
forma canzone con i Maraiton viene destrutturata e fatta implodere. Ma nonostante ciò brani
come il succitato "Sissy" e il finale "Tarantein" riescono a farsi incisivi e "accessibili" perché
in grado di azzeccare contagiose ripetizioni vocali e catalizzare l'ascolto. Ecco, proprio su
questa peculiarità consiglieremo loro di insistere in futuro, potrebbero veramente dar vita a
grandi (anti)canzoni. Un mix di riferimenti che ci viene in mente è prendere i Jesus Lizard più
aggressivi e frullarli insieme ai nostrani primi Fluxus, De Glaen e ai Flora&Fauna - seminale
band livornese dalla quale provincia provengono pure i Maraiton.
Contatti: www.myspace.com/maraiton
Andrea Provinciali
Pagina 56
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Numero Dicembre '11
MISSINCAT
Wow
Revolver/Goodfellas
Missincat, cantautrice milanese ora residente a Berlino, rischia ad una prima occhiata di
finire nel calderone di tutte quelle carinerie (e chincaglierie) indie che a lungo andare hanno
trasformato un vezzo in una temibile forma di maniera: suonini, carillon, orsacchiotti e sospiri
loliteschi, e via dicendo. Sarebbe un errore di prospettiva infilarla nella categoria, perché se
è vero che Missincat un po' ci gioca su un certo immaginario da bambolina rétro un po' jazz
e un po' folk (tra il Trio Lescano e i Dresden Dolls, se può avere un senso l'accostamento),
sa scrivere canzoni pop di tutto rispetto, muovendosi all'interno di un perimetro folk con
qualche puntata nell'exotica e nel vaudeville, e con arrangiamenti in cui fiati, pianoforti,
vibrafoni e percussioni la fanno sovente da padroni. “Wow” è un'opera seconda di
spessore,e di certo non può passare inosservata. C'è solo una concessione alla visibilità e
alle fenomenologie musicali del momento, il duetto con Dente in “Capita”, unico brano in
italiano, in cui la voce si fa forse un po' troppo vezzosa: ma la canzone è ancora una volta
bella, con un che di antica filastrocca, e la “carineria” di cui ci si lamentava al principio della
recensione resta un semplice colore tra gli altri, sullo sfondo.
Contatti: www.missincat.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 57
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Numero Dicembre '11
NEMI
Eleanor Rigby
So Far Away
Una buona intenzione non sempre è sufficiente a dare un buon risultato. Del casertano
Nemi, qui al suo secondo lavoro, non potremmo che dir bene, se si sta alle intenzioni: voler
fare un album maturo, che eviti i luoghi comuni del rap, che musicalmente sappia parlare ad
un pubblico non di nicchia, che abbia il coraggio di misurarsi con temi e suoni adulti. Tutto
ottimo. Il problema è che non basta. Non basta, perché se vuoi ricorrere al pop devi evitare
di farlo in modo così dozzinale (...ma questo è un problema molto frequente della musica
rap: quando guarda al pop, pare ormai in grado di prenderne solo gli elementi più deteriori e
banali, più mainstream): per il bene che vogliamo alla cultura hip hop e alla sua scena ci
dispiace vedere quando si approccia ad altri mondi in modo così banalizzato e pedissequo;
ci dispiace e – di conseguenza – bacchettiamo accigliati. Per quanto riguarda i testi e il rap
di Nemi, invece, anche qui le intenzioni sono buone (essere posato, riflessivo, introspettivo,
mantenendo comunque un certo modo di essere diretti) però manca ancora molta
espressività nel flow, il suo incedere al microfono quando piglia bene risulta preciso, quando
piglia un po' meno bene risulta effettivamente legnoso. Insomma, difficile promuovere a pieni
voti un lavoro che, comunque, nasce effettivamente da lodevoli basi ed intenzioni.
Contatti: www.nemiofficial.blogspot.com
Damir Ivic
Pagina 58
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Numero Dicembre '11
N_SAMBO
Suspended
Electric Fantastic Sound
Non troppi mesi fa recensimmo proprio in questa rubrica l'esordio del livornese Nicola
Sambo, "Sofà elettrico", e adesso repentinamente e inaspettatamente ci piomba addosso il
suo secondo album nuovo di zecca. Che cosa è cambiato dall'uno all'altro? Le differenze
sostanziali sono due: il salto internazionale discografico dalla nostrana Snowdonia alla
svedese Electric Fantastic Sound e soprattutto l'inserimento della voce. Per il resto il tappeto
sonoro sul quale si muovono queste nuove dieci tracce potremmo considerarlo il medesimo
del suo debutto non senza qualche sensibile ma strutturale arricchimento stilistico-sonoro.
Contaminato da così tanti generi disparati (kraut, psichedelia, elettronica, funk, acid rock,
noise, IDM) ma in grado di attuarne una fusione sintetica delicata e pacifica, questo suo
electro pop - riferimento musicale che dà il titolo alla quinta canzone in scaletta (sarà un
caso?) - riesce così a mantenere una sua dimensione tascabile che lo rende originale e
interessante, ma soprattutto gradevole e accattivante. Proprio la voce (la vera novità) dà
all'insieme un tocco wave (ricorda molto i Wire) in grado di personalizzare ancora di più il
suo stile rendendolo in qualche modo più omogeneo del debutto. La peculiarità di N_Sambo
è quella di saper sfruttare le "sfumature": gioca con tutto mantenendo però ben presente la
sua personale idea di pop rock. Solo così riesce ad evocare contemporaneamente nomi
come i dEUS più sperimentali, Syd Barrett, David Bowie e Brian Eno. Certo, qua e là a volte
le cose risultano un po' troppo derivative e poco lucide (succede di rado), ma quando riesce
a cogliere le melodie giuste (su tutte "Electric Shock", "Film", "Limbo" e "Vertigo") diventa
impossibile resistere al suo talento. Basta arrivare poi alla finale "I'm In Love" per capire pure
la chiave romantica del disco. Lo aspetteremo al varco tra qualche mese, che ci ha abituati
bene.
Contatti: http://www.myspace.com/n_sambo
Andrea Provinciali
Pagina 59
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Numero Dicembre '11
NEROARGENTO
Three Hours Of Sun
Coroner Records/Murdered Music
Dopo essere comparso in diversi gameplay trailers di videogiochi (come World of Warcraft,
Halo e Nasuto), il polistrumentista NeroArgento (al secolo Alessio Ferrero) ha pubblicato
“Three Hours Of Sun”, il primo disco ufficiale della sua carriera. Registrato nel suo studio
(Aexeron) e prodotto da Ettore Rigotti (Disarmonia Mundi), il lavoro contiene undici tracce,
alcune delle quali già uscite (in un’altra versione) nell’autoprodotto “Self-Control Juice
Manifesto”, del 2000. Anticipato dal singolo “Trust”, questo album mischia il metal con
l’elettronica, e la capacità (oggettiva dell’artista) con una certa assenza di originalità. Il già
sentito, quel suono che arriva dall’altra parte dell’oceano (anche se in alcuni punti ricorda i
Nine Inch Nails o i Linkin Park, poco importa), si avverte per l’intero ascolto del disco. A
canzoni riuscite come “Trust”, “Go Baby Gone” e “Helpless Like You”, si affiancano brani
molto meno convincenti e più dozzinali (come “Advertising Muse” e “Underneath A Sky Of
Dust”). Il disco è distribuito anche all’estero, con in più una versione speciale uscita
appositamente per il mercato giapponese, che contiene l’aggiunta di “Helpless”, brano
cantato da Yoko Hallelujah.
Contatti: www.yurisneroargento.com
Marco Annicchiarico
Pagina 60
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Numero Dicembre '11
PANE
Orsa Maggiore
I Dischi dell'Orsa
Se c'è una cosa che noi italiani sappiam fare meglio degli stranieri – è ora di dirlo! – è il
pane. Ci viene proprio bene, impastare, infornare, sgranocchiare, in mille forme diverse, con
amore e fantasia. (Solo a Bologna non sanno farlo, poveri loro, ma non è il caso del Progetto
Pane, che viene dalla capitale, meno male.) In otto anni, questa è la terza infornata del
gruppo formato dall'aggraziato pianista Maurizio Polsinelli, il bravo chitarrista Vito Andrea
Arcomano, il batterista in tinte jazz Ivan Macera, il flautista Claudio Madaudo e Claudio
Orlandi alla voce calda e demetriostratosiana – senza le qualità ultraterrene e polifoniche del
greco andato, sarebbe stato un miracolo – e ai testi precisi e pregevoli, sovente spulciati da
tutt'altro campo, quello della letteratura (la title track da Majakovskij, “Samaria” dal sempre
troppo poco conosciuto Gesualdo Bufalino, e “Cavallo” da, pensa un po', Victor Cavallo).
Nove canzoni – e per una volta, fa pure piacere usare “canzoni” al posto del solito anonimo
“tracce” – per cinquanta minuti di folk-progressive all'italiana, in un disco registrato
magistralmente, cui la sola critica che si può muovere è forse l'eccessivo dispendio di
energie cerebrali durante l'ascolto di ogni singola nota per ognuno dei quattro strumenti
coinvolti e delle parole messe sapientemente in fila da Orlandi (o dagli scrittori di cui sopra).
“Orsa Maggiore” si fa gustare davvero, da solo o in compagnia di un certo rock intellettuale e
datato del Belpaese che fu. Un disco buono. Come il pane.
Contatti: www.progettopane.org
Marco Manicardi
Pagina 61
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Numero Dicembre '11
FOLCO ORSELLI
Generi di conforto
Muso/Venus
Dieci canzoni che sono un pugno allo stomaco per le ultime anime romantiche. Folco
Orselli, milanese DOC, certamente il cantautore italiano indipendente più interessante in
assoluto, è tornato con un album che trasuda passione, nostalgia, ironia e blues. “Generi di
conforto”, suo quarto disco, si apre con gli archi - presenza costante in tutto il lavoro - di “In
caccia di te”, ballata romantica dal sapore rétro, per proseguire con la oscura “In equilibrio
(cadendo nel blues)”. “Dubbi”, con una bellissima andatura western cadenzata da chitarra,
tromba e archi, ci riconsegna un Orselli in stato di grazia, con tutti i brividi che ne
conseguono, mentre “La ballata di piazzale Maciachini” è un blues che esalta la Milano
meno nota, quella fuori cartolina, quella delle leggende vere. “La ballata del Paolone” è un
capolavoro pianistico di amore, amicizia, ricordi e fiaschi. Quanto di meglio si possa sperare
da uno che è riuscito a fare sua la lezione di Waits e Buscaglione. Difficile fermare le
lacrime. “Balla” offre un tocco country di spensieratezza. Si torna alla ballata con “Macaria”
mentre il racconto di “Storia della morte e del suo amore” ha l’andatura inquietante della
marcia. Con “Inno alla follia” si scendono gli scalini dell’inferno per brindare da pazzi. La
conclusiva “Manila” è una canzone d’amore che da sola vale il disco, come probabilmente
da sola vale tutto quanto ha scalato la top ten italiana del 2011. Insomma, un lavoro che è
un’iniezione di fiducia per chi ama la musica italiana d’autore e la credeva agonizzante. Un
disco che ti regala quella Milano bohème, quella Milano che manca e che Folco rievoca con
una voce sempre più calda e ruvida, rabbiosa o malinconica a seconda delle circostanze.
Questo album sarà di conforto per tanti: correte a comprarlo, sostenendo così un’arte che
non ha, e mai avrà, padroni.
Contatti: www.myspace.com/folcoorselli
Marco Quaroni
Pagina 62
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Numero Dicembre '11
PLANET BRAIN
Forecasts EP
Function/Goodfellas
Anche se suonano oltremodo “Oltremanica”, i Planet Brain sono una italianissima band.
Pubblicati da una label albionica già dal precedente “Compromises & Carnivals”, tornano
con un album a metà tra l’EP e un full length. Band “guitar-sound”, squarci (pochi) di quiete
stracciati dall’elettricità; in “Believe/November/Slowly” gli archi sono arrangiati da Fabio de
Min, che insieme a Giulio Ragno Favero è co-produttore dell’album. Sì, perché
voce&chitarra dei Planet Brain è Marco Batelli, dirimpettaio di de Min nei Non Voglio Che
Clara. Ma qui si respirano altre arie: suono pieno, corde tese, emotività esposta e ad alto
volume. L’effettistica di “At Least Since Monday” apre roboante le dance dell’EP, in odore di
vecchi U2, mentre “Yesteryear” fa l’occhiolino a certi stilemi esistenzial-prog, quelli che tanto
piacquero a Jeff Buckley. Anche se poi, come ben sa l’affezionato pubblico del trio
bellunese, il convitato di pietra dei Planet Brain è rappresentato dai Muse, fin troppo evocati
dall’epica passionale, dall’eccessività temeraria, dallo stile vocale di Batelli che sovente fa
ricorso al falsetto, e da un mucchio di altra roba. Mezzo cd – la seconda metà – consta di
una minisuite di tre tracce, “Forecast #1”, “#2” e ”#3”. L’acceleratore è pigiato a tavoletta, con
qualche rischio di enfasi. La qualità è buona, anche se l’eccessiva “etichettabilità” non è un
pregio. Orfani di quel che furono i Muse (e non son più), unitevi!
Contatti: www.myspace.com/planetbrain
Gianluca Veltri
Pagina 63
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Numero Dicembre '11
RASHOMON
Andrà tutto bene
Lo Scafando/Wondermark
Ormai le recensioni potremmo scriverle tutti con il pilota automatico. Non se la prendano le
band, ma il problema è ormai il solito: ascolti il disco, pensi che non è male, cerchi di capire
quali sono le cose per cui vale la pena passare 30-40 minuti della tua vita per dargli retta,
verghi delle righe effimere (anche se queste andranno sul web per il godimento dei posteri)
per poi riporre il disco – quando ancora di disco si tratta – da qualche parte che non
guarderai mai più. Non è cinismo, ma una constatazione del tempo che viviamo. Non è colpa
certo dei Rashomon, che a dirla tutta escono con quattro anni di ritardo almeno: ascoltando
“Andrà tutto bene” mi rendo conto che quando ai tempi parlammo bene dei Lombroso forse
bisognava andarci più cauti. Anche perché in questa sorta di pop abrasivo (Afterhours
modello “Non è per sempre”) sporcato di blues (quello dei Black Keys, per capirci) e righe un
po’ sb(r)occate e un po’ liiriche (produzione media Mescal primi anni Zero) i Nostri ci stanno
anche bene, e fanno il loro con onestà e ostinazione. Ma le cose stanno così: anche se
Soave si è rimesso in pista, il mondo della musica è cambiato. E per guadagnarsi un posto
al sole c’è bisogno di qualcosa di speciale che la scrittura di queste dieci canzoni
semplicemente sembra ancora non avere. Ma non escludo che, prima o poi, affinando dei
richiami ancora troppo espliciti, da pezzi come “Black Jesus” e "Persi" possa nascere
qualcosa di veramente buono.
Contatti: www.rashomonmusic.com
Hamilton Santià
Pagina 64
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Numero Dicembre '11
RELLA THE WOODCUTTER
Know When It's Time To Get The Fuck Away
Boring Machines
Anche quando non se ne parla esplicitamente – una “Coward” sporca di Mississipi non
lontana da certi vapori folk alla Songs For Ulan, il Daniel Johnston addomesticato di “Wrong
Affection” -, il blues lo senti comunque nella musica di Rella The Woodcutter. Ad esempio in
una “Are You Expired?” che distorce Hendrix nel titolo per poi andare a parare sorniona tra
Songs: Ohia, For Carnation e Smog; nel Vic Chesnutt recuperato dall'elettrica scarna di
“Bodies”; nel free-rock della introduttiva “Apocryphal”. Tanto per dire che l'ascolto dell'EP “I
Know When It's Time To Get The Fuck Away” è di quelli appassionanti e senza
compromessi, tagliato su una musica calda, dai confini labili e decisamente personale.
Materiale tremolante nella forma ma capace di giocare con le mezze luci grazie anche a un
songwriting in bilico tra chitarre, batterie lentissime e una voce che sembra partorita
direttamente dai field recordings di Alan Lomax. 
Dietro alla ragione sociale c'è il
milanese Federico Macchiarella (con la collaborazione di Rob Maggioni e Maurizio Abate),
già militante in formazioni in odore di psichedelia come Eternal Zio. Per un disco che ha tutto
l'aspetto di un gustoso antipasto del “The Golden Undertow” previsto per gennaio.
Contatti:
Fabrizio Zampighi
Pagina 65
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Numero Dicembre '11
RENT
La muerte
SaFe/Believe
Alla continua ricerca dell’espressione che meglio possa sposare la propria sensibilità
artistica, il rodigino Matteo Ferrarese (nome d’arte Rent) negli ultimi quindici anni si è
occupato di tutto un po’: dalla pittura alla fotografia, fino alla poesia, trovando però solo nella
musica la migliore (o forse soltanto la più longeva) delle passioni. Dopo un’esperienza
relativamente breve con il progetto Lola Rent e l’album “Universalmente incompatibili” del
2003, con cui attirò le attenzioni della critica, in questi anni il cantante ha lavorato al suo
primo album solista senza fretta, cesellando con cura ogni suono, ogni parola. Il risultato?
Una miscela particolarmente credibile di synth pop anni 80 che fin dal titolo cerca di
esorcizzare la fine delle piccole e grandi cose con ironica malinconia. “La muerte”, nei suoi
cinquanta minuti riesce a far muovere i piedi (citiamo “Manifesto”, la title track, il singolo
“L’attore”) così come i neuroni (su tutte, la languida “Dirsi addio”), risultando fintamente
popular e insidiosamente intelligente. Di brano in brano, Rent evoca David Bowie, rimanda ai
Depeche Mode, è ubriaco di Fausto Rossi e cosa più importante ancora, è che pure con
qualche scollatura, può contare su di un’arte consapevole e ben nutrita. Un’arte potente e
insolita, tanto che le conclusive “Storie di sesso” e “Ultima notte”, quest’ultima in particolar
modo, non sono solo canzoni infuse di grazia, ma costituiscono la promessa di scenari a
venire che lasciano col fiato in sospeso.
Contatti: www.rent005.it
Giovanni Linke
Pagina 66
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Numero Dicembre '11
RUBEN
Live alla Fontana
Davvero
Pensato inizialmente come regalo per gli acquirenti dell’ultimo lavoro di Ruben, “Il rogo della
vespa”, il live del concerto dello scorso 21 gennaio al Dinner Live Club ”La Fontana” ad
Avesa (VR) è invece diventato un cd fatto e finito di quindici canzoni. Si storce inizialmente il
naso, pensando sia intrinsecamente discutibile la pubblicazione di un album live (a pochi
mesi dall’ultimo lavoro in studio) per un artista che non abbia alle spalle una vicenda
particolarmente “spessa”, con tutto il rispetto per la storia già decennale di Ruben. Ma il
tempo di questo scetticismo − di metodo più che di merito − dura fino a quando
non si infila il cd nel lettore. E si coglie quanto fosse urgente per il rocker/cantautore
veronese dare alle stampe questa scaletta. Quanta vitalità bluesy pulsante vi si annidi: deve
essere sembrato peccato mortale lasciarla lì. E allora: bene, Ruben. I brani sono tratti dagli
ultimi due lavori, il suddetto “Il rogo della vespa” e il precedente “Da qui non di vedono le
stelle”.
Cosa accade di speciale nel live a La Fontana? Nient’altro che il rito del songwriting rock.
Accade che, nella più glabra delle formazioni − in trio (con Carmelo Leotta al
contrabbasso e Carlo Poddighe alla chitarra − si riveli l’essenza (una delle possibili
essenze) del rock. Un rock necessario, adulto, dannatamente diretto e da camera, senza
veli, nudo. Poche (note), maledette e subito. Per intenderci, vicino a una certa attitudine di
Neil Young o Leonard Cohen (nei tributi italiani di quest’ultimo, “Nudo in ombra” e “Vestito
Per Amare”, Ruben si è distinto). Ma vicino ancor di più a lavori di Lou Reed come “Magic
And Loss” e “Song For Drella” (con John Cale). Non per caso, forse, l’unico omaggio Ruben,
al secolo Piefrancesco Coppolella, lo dedica proprio a Lou Reed, coverizzando “Walk On
The Walk Side”. Camei di due esponenti della “scena veronese”, John Mario e Laura Facci.
Contatti: www.rubenrock.com
Gianluca Veltri
Pagina 67
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Numero Dicembre '11
SILVER ROCKET
Old Fashioned
Mexican Standoff
Nati a Ferrara nel 2009 e con alle spalle un EP omonimo uscito agli inizi dello scorso anno, i
Silver Rocket sono tornati a lavorare insieme con il produttore artistico Federico Viola per
realizzare il nuovo disco, "Old Fashioned", pubblicato per la propria etichetta, la Mexican
Standoff Records. Dopo aver trascorso un anno a scrivere i brani del nuovo disco, il trio
composto da Bruno C (voce e basso), Nicola Zivago (batteria) e Ummer Freguia (chitarra, di
recente alla ribalta con i più conosciuti e convincenti ManzOni), ha registrato le undici tracce
all'Animal House Studio di Ferrara. Il suono sporco, in un'essenzialità ben visibile
all'orecchio, dimostra come al giorno d’oggi, a volte, non sia necessario inventarsi nulla.
Ognuno porta la propria esperienza e la mette al servizio di una sonorità che risulta essere
l'insieme di quanto vissuto altrove. Per citare il titolo, ci si trova davanti al fascino di uno stile
antiquato. Nell'album si possono trovare episodi più riusciti (come nel caso di "Untitled", di
"Saturate" e di "The Getaway") e altri che lasciano il tempo che trovano (come la cover di
"That's Life"). La cura per i dettagli è il punto di forza di un album che, probabilmente,
potrebbe avrete più riscontro se fosse cantato in italiano. Ma, senza dubbio, il fascino dei
Silver Rocket è anche nella scelta della lingua.
Contatti: www.silverrocket.net
Marco Annicchiarico
Pagina 68
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Numero Dicembre '11
SPARKLE IN GREY
Mexico
Lizard
Esattamente un anno fa, nel recensire “Whale Heart, Whale Heart”, split album a firma Tex
La Homa e Sparkle In Grey, auspicavamo l’uscita tempestiva di “Mexico”, progetto su cui
questi ultimi lavoravano già da qualche anno. Intanto, di (altro) tempo ne è passato. Dodici
mesi, per l’appunto. Cercheremo di recuperare dichiarando in modo ben più che tempestivo
che nessun disco merita una così lunga attesa. Solitamente. Il punto è che gli autori di
questo album sono gli stessi che hanno reintrodotto il concetto di musica giusta prima
ancora che bella, padrini di un non-genere che mischia droni e musica d’insieme, Laurie
Anderson e Salvatore Borsellino, creatori, per farla breve, di un altro disco semplicemente
meraviglioso. Tutto è perfetto in “Mexico”, a partire dalla title track: dieci minuti di continui e
sorprendenti mutamenti, i cui estremi sono rappresentati da un tempo dub alla partenza e da
desertici suoni di tromba riverberata sulla chiusa. Ogni brano meriterebbe una disamina
accurata tanta è la ricchezza e la varietà contenuta in questo lavoro, non solo in termini di
strumenti (dalle cornamuse ai violini, dal pianoforte ai field recordings) ma anche e
soprattutto per la duttilità che ogni brano dimostra di possedere. Va da sé, l’ingaggio
richiesto per chi ascolta è pressoché totale. Eppure si tratta di un patto che, una volta stretto,
non mancherà di regalare emozioni, solleticando ricordi che sembravano sopiti, riscoprendo
il piacere di assaporare un disco dall’inizio alla fine, in ogni sua nota, in ogni sfumatura
nascosta e per cui più dolce alla scoperta. Magnifico, proustiano.
Contatti: www.greysparkle.com
Giovanni Linke
Pagina 69
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Numero Dicembre '11
SUGARPIE AND THE CANDYMEN
Swing'n'Roll
Irma
Pare che un giorno Lelio Luttazzi affermò che “lo swing per quelli che lo capiscono è una
goduria, ma si tratta sempre di una minoranza, e sarà sempre così. Ma non morirà mai”.
Sullo stato di salute dello swing potremmo aprire un dibattito infinito, eppure segnali
confortanti arrivano non solo dalle big band americane (spesso vittime delle loro stesse
tradizioni), ma anche da numerosi progetti sparsi in tutta Europa, Italia compresa, nati negli
ultimi cinque anni: The Baseballs, Puppini Sisters, Le Sorelle Marinetti , i recentissimi The
Overtones... Tutti sembrano aver mandato indietro le lancette dell’orologio, in studio di
registrazione, come nei propri armadi. Gli Sugarpie And The Candymen, non fanno
eccezione, pur possedendo una qualità che adombra buona parte dei colleghi citati in
precedenza. Con “Swing'n'Roll”, secondo album in studio, ciò che si rende evidente e che
contraddistingue la band capitanata dalla bravissima Georgia Ciavatta, non è l’abilità nel
suonare in maniera eccellente un genere considerato dai più un mero divertissement, ma
anche e soprattutto la voglia di giocare con gli spartiti dei brani che di volta in volta decidono
di modellare, tra armonie di voce, chitarre, spazzole e contrabbasso. La bravura è tale che si
passa da canzoni originali (ce ne sono sette in scaletta) a riletture di Guns N' Roses e Kylie
Minogue, con il medesimo piacere. Rimandi e citazioni pop, fanno sì che tutte le
composizioni costituiscano un unico e godibilissimo flusso, tanto che ascoltandole, la
differenza tra Led Zeppelin, Sugarpie and the Candymen e Ray Charles è sottile, quasi
inesistente.
Contatti: www.myspace.com/thesugarpiethecandyman
Giovanni Linke
Pagina 70
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Numero Dicembre '11
THE SHADOW LINE
I giorni dell’idrogeno
Modern Life/Audioglobe
Seconda prova di studio sulla lunga distanza, a seguire “Fast Century” del 2008, per i
romani Shadow Line, attivi da quasi un decennio e composti da Daniele Giannini (chitarra e
voce), Francesco Sciarrone (chitarra e synth), Alessia Casonato (basso) e Francesco
Stefanini (batteria). La novità principale è rappresentata dalla scelta di adottare la lingua
italiana per le otto tracce in scaletta, concentrandosi di conseguenza su tematiche di certo
attuali: il rifiuto dei rapporti meramente utilitaristici, la fine dei sogni, la guerra e i suoi innesti
psicologici, le inevitabili differenze tra padri e figli, la cronaca nera popolata da serial killer
ordinari. Si parte con “La vita sognata” - che prende titolo dal quasi omonimo film “La vita
sognata degli angeli” di Erick Zonca – per poi proseguire con il singolo “Regole di ingaggio”,
che non può fare a meno di citare l’America e mantiene un ritornello filologicamente in
inglese, oppure con le serrate “Settembre” e “Oblio”, la più estesa “Giorno di follia” e la
conclusione riflessiva di “Dormi”. Il tentativo di farsi maggiormente comunicativi è
apprezzabile, ma da un punto di vista sonoro si possono fare ulteriori passi in avanti,
soprattutto nella diversificazione di una formula che va bene se si analizzano gli ingredienti
di base, tra indie-rock e post-new wave, ma che nel complesso finisce per risultare
monocorde, leggermente prevedibile. La linea giusta c’è, quindi non resta che tracciarla con
mano ancor più ferma e riconoscibile.
Contatti: www.theshadowline.it
Elena Raugei
Pagina 71
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Numero Dicembre '11
ULTIMO ATTUALE CORPO SONORO
Io ricordo con rabbia
Manzanilla/Audioglobe
Non inganni l’inizio pianistico à la Harold Budd. È subito furore. Strattonati sul carro
incendiario degli UACS. Che bel disco che è “Io ricordo con rabbia”. E come risulta
necessaria, una volta tanto, l’enfasi di un moralismo militante e consapevole. La musica del
gruppo veronese viene considerata “l’incontro tra verso italiano e musica sperimentale”. Ma
sarebbe più esatto definirla semmai uno “scontro”, un corpo a corpo in costante ricerca di
negoziato tra il reading furibondo di Gianmarco Mercati e le trame post-rock e noise dei suoi
compari. Al suo terzo album, la band conferma la tendenza verso una scorticata poesia e
un’urticante cronaca civile. Come l’inesausto aedo di una memoria che non si azzera, zeppa
di residui e reperti che non vogliono saperne di fare largo, Mercati compie il periplo della
rabbia. Si squaderna il rosario di una “battaglia a bassa intensità”, ed ecco la strage di Ustica
in “Flight Data Recorder”: nel libretto del CD sono riportati i nomi di tutte le ottantuno vittime
(sessantotto adulti e tredici bambini). Qualcuno li conosce? Sotto l’urlo offeso di Mercati, si
dimena uno scorbutico intreccio pre-wave alla maniera dei primi Gang of Four. “Della tua
bocca”, ispirata a “Tropico del Capricorno” di Henry Miller, è una delle tracce in cui è
maggiormente esposta la parentela italica più diretta degli UACS, quella con i Massimo
Volume. Altre genealogie vicine e lontane ci portano verso le rotte di Slint e Godspeed You!
Black Emperor. L’album di famiglia vira invece verso i CSI in “La ballata di Itamar” − la
litania “cuore al cuore, vendetta per vendetta” in perfetto stile-Ferretti − dedicata allo
scrittore israeliano David Grossman. “Undici settembre millenovecentosettantatre” è il
racconto grifagno del cuore nero degli anni 70 sudamericani, il golpe cileno, l’omicidio di
Victor Jara. Continue le sollecitazioni letterarie, versi strattonati: Pessoa, Dylan, Erri De
Luca, Augé, Izzo. Emozionante l’omaggio civile dedicato al cronista assassinato dalla
camorra Giancarlo Siani, in “Fortapasc”, declamato sull’headline “l’etica libera la bellezza”.
Ci sarebbe ancora tanto da dire, ma ce n’è bisogno?
Contatti: www.myspace.com/ultimoattualecorposonoro/music
Gianluca Veltri
Pagina 72
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Numero Dicembre '11
VANILLINA
Conta fino a dieci

Bilingüe
Che l'exploit del Teatro degli Orrori abbia risvegliato nel Bel Paese certe pulsioni elettriche
come non se ne sentivano da un po' di tempo a questa parte, pare un fatto assodato. E
sembra altrettanto chiaro che il livello generale delle band emergenti compromesse con
volumi e overdrive, tende – per fortuna – a crescere costantemente. Si parla di tecnica, ma
anche della capacità di rinnovare in qualche misura gli stereotipi hard più comuni con buone
idee e una certa dose di incoscienza. Fosse anche un semplice rimescolare le carte tra
passato e presente.
Prendete i Vanillina: due album e tre EP alle spalle per un suono
che pesca a piene mani da stoner (“Boomerang”) e punk (“Monolite”), pur non rinunciando a
un impianto fondamentalmente melodico dei brani. Tanto da riuscire nell'impresa di far
coesistere i Subsonica con il grunge (“Discoteca solida”) o di riprendere la lezione dei
Prozac+ (“Vivilatuavita”) aggiornandola con gli ultimi Verdena (“Farsi del male”) o con i
Queens Of The Stone Age (“Non aver paura”). Nulla che faccia urlare al miracolo, è vero,
ma materiale pulsante e capace di finalizzare, quello si. In cui a testi con qualche incertezza
corrisponde una parte musicale sorprendente, a sporadici cortocircuiti evocativi alla
Negramaro (“Levada”, “Il colore della notte”) un lavoro sui suoni complessivamente buono.
Contatti: www.myspace.com/vanillina
Fabrizio Zampighi
Pagina 73
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Numero Dicembre '11
DANIELE RONDA & FOLKLUB
Da parte in folk
JM Productions/Venus
Ha la forza dell'immediatezza del proprio dialetto, quello piacentino, e dei sapori della terra
a cui si appartiene, il primo album di Daniele Ronda, nato proprio a Piacenza il 23 ottobre
1983; e quella dell'incisività dialettica con la realtà, che è caratteristica del folk, che Ronda
decide di utilizzare e rendere assoluto protagonista, anche nel titolo, di “Da parte in folk” uscito il 25 novembre, sia sui territori nazionali che in quelli di Internet -, accompagnato, a
ulteriore riprova di questo, dalla band dei Folklub. Apre appunto in dialetto, con “La nave 'l
su”, la sua prima prova da protagonista assoluto di un'opera, dopo anni di ombra, avendo
iniziato giovanissimo, e, apprezzato interprete e autore, scritto per molti testi di canzoni che
hanno raccolto la stima di tanti. A riprova di questo le due collaborazioni, e duetti
d'eccellenza, che, con piena volontà, si trovano in “Da parte in folk”: calibri da novanta quali
Davide Van De Sfroos, per la traccia “Tre corsari”, e Danilo Sacco - qui lo ricordiamo, ma
non ce ne sarebbe bisogno, cantante dei Nomadi - in “Figli di Chernobyl”. Dopo l'apertura in
piacentino, prosegue in italiano, ma nutrito dei sapori di quel folk che, grazie al piano, i
violini, fisarmonica, chitarre e percussioni, contribuisce a una vitalità sorprendente, piena del
sapore di polvere e vita, non solo nei brani che corrono, inseguendo le parole sentite di
Ronda, ma anche nei momenti più intimi, col ritmo che si distende, e il cuore che si fa
grande. Un cammino che si è dischiuso per Daniele Ronda, scacciato il ruolo di ghost writer
del passato, dimostrando carattere supportato dai numeri che servono a non lasciarsi
sfuggire tra le dita il proprio talento, nel 2010, con l'uscita del singolo “Lo so sei tu”, balzato
nella top ten dei brani indipendenti più programmati. Ritorna il dialetto in “'M l'avan ditt”, per
chiudersi l'album nella ripresa in italiano di “La nave 'l su”, in dodici tracce tutte da sentire,
lasciandosi cullare, e trasportare, dal calore di un cantautore dal futuro che sembra, per
fortuna, già certo.
Contatti: www.danieleronda.it
Giacomo d'Alelio
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Numero Dicembre '11
WELCOME BACK SAILORS
Yes/Sun
We Were Never Being Boring Collective
Avevano ragione gli Afterhours, non si esce vivi dagli anni 80. Meno che mai oggi, che quel
decennio è – in maniera un po' inquietante, va detto – tornato di prepotente attualità. E, in
particolare, ciò che di tale periodo sembra affascinare maggiormente le giovani generazioni
di indie-rocker è il pop più leggero e commerciale: di spessore relativo, facile nei ritornelli e
tecnologico ma senza esagerare in freddezza nelle sonorità. Perché è dalla riscoperta, o per
meglio dire dal ricordo, di certe sonorità che nasce la chill-wave (o hypnagogic pop, se
proprio vogliamo usare un parolone altisonante e parecchio snob), calderone di cui in
qualche modo anche i Welcome Back Sailors fanno parte. Per lo meno a livello stilistico:
nella patina di riverberi che avvolge il tutto, nel ricorso a sintetizzatori e drum-machine
d'epoca, nelle linee melodiche alla Wham! meno allegroni di un paio di episodi e, più in
generale, nell'atmosfera da cartolina di un tramonto di fine estate che, in qualche modo,
permea ognuna delle canzoni contenute nell'esordio del duo reggiano. Insomma, un disco
incredibilmente attuale, forse pure troppo, perché resta da vedere cosa succederà quando –
e i tempi sono maturi – la moda cesserà; ascoltando con attenzione questi brani, le cui
fondamenta compositive ci sembrano più solide rispetto ai pezzi di tanti colleghi esteri
appartenenti al medesimo filone, la sensazione è comunque di trovarci di fronte a una realtà
capace di resistere bene al passaggio del tempo. E, viste le premesse, ci pare il migliore
complimento che possiamo fare.
Contatti: www.myspace.com/welcomebacksailors
Aurelio Pasini
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Numero Dicembre '11
CLUB VOLTAIRE
Ah, il beat. I capelli a scodella, le chitarre tirate fin su per il collo, i movimenti ondulatori
sincronizzati, l’handclapping, i bei sentimenti e quel sole primaverile che schiaffeggia il volto.
Una lezione di storia che i comaschi Club Voltaire hanno imparato, e riproposto a menadito,
nel loro EP d’esordio intitolato “About The Surface”. E visto che di fiori e colori stiamo
parlando, interessante è la trovata che il gruppo, assieme alla Pixie Promotion, hanno
escogitato per promuovere l’EP digitale; ovvero una card biodegradabile contente dei semi
di fiori da poter piantare dove meglio credete: sul balcone di casa, al parchetto municipale o
lungo i viali adibiti a simpatiche toilette per cani.
Ma tornando a noi, alla musica, “About The Surface” risulta un compendio in formato
tascabile di spensieratezza beat, di Byrds e Beatles scanzonati riproposti in una versione
filologica senza alcun mutamento di forma. Una “britsh invasion revisited” senza troppe
variazioni su di un tema già svolto e chiuso da tempo.
Contatti: http://www.myspace.com/clubvoltaireband
Luca Minutolo
DEATH BABIES
Che per il Sud Italia questo sia un momento storico germinante di gruppi e realtà musicali
degne di nota è un dato di fatto di cui abbiamo già preso atto nel corso di quest’anno, grazie
all’operato di piccole etichette di culto come la Fallodischi. Ed è proprio dalla fucina di questa
etichetta che escono fuori anche le Death Babies, con un EP gratuito scaricabile dal blog
della piccola label tutta pizza, spaghetti, mandolino e chitarre graffianti.
Trio formato interamente da quote rosa, le catanesi Death Babies propongono una
rivisitazione di quel rock indipendente corposo, sospeso tra slanci strumentali e cavalcate
graffianti che pesca a mani basse dal rock alternativo di fine anni 90. Nulla di sconvolgente e
per cui gridare al miracolo, ma solo una band onesta che fra intrecci strumentali di matrice
post-hardcore ed una sana voglia di suonar veloci e con pochi fronzoli, si vanno a collocare
nella sotterranea fauna musicale tricolore, mai come oggi popolata da bestie selvagge non
ancora dome.
Contatti: http://fallodischi.blogspot.com
Luca Minutolo
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Numero Dicembre '11
LASER GEYSER
“Innerself Surgery” / “Silver Strawberry For A Bullet” è il terzo singolo su vinile 7’’ pubblicato dalla Tannen Records - dei bolognesi Laser Geyser, passati dal terzetto iniziale
del 2006 all’attuale duo, composto dal chitarrista Cangio (Laida Bologna Crew) e dal
batterista JJ (Valentines, KK). Due tracce che riportano al punk fine anni 70, dove ad
arrangiamenti originali si affianca la spigolosità di un rock sporco, energico e di forte impatto.
Le due canzoni, registrate lo scorso anno all’Outside/Inside Studio da MojoMatt Bordin e
Nene Movies Star Junkies, sono in vendita anche nel formato digitale, in un pacchetto che
comprende anche i precedenti lavori, dal primo CD del 2007 (“Ode To The Primary
Numbers”) al 7’’ del 2009 e allo split del 2010. In tutto tredici brani, alcuni più riusciti di altri
(“Useless Crash”, “Slap You”, “Charcharodan Charcharias”), accompagnati dalla certezza
che i Laser Geyser si ritrovano fra le mani le note giuste per realizzare (finalmente) un disco
radioso. Anche se, dicono, loro cantano come se non ci fosse un domani.
Contatti: http://www.myspace.com/lasergeyser
Marco Annicchiarico
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