PENSIERO E PERSONA Nessuna società può accogliere in sé ogni forma di vita [...]; non esiste un mondo sociale senza perdite. J. Rawls, Liberalismo politico, 1993. Persona e multicultura: per una antropologia relazionale di Diego Forestieri - Dottorando di ricerca in Istituzioni giuridiche e scienze del servizio sociale Il dibattito attorno al concetto di persona oggi si va arricchendo di contributi e di paradigmi interpretativi ma al tempo stesso esso si pone come chiave di lettura di fenomeni sempre più complessi di una società la cui trasformazione avviene sempre più velocemente. La persona è il nodo cruciale con cui il multiculturalismo dovrebbe rapportarsi per la comune ricerca di una migliore convivenza Il multiculturalismo rappresenta ormai un dato oggettivo che si costituisce ogni volta che diversi gruppi socioculturali interagiscono negli stessi spazi geo-politici e relazionali. I mutamenti in atto pongono questioni vitali, costringendoci a immaginare culture meno rigide e individualità meno autocentrate, più relazionali e dialogiche: culture e identità sono costrette a mettersi in movimento, a entrare in relazione con l’altro e con gli altri, per cui la grande sfida consiste nel riuscire ad essere se stessi senza chiudersi agli altri e ad aprirsi agli altri senza rinnegare se stessi. Forse, più che in passato, si rendono necessari un nuovo punto di partenza e una nuova prospettiva, che possano porre le basi per la costruzione di socialità attraverso il riconoscimento delle obbligazioni che derivano dal vivere con gli altri. L’alterità racchiude al suo interno questa potenzialità, poiché costituisce, a livello individuale, un limite all’ipertrofia dell’io che sembra affliggere la cultura contemporanea, mentre, a livello collettivo, mostra l’intrinseca limitatezza di ogni cultura e la sua porosità. Essa rende difficile la generalizzazione di concetti forgia- PROSPETTIVA •P E R S O N A• ti da una singola tradizione culturale, spingendo piuttosto a cercare dei punti di contatto in cui l’incontro possa avvenire come relazione tra reciproche alterità1. Riserviamo il termine “multiculturalismo” alle istanze volte a ottenere uguale rispetto, che provengono da culture effettivamente sviluppatesi all’interno di un medesimo ambito istituzionale. La posta in gioco comune di queste lotte disparate ma sovente convergenti è il riconoscimento dell’identità distinta di minoranze culturali sfavorite. Si tratta dunque di identità, ma sul piano collettivo e in una dimensione temporale che abbraccia le discriminazioni esercitate contro quei gruppi in un passato che può essere secolare, come nel caso della storia dello schiavismo, o addirittura plurisecolare, come nel caso della condizione femminile. La rivendicazione che riguarda l’uguaglianza sul piano sociale mette in gioco la stima di sé, mediata dalle istituzioni pubbliche che dipendono dalla società civile, come l’università, e infine l’istituzione politica stessa2. Si tratta di una sfida che si pone a fondamento dello stesso dialoN. 64/08 go tra le culture dentro il villaggio globale: essa rappresenta l’inizio di un processo di comprensione in cui superare odio e violenza a partire dalla memoria collettiva non solo della propria storia, del proprio dolore, bensì anche della storia e del dolore dell’altro, del popolo estraneo e persino nemico. Tale sfida implica un cambiamento radicale anche dei paradigmi culturali, oltre che dei modelli di convivenza sociale3. L’impostazione del pensiero prevalso nella tradizione occidentale ha posto infatti l’idea di pluralismo al centro della nostra società ed in particolare in Italia, laddove la società prefigurata come pluralista nella norma costituzionale è divenuta veramente, con gli anni, un sistema pluralisticamente strutturato, anche se in taluni momenti di drammatica, aspra, crudele verifica del pluralismo, come quelli che ora viviamo, non sempre il paese e chi ha la responsabilità di rappresentarlo dimostrano piena sensibilità e sincere attitudini di indole pluralistica, se col termine vogliamo intendere […] la possibilità d’incontro con culture, etnie, religioni distanti dal nostro costume di vita4. Se da un lato il multiculturalismo 7 PENSIERO E PERSONA italiano ha una sua garanzia nell’istanza pluralista che la Carta costituzionale lega alle formazioni sociali, ed esprime altresì con riguardo alle autonomie territoriali, al decentramento amministrativo, alle minoranze linguistiche dall’altro è da considerarsi non solo una questione politica o giuridica, che come tale riguarda le istituzioni dello Stato, ma anche come una questione sociale riguardo una serie di comportamenti che i cittadini “autoctoni” adottano verso gli stranieri con strategie differenti a seconda dei loro orientamenti culturali, della loro esperienza o dei loro interessi. Le antiche e le nuove minoranze non solo mettono in discussione la dimensione politica ma anche la dimensione della convivenza quotidiana nell’intero spazio sociale, nel lavoro, nella vita di relazione, nella vita culturale e religiosa. La sociologia si trova così di fronte ad un modello dicotomico di approccio ai flussi migratori ed allo straniero; in primis attraverso una strategia d’azione denominata Cooperazione e cittadinanza si è cercato invece di tradurre il complesso insieme di atteggiamenti e comportamenti volti a stabilire cooperazione con gli immigrati per riconoscere loro un minimo di cittadinanza, da parte di attori sociali e istituzionali più o meno consapevoli delle implicazioni che tutto ciò comporta. In questo caso, l’altro è visto come una persona la cui dignità umana è inviolabile. Invece con la strategia d’azione denominata Inclusione subordinata si è cercato di tradurre atteggiamenti e comportamenti più pragmatici orientati alla cooperazione in campo economico e alla, defezione nel campo dei diritti di cittadinanza5. Bisogna comunque tracciare il percorso che ha condotto al multiculturalismo ed all’utilizzo di determinati approcci teorici e pratici, difatti la formazione di minoranze etniche ha due origini. La prima va individuata nelle migrazioni storiche, nelle complicate questioni del dominio e della sottomissione di al- 8 cuni popoli da parte di altri; la seconda nei processi migratori moderni, che hanno prodotto in quasi tutti i paesi avanzati una nuova questione etnica, diversa e più intricata di quella tradizionale. In effetti, la questione etnica concernente le antiche minoranze in qualche modo è divenuta classica ormai. Nella vicenda della costruzione dello stato moderno non tutte le nazioni hanno ottenuto il proprio stato. Così, il problema della loro convivenza si pone tra i gruppi che vivono in uno stesso territorio ed hanno una unica organizzazione politica, un solo stato ma più nazioni; oppure, più realisticamente, per il gruppo o i gruppi dominanti si pone il problema di quale statuto politico riconoscere alla o alle minoranze. Poiché questo riconoscimento non è stato e non è pacifico, nascono questioni che a volte sono risolte con la negoziazione e l’accordo e in altri casi conducono invece alla violenza, a guerre, a distruzione. La nuova questione etnica, invece, non ha a che fare con gruppi di popolazioni più o meno aggregate, ma con membri di una data popolazione distribuiti su di un ampio territorio. Così, sempre per fare un esempio che riguarda l’Italia, abbiamo la questione etnica classica con la popolazione di lingua tedesca del Sud Tirolo, con la popolazione francofona della Valle d’Aosta o con le rivendicazioni della Padania; ma abbiamo una nuova questione etnica concernente lo statuto giuridico e sociale (la cittadinanza) dei lavoratori dei paesi del Magreb (Tunisia, Algeria, Marocco), dei lavoratori provenienti da paesi dell’Africa subsahariana, dall’India, dalla Cina, etc6. ed aggiungerei anche un problema di convivenza con le popolazioni dell’Est Europa (anche appartenti a paesi membri dell’Unione europea) che cercano una maggiore opportunità e nuove chances di vita nel nostro territorio. Nulla di nuovo se si pensa che da sempre le migrazioni sono state un modo per cercare di accedere a N. 64/08 nuove e più abbondanti risorse, un modo per perseguire progetti di autonomia polìtica e di libertà ma oggigiorno la situazione si complica ulteriormente poiché la configurazione attuale dei rapporti tra i popoli non è basata sul principio secondo il quale ogni popolo dovrebbe avere un proprio territorio ed il diritto non ha più come fondamento i tre elementi su cui basava la sua esistenza e le sue certezze: territorio, popolo e comunità. Lo Statonazione è difatti divenuta più l’eccezione che la regola. La complessità e l’urgenza delle questioni richiedono il superamento di chiavi di lettura univoche e di risposte tendenti a sintesi affrettate. Come ben esplicitato da Mounier, bisognerebbe valorizzare l’Altro come titolare di diritti e di dignità pari al mio Io, e, l’amore come rapporto autentico dell’Io al Tu7. Tuttavia non si riesce a togliere la prima impressione che questo altro sia un limite a me stesso e ai miei interessi. Per Hobbes l’Altro è il “lupo”. Per Schmitt il nemico, che sul piano privato può anche essere non odiato, è semplicemente l’altro, lo straniero. Lo straniero che viene talvolta rappresentato come un modello alternativo alla vita occidentale, una condizione che consente la libertà da vincoli e tradizioni, un agire nuovo e imprevedibile, un principio di destabilizzazione di fronte a un mondo che accarezza il valore dell’omogeneità. Il riferimento all’altro consente di mettere in guardia dalle visioni etnocentriche, in cui il proprio gruppo di appartenenza viene considerato il centro di ogni cosa e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto ad esso. A sua volta non manca chi afferma che sarebbe un compito affascinante scrivere tutta la storia dell’umanità dal punto di vista dello straniero e della sua influenza sul corso degli eventi. Tali riflessioni, tuttavia, si intrecciano con la preoccupazione, tipica della modernità, di definire e classificare l’altro (attraverso, per PROSPETTIVA •P E R S O N A• PENSIERO E PERSONA esempio, le categorie ‘noi-voi’, ‘amico-nemico’) così da delimitare un mondo ordinato, il quale non potrebbe esistere senza un lavorio di continua eliminazione dell’ambivalenza, di ciò che minaccia la certezza in quanto difficilmente riconducibile a categorie precise. Pertanto l’altro diviene colui che è portatore dì inquietudine, di incertezza, colui che vive non solo in luoghi lontani, ma che è anche in mezzo a noi, e non è più amico o nemico, ma né nemico né amico o, addirittura, amico e nemico. L’altro, dunque, non crea apprensione soltanto per la sua non familiarità, ma anche per il fatto di non rientrare in nessuna delle categorie di comprensione prestabilite8. Contro il pregiudizio razziale non c’è altra via per combatterlo che un’educazione orientata verso valori universali. Molte sono le forme di universalismo dei valori, per cui nonostante le differenze di razza, di tradizioni e di generazioni (la differenza generazionale si somma a tutte le altre e non è affatto trascurabile), vi è una comune umanità che travalica tutte le differenze di tempo e di luogo: cominciando dal cristianesimo, passando attraverso la dottrina del diritto naturale, per arrivare alla morale kantiana che è nella sua massima fondamentale,“Rispetta l’uomo come persona”, un cristianesimo razionalizzato. Non escluderei da queste morali universalistiche l’etica dei “sentimenti morali” degli empiristi inglesi. Concezioni etiche universalistiche sono quelle che guardano come a meta ultima della storia, se pure ideale, alla formazione della “civitas maxima”, alla città di tutti, e tendono a fare di ogni uomo un cittadino del mondo, al di sopra di tutte le patrie. È l’ideale che ha ispirato la fondazione delle Nazioni Unite dopo il massacro della seconda guerra mondiale. Una delle più alte espressioni di questo universalismo è stata la Dichiarazione universale dei diritti dell ‘uomo, attraverso la quale ogni individuo diventa potenzialmente soggetto di diritto internazionale9. PROSPETTIVA •P E R S O N A• Come peraltro ricorda Michael Walzer nel suo saggio sulla tolleranza (Michael Walzer, Sulla tolleranza, Roma-Bari, Laterza, 1998), l’incontro con l’alterità fa sempre più parte dell’esperienza soggettiva ed il riconoscimento sociale e giuridico ripropone in tutta la sua centralità la dimensione della reciprocità secondo la regola aurea che impone di trattare l’altro come si vorrebbe che l’altro trattasse noi stessi31. Nel saggio su La psicologia delle minoranze Tajfel afferma: “la nostra discussione comporta che alcune forme di confronti sociali e di azioni intergruppo possano rilevarsi in qualche misura inevitabili, se e nel caso in cui le minoranze si dimostrino pronte a rifiutare il loro status inferiore” (Tajfel, La psicologia delle minoranze, 1981). Per controllare, se non per evitare del tutto, l’insorgere di conflitti etnici occorre dunque una politica dell’immigrazione che si collochi fra due estremi: l’estremo dell’assimilazione, che conduce alla progressiva omologazione degli immigrati agli abitanti storici del paese ove sono accolti, attraverso il graduale riconoscimento dei cosiddetti diritti di cittadinanza, tra cui il principale è il diritto politico, da distinguere a ogni modo dai diritti personali, che in ogni stato di diritto dovrebbero essere riconosciuti a tutti, e l’altro estremo del rispetto delle differenze che conduce, al contrario, a consentire all’immigrato nella forma più ampia possibile la conservazione di ciò che lo fa diverso, la propria lingua, i propri riti, i propri costumi (si ricordi il dibattito scoppiato in Francia sull’uso del chador in scuola di parte delle ragazze musulmane). Fra i due estremi vi possono essere soluzioni di compromesso, che dipendono da molteplici fattori, che variano da paese a paese. La scelta fra le due i soluzioni estreme dipende anche dalla maggior o i minor forza dei pregiudizi reciproci dei due soggetti del conflitto. Eppure reperire all’interno delle diverse culture alcuni elementi costanti della N. 64/08 natura umana, che tutti dovrebbero riconoscere perché universali – cioè il modello storico dell’Illuminismo culminante negli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità –, si rivela un tentativo destinato ad estenuarsi non appena incontra in tutta la sua singolarità 1’altro, il diverso, ciò che a prima vista non è immediatamente interpretabile in base al registro dell’identità. Neppure è sufficiente attenersi alla constatazione della molteplicità delle culture, come se la differenza fosse, senza una previa argomentazione, già un valore in sé, semplicemente da ratificare in quanto tale o da riconoscere, proprio perché differente dall’approccio di partenza, come dotato di dignità. L’inefficacia di queste soluzioni si misura per l’incapacità di scorgere i limiti di ogni universalismo e di ogni relativismo. Da una parte, infatti, l’universalismo, che a prima vista sembrerebbe godere di uno statuto normativo migliore del relativismo, non può sfuggire a due forme di perversione storicamente consolidate, a un eccesso di soggettivismo o di oggettivismo. Non resta che validare l’ipotesi di Taguieff (P. A. Taguieff, Essai sur le racisme et ses doubles, La Découverte, Parigi 1988) ispirata all’idea di una comunità illimitata della comunicazione di K.O. Apel, secondo cui si può uscire dalla dicotomia particolarismo/universalismo, se si intende il senso della relazione con l’altro. Alcune forme di particolarismo, segnatamente quelle dei popoli e dei sistemi sociali più forti, sono state spesso spacciate per universalismo. L’universalismo si dà solo in quanto esigenza, come tensione, come oltrepassamento della comunità di appartenenza ed in tal senso la comunità dovrebbe essere mediatrice tra gli individui e la comunità illimitata della comunicazione. La comunità costituisce l’orizzonte per l’integrazione dell’individuo nell’umanità. Il problema è l’orientamento dell’agire comunitario proprio di un certo persona- 9 PENSIERO E PERSONA lismo di ispirazione mouneriana Ed oltre che contare sull’insegnamento di E. Levinas: «amare altri piuttosto che se stessi, prima di sé, amarli per e come se stessi» rifarci alla massima “neminem ledere” e riflettere piuttosto su un tipo di integrazione sostenibile in cui vi possa essere una reale accoglienza dell’altro in modo che si possa garantire dell condizioni di vita realmente dignitose e non una nuova povertà in un paese indifferente, straniero e perciò ostile. Sembra dunque che l’accettazione di una cittadinanza multiculturale possa far sorgere problemi in termini di funzionamento dell’intero sistema sociale e che sia sempre più necessaria un’interculturalità consapevole delle sue condizioni strutturali, che si concentrano in una concezione dinamica della relazione di sé e dell’altro, che porta in sé l’esigenza etica del riconoscimento e che chiede uno spazio pubblico né autoritario, né neutrale, ma al tempo stesso aperto e regolato perché vi possa essere la costruzione di un’etica della convivenza in forza di un rispetto del paese ospitante e delle sue tradizioni e secondo vincoli di reciprocità10. NOTE 1 V. C ESAREO (a cura di), L’altro. Identità, dialogo e conflitto nella società plurale, Vita & Pensiero, Milano 2004, p. 10. 2 Nel suo saggio Percorsi del riconoscimento Ricoeur affronta il tema del riconoscimento ed in particolare individua nella lotta per il riconoscimento la forma che maggiormente ha contribuito a rendere popolare il terna del riconoscimento, anche a rischio di banalizzarlo; tale forma è collegata al problema posto dal multiculturalismo, come anche dalle battaglie condotte su altri fronti, sia che si tratti dei movimenti femministi, delle minoranze nere o degli insiemi culturali minoritari. P. RICOEUR, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 239. 3 V. CESAREO (a cura di), L’altro. Identità, dialogo e conflitto…, cit., p. 10. 4 P. RESCIGNO, Persona e comunità, Cedam, Padova 1999, p. 11. 5 V. COTESTA, Noi e Loro. Immigrazione e nuovi conflitti metropolitani, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995, p. 10. 6 V. COTESTA, Sociologia dei conflitti etnici. Razzismo, immigrazione e società multiculturale, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 6. 7 E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, tr. it. Comunità, Milano 1955, p. 114. 8 V. CESAREO (a cura di), L’altro. Identità, dialogo e conflitto…, cit., p. 14. 9 N. B OBBIO, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d’ombra edizioni, Milano 1994, pp. 152 e 153. 10 Sui temi del multiculturalismo e del pluralismo sociale si veda anche: T. MARCI, La società e lo straniero. Per un diritto ospitale nell’età della globalizzazione, FrancoAngeli, Milano 2006. Statuetta di Psiche (II sec. a.C.), Taranto, Museo Archeologico. Mantova: La forza del bello. 10 N. 64/08 PROSPETTIVA •P E R S O N A•