ALMA MATER STUDIORUM
UNIVERSITA’DI BOLOGNA
Scuola di Spec.ne in Psicologia della Salute
Direttore Prof.ssa Fiorella Monti
Abuso infantile e memoria autobiografica:
risultati preliminari di uno studio controllato.
TESI DI SPECIALIZZAZIONE
Presentata dalla Dott.ssa
Relatore Chiar.mo Prof.
Silvia Celli
Gianni Brighetti
A.A. 2014/2015
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Indice
Abstract .................................................................................................................................................. 5
CAPITOLO 1 LO STUDIO DELLA MEMORIA AUTOBIOGRAFICA ............................................ 7
Introduzione ........................................................................................................................................... 7
1.1 Dalla classificazione della memoria allo studio della memoria autobiografica: modelli e teorie. .. 8
1.1.1 La definizione multidimensionale della memoria autobiografica e lo studio delle sue componenti. 14
1.1.2 Il modello multicomponenziale di Rubin.................................................................................... 17
1.1.3 Le basi neurali della memoria autobiografica. ............................................................................ 24
Conclusioni .......................................................................................................................................... 27
CAPITOLO 2 MEMORIA E TRAUMA IN ETÀ EVOLUTIVA ....................................................... 29
Introduzione ......................................................................................................................................... 29
2.1 La memoria in età evolutiva........................................................................................................... 31
2.1.1 Il fenomeno dell’amnesia infantile. ............................................................................................ 44
2.2 Abuso e maltrattamento in età evolutiva........................................................................................ 51
2.2.1 Un modello complesso di trasmissione del trauma: epigenetica e attaccamento. ...................... 56
2.2.2 Le conseguenze delle esperienze traumatiche di abuso/maltrattamento in età evolutiva. .......... 61
2.3 Memoria e abuso. ........................................................................................................................... 72
Conclusioni .......................................................................................................................................... 77
CAPITOLO 3 RICERCA SPERIMENTALE...................................................................................... 80
Introduzione ......................................................................................................................................... 80
3.1 Ipotesi di ricerca. ............................................................................................................................ 82
3.2 Metodologia. .................................................................................................................................. 83
Procedura della ricerca. ........................................................................................................................ 83
Strumenti. ............................................................................................................................................. 84
Setting e campione. .............................................................................................................................. 88
3.3 Analisi dei risultati. ........................................................................................................................ 97
1° Ipotesi .............................................................................................................................................. 97
2° Ipotesi .............................................................................................................................................. 99
3° Ipotesi ............................................................................................................................................ 104
Discussione e limiti. ........................................................................................................................... 105
CAPITOLO 4 ANALISI DEI DATI CLINICI .................................................................................. 108
Premessa............................................................................................................................................. 108
4.1 Casi clinici.................................................................................................................................... 109
4.2 Analisi del confronto tra i gruppi. ................................................................................................ 119
3
Conclusione generale......................................................................................................................... 121
Appendice .......................................................................................................................................... 123
Allegato 1 .......................................................................................................................................... 123
Allegato 2 .......................................................................................................................................... 124
Allegato 3 .......................................................................................................................................... 126
Bibliografia ........................................................................................................................................ 127
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Abstract
In letteratura e nella ricerca scientifica emerge l’esistenza di una complessa relazione tra le
esperienze di abuso e maltrattamento nell’infanzia e lo sviluppo e il funzionamento della memoria
autobiografica. La memoria autobiografica è la capacità degli individui di ricordare gli episodi personali
della propria vita.
Il modello epigenetico evidenzia che l’ambiente psicosociale per eccellenza è determinato dal
caregiver e dal relativo comportamento di cure primario vero il bambino, che influenza l’epigenoma e la
sua risposta allo stesso ambiente psicosociale. Esperienze di abuso e maltrattamento in età evolutiva
possono produrre alterazioni epigenetiche e delle funzioni fisiologiche, che comportano ripercussioni
psicologiche e comportamentali in adolescenza e in età adulta (ad esempio, Fenoglio, Brunson, Baram,
2006; Fumagalli, Molteni, Racagni, Riva, 2007). Numerosi studi dimostrano che lo stress nell’infanzia
conduce ad alterazioni del sistema di regolazione dell’asse ipotalamo – ipofisi – surrene e
conseguentemente del livello di cortisolo, e una vulnerabilità alla disregolazione degli affetti nel bambino.
Il modello dell’attaccamento sottolinea come nell’impatto delle esperienze di abuso/maltrattamento nel
bambino è importante considerare le prime esperienze interattive tra caregiver e bambino, a determinare il
trauma iniziale e di conseguenza a definire le modalità con cui il bambino in seguito risponderà agli
stimoli stressanti e agli eventi traumatici successivi (ad esempio, Tronick e Weinberg, 1997; Schore,
2009).
In generale, dalla ricerca scientifica emergono risultati discordanti, perché gli studi sostengono sia un
mantenimento della capacità di rievocare gli episodi traumatici sia una riduzione della memoria
autobiografica
nei
bambini
e
negli
adulti
che
hanno
vissuto
esperienze
traumatiche
di
abuso/maltrattamento.
Obiettivo del presente lavoro è di proporre un’indagine preliminare sullo studio della relazione tra
abuso nell’infanzia e memoria autobiografica attraverso uno studio controllato. La ricerca è stata svolta in
collaborazione con il Centro Specialistico “Il Faro” (Ausl di Bologna), all’interno del quale sono stati
selezionati i soggetti clinici. Lo studio è stato svolto su un campione di 8 bambini sperimentali e 7
bambini di controllo, ai quali è stato somministrato il test di Crovitz per la misurazione della memoria
autobiografica (Crovitz e Shiffman, 1994; Ghidoni, Poletti e Bondavalli, 1995), mentre ai soli soggetti del
gruppo sperimentale sono stati somministrati gli strumenti per la misurazione della memoria a lungo
termine lessicale (Babcock Story Recall Test - Spinnler e Tognoni, 1987) e semantica (test di fluenza
verbale per associazione libera di parole - Novelli, 1986).
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Dai dati ci si aspetta di rilevare una differenza nei punteggi di memoria autobiografica fra i due gruppi,
con punteggi più alti nei soggetti di controllo rispetto agli sperimentali.
Dai risultati non emergono differenze significative nei punteggi di memoria autobiografica totale, di
memoria delle parole astratte e delle parole concrete fra i due gruppi. Tuttavia, emerge un effetto dell’età
sui valori della memoria autobiografica con un vantaggio sistematico per il gruppo dei soggetti clinici.
In conclusione, i risultati sono discussi tenendo in considerazione i limiti della ricerca, ma dai dati
psicometrici e dagli elementi dei singoli casi clinici potrebbero emergere nuove ipotesi di valutazione
sulla valenza del punteggio di memoria autobiografica nei soggetti che si presume abbiano subito episodi
di abuso.
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CAPITOLO 1 LO STUDIO DELLA MEMORIA AUTOBIOGRAFICA
Introduzione
La memoria autobiografica rappresenta uno degli ambiti di studio più antichi della psicologia,
perché è la funzione umana che permette di integrare tra loro i pensieri, le rappresentazioni, gli affetti, i
bisogni, le intenzioni e le ambizioni dell’individuo (Rubin, 2003). Quando parliamo di memoria
autobiografica, ci riferiamo in generale a tutti i ricordi che una persona ha delle sue esperienze di vita
(Robinson, 1986).
A oggi non esiste un pieno consenso riguardo all’ontogenesi, alla struttura e alla relazione della
memoria autobiografica con gli altri sistemi di rappresentazione dell’esperienza umana; tuttavia tutti i
ricercatori e gli studiosi concordano riguardo al ruolo della memoria autobiografica nella definizione e
nell’organizzazione del sé. I ricordi personali assumono una “funzione psicodinamica”(Pillemer, 1992),
cioè garantiscono una continuità di sé nel passato, nel presente e nel futuro, e organizzano e
ricostruiscono la propria esperienza in modo da formare un tutto coerente.
In primo luogo, dal punto di vista teorico, lo studio della memoria autobiografica si articola in
concetti molto complessi, che presentano molteplici sfaccettature e le cui definizioni sono state riviste da
modelli e orientamenti differenti. Negli ultimi decenni la maggior parte degli autori che si sono occupati
di memoria autobiografica hanno proposto sistemi multicomponenziali (Rubin, 2005), in cui il concetto
viene scomposto in più costrutti, cioè in dimensioni descrittive e fenomenologiche che possono essere
operazionalizzate e indagate empiricamente.
In questo primo capitolo saranno presentati i modelli teorici che hanno offerto i contributi più
importanti nella definizione dell’ontogenesi, nella struttura e nella funzione della memoria autobiografica
e nello studio empirico delle sue componenti fenomenologiche.
Di seguito sarà presentata una descrizione delle diverse definizioni di memoria autobiografica, degli
elementi costitutivi, delle strutture e dei processi neurali che ne sottendono lo sviluppo. Saranno
evidenziate le differenze delle strutture neurali che si occupano di mediare rispettivamente i sistemi di
memoria episodica e semantica implicati nell’organizzazione del ricordo autobiografico.
In generale, gli studi scientifici hanno bisogno di ulteriori ricerche nella comprensione dei meccanismi
cognitivi e neurali implicati nei sistemi di memoria.
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1.1
Dalla
classificazione
della
memoria
allo
studio
della
memoria
autobiografica: modelli e teorie.
Nonostante una lunga storia di ricerca empirica, caratterizzata in tempi più recenti da studi di
neuroimaging (Conway, 2005), non vi è ancora piena chiarezza riguardo all’ontogenesi della memoria
autobiografica, alla sua struttura e alla sua relazione con gli altri sistemi di rappresentazione
dell’esperienza umana (Smorti, 2007). Il motivo di questa complessità deriva dal fatto che la memoria
autobiografica è stata indagata da differenti orientamenti teorici e presenta molteplici sfaccettature.
La neuropsicologia si è occupata di descrivere i correlati neuroanatomici e gli aspetti
neurobiologici del funzionamento autobiografico (Wheeler, Stuss e Tulving, 1997; Conway e Fthenaki,
2000; Schachter e Scarry, 2000).
La psicologia cognitiva si è dedicata allo studio dell’analisi dei contenuti e delle rappresentazioni dei
ricordi durante il corso della vita (Conway, 1990; Conway e Pleydell-Pierce, 2000; Conway e Rubin,
1993; Pillemer, 2001).
I teorici della personalità hanno cercato di fornire una spiegazione sulla relazione tra strutture di
personalità, stili di attaccamento e livello di accessibilità di alcuni tipi di ricordo (Beike, Lampinen e
Behrend, 2004; Conway, Singer e Tagini, 2004; Bluck e Gluck, 2004; Pals, 2006; Rubin e Siegler, 2004;
Rusting e De Hart, 2000; Blagov e Singer, 2004; McAdams, 2001).
I ricercatori della psicologia evolutiva hanno studiato lo sviluppo della memoria autobiografica del
bambino e il fenomeno dell’amnesia infantile (Fivush, 1993; Habermas e Bluck, 2001; Nelson, 1993;
Pillemer e White, 1989).
La psicologia clinica e la ricerca in psicoterapia, invece, si sono orientate allo studio dell’utilizzo dei
ricordi autobiografici nella pratica clinica di assessment e terapia (Angus e Hardtke, 2007; Singer,
Baddeley e Frantsve, 2008; Fowler, Hilsenroth e Handler, 1995; 1996; 1998).
Altri ricercatori ancora hanno indagato la relazione tra memoria ed emozioni (Levine e Safer, 2002;
Reisberg e Heuer, 2004) e cultura (Fiske e Pillemer, 2006; Gur-Yaish e Wang, 2006; Han, Leichtman e
Wang, 1998).
Vista la complessità dello studio della memoria autobiografica, nel 1986, Rubin sosteneva che la
definizione di memoria autobiografica avrebbe dovuto contenere tutti i contributi scientifici elaborati fino
a quel momento, per non impoverire la descrizione delle caratteristiche naturali e complesse che la
rendono una fondamentale funzione umana.
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Piuttosto, l’integrazione e l’armonia tra i contributi della neuropsicologia, della psicologia sociale, clinica
e di personalità e dello studio delle narrazioni avrebbero permesso di definire un costrutto ampio e
multisfaccettato (Rubin, 1996; Siegel, 2001).
Tuttavia, permane la difficoltà di misurare empiricamente un costrutto così complesso, e quindi di
definirne un metodo di indagine valido e attendibile (Fonagy, Kächele, Krause, Jones e Perron, 1999).
I primi lavori empirici e sistematici sulla memoria autobiografica sono incominciati con Galton
(1879) e Freud (1899), i quali hanno proposto metodi di analisi differenti per studiare i processi di
recupero dei ricordi personali.
In specifico, Galton (1879), pubblicò il primo studio empirico sull’argomento in cui descriveva una
tecnica associativa mediante la quale chiedeva ai soggetti di rievocare un ricordo personale a partire da
liste di parole-stimolo (“cue words”) (Galton, 1879). Freud, invece, considerava la memoria
autobiografica, il motore della pratica clinica e propose un metodo definito “biografico” (Robinson,
1986), cioè direzionato al recupero e alla rievocazione di contenuti inconsci e consci appartenenti a
ricordi infantili, che secondo Freud, erano alla base dello sviluppo della struttura di personalità del
soggetto.
Accanto a questi primi approcci teorici e di ricerca è nato l’interesse per lo studio del
funzionamento della memoria autobiografica attraverso ricerche che avessero più attenzione per la
validità ecologica. I primi studi naturalistici sui ricordi autobiografici nascono con Bartlett (1932), il
quale si appropriò della definizione di “schema” (Head e Holmes, 1911), e propose un modello
costruttivista della memoria autobiografica. Egli definiva la memoria autobiografica non tanto come la
capacità di immagazzinare informazioni del proprio passato, ma come un processo di ricostruzione
dell’esperienza che, partendo dagli interessi e dalle conoscenze attuali, permette di ripristinare a posteriori
il significato degli eventi. In un suo famoso lavoro, Bartlett (1932) aveva sottoposto un gruppo di studenti
universitari a una lunga sequenza di condizioni sperimentali che avevano come oggetto il ricordo di un
brano lontano dalle precedenti esperienze narrative consolidate dei soggetti, e il ricordo era verificato
mediante riproduzioni ripetute e in serie. I risultati sperimentali confermarono in modo molto preciso le
ipotesi sulla tendenza dell’individuo a ricostruire i dati difficilmente riconducibili alla sua esperienza
soggettiva e al suo contesto culturale. Bartlett era arrivato a stabilire alcuni processi fondamentali legati al
ricordo. Innanzitutto che la nostra memoria non si limita a essere un semplice registratore di dati, o mera
capacità di contenimento, ma il suo funzionamento
è caratterizzato da un continuo processo di
ricostruzione inferenziale derivato dai dati mancanti, di ricostruzione ipotetica derivata dalle
concatenazioni causali, e di ricostruzione fantasiosa dei dettagli.
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Si nota, quindi, un cambiamento della visione della memoria autobiografica da puramente meccanicistica
e associazionistica (Ebbinghaus, 1885) a processo di “costruzione” ed elaborazione delle esperienze del
passato e del presente (Koriat, Goldsmith, 1996). All’interno di questa visione costruttivista, l’approccio
di studio della memoria è funzionale ed ecologico, cioè basato sull’analisi dell’interazione spontanea tre
le informazioni del passato e le conoscenze attuali. Il ricordo autobiografico si costituirebbe sia di
elementi derivati dall’esperienza originale, che compaiono sotto forma di schemi di sé (Brewer, 1986) sia
di elementi nuovi espressi e ricreati tramite la narrazione del ricordo rievocato. In questo modo lo
sviluppo di quel particolare ricordo mantiene coerenza con i propri modelli personali e culturali (Barclay,
1996). Barclay e DeCooke (1988) definiscono la memoria autobiografica come un processo di
costruzione e ricostruzione in cui i ricordi quotidiani di eventi e di attività, sono costituiti da quelle
caratteristiche che fanno parte del significato del sistema di autocoscienza di un individuo e lo
mantengono costante nel tempo. La memoria autobiografica raccoglie, ristruttura e condensa gli eventi
che costituiscono l’esperienza di vita di un individuo, ma è necessario capire cosa avviene durante il
processo di rievocazione. Alcuni ricercatori si sono occupati di indagare i processi e le strategie mentali
che sono attivati durante la rievocazione degli episodi di vita. Secondo Rieser (Roncato e Zucco, 1993), è
necessario cercare di ricostruire la scena entro cui sarebbe accaduto il fatto, e all’interno di questo
processo ha rilevato due possibili strategie: il soggetto cerca di individuare il contesto entro il quale le
caratteristiche determinanti dell’episodio sono accadute (ricerca del contesto); il soggetto tende a cercare
“l’esempio più clamoroso” della categoria di eventi proposta dal compito di rievocazione, oppure prova a
seguire una concatenazione causale a ritroso, di situazione in situazione (ricerca entro il contesto).
Altri autori tendono a utilizzare la metafora “spaziale” per parlare delle esperienze di vita (Neisser,
1993). Il criterio fondamentale di organizzazione dei ricordi autobiografici sarebbe comunque quello
temporale, nel senso che ciascun individuo tende a collocare gli episodi della propria esistenza lungo una
linea temporale (Brewer, 1988). Tuttavia, si è posto il problema che ciascun individuo non sistema i
propri ricordi lungo un’unica linea temporale ordinata dal ricordo più remoto a quello più vicino nel
passato. Dagli esperimenti che si sono occupati di quest’aspetto, sembra che le persone dispongano di
tante linee temporali parallele quante sono le attività a cui si attribuisce importanza nella propria vita (per
esempio, “famiglia”, scuola”, ecc.) (Neisser e Winograd, 1988).
All’interno della complessa gerarchia delle linee temporali, le esperienze quotidiane personali vengono
riorganizzate dagli individui anche a seconda di una riorganizzazione basata su tre principali calendari: il
calendario solare, quello degli avvenimenti personali e quello delle scadenze pubbliche (festività, inizio e
fine della scuola, scadenze fiscali e sanitarie, ecc.). Una gran parte degli eventi che costituiscono
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l’autobiografia sono inseriti in script o, come sarà discusso nel prossimo paragrafo, stanno alla base della
loro formazione.
Lo sviluppo e l’evoluzione di modelli teorici differenti hanno apportato cambiamenti nel modo di
condurre ricerche sperimentali perché l’induzione del ricordo da ricreare avviene con metodologie
differenti dal passato. Alcune teorie hanno proposto l’uso dei “cues”, stimoli opportunamente scelti per
incoraggiare l’individuo nei processi di recupero (Brewer, 1986); mentre in altri studi è stata rivalutata la
tecnica di riproduzione del ricordo spontaneo, che permette di indagare il funzionamento naturale della
memoria autobiografica (Rubin, 1986). Di seguito saranno presentati i modelli più importanti e i loro
contribuiti nella discussione riguardo alla definizione di memoria autobiografica e allo studio empirico
delle sue componenti.
Oggi, nella letteratura, la memoria è considerata una funzione complessa, costituita di più strutture
e da diversi processi di immagazzinamento e di recupero che interagiscono tra di loro.
La prima distinzione significativa tra sistemi di memoria è stata teorizzata da Hebb (1949), che ha
ipotizzato l’esistenza di due magazzini di memoria: uno a breve e l’altro a lungo termine. Le sue ipotesi
hanno trovato conferme dai risultati degli studi empirici sulle compromissioni mnestiche dei pazienti
amnesici prodotte negli anni ’60 e ’70 (Baddeley e Warrington, 1970; Shallice e Warrington, 1970).
Secondo il primo modello di Atkinson e Shiffrin (1968; 1971), la memoria a breve termine è
costituita da un magazzino che permetterebbe di conservare i dati una volta codificati, fino a pochi
minuti, mentre il magazzino della memoria a lungo termine avrebbe una capacità di ritenzione
potenzialmente illimitata. Inoltre, dagli studi neuropsicologici condotti da Baddeley e Hitch (1974) è stata
dimostrata la presenza di un altro sotto-sistema di memoria a breve termine, definito “memoria di lavoro”,
un magazzino che permetterebbe di mantenere temporaneamente le informazioni e di manipolarle in
entrata durante l'esecuzione automatica di alcuni compiti cognitivi, come l'apprendimento, la
comprensione e il ragionamento (Baddeley, 1986). La memoria di lavoro rappresenta il nostro presente.
Essa inoltre ci aiuta a trasformare il passato in presente (riportando i ricordi a uno stato attivo) e a
integrare il vecchio con il nuovo. Questa struttura di memoria ha però, una capacità limitata e può
mantenere l’informazione solo per un breve periodo di tempo.
In parallelo, altri autori, si sono concentrati sullo sviluppo di modelli di memoria a lungo termine,
intesi come sistemi complessi e multicomponenziali, nei quali la qualità dei dati immagazzinati e le
caratteristiche dei processi di archiviazione differisce in modo sostanziale dai modelli di memoria a breve
termine di altri autori.
In particolare, Tulving (1972), è stato il primo a identificare un magazzino di memoria episodica e un
sistema di memoria semantica. Il magazzino di memoria episodica avrebbe la capacità di organizzare
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ricordi di eventi vissuti personalmente in un momento specifico della propria vita, mentre il sistema di
memoria semantica, è costituito da rappresentazioni proposizionali (simboli) di fatti esterni e interni, e di
conoscenze generiche e fattuali che possono esprimersi con parole o in forma grafica, e che hanno perso il
loro carattere spazio-temporale e che quindi non sono associate a episodi specifici. Secondo questa
distinzione la memoria episodica corrisponde all’esperienza di “ricordare” e la memoria semantica
all’esperienza di “sapere”. Tale teorizzazione è stata confermata da studi più recenti basati sulle tecniche
di neuroimaging cerebrale (Wheeler, Stuss e Tulving, 1997), che hanno dimostrato che i ricordi semantici
si costruiscono a partire da processi funzionalmente distinti da quelli della memoria episodica.
Tulving (1983) stesso si era occupato di approfondire lo studio delle funzioni e delle procedure dei due
principali sistemi di memoria, proponendo un’ulteriore differenziazione, non solo nel tipo di informazioni
che ognuna può contenere, ma anche per i processi di conoscenza e il livello di consapevolezza che
caratterizzano la codifica e il recupero delle informazioni. Secondo Tulving (2001), ogni sistema di
memoria possiede un livello di consapevolezza specifica che si distingue in coscienza autonoetica
(conoscenza di se stessi) e coscienza noetica (conoscenza di dati e fatti). I ricordi episodici possiedono
una coscienza autonoetica, cioè una consapevolezza di sé nel tempo e nello spazio. I processi autonoetici
della memoria episodica implicano quella capacità che Tulving e i suoi collaboratori hanno definito
“viaggi mentali nel tempo”, cioè esperienze soggettive di continuità e di coerenza del proprio senso di sé
in un particolare momento del passato, nel presente e in un futuro immaginario (Wheeler et al. 1997).
Secondo l’autore (Tulving, 2001), quindi, la memoria episodica non può essere definita soltanto in base al
suo contenuto, ma anche in relazione al livello di consapevolezza dell’evento durante la codifica del
ricordo. La memoria semantica, invece, si distingue per una forma di conoscenza noetica, cioè
all’esperienza consapevole di dati e di fatti, senza alcun riferimento a sé.
All’interno di questo dibattito, Squire (1987) propone un’ulteriore distinzione all’interno del sistema di
memoria a lungo termine: la memoria dichiarativa è quel sistema di memoria che include sia la memoria
episodica sia quella semantica, in cui avviene la rievocazione consapevole e verbalizzabile di un evento;
la memoria procedurale, invece, è un sistema di memoria automatica che non richiede una partecipazione
della coscienza nei processi di registrazione e di recupero dei ricordi, ma è determinata da tutti gli
apprendimenti automatici, non consapevoli e non verbalizzabili che caratterizzano i gesti abitudinari,
definiti di “learning how”.
Secondo il modello di Tulving (Wheeler et al., 1997), proprio la memoria procedurale sarebbe
caratterizzata da un tipo di conoscenza anoetica, cioè non consapevole, e limitata temporalmente e
spazialmente alla sola realtà del presente.
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Inoltre, Squire (1987) sostiene che i sistemi di memoria dichiarativa e procedurale si distinguono anche
per il loro contenuto: la memoria dichiarativa si occupa del recupero di informazioni e di conoscenze
precedentemente immagazzinate, mentre quella procedurale fornisce i dati necessari allo svolgimento di
un’azione (Hoerl, 1999).
L’interesse della psicologia cognitiva per la definizione di memoria autobiografica nasce proprio
dalle prime teorizzazioni di Tulving (1992) e di Squire, Knowlton e Musen (1993) riguardo ai magazzini
di ricordi a lungo termine. Secondo Baddeley (1990, 1992), infatti, la memoria autobiografica non
sarebbe altro che una particolare componente della memoria dichiarativa, connotata in forma episodica e
definita come “la capacità delle persone di ricordare le proprie vite” (Baddeley, 1990, p.12). In questo
senso, il ricordo autobiografico, come quello episodico, permetterebbe una conoscenza autonoetica che si
accompagna a un senso di se stessi nel tempo (Bauer, Hertsgaard e Dow, 1994).
Per approfondire la definizione di memoria autobiografica, è necessario riportare un’altra
distinzione nel complesso sistema della memoria, cioè la suddivisione tra memoria dichiarativa e non
dichiarativa (Cohen e Squire, 1980), e tra memoria esplicita e non esplicita (Graf e Schacter, 1985).
Sebbene queste due dicotomie non siano interamente sovrapponibili, esse condividono un nucleo
concettuale: la memoria dichiarativa o esplicita contiene le conoscenze di fatti ed eventi di cui si è
consapevoli e che si apprendono in un determinato momento (e include dunque la memoria episodica e
semantica). Al contrario, la memoria non dichiarativa o implicita è il magazzino di procedure, abitudini e
abilità (e include dunque la memoria procedurale). La memoria autobiografica è parte della memoria
dichiarativa, data la natura esplicita e verbale del ricordo.
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1.1.1 La definizione multidimensionale della memoria autobiografica e lo studio delle
sue componenti.
A partire dai lavori teorici di Tulving, autori appartenenti a differenti orientamenti teorici e aree di
studio si sono occupati di comprendere e definire il funzionamento della memoria autobiografica e delle
sue caratteristiche.
Parlando di memoria autobiografica, Brewer (1986) ha introdotto inizialmente le definizioni di “memoria
personale” e di “recollective memory”, e la definisce come “il processo di recupero di un evento personale
e specifico del proprio passato” (p. 25). La memoria autobiografica sarebbe costituita da ricordi personali
unici e/o generici, di fatti autobiografici e di schemi di sé (self-schema). Il ricordo personale è quindi un
fatto autobiografico che si riferisce a un evento specifico del proprio passato. La rievocazione dell’evento
personale avviene tramite un processo di “imagery” (Galton, 1880, 1983; Betts, 1909; Doob, 1972;
Marks, 1984, 1985; Brewer e Schommer-Aikins, 2006), nel senso che si attivano contenuti sensoriali e di
immagine che rendono quindi il ricordo particolarmente vivido nella mente dell’individuo, nel linguaggio
e nella descrizione. Il ricordo diviene così personale e specifico perché dipende dalla presenza delle
immagini mentali che l’individuo rievoca e anche dalla frequenza con cui viene recuperata la traccia
mnestica dell’evento memorizzato (Brewer, 1986).
Brewer (1986) differenzia, inoltre, quando il ricordo di un evento ripetuto più volte nel tempo viene
recuperato tramite elementi immaginativi e lo definisce come “ricordo personale generico”, mentre
quando il ricordo ripetuto nel tempo non presenta aspetti sensoriali visivi, viene definito “self-schema”. In
questo tipo di classificazione dei contenuti autobiografici si sottolineano le caratteristiche di specificità e
vividezza di un ricordo rievocato in modo del tutto personale nella mente di un individuo.
La definizione di ricordo autobiografico (Brewer, 1996; Rubin, 2003; Rubin e Siegler, 2004) sarebbe
quindi caratterizzata da un processo mentale di rievocazione dell’esperienza passata in quella presente
definita “re-living”, in cui l’individuo attiva le componenti sensoriali e la vividezza dell’evento all’interno
del processo di codifica.
Nella pratica sperimentale diviene quindi importante valutare i diversi elementi ricavabili dalla
descrizione del ricordo nel momento del recupero: il grado di coinvolgimento personale dell’individuo, il
grado di specificità, la presenza di contenuti immaginabili o sensoriali.
Un problema che rimane ancora aperto riguarda l’analisi fenomenologica delle descrizioni dei ricordi,
anche se siamo in grado di valutare quello che il soggetto riporta del proprio ricordo (Rubin, 1986).
Alcuni autori sostengono che gli elementi fenomenologici della memoria sarebbero l’espressione e
l’effetto dei fenomeni ricostruttivi che caratterizzano i processi di codifica e di recupero dei ricordi e le
loro interazioni.
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A oggi, in letteratura si condivide la certezza che il contesto in cui avviene la codifica di un ricordo non
determini solamente il processo di archiviazione e di recupero dei ricordi (Tulving, 1983), ma partecipi
alla riorganizzazione dell’informazione codificata in un “enigramma”, cioè in una nuova forma di
conoscenza, che combina elementi percettivi, pensieri, fantasie e inferenze che caratterizzavano il
momento in cui l’evento si è verificato (Schacter, 1996). Tulving (2001) sostiene che “buona parte del
lavoro della memoria consiste non tanto nella riproduzione, ma in una vera e propria ricostruzione del
ricordo che non sempre corrisponde alla realtà” (p. 1507). Anche Schacter e Scarry (2000) scrivono, “i
ricordi prendono forma dalle nostre convinzioni e così le nostre convinzioni si costruiscono a partire dai
ricordi” (p. 3). Inoltre, nel processo naturale di costruzione del ricordo, possono verificarsi degli errori,
che però sembrano assumere spesso una funzione adattativa e che permettono all’individuo di
“dimenticare” gli aspetti disorganizzati del ricordo (Bjork, 1988; Anderson e Schooler, 1991; Schacter e
Addis, 2007).
Gli studi delle prospettive socio-costruttiviste propongono modelli teorici sullo sviluppo della
memoria autobiografica basata sulla costruzione di “script” (Schank e Abelson, 1977).
Alcuni autori sostengono che il processo di trasformazione dei ricordi episodici specifici sia
responsabile della costruzione di rappresentazioni astratte e semantiche della realtà (Nelson e Fivush,
2004). A tal proposito, i bambini costruirebbero uno “script” sui singoli eventi specifici e tenderebbero a
consolidarli nel tempo, ricercando tra le esperienze successive, eventi simili che confermino le loro
rappresentazioni della realtà (Bauer, 1997; Fivush, 1997; Farrar e Goodman, 1990). Secondo questo
modello sembrerebbe che i bambini sviluppino rapidamente una capacità predittiva riguardo all’ambiente
sociale e al comportamento delle persone che lo compongono (Fivush, 2006). Anche dai lavori di Nelson
(1989), la comunicazione dei bambini ai genitori mediante il linguaggio costituisce tanto un’esternazione
del processo di strutturazione del ricordo, quanto una prima e fondamentale esperienza di negoziazione
dei significati. Col passare del tempo si assiste alla graduale costituzione di determinati schemi generali
usati per rapportarsi agli eventi quotidiani.
La capacità e la complessità degli script dovrebbero aumentare con l’età e con lo sviluppo di alcune
abilità fondamentali, come la teoria della mente (Fonagy, 2001), il linguaggio, la capacità narrativa e il
senso del sé. Gli script sembrano diventare sempre più flessibili in base alle esperienze di vita accumulate
(Fivush, 1984). Un evento che, dopo essere accaduto la prima volta, si ripete un’altra volta, poi un’altra
ancora, finisce col trasformarsi, col passare del tempo, in uno scenario generale di come quell’evento si
svolge (Nelson, 1982).
15
La memoria autobiografica, quindi, ha profonde radici nei fenomeni di interazione con l’ambiente. Si
tratta di una memoria sociale, profondamente influenzata da quegli scambi interindividuali che ci sono
consentiti dall’uso di un linguaggio evoluto.
Da questi modelli si evince che un ricordo autobiografico deve essere considerato in base alle sue
componenti linguistiche e narrative, perché è proprio attraverso il linguaggio e la narrazione che si
costruiscono e organizzano i propri ricordi. Più tardi con lo sviluppo, si andrebbe a definire una struttura
gerarchica della conoscenza che è caratterizzata da livelli organizzati gerarchicamente: a un piano
superiore gli elementi di generalità e di astrazione del ricordo e a un livello inferiore gli elementi di
episodi specifici.
In letteratura esiste accordo riguardo all’esistenza di un’organizzazione gerarchica delle conoscenze sul
ricordo autobiografico, ma rimane ampio il dibattito sulle componenti principali della memoria
autobiografica.
16
1.1.2 Il modello multicomponenziale di Rubin.
Uno dei modelli che ha dato maggior rilievo alla natura multicomponenziale della memoria
autobiografica e delle sue componenti è quello di Rubin (1986, 1996, 2003, 2005).
Secondo Rubin (2003) i ricordi sono associati a eventi molto rilevanti per il sé e per la vita dell’individuo.
I ricordi si caratterizzano per la loro unicità perchè sono diversi tra loro e sono costituiti da esperienze
sensoriali multimodali e da contenuti temporali, affettivi e narrativi differenti, legati al contesto di
codifica e di recupero.
Si possono quindi distinguere diversi sistemi cognitivi indipendenti ma correlati tra loro, che conferiscono
alla memoria autobiografica la caratteristica di molteplicità.
Rubin (2003) propone un modello multicomponenziale: un sistema multisensoriale (elementi visivi,
uditivi, olfattivi, tattili e gustativi), che comprende anche l’imagery; un sistema multimodale, che
identifica la collocazione delle persone e degli eventi nello spazio dei nostri ricordi; un sistema narrativo,
che assicura i legami tra le altre componenti del ricordo (Rubin, Schrauf, e Greenberg, 2003; Schrauf e
Rubin, 2000) attraverso l’uso del
linguaggio; un sistema esplicito di memoria, che coordina le
informazioni contenute nelle altre strutture di memoria e un sistema delle emozioni.
Dagli studi cognitivi e neuroanatomici effettuati riguardo alla presenza e all’operatività di questi diversi
sistemi implicati nell’organizzazione del ricordo autobiografico, risulta chiaro come ciascun sistema
svolge separatamente o in relazione agli altri un ruolo differente nella definizione di un ricordo
(Greenberg e Rubin, 2003).
Di seguito, saranno illustrate le caratteristiche principali dei sistemi multicomponenziali di
memoria, con particolare attenzione alle ricerche che hanno cercato di dimostrare l’importanza di
ciascuna dimensione nello studio della memoria autobiografica.
Secondo Rubin (2003), una delle componenti fondamentali del ricordo è l’imagery, che ha in comune
molte delle caratteristiche della percezione visiva, anche se sono due componenti differenti (Rubin, 1996;
Paivio, 1968; Rumelhart, Hinton e Williams, 1986; Shepard, 1978).
In letteratura, sono stati diversi gli studi che si sono occupati di studiare le differenze tra imagery, definita
come la vividezza dell’immagine mentale del ricordo e percezione nella memoria (Brewer, 1995). Rubin
(2003) definisce l’imagery una delle componenti principali della memoria autobiografica perché svolge
diverse funzioni. Prima di tutto, l’imagery supporta la memoria nelle sue funzioni principali di
immagazzinamento, organizzazione e richiamo delle informazioni, perchè facilita la manipolazione
mentale dei dati ne sistemi di memoria di lavoro a breve termine (Baddeley, 1986) e rende agevole
l’archiviazione e la costruzione delle rappresentazioni mentali nella memoria di lavoro a lungo termine
(Marschark, Richman, Yuille, e Hunt, 1987).
17
L’imagery, inoltre, come componente sensoriale di un ricordo autobiografico permette di analizzare la
memoria in caso di trauma. L’imagery si inserisce nell’analisi delle rievocazioni di eventi emotivamente
salienti, definiti dal concetto di “flashbulb memories” (Brown e Kulik, 1977), e che sono in grado di
innescare un particolare meccanismo cerebrale, definito “now print” (istantanea), che ha la capacità di
conservare ciò che accade nel momento in cui si apprende un evento di rilevante intensità emotiva. I
contenuti sensoriali dell’episodio emotivamente saliente si distinguono anche a seconda che l’individuo
sia un semplice “osservatore” dell’evento (“memoria di eventi”) o a seconda che sia un “partecipante”
(“sul campo”), il cui ricordo sarà sicuramente caratterizzato da un maggiore coinvolgimento emotivo e da
un numero superiore di dettagli (Robinson e Swanson, 1990). Indubbiamente, la qualità immaginativa e
visiva delle tracce mnestiche facilita il processo di manipolazione delle rappresentazioni della realtà.
Dalle analisi della qualità dell’imagery del ricordo autobiografico vengono quindi proposte due principali
prospettive di studio sulla memoria autobiografica, quella di stampo più tradizionale della memoria come
rappresentazione statica e precisa della realtà e quella a stampo costruttivista, che cerca di comprendere la
memoria in relazione alla costruzione linguistica e narrativa degli eventi (Paivio, 1968; Shepard, 1978;
Neisser, 1988).
La componente sensoriale dell’imagery assume un ruolo importante anche in relazione alle altre
componenti del ricordo.Il materiale sensoriale e visivo avrebbe la capacità di aumentare la specificità,
l’immediatezza, l’intimità e l’emozionalità di un ricordo autobiografico rispetto al semplice resoconto di
eventi (Pillemer, 1992).
Tuttavia, anche se molti autori ritengono che il ricordo vivido e ricco di dettagli sensoriali sia più
attendibile (Pillemer, 1992, 1998; Pillemer, Desrochers e Ebanks, 1998), altri studi empirici non
confermano questo aspetto (Winograd e Neisser, 1992; Bell e Loftus, 1989). La vividezza di un ricordo
non corrisponde necessariamente alla sua veridicità, perché ricordare chiaramente i dettagli di un
particolare evento, non garantisce che quell’evento e quei dettagli siano avvenuti nella realtà.
Generalmente, i ricordi non sono recuperati tramite lo stesso processo di immagazzinamento perché si
vengono invece ad attivare i processi ricostruttivi della memoria al momento della codifica o del
richiamo, e per questo motivo i ricordi non sono sempre attendibili (Brewer, 1986).
All’opposto, secondo Chair (1982, 1990) l’esattezza della riproduzione di un ricordo è influenzata
soprattutto dal linguaggio e dalla narrazione. E’ attraverso un registro linguistico che l’esperienza
percettiva associata a un’immagine viene immagazzinata e rappresentata mentalmente nella narrazione di
un ricordo (Pillemer et al., 1998). L’imagery, quindi, interagisce con il sistema linguistico e narrativo
nell’aumentare il grado di specificità di un ricordo, e benché rappresenti un tratto caratteristico della
memoria autobiografica, senza la narrazione non avrebbe la stessa significatività.
18
Nel modello di Rubin (2003), i sistemi del linguaggio e della narrazione vengono studiati con attenzione
rispetto alla loro funzione nella memoria autobiografica. L’autore sostiene che narrazione e linguaggio
sono sistemi indipendenti, come ad esempio avviene nella comunicazione non verbale, ma risultano in
stretta interazione nell’ambito della memoria autobiografica.
Il linguaggio è stato studiato per le sue caratteristiche peculiari di fonetica, sintassi, semantica e
strutture sovraordinate, come la pragmatica e la narrazione.
Alcuni studiosi sostengono che l’atto del ricordare si organizzi in parole, quindi che la sintassi e la
fonetica avrebbero un ruolo nella produzione del ricordo (Damasio, 1999; Carruthers, 1996; Erickson e
Simon, 1993). Quando una persona ricorda gli avvenimenti della propria vita, usa un linguaggio del tutto
personale, in cui immagini, parole, voci, sensazioni, ecc., si legano tra loro nella ricostruzione di un
ricordo.
Vygotskij (1978) sosteneva che il linguaggio è “un linguaggio per sé” e caratterizzato da tre principali
elementi: la scarsa articolazione sintattica e fonemica, cioè è ricco di dettagli contestuali impliciti; la
semantica, cioè il senso prevale sul significato, la frase sulle parole, il tutto sulla parte; la facilità di
combinazione dei significati che s’influenzano a vicenda.
Nonostante sia difficile comprendere quanto il fenomeno della rievocazione dipenda dal sistema
sintattico, o semantico o da quello narrativo, il ruolo del linguaggio e delle sue componenti risultano
fondamentali per comprendere il funzionamento della memoria.
All’interno del suo modello, Rubin (2003) considera il ruolo della narrazione. Alcuni autori sostengono
l’evidenza fenomenologica della narrazione nel ricordo autobiografico (Fivush, 1991; McAdams, 1997;
Nelson, 1993; Pillemer, 1998); mentre altri si limitano a utilizzare la narrazione solo come modalità per
studiare i ricordi personali (Robinson e Taylor, 1998).
Secondo le teorizzazioni di Bruner (2004), la narrazione verbale è considerata una forma di pensiero,
tramite la quale si riorganizzano le proprie conoscenze attraverso cambiamenti e riformulazioni
soggettive degli eventi. La persona che racconta un episodio della propria vita attiva un’operazione
mentale di ricerca di una sequenzialità temporale per “mettere in ordine” le esperienze, attraverso
interpretazioni, intenzioni personali e attribuzioni di pensieri. E’ come se nella narrazione di un ricordo,
avvenisse una nuova lettura personale degli eventi (Bruner, 2004; Ricoeur, 1984).
Altri autori hanno posto attenzione allo studio della struttura narrativa dei ricordi autobiografici
(Robinson, 1986; Barclay, 1996).
Brewer (1986) sostiene che la struttura linguistica facilita la rappresentazione mentale di una serie di
episodi perché è come se il ricordo si organizzasse secondo una coerenza causale e tematica. Schank e
Abelson (1995), parlano di “remembered self”, sottolineando come i contenuti dei ricordi autobiografici
19
dipendano molto dal modo in cui sono narrati e siano alla base del proprio sé. In un approccio
psicodinamico, Schafer (1981) e Spence (1982) hanno sottolineato l’importanza della narrazione dei
ricordi nella pratica terapeutica. In ambito umanistico, Freeman (1993) ha parlato di una relazione tra la
narrazione e i ricordi autobiografici; mentre Gergen e Gergen (1988) hanno indagato la natura sociale
della memoria e della definizione del sé, attraverso la struttura narrativa.
L’interazione tra narrazione e ricordo autobiografico è stata studiata anche in ambito evolutivo,
ponendo attenzione a come i bambini acquisiscono la capacità fondamentale di saper costruire dei ricordi
personali (Bruner e Feldman, 1996). Le ricerche sullo sviluppo della memoria autobiografica mettono in
luce come durante l’infanzia, la narrazione interattiva e condivisa dei propri ricordi con l’adulto consente
alla memoria di prendere forma e contenuto (Nelson e Fivush, 2004).
Si è visto che la narrazione organizza la memoria autobiografica in una struttura temporale e causale; per
questo motivo le informazioni che hanno una scarsa rilevanza per il soggetto sono maggiormente
tralasciate o dimenticate. In specifico, Habermas e Bluck (2000) sostengono che il processo tramite il
quale i ricordi autobiografici sono integrati in modo coerente e unitario con la propria esperienza di vita e
con la propria identità sociale e culturale è definito con il termine “ragionamento autobiografico”. Il
“ragionamento autobiografico”, infatti, provvede a organizzare temporalmente gli eventi di vita secondo
un ordine sequenziale e pone in relazione causale tali eventi personali con le caratteristiche e i
cambiamenti di personalità. Il “ragionamento autobiografico” fornisce anche una coerenza tematica,
perché permette il confronto tra i diversi temi di ricordi differenti, e infine da un significato culturale alla
propria storia personale.
La struttura narrativa dei ricordi è formata dall’insieme delle esperienze passate e presenti, che sono
immagazzinate e rievocate in racconti coerenti. Secondo la teoria dello “script” (Tomkins, 1979), nella
costruzione della personalità dell’individuo, gli episodi affettivamente salienti della vita di un individuo,
diventano schemi sovraordinati o rappresentazioni per la comprensione della realtà e delle relazioni
interpersonali (Trabasso, Stein e Johnson, 1981; Winograd e Neisser, 1992). Gli schemi, quindi, sono le
rappresentazioni sociali di noi, che guidano il modo di come interagiamo col mondo e soprattutto con gli
altri (Fivush, 1993).
Nonostante le ricerche di questi autori sottolineino il ruolo importante della narrazione linguistica
nella memoria autobiografica, altri (Conway, 2001; Howe e Courage, 1997), pur riconoscendo il ruolo del
linguaggio nell’espressione dei ricordi, sostengono che non sia alla base dell’organizzazione e della
struttura della memoria né in infanzia né in età adulta. Secondo Nelson e Fivush (2004), la discussione
rimane ancora aperta perché le ricerche empiriche che indagano la definizione di memoria autobiografica,
si basano soprattutto sui resoconti verbali dei ricordi delle persone. Rubin (2003) tenta di trovare una
20
soluzione al dibattito affermando che “un individuo può rivivere un evento specifico o un’esperienza
sensoriale, senza dargli una struttura narrativa […] se la revisione della letteratura di Brewer (1986) ha
dimostrato che l’imagery è necessaria nella rievocazione, non esiste, invece, lo stesso consenso per la
coerenza narrativa” (p. 62).
Un'altra componente importante della memoria autobiografica descritta nel modello di Rubin è
l’emozione, nonché il ruolo e le modalità che hanno i ricordi emotivamente salienti nel processo di
rievocazione. Molto interesse è rivolto all’intensità del ricordo, ovvero al suo impatto emotivo
sull’individuo, e alla sua valenza positiva o negativa (Wood e Conway, 2006). Numerose ricerche che si
sono concentrate sullo studio delle emozioni legate alla memoria, hanno proposto come variabile di studio
il tono affettivo dei ricordi. Tuttavia, spesso, quest’aspetto è stato confuso con l’intensità emotiva e
quindi, esiste ancora un problema metodologico. Ad esempio, in alcuni studi i risultati sono influenzati
più dall’intensità dell’emozione che dalla sua qualità, perché è stata utilizzata come variabile principale la
valenza positiva e negativa di ricordi neutrali. La revisione della letteratura proposta dagli autori Talarico,
LaBar e Rubin (2004) sottolinea che i risultati delle ricerche dimostrano che è l’intensità affettiva di un
evento che influenza le caratteristiche fenomenologiche del ricordo, quali la vividezza, la specificità e la
struttura narrativa, piuttosto che la sua tonalità. L’intensità emotiva dell’evento potrebbe aumentare il
livello di attenzione del soggetto verso i dettagli e le particolarità dell’esperienza proprio in fase di
codifica. Nella rievocazione del ricordo autobiografico, un individuo integra le emozioni provate al
momento dell’evento e quelle sperimentate durante il recupero.
Alcuni ricercatori hanno dimostrato che emozioni molto positive o negative possono ridurre o
perdere il loro impatto emotivo durante la narrazione, come se ci fosse un effetto successivo di
moderazione (Moffitt e Singer, 1994). Si parla, infatti, di una relazione tra l’impatto soggettivo di un
evento e il processo di attribuzione di significato personale all’episodio, in quanto maggiore è l’impatto,
soprattutto se negativo, e più intensa sarà la narrazione sulla spiegazione dell’evento (McLean e Thorne,
2003; Thorne, McLean e Lawrence, 2004). In alcune ricerche i risultati mostrano che la qualità delle
esperienze negative di un evento tende a essere accentuata nel resoconto narrativo (Conway e Ross,
1984). Altri studi, invece, evidenziano che l’opportunità di narrare un’esperienza negativa, produce un
effetto di “bonificazione” sul ricordo e la valenza negativa risulta meno intensa (McAdams, Reynolds,
Lewis, Patten e Bowman, 2001). Allo stesso modo, gli eventi positivi al momento della rievocazione
rimarrebbero tali o di maggiore intensità emotiva (Bluck e Gluck, 2004).
L’emozione di un ricordo è associata anche ad altre componenti della memoria, come il
linguaggio, l’imagery e la specificità.
21
I risultati di alcuni studi che si sono interessati alle “flashbulb memories”e ai ricordi traumatici, che
rivelano come le emozioni facilitano il processo di richiamo di ricordi più vividi e dettagliati (Brown e
Kulik, 1977; Christianson, 1992). Verificando a livello sperimentale l’intensità emotiva di uno stimolo
infatti, esso sembra influenzare l’estensione e la qualità del ricordo (Dewhurst e Parry, 2000; Rubin e
Friendly, 1986). In altre ricerche sul tono emotivo, episodi molto negativi, ma non traumatici, sono
rievocati con un numero maggiore di dettagli rispetto ai ricordi di esperienze positive (Ochsner e
Schacter, 2003). Al contrario, altri studi mostrano che episodi negativi emotivamente molto salienti,
difficilmente rievocano immagini precise dell’evento (Christianson e Safer,1996). Differenti autori
sostengono l’esistenza di un “bias” di memoria associato alle emozioni negative (Brown e Kulik, 1977;
Christianson, 1992; Tromp, Koss, Figueredo e Tharan, 1995), cioè una tendenza a rievocare con più
facilità ricordi spiacevoli di parole o frasi (Ortony, Turner e Antos, 1983) e di immagini (Bradley,
Greenwald, Petry e Lang, 1992), in particolare durante un processo involontario e spontaneo di recupero
del ricordo (Banaji e Hardin, 1994). Altre ricerche, invece, mostrano dati contradditori: parole e immagini
emotivamente positive vengono ricordate con più facilità e velocità (Ainsfield e Lambert, 1966). Gli studi
che si basano sull’utilizzo di diari personali per indagare l’impatto emotivo del ricordo autobiografico,
rivelano che gli eventi piacevoli sono descritti con maggior frequenza (Linton, 1986; Wagenaar,1986).
Bernstein, Willert e Rubin (2003) hanno dimostrato che i soggetti tendono a riportare spontaneamente un
maggior numero di ricordi positivi rispetto a quelli negativi, e se viene chiesto ai soggetti di rievocare
eventi personali particolarmente piacevoli, è stato scoperto che negli adulti i ricordi positivi risultano
molto più lontani nel tempo rispetto a quelli negativi; al contrario, gli studi su studenti di college
mostrano risultati completamente opposti (Berntsen e Rubin, 2006).
Nonostante i risultati delle ricerche sulla relazione tra emozione e memoria autobiografica
riportino dati contraddittori, tutti concordano nel sottolineare che l’emozione è una componente
fondamentale del ricordo, che funziona da organizzatore dell’esperienza personale.
In riferimento a quest’ultimo concetto, alcuni autori sottolineano il ruolo delle emozioni positive nel
predisporre la struttura cognitiva alla stimolazione di pensieri, creatività e problem solving (Isen,
Daubman e Nowicki, 1987). Le emozioni negative faciliterebbero, invece, la focalizzazione
dell’organizzazione cognitiva sul ricordo di episodi relazionali o di materiale autobiografico
(Mergenthaler, 1999; 2000). In specifico, secondo Mergenthaler (2008), le persone che si trovano
all’interno di un’esperienza emozionale positiva - “stato
di
ampliamento” mantengono sia la
concentrazione all’interno della sfera emotiva, sia sono in grado di generare o ricevere un’ampia gamma
di idee e azioni all’interno del loro campo attentivo. Nel ricordo autobiografico, la stimolazione emotiva
22
facilita il processo cognitivo di ricostruzione e ridefinizione del contenuto affettivo del ricordo che si sta
sperimentando.
Negli ultimi anni sono numerosi gli studi che hanno cercato di esaminare la relazione tra la
memoria autobiografica e la rappresentazione di sé.
Le rappresentazioni di sé che sono intimamente connesse con i propri ricordi episodici e autobiografici
sono correlate con il magazzino di conoscenze autobiografiche – “autobiographical memory knowledge
base” e con la memoria episodica per dare un senso e per contestualizzare alcuni eventi della propria vita
(Conway e Holmes, 2004).
Gli autori del “Self Memory System” (SMS, Conway e Pleydell-Pearce, 2000; Conway, Singer e Tagini,
2004) fondano le loro teorizzazioni sullo studio della relazione tra memoria autobiografica,
rappresentazioni di sé, regolazione affettiva e sistema motivazionale. I ricordi autobiografici sono
considerati rappresentazioni mentali temporanee e dinamiche, che si intrecciano con le conoscenze
semantiche che il soggetto ha di sé e con il suo sistema motivazionale.
23
1.1.3 Le basi neurali della memoria autobiografica.
In questo capitolo, saranno esaminate le componenti neurali dei processi sottostanti il recupero dei
ricordi. Saranno evidenziate le differenze delle strutture neurali che si occupano di mediare
rispettivamente i sistemi di memoria episodica e semantica implicati nell’organizzazione del ricordo
autobiografico.
Gli studi di neuroimaging funzionale si sono rivelati un utile strumento per chiarire e testare le
teorie sui processi della memoria umana (Davachi e Dobbins, 2008; Johnson, Verfaellie, e Dunlosky,
2008). Naturalmente, i risultati di neuroimaging funzionale devono essere inseriti alla luce della più
ampia letteratura di neuroscienze cognitive e psicologiche. Altre evidenze cliniche e sperimentali
derivano anche dagli studi di modellazione computazionale (Elfman, Parks e Yonelinas, 2008; Li, NavehBenjamin e Lindenberger, 2005; Norman, Detre e Polyn, 2008; Norman e O’Reilly, 2003) e dagli
approcci di modellazione quantitativa (Banks, 2000; Batchelder e Riefer, 1990; Bayen, Murnane e
Erdfelder, 1996; Glanzer, Hilford e Kim, 2004; Meiser e Bröder, 2002; Meiser e Sattler, 2007; Rotello,
Macmillan e Reeder, 2004; Slotnick, Klein, Dodson e Shimamura, 2000; Wixted, 2007). Altri studi basati
sulla tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno esaminato l’attività cerebrale – item
correlata e il grado di risoluzione spaziale che permette di rilevare una specificità delle aree neurali
coinvolte (PET; Anderson et al., 2000; Cabeza, Anderson, Houle, Mangels e Nyberg, 2000; Henke,
Buck, Weber e Weisser, 1997; Henke, Weber, Kneifel, Wieser e Buck, 1999; Schacter et al., 1996).
Inoltre, altri studi hanno utilizzato la stimolazione magnetica transcranica (TMS), che permette la
temporanea interruzione in vivo del funzionamento neurale negli esseri umani in specifiche aree cerebrali,
fornendo elementi sul ruolo della memoria episodica (Köhler, Paus, Buckner e Milner, 2004; Rossi et al.,
2006).
In generale tuttavia, questo tipo di studi ha bisogno di ulteriori ricerche nella comprensione dei
meccanismi cognitivi e neurali implicati nei sistemi di memoria.
Nel panorama della ricerca scientifica, è condivisa la certezza che i diversi tipi di memoria sono
mediati da specifiche aree neurali (Squire, Knowlton e Musen, 1993). Dagli studi condotti su pazienti
amnesici, è emersa una maggiore compromissione della memoria episodica e autobiografica rispetto alla
memoria semantica (Markowitsch, 1995). Da altri studi che utilizzano la tomografia a emissione di
positroni (PET) è stata rilevata una maggiore attivazione dell’emisfero sinistro per il recupero
dell’informazione semantica e dell’emisfero destro per la memoria episodica (Tulving, 1994).
In specifico, nello studio di Fink (1996), sono state analizzate le basi neurali della memoria autobiografica
attraverso la somministrazione della PET a soggetti in tre diverse condizioni: nella condizione baseline è
stato misurato il flusso sanguigno cerebrale regionale (rCBF) in una condizione di riposo e assenza di
24
stimolazione; in quella impersonale il soggetto doveva ascoltare delle frasi tratte dal racconto
autobiografico di una persona non conosciuta, ma che era stata udita in precedenza; in quella personale, il
soggetto doveva ascoltare delle frasi tratte dalla propria autobiografia. Dal confronto delle tre
misurazioni, emerge un’attivazione del lobo temporale mediale e laterale, in particolare dei giri temporali
superiore e medio, simmetrica nella condizione impersonale, e un’attivazione lateralizzata a destra nella
condizione personale. Le aree temporali e mediali attivate specificatamente sono l’ippocampo e
l’amigdala destri, come è stato mostrato in altre ricerche che avevano già sostenuto il ruolo delle strutture
limbiche temporali nell’elaborazione delle memorie ad alto contenuto affettivo. Inoltre, è stata registrata
un’attivazione dell’insula, strettamente collegata a quella del sistema limbico, ancora una volta dovuta
all’impatto emotivo del compito.
Diversi studi hanno dimostrato il ruolo dell’ippocampo nella conservazione delle memorie
autobiografiche. In un esperimento di Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) condotto da Maguire e
Frith (2003), oltre all’attivazione dell’ippocampo durante la rievocazione di ricordi autobiografici, è stata
rilevata una differenza tra ippocampo destro e sinistro legata a un effetto recency, cioè un effetto
sull’attivazione neurale della lontananza temporale dal momento in cui l’evento ricordato si è verificato.
Inoltre, da diversi studi sembra che l’attività dell’ippocampo destro tende a diminuire per i ricordi più
antichi, mentre non si verifica nell’emisfero sinistro. Questo fenomeno è stato approfondito in uno studio
di Addis e colleghi (2004), i quali hanno mostrato che l’effetto recency nell’ippocampo sinistro tendeva
ad annullarsi quando si prendevano in considerazione la specificità, la salienza del ricordo e i suoi
connotati emotivi. L’attivazione dell’ippocampo sinistro, quindi, rimane invariata anche per ricordi molto
lontani nel tempo pur che questi abbiano una forte rilevanza soggettiva e una salienza emotiva. E’ stata
anche evidenziata un’attivazione dei poli temporali, in particolare del polo temporale destro, molto
importanti nella rappresentazione corticale del linguaggio e che si attivano durante l’ascolto di frasi a
carattere narrativo.
Nell’esperimento di Fink (1996) è emerso anche che la corteccia prefrontale è coinvolta nell’elaborazione
di informazioni autobiografiche, come è stato verificato in osservazioni cliniche di pazienti con amnesia
retrograda, i quali mostravano anomalie sia nelle aree temporali sia in quelle prefrontali. In effetti, queste
aree assumono un ruolo di controllo e monitoraggio nei compiti di recupero, organizzando le
informazioni (Cabeza e St Jacques, 2007).
In diversi studi è stato mostrato il ruolo della corteccia cingolata posteriore nella memoria
episodica, sottolineando un’attivazione della corteccia cingolata posteriore durante il recupero delle
informazioni autobiografiche. Gli studi, quindi, confermano i precedenti dati che sostenevano
25
un’attivazione preponderante dell’emisfero destro nei compiti che coinvolgono la memoria episodica in
generale e autobiografica in particolare.
Nei compiti di rievocazione di ricordi, con particolare rilievo alla salienza emotiva dell’episodio
autobiografico, emerge il ruolo preponderante delle regioni dell’amigdala, dell’ippocampo e del giro
paraippocampale, dell’insula e delle regioni cingolate posteriori destre. L’emisfero destro è considerato la
sede dell’elaborazione emotiva (Schore, 2001), nonché l’area coinvolta nello sviluppo e nel
mantenimento della rappresentazione del sé (Decety e Sommerville, 2003), che si attiva quando viene
utilizzata la memoria autobiografica.
La letteratura ha posto l’accento sull’influenza dei processi di recupero di memoria sia a livello
psicologico sia neurobiologico. E’ stato suggerito come l’esposizione al recupero di un evento
emozionale suscita l’attività cerebrale simile a quella che si svolge durante l’evento originale, di cui
l’amigdale e la corteccia prefrontale hanno un ruolo centrale (Phan, Wager, Taylor e Liberzon, 2002).
Anche il tentativo di recuperare una memoria a valenza emozionale può stabilire lo stato affettivo
necessario per influenzare i processi cognitivi e neurobiologici di recupero (Smith, Henson, Rugg e
Dolan, 2005, 2006). Un ricordo parziale di un evento emotivo, può innescare un processo di ricerca per
un evento emotivo associato ad esempio con una parola, oppure con il contesto della conversazione. In
questo caso, il processo di ricerca si presta all'attivazione dell'amigdala e della corteccia prefrontale. Le
connessioni tra queste e altre strutture cerebrali contribuiscono al recupero del ricordo legato alla
manifestazione emotiva originale.
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Conclusioni
Uno degli aspetti importanti discussi nel dibattito teorico e metodologico sulla definizione e sullo
studio della memoria autobiografica riguarda la capacità ricostruttiva del ricordo. Il ricordo è considerato
il risultato di un processo complesso di costruzione dell’esperienza personale, costituita dall’intreccio tra
le informazioni del passato e del presente verso la formazione di una conoscenza di sé e degli eventi.
La maggior parte dei modelli teorici sulla memoria autobiografica descrive una serie di processi di
codifica e di recupero dei ricordi personali da un punto di vista ricostruttivo (Tulving, 2001; Conway,
2005; Rubin, 2005).
Tuttavia, le teorie in linea con gli approcci socio-costruttivisti e narrativi (Bruner, 1987; Gergen e Gergen,
1988; Nelson, 1993; McAdams, 1996; Fivush, 2001; Fivush e Nelson, 2004) conferiscono al linguaggio e
alla narrazione un ruolo importante nel processo di ricostruzione e di organizzazione delle conoscenze e
delle esperienze personali. La narrazione e il linguaggio vengono considerati strumenti principali per
indagare le caratteristiche descrittive dei ricordi autobiografici, fra cui l’imagery, la specificità e il tono
emotivo (Rubin, 2003). Anche se non esiste una definizione univoca riguardo al ruolo della narrazione
nella struttura della memoria autobiografica, tutti gli autori concordano sulla sua organizzazione
gerarchica, da livelli differenti di astrazione di conoscenza, a livelli più generici e poco definiti a eventi
specifici.
In generale, gli autori attribuiscono un ruolo importante alle emozioni che la persona ha provato
sia nel momento dell’esperienza, cioè nel processo di codifica di un ricordo, sia nell’atto del ricordare e
rivivere mentalmente quella stessa esperienza, cioè durante la fase di recupero. Il processo di recupero di
una traccia mnestica e dell’affetto associato deriva, quindi, dal funzionamento stesso della memoria
(Conway e Pleydell-Pierce, 2000).
Gli sudi empirici sull’argomento differenziano anche la memoria nelle sue caratteristiche di
intensità e di valenza legate a un ricordo (Talarico, LaBar e Rubin, 2004). La definizione delle singole
componenti della memoria autobiografica, tra cui intensità emotiva, specificità e narrazione, permette di
integrare il concetto globale e multidimensionale della memoria autobiografica con quello descrittivo e
fenomenologico, mettendola in relazione agli altri costrutti complessi, come quello del sé (Fonagy,
Kächele, Krause, Jones e Perron, 1999).
Lo studio della memoria autobiografica comprende anche i lavori di ricerca scientifica che
condividono la certezza che i diversi tipi di memoria sono legati a specifiche aree neurali (Squire,
Knowlton e Musen, 1993). Dagli studi di neuroimaging funzionale e di risonanza magnetica deriva
l’evidenza sul ruolo delle regioni dei lobi temporali mediali, della corteccia prefrontale, della corteccia
parietale dell’emisfero destro, dell’ippocampo e dell’amigdala nella partecipazione e regolazione dei
27
sistemi di memoria e in specifico della memoria autobiografica. E’ stato ampiamente dimostrato come la
struttura complessa dell’ippocampo e insieme del complesso sistema limbico sono responsabili
dell’elaborazione delle memorie ad alto contenuto emotivo, in particolare riguardo alla salienza emotiva
dell’evento personale.
In diversi studi è stato mostrato il ruolo della corteccia cingolata posteriore nella memoria episodica,
sottolineando un’attivazione della corteccia cingolata posteriore durante il recupero delle informazioni
autobiografiche. Gli studi confermano un’attivazione preponderante dell’emisfero destro nei compiti che
coinvolgono la memoria episodica in generale e autobiografica in particolare, e delle strutture corticali per
la memoria semantica.
Nel prossimo capitolo sarà affrontata un’altra area di interesse, che riguarda lo studio e
l’interazione tra memoria e trauma, con particolare riferimento alle esperienze precoci traumatiche vissute
nell’età evolutiva. A oggi, nel panorama scientifico, non emerge un accordo univoco del ruolo
dell’esperienza traumatica sui processi di memoria. Un largo numero di ricerche suggerisce che la
memoria è spesso distorta e inaccurata (Lindsay e Read, 1994; Schacter, 1995) e i bambini, in particolare,
sono maggiormente influenzati da domande suggestive e da altre variabili che possono produrre ricordi
falsi o inaccurati (Ceci e Bruck, 1995). Altri autori inseriscono i difetti e le dimenticanze di memoria
dell’età evolutiva all’interno del concetto di “amnesia infantile” (Lindsay e Read, 1994; Pope e Hudson,
1995). Dall’altra parte altre ricerche hanno argomentato che le precoci esperienze traumatiche di abuso
e/o maltrattamento possono essere la causa sia di una scarsa capacità di memoria sia dell’amnesia
infantile (Blume, 1990; Courtois, 1988; Ellenson, 1985; Maltz, 1990). Infine, gli studi di neuroimaging
evidenziano effetti dell’abuso e del maltrattamento infantile sul comportamento, sulla cognizione, e sulle
strutture cerebrali nel bambino e nell’adulto, suggerendo una relazione tra abuso infantile e quoziente
intellettivo (QI), processi di memoria, attenzione e regolazione delle emozioni (Hart e Rubia, 2012).
28
CAPITOLO 2 MEMORIA E TRAUMA IN ETÀ EVOLUTIVA
Introduzione
Questo capitolo rappresenta la parte centrale della tesi perchè affronta lo studio dello sviluppo
della memoria nell’età evolutiva.
Per iniziare, saranno esposte le ricerche e gli studi sullo sviluppo dei processi di memoria dal punto di
vista neurobiologico e di come le strutture neurali e le funzioni cerebrali sono implicate nella formazione
della capacità dei diversi tipi di memoria.
L’oggetto principale rimane lo studio della memoria autobiografica nell’età evolutiva, cioè di come
bambini e adolescenti ricordano i loro episodi personali di vita. La memoria autobiografica, cioè la
capacità di recuperare eventi personali e specifici è un processo multisfaccettato che include le
componenti della memoria episodica e semantica (Levine, Svoboda, Hay, Winocur e Moscovitch, 2002;
Tulving, 2002). Le ricerche recenti suggeriscono che le due forme di memoria autobiografica possono
essere differenziare, non solo nella distinzione delle loro proprietà, ma anche nello sviluppo delle loro
traiettorie (Piolino, Hisland, Ruffeveille, Matuszewski, Jambaqué e Eustache, 2007), e nell’attivazione
delle regioni neurali (Maguire e Mummery, 1999; Levine et al., 2004).
Gli studi si sono concentrati sui diversi aspetti dello sviluppo e del funzionamento della memoria
autobiografica nei bambini e negli adolescenti: la caratteristica temporale degli eventi e cioè la capacità di
identificare una collocazione temporale degli eventi personali passati, gli aspetti emozionali, che sono in
grado di influenzare, per esempio, l’accuratezza (Hamann, 2001), la longevità (Sharot e Phelps, 2004), e
la vividezza della memoria (Talarico, LaBara e Rubin, 2004; LaBar e Cabeza, 2006), e i fenomeni delle
dimenticanze e dell’amnesia infantile.
In seguito, sarà affrontato il tema delle esperienze traumatiche in età evolutiva, con particolare
riferimento alle esperienze di abuso e maltrattamento sui minori, alle conseguenze di tali esperienze e
dello stress sui processi di memoria, sui substrati neurali, sulla regolazione emotiva e affettiva. In
specifico, l’interazione tra le esperienze di abuso e maltrattamento in età evolutiva e lo sviluppo e il
funzionamento della memoria autobiografica sarà oggetto della ricerca sperimentale elaborata in questa
tesi.
Il tema dell’abuso e del maltrattamento sul minore sarà letto all’interno di un modello complesso
di trasmissione intergenerazionale del trauma, in cui l’interazione tra il bambino e il proprio ambiente di
attaccamento influisce sulla vulnerabilità epigenetica e biologica, psicologica e sociale. Saranno
29
brevemente descritte le tipologie e le caratteristiche dell’abuso e del maltrattamento nel minore, quali gli
indicatori fisici, psicologici, sociali, e i fattori di rischio e di protezione.
30
2.1 La memoria in età evolutiva.
La letteratura che si è occupata di descrivere lo sviluppo della memoria in età evolutiva non
supporta ancora oggi di un quadro univocamente definito. La questione fondamentale degli studiosi e dei
ricercatori nel campo dello sviluppo della memoria è come le abilità di memoria sofisticata negli adulti
possano emergere dalle competenze di base sviluppate nei bambini. Un’altra questione aperta riguarda lo
sviluppo della memoria autobiografica e cioè di come le memorie sopravvivono dall’infanzia all’età
adulta. In altre parole, gli studi sulla memoria autobiografica nell’infanzia hanno cercato di approfondire
come e cosa i bambini ricordano dei loro episodi personali di vita. Gli studi hanno anche cercato di
comprendere il fenomeno dell’amnesia infantile, cioè come gli adulti sono incapaci di ricordare eventi
dell’infanzia che sono accaduti nel periodo dei due – tre anni di età, mentre sono capaci di richiamare alla
memoria episodi di vita accaduti dopo.
Prima di tutto, la memoria del passato è fondamentalmente una funzione cognitiva. Le strutture
neurali che sono implicate nei differenti sistemi di recall memory maturano in differenti tempi e regioni
del cervello. In particolare, le componenti dei substrati neurali implicati nello sviluppo della memoria a
lungo termine e in specifico per le informazioni temporali maturano nell’ultima metà del primo anno di
vita postnatale. Il periodo di età dai 9 ai 16 mesi è considerato importante per lo sviluppo dell’abilità della
memoria a lungo termine (Carver, Bauer, 2001).
La recall memory fa parte della memoria dichiarativa o esplicita, una forma di memoria a lungo termine
che attiva uno specifico sistema neurale. Con la scoperta che i pazienti con danno al lobo temporale
fornivano scarsi risultati in alcuni compiti di memoria ma non in altri, la distinzione tra memoria
dichiarativa e altre forme di memoria (es. implicita o procedurale) è diventata accettata nella letteratura
sull’età adulta (Roediger, Rajaram e Srinivas, 1990). Tradizionalmente, la memoria esplicita è stata
definita dal coinvolgimento del lobo temporale mediale (Squire, 1992; Squire e Zora-Morgan, 1991).
Mentre le strutture del lobo temporale mediale sono implicate nei processi di immagazzinamento e
consolidamento della traccia mnestica, la corteccia prefrontale è implicata nel recupero di memorie a
lungo termine. Diversi studi sostengono che i pazienti con danni alle strutture temporali mediali hanno
gravi difficoltà nell’immagazzinamento di nuove informazioni, ma i meccanismi di recupero a lungo
termine rimangono relativamente intatti (Markowitsch, 1995; Markowitsch, Calabrese, Haupts, 1993). I
substrati che supportano la memoria esplicita a lungo termine includono il lobo temporale mediale, il
diencefalo mediale e la corteccia prefrontale. Nel 1984, Schacter e Moscovitch suggerirono che il periodo
tra gli 8 e i 12 mesi era un intervallo privilegiato di sviluppo di questo sistema.
Riassumendo le evidenze degli sviluppi neuroanatomici e neurofisiologici, Nelson (1995, 1997)
sostiene che nei primi 6 mesi di vita le strutture del lobo temporale mediale sono sufficientemente mature
31
per supportare un’iniziale processo di immagazzinamento e consolidamento delle memorie e per
permettere la performance di compiti di memoria esplicita oltre quelli di memoria a breve termine. In
contrasto, l’equilibrio del circuito cortico – limbico – diencefalico, includendo la corteccia prefrontale,
inizia a unirsi solo nella seconda metà del primo anno di vita, per continuare a svilupparsi
successivamente. Solo dopo che l’intero circuito della memoria esplicita comincerà a essere connesso, il
bambino diventerà capace in compiti che richiedono la conservazione a lungo termine e il recupero
(Carver e Bauer, 1999).
In aggiunta alle evidenze scientifiche sullo sviluppo del sistema neurale della memoria esplicita a
lungo termine, ci sono anche evidenze dalla letteratura cognitiva che supportano che la memoria esplicita
subisce importanti cambiamenti nella seconda metà del primo anno di vita del bambino.
Differenti tipi di compiti possono essere utilizzati per misurare le abilità mnemoniche (per es.,
abituazione, imitazione differita) nel bambino. I risultati delle ricerche che utilizzano questi compiti
suggeriscono che il neonato possiede un numero di capacità mnemoniche precoci dalla nascita, ma i
comportamenti indicativi della memoria esplicita a lungo termine emergono più avanti.
Uno dei primi metodi di studio della memoria a lungo termine nei neonati con ancora capacità
linguistiche preverbali è quello dell’imitazione differita. Piaget (1951, 1962, 1952, 1963) ha suggerito che
fino a quando il neonato non è capace di rappresentare simbolicamente gli eventi, la capacità
dell’imitazione non è sviluppata. Secondo Piaget, questa abilità coincide con l’inizio dello stadio
preoperatorio dello sviluppo cognitivo, circa tra i 18 e i 24 mesi. Contrariamente, è stato dimostrato che la
capacità di imitazione differita, cioè di rappresentazione mentale di azioni, situazioni e oggetti non
presenti nell’ambiente immediato, è presente nel neonato dai 6 mesi di età (Barr, Dowden e Hayne,1996).
Nella procedura dell’imitazione differita, al neonato sono mostrate delle sequenze di azioni tramite degli
oggetti di scena, che in seguito sono a sua disposizione per essere manipolate. Se il neonato ricrea
l’evento in precedenza visto, significa che è in grado di richiamarlo alla memoria. I bambini sono in grado
di compiere imitazioni differite, cioè di rappresentare azioni passate delle quali sono stati testimoni (Barr,
Dowden e Hayne,1996).
Bauer e Dow (1994) sostengono che il neonato è in grado di imitare gli eventi manipolando sia gli stessi
oggetti di scena sia lo stesso tipo di modellazione osservata. La performance del neonato risulta migliore
sugli eventi che sono stati visti rispetto a quelli non visti. Il neonato è in grado di identificare gli stessi
oggetti di scena utilizzati nell’esposizione originale, suggerendo anche una capacità di riconoscimento
degli oggetti (Lechuga, Marcos-Ruiz e Bauer, 2001). Il neonato è in grado di imitare gli stessi eventi
osservati in un determinato contesto e di ricrearli in uno differente (Barnat, Klein e Meltzoff,1996).
Quando il neonato osserva azioni esperite da altri pari, è in grado di imitare quelle stesse azioni anche in
32
assenza del neonato che gli ha mostrato la performance (Hanna e Meltzoff, 1996). Il neonato è anche
capace di imitare le azioni del neonato che gli ha fatto da modello in un ambiente differente da quello
originale in cui è avvenuta la dimostrazione. Il neonato, quindi, è capace di ricordare eventi che ha
solamente visto come spettatore (Meltzoff, 1988).
Lo studio dello sviluppo della memoria tramite l’uso dell’imitazione differita si è occupato anche di
scoprire come diventa accessibile verbalmente, anche se le ricerche sull’argomento si sono dovute
indirizzare in bambini di età maggiore con competenze verbali. Alcuni autori (Bauer, Kroupina, Schwade,
Dropik e Wewerka, 1998) hanno analizzato le verbalizzazioni spontanee di bambini di età tra i 22 e i 32
mesi, ai quali erano stati presentati specifiche sequenze di eventi presentate in laboratorio all’età di 16 e
20 mesi. Dai dati è emerso che il gruppo di bambini ha fornito verbalizzazioni mnemoniche sulle
sequenze degli episodi raccontati nei mesi precedenti. Questi risultati spiegano chiaramente lo sviluppo di
una memoria accessibile verbalmente per gli episodi di cui si è fatta esperienza in un contesto di
imitazione differita.
All’interno della stessa tipologia di studi, gli autori Bauer, Wenner, Dropik e Wewerka (2000) hanno
utilizzato il metodo dell’imitazione differita per testare la capacità di richiamo della memoria a lungo
termine in bambini di età di 13, 16 e 20 mesi, sempre attraverso la presentazione di sequenze di azioni. Il
gruppo di bambini è stato testato dopo un intervallo di 1, 3, 6, 9 e 12 mesi. Lo studio ha fornito dati sulla
capacità di richiamo a lungo termine in bambini in tutto il secondo e il terzo anno di vita. I bambini che
avevano 20 mesi di età al tempo dell’esposizione delle sequenze di azioni hanno mostrato capacità di
memoria di richiamo, sia nell’individuare il target delle azioni sia l’ordine temporale della sequenza di
azioni presentate dopo un intervallo di 12 mesi. In contrasto, bambini che erano stati esposti alla sequenza
di azioni all’età di 13 mesi sono stati in grado di richiamare memorie per il target delle azioni dopo un
intervallo di 6 mesi, e hanno mostrato capacità di richiamo per l’ordine temporale delle azioni dopo solo 3
mesi. La performance dei bambini esposti a 16 mesi mostravano invece una capacità di ritenzione
intermedia tra i due differenti periodi di età.
Gli autori (Bauer, Wenner, Dropik e Wewerka, 2000) evidenziano che i bambini di età diverse sono
capaci di ricordare sequenze di specifiche azioni per un lungo periodo di tempo, suggerendo anche un
aumento della capacità della memoria a lungo termine nel corso dei primi due anni di vita. Nel presente
studio, infatti, i risultati indicano che i bambini di età maggiore ricordano un numero maggiore di
sequenze di azioni rispetto ai bambini di età minore.
Chiaramente, se l’abilità della memoria a lungo termine si consolida nel corso del secondo e del terzo
anno di vita, tale capacità dovrebbe emergere nelle prime fasi dello sviluppo. Gli autori Nelson (1995),
Schacter e Moscovitch (1984) hanno suggerito che la seconda metà del primo anno è il periodo in cui si
33
sviluppano nuove funzioni cognitive. In specifico, alcuni autori (Carver e Bauer, 1999) hanno rilevato
all’interno di un gruppo, che bambini di 9 mesi erano capaci di richiamare target di azioni singole di due
differenti sequenze di azioni dopo un mese. Tuttavia, solo 14 su 31 bambini (45%) hanno mostrato
evidenze nel richiamare temporalmente le sequenze di azioni, mentre i restanti 17 bambini (55%) non
hanno mostrato la stessa evidenza nel richiamo mnemonico dopo lo stesso intervallo di tempo (Bauer,
Johnson, Carver, Waters e Nelson, 2000; Bauer,Wiebe,Waters, e Bradley, 2000).
In contrasto, bambini di 6 mesi mostrano una minore capacità di richiamo. Altri autori (Barr, Dowden e
Hayne, 1996) hanno testato bambini di 6 mesi immediatamente e dopo 24 ore dalla somministrazione
delle sequenze e i dati hanno indicato che i bambini erano in grado di richiamare un numero di tre azioni
di una stessa sequenza, e che il 75% dei bambini sono stati in gradi di imitare una sola azione dopo 24
ore. Questi risultati riportano evidenze nella capacità di richiamo sul breve termine in un periodo di età di
sei mesi. Tuttavia, in questo studio non appare chiaro perché solo il 25% dei bambini è in grado di
richiamare più target di azioni dopo 24 ore. I risultati degli studi sopra enunciati (Bauer et al., 2000)
suggeriscono che dai 13 mesi, l’abilità di richiamo a lungo termine risulta relativamente stabilizzata,
anche se gli studi di Barr e colleghi (2000) suggeriscono che a 6 mesi esiste solo una minima capacità di
richiamo nel breve termine. In generale, i nove mesi sembrano essere un importante periodo di
transizione: approssimativamente il 50% dei bambini di 9 mesi dimostrano una buona capacità di
ricordare gli eventi sul lungo termine, mentre il restante 50% non sembra avere la stessa valenza di
capacità (Bauer, Johnson, et al., 2000; Bauer, 2000; Carver e Bauer, 1999). In generale, i risultati degli
studi evidenziano che il sistema neurale che si occupa della memoria esplicita a lungo termine emerge
alla fine del primo anno di vita e che è un processo che continua a svilupparsi nel tempo (Carver, Bauer,
2001).
La memoria autobiografica, cioè la capacità di recuperare eventi personali e specifici è un processo
multisfaccettato che include le componenti della memoria episodica e semantica (Levine, Svoboda, Hay,
Winocur e Moscovitch, 2002; Tulving, 2002). Le ricerche recenti suggeriscono che le due forme di
memoria autobiografica possono essere differenziare, non solo nella distinzione delle loro proprietà, ma
anche nello sviluppo delle loro traiettorie (Piolino, Hisland, Ruffeveille, Matuszewski, Jambaqué e
Eustache, 2007), e nell’attivazione delle regioni neurali (Maguire e Mummery, 1999; Levine et al., 2004).
La memoria episodica è stata associata a un’evidente attività dell’ippocampo (Maguire e Mummery,
1999; Hoscheidt, Nadel, Payne, e Ryan, 2010), anche se la traiettoria di sviluppo risulta più lenta e
graduale rispetto al recupero della memoria semantica (Tulving, 2002; Piolino et al., 2007). Nel periodo
dalla nascita alla prima infanzia lo sviluppo del linguaggio è ancora poco sviluppato e risulta difficile
investigare i fattori della memoria autobiografica episodica e semantica nei primi anni di vita.
34
Recentemente, alcuni autori (Newcom, L Lloyd e Ratliff, 2007) hanno proposto di classificare
l’incapacità di ricordare eventi di vita dell’infanzia in due distinti periodi di amnesia: amnesia infantile
(infantile amnesia), che avviene approssimativamente i primi due anni di vita e si riferisce a una completa
assenza di memoria autobiografica episodica, e l’amnesia della fanciullezza (childhood amnesia) che
intercorre più avanti tra i 3 e i 5 anni (Perner e Ruffman, 1995; Newcombe et al., 2007).
Durante il periodo dell’amnesia infantile, il neonato sviluppa una prima forma di memoria semantica,
prima di sviluppare la memoria episodica. Gli studi che hanno utilizzato l’imitazione differita hanno
mostrato che bambini di 6 mesi esibiscono le prime forme di memoria dichiarativa, così come sono capaci
di ricordare informazioni sugli oggetti osservati durante le sequenza di azioni dopo un periodo di tempo
(Meltzoff, 1995; Barr et al.,1996). Siccome il neonato può compiere un processo di generalizzazione sulla
nuova informazione appresa e riferirla ad altri domini, questa non appare come la ritenzione di
un’esperienza spontanea appresa nel passato, oppure integrando l’episodio nel continuo temporale delle
sue esperienze di vita, questa precoce forma di memoria dichiarativa potrebbe essere classificata come
semantica invece che episodica (Bauer e Dow, 1994; Lechuga, Marcos-Ruiz e Bauer, 2001; Nelson e
Fivush, 2004; Newcombe et al., 2007). Inoltre, Fivush e Hamond (1990) hanno mostrato che bambini dai
2 ai 4 anni possono recuperare specifiche conoscenze di eventi passati (per es., gite scolastiche) dopo un
lungo periodo di tempo. Tuttavia, questa precoce conoscenza dell’evento potrebbe rappresentare solo una
rudimentale forma di memoria autobiografica perché è spesso frammentata, semantica e facilmente
dipendente dall’associazione con cues o da domande di supporto da parte degli adulti (Fivush e Hamond,
1990; Perner e Ruffman, 1995; Newcombe et al., 2007). Inoltre, bambini di età inferiore ai 4 anni sono
chiaramente in grado di usare le loro personali esperienze per acquisire nuove informazioni relative a un
determinato evento e sviluppare una conoscenza di base di memoria autobiografica semantica. Tuttavia,
questi bambini non risultano capaci di richiamare spontaneamente eventi autobiografici del passato.
L’apparente assenza della memoria autobiografica episodica durante il periodo dell’amnesia
infantile potrebbe dipendere da un funzionamento immaturo dell’ippocampo, e soprattutto da un limitato
processo di codifica e di immagazzinamento dei dettagli associati allo specifico evento (Bauer, 2006;
Newcombe et al., 2007). Si ricorda che ippocampo è la struttura del lobo temporale mediale conosciuta
per il ruolo cruciale nella formazione, nel consolidamento e nel recupero degli episodi autobiografici
(Eldridge, Knowlton, Furmanski, Bookheimer e Engel, 2000; Ryan, Nadel, Keil, Putman, Schnyer,
Trouard e Moscovitch, 2001; Moscovitch, 2008). Da diversi studi emerge che la memoria episodica è
maggiormente dipendente dall’attività dell’ippocampo rispetto alla memoria semantica (Viskontas,
McAndrews e Moscovitch, 2000; Maguire, Vargha-Khadem e Mishkin, 2001; Addis, Moscovitch,
Crawley e McAndrews, 2007; St-Laurent Moscovitch, Levine e McAndrews, 2009) e queste abilità
35
emergono più tardi nello sviluppo perché l’ippocampo continua a crescere durante i primi due anni di
vita.
Diversi autori hanno proposto un modello gerarchico di sviluppo dalla memoria autobiografica
semantica a quella episodica (Mishkin, Suzuki, Gadian e Vargha-Khadem, 1997). Il passaggio
dall’amnesia infantile a quella della fanciullezza, così come il passaggio a livelli più maturi del
funzionamento della memoria autobiografica, appare essere legato a diversi fattori. Questi includono
sviluppi nel funzionamento dei processi di memoria (codifica, immagazzinamento, recupero) e una
maturazione delle regioni del cervello e delle connessioni neurali, e processi cognitivi superiori che
possono facilitare la memoria autobiografica semantica e la consapevolezza autonoetica (per es.,
linguaggio, consapevolezza di sé, teoria della mente, funzioni esecutive, ecc.). A questo proposito, Howe
e Courage (1993, 1997) hanno dimostrato, attraverso l’uso del test dello specchio, che lo sviluppo di una
memoria autobiografica episodica e la diminuzione dell’amnesia infantile corrispondono allo sviluppo di
un senso cognitivo del sé. Ciò consente ai bambini di riconoscere che il senso di sé ha un continuo nel
tempo, un passato e un futuro, che tende verso l’organizzazione e l’integrazione delle esperienze
personali (Howe et al., 2003). Senza questa forma di autoconsapevolezza di sé, i bambini sono incapaci di
codificare e di immagazzinare gli eventi legati a esperienze personali che sono integrate con il sé
personale (Wheeler et al., 1997). Inoltre, il completo sviluppo cognitivo del sé sembra essere un
prerequisito importante per l’iniziale emergere della memoria autobiografica episodica. Alcuni autori
(Perner e Ruffman, 1995) hanno argomentato che finché il bambino non ha fatto esperienza di
metacognizione (teoria della mente) attorno al quarto anno di età, non si può ancora dimostrare l’evidenza
della memoria autobiografica episodica, ma semplicemente si tratta di conoscere qualcosa circa un evento
passato. In accordo con questa prospettiva, i bambini sono incapaci di sperimentare pienamente
l’esperienza passata degli eventi nel momento in cui avviene il recupero, finché non acquisiscono l’abilità
di comprendere il proprio stato mentale nel passato e nel futuro (Perner e Ruffman, 1995). Infine, il
graduale sviluppo della memoria autobiografica episodica tra i 3 e i 5 anni potrebbe essere associato alla
maturazione delle regioni cerebrali e delle connessioni neurali implicate nella memoria autobiografica, in
particolare l’ippocampo e la corteccia frontale (Wheeler et al., 1997; Gogtay, Nugent, Herman,D. H.,
Ordonez, A., Greenstein, D.,Hayashi, K. M., Clasen, L., Toga, A.W., Giedd, J. N., Rapoport e Thompson,
2006; Newcombe et al., 2007). La corteccia prefrontale è stata identificata come una regione critica per il
recupero della memoria autobiografica perché controlla il processo di costruzione del sé (ad es., processo
dell’informazione personale), così come il processo mnemonico di ricerca, recupero e valutazione,
attraverso l’interazione tra l’ippocampo e lobo temporale mediale (Buckner e Wheeler, 2001; Svoboda et
al., 2002; Cabeza et al., 2004). Dato che l’ippocampo e la corteccia prefrontale continuano a maturare
36
nella loro struttura e nel funzionamento durante la fanciullezza e l’adolescenza (Benes et al., 1994; Giedd
et al., 1996; Huttenlocher e Dabholkar, 1997; Suzuki et al., 2005; Gogtay et al., 2006; Lenroot e Giedd,
2006; Grieve et al., 2011), è possibile che la memoria autobiografica episodica continui a svilupparsi
durante la tarda fanciullezza e adolescenza grazie a un aumento delle connessioni neurali tra l’ippocampo,
la corteccia prefrontale e le altre regioni deputate alle connessioni della memoria autobiografica.
Seguendo la letterature che si occupa dell’emergere e dello sviluppo della memoria autobiografica
episodica dalla prima infanzia (per es., Pillemer et al., 1994; Van Abbema e Bauer, 2005; Bauer et al.,
2007), due studi, in particolare, hanno esaminato come il fattore età cambi in entrambe la memoria
autobiografica episodica e semantica fino al quinto anno di età. Piolino et al. (2007) hanno esaminato la
memoria episodica e semantica in bambini di età compresa tra i 7 e i 13 anni attraverso il test TEMPAu
(adattamento della versione dell’Intervista della Memoria Autobiografica - AMI; Kopelman et al., 1989).
I risultati hanno dimostrato correlazioni significative tra l’età e la memoria episodica, ma non tra la
memoria semantica (per es., recuperare il nome di un amico d’infanzia). In un secondo studio (Picard et
al., 2009), utilizzando lo stesso strumento di misura per esaminare la performance di memoria
autobiografica in 30 bambini di età compresa tra
6 e 11 anni, i risultati hanno rilevato che,
contrariamente ai dati dello studio precedente, si osservava una correlazione significativa tra l’età e la
memoria episodica e semantica. Un recente studio (Willoughby, Desrocher, Levine e Rovet, 2012) che si
è occupato di indagare le correlazioni tra l’età e le memorie episodica e semantica nella fanciullezza e
nell’infanzia in 182 bambini tra 8 e 16 anni, ha utilizzato come strumento di ricerca il CAI (Children’s
Autobiographical Interview; Levine et al., 2002). Similmente allo studio di Picard e colleghi (2009), i dati
di questo studio hanno trovato correlazioni significative tra l’età e lo sviluppo della memoria semantica
durante la tarda fanciullezza e la prima adolescenza. I risultati hanno indicato che entrambe le memorie
episodica e semantica crescono significativamente con l’età e supportano il modello gerarchico della
memoria autobiografica che suggerisce che la memoria autobiografica semantica sviluppa prima e
provvede come base per lo sviluppo più lento e graduale della memoria autobiografica episodica
(Mishkin, et al., 1997; Picard et al., 2009).
Una parte fondamentale della capacità di memoria è ricordare l’informazione temporale associata
agli eventi passati. I nostri ricordi sarebbero incompleti senza sapere quando gli eventi hanno avuto luogo,
e anche se non siamo in grado di ricordare con precisione il tempo in cui è avvenuto un evento passato,
abbiamo però la sensazione che gli eventi della nostra vita rientrano in determinati momenti del nostro
passato (Friedman e Lyon, 2005). Di conseguenza, la memoria per il tempo è una caratteristica
importante da affrontare per le teorie sulla memoria. La maggior parte delle ricerche si sono focalizzate
sulla comprensione del tempo convenzionale e sulla conoscenza che i bambini hanno di quando si verifica
37
la scena di un evento (Friedman, 1991, 1992; Friedman, Gardner e Zubin, 1995; Friedman e Kemp,
1998). Tuttavia, si conosce ancora poco su come funziona la memoria dei bambini relativa ai parametri
temporali per gli eventi personali passati.
La capacità di organizzare temporalmente gli eventi del passato assume un ruolo importante nello
studio della memoria autobiografica e del suo sviluppo. L’organizzazione temporale degli eventi non
correlati e la memoria sul tempo sono elementi caratteristici della memoria episodica (Tulving, 1972,
1984, 1993, 2002; Wheeler, Stuss e Tulving, 1997).
Per capire lo sviluppo della memoria per le informazioni temporali è necessario determinare lo
stato di sviluppo delle capacità del bambino di formare e recuperare ricordi autobiografici. Una grande
quantità di ricerche ha stabilito che entro il secondo anno di vita, i neonati sono in grado di ordinare una
sequenza di azioni all’interno di un evento (Bauer, Wenner, Dropik e Wewerka, 2000; Carver e Bauer,
1999; Bauer, 2007). Tuttavia, sono limitati gli studi che chiedono ai bambini di riprodurre in scena eventi
unici che si sono verificati in laboratorio o in un preciso contesto, e che in seguito utilizzano domande
relative al tempo dell’evento su scale temporali convenzionali (per es., ora del giorno, giorno della
settimane, mese, anno, stagione) (Friedman, 1991). Seguendo questo metodo di studio, alcuni ricercatori
hanno monitorato i cambiamenti legati all’età sulla comprensione temporale in bambini dalla scuola
materna ad anni scolastici successivi. Ai bambini era chiesto di recuperare eventi unici che erano accaduti
da una a sette settimane, e i bambini di 4, 6 e 8 anni sono stati in grado di fornire accuratezza nella
ritenzione del tempo dell’evento passato (Friedman, 1991). Tuttavia, i bambini di età scolare più piccoli
hanno successo sul compito solo se almeno uno degli eventi è accaduto nel recente passato e se c’è una
grande distanza temporale tra i due eventi. Quando i due eventi sono più vicini tra loro nel tempo, i
bambini di sette anni hanno performance minori (Friedman e Kemp, 1998). Inoltre, sembra esserci un
miglioramento legato all’età nella memoria temporale di eventi unici tra gli anni prescolari e scolastici.
Altri studi hanno verificato lo sviluppo di miglioramenti in compiti che richiedono ai soggetti di
collocare specifiche scale temporali convenzionali su eventi passati (Friedman, 1991). Ad esempio,
bambini di cinque anni ricordano eventi accaduti in un recente passato, (ad esempio, ieri), oppure un
episodio particolare di un periodo del passato più prolungato (ad esempio, nella stagione passata)
(Friedman, 1992). Tuttavia, è solo più tardi a metà dell’infanzia, che i bambini sono in grado di
localizzare in modo affidabile più eventi su una scala temporale convenzionale che si estende nel passato
(Friedman e Lione, 2005). In specifico, bambini di 4 anni non sono ancora in grado di identificare con
precisione l’ora del giorno, il mese o la stagione degli eventi passati, mentre bambini di 6 e 8 anni
possiedono questa capacità (Friedman, 1991). Questi studi, quindi, documentano i miglioramenti legati
all’età sulla memoria di eventi passati in bambini dalla scuola materna agli anni scolastici.
38
Una caratteristica importante della maggior parte dei lavori sullo sviluppo della comprensione
temporale degli eventi passati nei bambini, è costituita dagli eventi messi in scena (staged events), anche
se spesso mancano di alcune caratteristiche della memoria autobiografica associate al naturale verificarsi
degli eventi personali rilevanti (per es., la valenza emozionale, la significatività). Così, gli eventi messi in
scena potrebbero non consentire una valutazione generalizzabile della memoria temporale dei bambini.
Per ottenere un quadro più completo, è necessario estendere la letteratura agli eventi personali
significativi. In generale, è stato riconosciuto che la memoria dei bambini per gli eventi personali rilevanti
è considerata più robusta e di maggiore recuperabilità rispetto alle memoria degli eventi recuperate in
laboratorio (Mandler, 1983; Nelson, 1986).
C’è evidenza sul fatto che bambini in età scolare più grandi sono capaci di rievocare
approssimativamente la data di un evento autobiografico personale rilevante. In uno studio, Bauer, Burch,
Scholin e Güler (2007) hanno chiesto a bambini dai 7 ai 10 anni di produrre specifiche memorie associate
a determinate parole neutrali (neutral cue words). Per aiutare i bambini a datare le memorie riferite, ogni
bambino è stato fornito di una linea del tempo personale (ad es., fotografie personali organizzate in ordine
temporale) e di una linea del tempo delle stagioni, con le quali identificare il mese, l’anno e la stagione
dell’evento accaduto. Infine è stata effettuata una verifica sugli eventi da parte dei genitori. I risultati
hanno indicato che il 92% dei bambini sono stati in grado di identificare accuratamente l’anno in cui si è
verificato l’evento e che il 75% dei bambini hanno identificato correttamente la stagione dell’evento.
Inoltre, alcuni bambini hanno identificato spontaneamente alcune delle informazioni temporali nelle
descrizioni degli eventi personali passati.
Solo pochi studi hanno investigato la memoria temporale degli eventi personali del passato nei bambini in
età scolare attraverso scale temporali convenzionali. Ad esempio, lo studio di Friedman, Reese e Dai
(2010) ha indagato la memoria temporale degli eventi passati in bambini dagli 8 ai 12 anni, che venivano
nominati dai genitori, attraverso scale temporali convenzionali (calendario, anno, mese, stagione, giorno,
anno scolastico). Gli eventi nominati erano accaduti dai 6 mesi ai 4 anni. I bambini erano in grado di
stimare il tempo degli eventi nominati dai genitori, suggerendo, quindi, una capacità di localizzare
temporalmente specifici eventi autobiografici in un’età dagli 8 ai 12 anni.
In uno studio recente (Pathman, Larkina, Burch, Bauer, 2013) è stata investigata la memoria per le
informazioni temporali associate all’evento autobiografico del passato in bambini di età di 4, 6 e 8 anni. I
genitori riportavano eventi unici di cui i bambini avevano partecipato durante un periodo di quattro mesi,
e i bambini avevano il compito di stimare il tempo per ogni evento attraverso una scala temporale
convenzionale, ed erano inviatati anche a fornire giustificazioni per i loro giudizi sul tempo
(Environmental Cue, Routine Event, Calendar Event, Other). I risultati hanno indicato che i bambini tra 7
39
e 8 anni, ma non di 4 anni giudicavano accuratamente l’ordine in cui erano accaduti due distinti eventi e
si verificava un miglioramento nella stima del tempo degli eventi correlato all’età. I bambini più grandi
hanno fornito maggiori giustificazioni sui giudizi sul tempo rispetto ai bambini più piccoli. La relazione
tra rispondere correttamente su una scala temporale e fornire giustificazioni significative, suggerisce che i
bambini possono usare tali informazioni per ricostruire il tempo associato all’evento passato.
In conclusione, il presente studio aggiunge evidenze alla letteratura sullo sviluppo della memoria
autobiografica nei bambini, perché ha esaminato la memoria temporale per gli eventi passati in età
prescolare e scolare. Come discusso da Friedman et al. (2010), l’utilizzo di eventi naturali accaduti nel
passato può aiutare più facilmente il bambino nel compito di rievocazione rispetto all’uso di eventi
organizzati in scene, e quindi potrebbe risultare utile nel campo della testimonianza in cui i bambini sono
invitati a fornire informazioni temporali sugli eventi passati. Anche Fivush (2010) ha suggerito che al fine
di creare una storia autobiografica sui propri episodi di vita, gli eventi personali dovrebbero essere
collegati o organizzati su una linea del tempo personale (Habermas e Bluck, 2000; McAdams, 2001).
Studi recenti hanno suggerito che l’emergere e l’incremento della storia narrativa dell’individuo non
avvengono almeno fino alla metà dell’infanzia e nel periodo dell’adolescenza (Habermas e Bluck, 2000;
Hamermas e de Silviera, 2008; Reese, Yan, Jack e Hayne, 2010). La capacità di ordinare eventi personali
unici e di rapportarli in scale temporali convenzionali, sono elementi di base per lo sviluppo della
memoria autobiografica e per la creazione di una storia narrativa di vita.
Un’area di particolare interesse sulla memoria riguarda l’interazione tra i sistemi dell’emozione e
della cognizione. E’ stato ampiamente dimostrato che l’emozione è in grado di influenzare, per esempio,
l’accuratezza (Hamann, 2001), la longevità (Sharot e Phelps, 2004), e la vividezza della memoria
(Talarico, LaBara e Rubin, 2004; LaBar e Cabeza, 2006). La memoria episodica di specifici eventi passati
è spesso in stretta connessione con le reazioni e le risposte emotive degli individui coinvolti in un evento.
Il contenuto emotivo è piuttosto presente e rilevante nelle memorie autobiografiche personali e
responsabile della longevità del ricordo (Bauer, 2007; Brewer, 1996). Negli adulti, la letteratura ha
dimostrato l’esistenza di differenti processi neurali di valutazione della valenza emotiva, così come nella
differenza di genere, mentre nei bambini gli studi di neuroimaging e le ricerche sulla rappresentazione
dell’esperienza emotiva sono più limitate e in via di sviluppo.
Tra gli adulti, sia il comportamento che il processo neurale differiscono dal tipo di valenza
emotiva o di esperienza di quel specifico evento. Nel comportamento, le narrazioni che descrivono
esperienze negative sono più lunghe, più complesse nella struttura e più coerenti della descrizione delle
esperienze positive. La narrazione delle esperienze negative contiene anche più emozioni negative e
40
maggiore elaborazione cognitiva (Bohanek, Fivush e Walker, 2004; Fivush, Bohanek, Marin e Sales,
2008; Pennebaker e Francis, 1996).
Differenti tipi di esperienze emotive sembrano essere rappresentate da differenti livelli neurali. La
maggior parte delle ricerche si è focalizzata sulla modificazione neurale durante la visualizzazione di
immagini (Lang, Bradley e Cuthbert, 2005), ad esempio, tramite gli studi basati sull’ERP, che si
occupano di misurare le risposte neurali differenti in base a stimoli emotivamente positivi e negativi. In
questi studi si osserva un’attivazione prominente dei siti bilaterali temporo-occipitali (Junghöfer,
Sabatinelli, Bradley, Schupp, Elbert e Lang, 2006; Schupp, Junghöfer, Weike e Hamm, 2003; Schupp,
Öhman, Junghöfer, Weike, Stockburger e Hamm, 2004).
Gli studi sulla rappresentazione ed espressione degli aspetti emotivi dell’esperienza nei bambini
sono ridotti rispetto agli studi sugli adulti. Una ragione è che spesso la maggior parte delle ricerche si è
focalizzata sulla valutazione dell’intensità emotiva negativa degli eventi traumatici, ad esempio di
catastrofi naturali, senza permettere un vero e proprio confronto tra eventi di diversa valenza emotiva
(Fivush, Sales, Goldberg, Bahrick, e Parker, 2004; Quas, Goodman, Bibrose, Pipe, Craw e Ablin, 1999). I
pochi studi che hanno confrontato direttamente la rappresentazione negativa di eventi positivi e negativi,
hanno trovato, che come gli adulti, le narrazioni dei bambini che descrivono eventi negativi sono più
coerenti e maggiormente focalizzati sulle cause e sulla spiegazione che nelle narrazioni di eventi positivi
(Ackil, Van Abbema, & Bauer,2003; Bauer, Stark, Lukowski, Rademacher, Van Abbema e Ackil, 2005;
Burch, Austin e Bauer, 2004; Sales, Fivush e Peterson, 2003).
La letteratura che si è occupata di studiare le rappresentazioni neurali per le esperienze emotive nei
bambini è ancora limitata. Pickens, Field e Nawrocki (2001) hanno registrato l’elettroencefalogramma
(EEGs) di bambini in età prescolare mentre guardavano un videotape contenente vignette che mostravano
bambini che facevano esperienze di eventi di felicità, tristezza, rabbia e paura. I ricercatori hanno
osservato asimmetrie nelle regioni frontali durante tutti i quattro tipi di vignette. Hajcak e Dennis (2009)
hanno utilizzato l’ERPs per esaminare le modificazioni neurali in bambini dai 5 ai 10 anni di età mentre
osservavano figure inserite nel database IAPS (International Affective Picture System). Dai risultati sono
emerse, come per gli adulti, evidenti modificazioni nei siti mediali e centro parietali.
In diversi studi viene utilizzata la tecnica delle neutral cue words per testare la memoria
autobiografica., in cui al soggetto viene chiesto di pensare a un ricordo specifico associato a quella
particolare parola. Questa tecnica è stata usata particolarmente con gli adulti per esaminare la
configurazione della distribuzione delle memorie lungo l’arco della vita (Rubi, 1982, Rubin, Wetzel e
Nebes, 1986) e per dedurre il processo emozionale tramite la risonanza magnetica funzionale (fMRI)
(Greenberg, Rice, Cooper, Cabeza, Rubin e LaBar, 2005). Questa tecnica, inoltre, utilizza altri stimoli a
41
contenuto emotivo (per es., foto) che sono personalmente significativi per il soggetto, non solo al
momento della percezione degli stimoli, ma nella propria storia autobiografica. Nell’adulto, il recupero di
memorie autobiografiche è accompagnato da un senso di rivivere l’evento e l’emozione (Tolving, 2002).
Gli adulti indicano alti punteggi nella vividezza e intensità dell’emozione dell’evento rievocato (Rubin,
2005). I bambini mostrano valutazioni più approssimative nel riconoscimento degli stimoli personalmente
rilevanti legati al ricordo autobiografico rispetto agli adulti (Pathman, Samson, Dugas, Cabeza e Bauer,
2013).
L’utilità del compito di cue words nello studio della memoria in bambini in età scolare è stata dimostrata
da uno studio di Bauer, Burch, Scholin e Güler (2007), in cui bambini dai 7 ai 10 anni fornivano brevi
narrazioni su eventi personali passati in risposta a parole associative. La tecnica delle cue words ha
ottenuto vantaggi anche per la valutazione delle emozioni positive, negative e neutrali degli eventi
personali del passato. Tuttavia, anche se la parola associativa è neutra, ha la capacità di suscitare il
ricordo di un evento e dell’emozione provata.
Uno studio recente si è occupato di esaminare il recupero delle memorie autobiografiche in bambini in età
scolare attraverso la misurazione dell’ERPs e utilizzando la tecnica delle neutral cue words (Bauer,
Stevens, Jackson, Souci, 2012). In questo studio, un gruppo di bambini è stato istruito a pensare a eventi
passati negativi e un altro gruppo di bambini a eventi passati positivi. La procedura prevedeva la
registrazione delle ERPs per misurare la modificazione dei siti coinvolti nel processo di attivazione delle
emozioni per l’evento passato. I bambini dai 7 ai 10 anni hanno generato memorie appropriate rispetto
alla valenza emotiva richiesta nelle istruzioni. Le risposte neutrali differivano in funzione della valenza
emotiva degli eventi associati alle cue words e in funzione del genere. Si sono verificati differenti
modificazioni dell’ERPs relative alle emozioni positive, negative e neutrali, e nessuna differenza tra le
risposte a stimoli negativi e neutrali. Rispetto all’attivazione dei siti della regione frontale, le femmine
hanno evidenziato un processo più veloce per le emozioni positive, mentre i maschi un processo più
veloce per le emozioni negative.
L’obiettivo di questo paragrafo è stato quello di rivedere cosa si conosce dello sviluppo della
capacità di memoria autobiografica, attraverso la letteratura e gli studi di ricerca empirica. Come per gli
adulti, anche i bambini si affidano alla memoria autobiografica e alle sue componenti distintive per
recuperare e raccontare episodi recenti o passati accaduti nella propria vita. In generale, gli studi
suggeriscono che la capacità di memoria autobiografica per gli eventi passati personali si sviluppa
progressivamente. Questo tipo di memoria emerge nel bambino dalla seconda metà del primo anno di vita
fino al terzo anno di vita (Pathman, Larkina, Burch e Bauer, 2013) per poi continuare negli anni della
42
prima infanzia all’adolescenza, e coinvolge la maturazione e l’attivazione di diverse regioni e substrati
neurali.
Tuttavia, sono necessarie ulteriori ricerche per capire lo sviluppo della memoria autobiografica e il
ruolo delle sue componenti nel recupero degli eventi personali passati.
43
2.1.1 Il fenomeno dell’amnesia infantile.
L’amnesia infantile (infantile amnesia, childhood amnesia) è descritta come l’assenza o la scarsità
di memoria su molti degli eventi accaduti nel periodo precoce della vita di un individuo (Hayne, 2004;
Nelson e Fivush, 2004; Peterson, 2002). Questo fenomeno è stato investigato per più di un secolo (Henru
e Henri, 1898) e negli ultimi anni, un largo numero di ricerche condotte sugli adulti, concorda che la
capacità di richiamo per gli eventi di vita nell’età prima dei 3 e 4 anni risulta molto ridotta (Bruce, Dolan,
e Phillips-Grant, 2000; Conway e Holmes, 2004; MacDonald, Uesilian e Hayne, 2000; Mullen, 1994;
Rubin, 2000). Tuttavia, queste evidenze non sono assolute. Innanzitutto, più studi hanno trovato
differenze individuali in persone capaci di rievocare memorie di eventi molto precoci rispetto ad altre.
Inoltre, sembrano esserci differenze nella metodologia utilizzata nei diversi studi (Jack e Hayne, 2007;
Peterson, Noel, Kippenhuck, Harmundal e Vincent, 2009). In ultimo, la cultura delle persone influenza
l’età delle memorie precoci, com’è stato discusso in alcuni studi condotti sulle differenze socio-culturali
delle popolazioni (MacDonald, Uesilian e Hayne, 2000; Mullen, 1994; Wang, 2001; Wang, Conway e
Hou, 2004; Wang, 2003). Nel complesso, queste ultime ricerche sostengono che l'età media del primo
ricordo negli adulti è stata identificata intorno a 3 anni e mezzo, anche se altri studi (Bruce, Dolan e
Phillips-Grant, 2000; Multhaup, Johnson e Tetirick (2005) sostengono che il confine dell’amnesia
infantile è più vicino a 4 anni e mezzo e 5 anni. Tuttavia, in diverse ricerche è stato dimostrato come
bambini di due e tre anni possiedono un sistema di memoria ben funzionante e la capacità di raccontare
eventi passati, compresi quelli che sono accaduti un anno prima (Bahrick, Parker, Fivush e Levitt, 1998;
Cleveland e Reese, 2008; Fivush e Schwarzmueller, 1998; Harley e Reese, 1999; Peterson, 1999;
Peterson e McCabe, 2004; Peterson e Rideout, 1998; Van Abbema e Bauer, 2005). Per esempio, Peterson
e colleghi (Peterson e Parsons, 2005; Peterson e Whalen, 2001) hanno trovato che bambini di 7 e 8 anni
erano in grado di rievocare in modo dettagliato e accurato episodi negativi che avevano vissuto a 5 anni e
ancora prima a 2 e 3 anni. Sempre Fivush e colleghi (2002) hanno trovato che bambini di 6 anni erano in
grado di ricordare eventi di disastri naturali che avevano vissuto a 3 e 4 anni (Fivush, Sales, Goldberg,
Bahrick e Parker, 2004; Sales, Fivush, Parker e Bahrick, 2005; Bauer, 2006, 2007; Peterson, 2002).
Inoltre, bambini piccoli di età hanno dimostrato di essere in grado di verbalizzare memorie di eventi che
sono accaduti all’età di 2 o 3 anni, ma gli adulti sembrano non avere memoria di eventi accaduti in quegli
anni a causa dell’amnesia infantile. Per comprendere cosa è successo a queste memorie, così come nello
sviluppo della comprensione del fenomeno dell’amnesia infantile, Peterson e colleghi (2005) hanno
sostenuto che è necessario esplorare due temi principali: per primo, siccome la maggior parte delle
ricerche sull’amnesia infantile hanno esplorato il fenomeno negli adulti, è necessario studiarlo nei
44
bambini; secondo, sono necessarie ricerche longitudinali per tracciare come avviene il mantenimento o la
scomparsa delle memorie precoci attraverso il periodo dell’infanzia.
Le ricerche passate che si sono interessate del fenomeno dell’amnesia infantile nei bambini sono
poche, a eccezione di alcuni studi. Ad esempio, Sheingold e Tenney (1982) hanno intervistato bambini di
4, 8 e 12 anni sul ricordo della nascita del loro fratello o sorella. Questi autori hanno trovato che i bambini
richiamavano molto poco se avevano 4 anni durante quell’evento, anche se è necessario considerare la
salienza del ricordo differenziato per età (Fivush, Gray e Fromhoff, 1987). Un altro studio (Fitzgerald,
1991) ha utilizzato il metodo delle picture-cue (parole associate a immagini) per intervistare bambini di 6,
9 e 10 anni sulle loro prime memorie, ma questa tecnica non ha funzionato con successo perché i bambini
più piccoli non erano capaci di eseguire quel tipo di compito.
Recentemente, la ricerca si è interessata maggiormente alla valutazione dell’amnesia infantile nei
bambini. Uno dei primi studi che si è occupato del fenomeno nei bambini all’interno di un range di età, è
stato quello di Peterson e colleghi (2005) su bambini da 6 a 19 anni, i quali sono stati intervistati sulle
loro prime memorie. Altre recenti investigazioni sono state condotte da Bauer, Burch, Sccolin e Güler
(2007) che hanno usato il metodo delle cue words per investigare la distribuzione delle memorie precoci
in bambini dai 7 ai 10 anni. Anche Peterson, Noe e colleghi (2009) hanno considerato nei loro studi non
solo le prime memorie in bambini dai 7 ai 14 anni, ma anche la caratteristica di rapidità nel recupero delle
prime memorie degli anni scolastici. Ancora, altri autori (Wang e Peterson, 2004; Peterson, Wang e Hou,
2009) hanno effettuato comparazioni incrociate con il fattore cultura in diverse popolazioni di età, sempre
registrando la fluenza della ritenzione delle memorie. Anche se ci sono differenze nella metodologia di
questi studi, in tutti è stato investigato lo stesso range di età. Inoltre, in molti di questi studi sono stati
investigati anche le memorie dei genitori per verificare l’accuratezza e la veridicità degli eventi richiamati
dai bambini. In generale, i risultati di questi studi supportano due conclusioni: l’amnesia infantile è un
fenomeno presente anche nei bambini e non solo negli adulti, e la linea di confine dell’amnesia infantile
sembra aumentare al crescere dell’età.
Le ricerche longitudinali che si sono occupate della traccia delle prime memorie attraverso
l’infanzia, sono costituite da studi che hanno investigato le memorie dei bambini per eventi vari tra loro
nel tempo. Come detto sopra, a 2 e 3 anni di età, i bambini che hanno riportato eventi altamente stressanti
come ad esempio lesioni che richiedono un trattamento di pronto soccorso all’ospedale o eventi di
disastro naturale come ad esempio uragani distruttivi, possono ricordare questi stessi eventi in modo
molto dettagliato anche diversi anni più tardi (Fivush et al., 2004; Peterson e Parsons, 2005; Peterson e
Whalen, 2001; Sales et al., 2005). Tuttavia, il richiamo di questi eventi traumatici potrebbe essere distorto
dalla linea di confine dell’amnesia infantile. Alcune investigazioni hanno argomentato che particolari tipi
45
di eventi di vita e traumatici (incluse lesioni e ospedalizzazioni) sono ritenuti eventi con contenuti
maggiormente mantenuti a lungo termine (Usher e Neisser, 1993; Wang, 2003). Tuttavia, molte precoci
memorie che provengono sia dagli adulti sia dai bambini, non sono solo tipologie di eventi traumatici
(Kihlstrom e Harackiewicz, 1982; Mullen, 1994; Peterson et al., 2005).
Che cosa accade, quindi, alle memorie di eventi quotidiani? Diverse ricerche hanno investigato il
mantenimento o la scomparsa di eventi a contenuto non stressante. Per esempio, Fivush e Schwarzmueller
(1998) hanno chiesto a bambini di 8 anni di ricordare specifici eventi che avevano precedentemente
discusso con l’esaminatore o i genitori quando avevano 40, 46, 58 o 70 mesi. Quando i bambini sono stati
intervistati per la prima volta a 40 mesi di età erano in grado di ricordare gli eventi dall’età di 34 mesi. I
bambini di 8 anni ricordavano il 78% degli eventi discussi a 40 mesi e il 95% degli eventi discussi a 70
mesi. In un altro studio (Van Abbema e Bauer, 2005), bambini di 7, 8 e 9 anni sono stati intervistati su
quattro eventi che avevano precedentemente discusso a 3 anni. Di questi, i bambini di 7 anni ricordavano
il 60% degli eventi, mentre i bambini di 8 e 9 anni ricordavano rispettivamente solo il 36% e il 34% degli
eventi. Infine, lo studio di Cleveland e Reese (2008) ha trovato che bambini di 5 anni e mezzo
ricordavano eventi discussi con il genitore o l’esaminatore all’età di 19, 25, 32 o 40 mesi. Queste ricerche
supportano la tesi che i bambini ricordano i primi eventi accaduti nella loro vita (Bauer, 2006, 2007;
Peterson, 2002; Peterson e Parsons, 2005). I bambini possono richiamare alcuni degli ultimi eventi
accaduti prima del verificarsi dell’amnesia infantile, che secondo gli studi sugli adulti, emerge a tre anni e
mezzo e quattro anni e mezzo. Così come i bambini crescono, essi sono meno propensi a ricordare i primi
eventi di vita, cioè, essi dimenticano alcuni di questi eventi precoci che si verificano man mano che
invecchiano. Tuttavia, in questi studi, tutti gli eventi chiesti di essere ricordati erano stati nominati dai
genitori e potrebbero non avere molta importanza per i bambini, così come gli eventi di disastri naturali
erano classificati come eventi di famiglia (Fivush et al., 2004; Peterson e Parsons, 2005; Peterson e
Whalen, 2001; Sales, Fivush, Parker e Bahrick,2005). Al contrario, quando ai bambini veniva chiesto di
raccontare i loro primi ricordi, molti degli eventi che richiamavano non erano materiale di discussione
familiare (Peterson et al., 2005; Peterson, Wang, et al., 2009). Risulta quindi importante estendere gli
studi longitudinali ai ricordi dei bambini che non sono stati precedentemente nominati dai genitori. Per
esempio, in un recente studio longitudinale (Peterson, Warren, Short, 2011) con un follow-up di due anni,
bambini da 4 a13 anni sono stati intervistati a quell’età e poi dopo due anni sui loro primi tre ricordi. Al
follow-up, i bambini che al tempo della prima intervista erano più piccoli di età, erano incapaci di
ricordare gli stessi eventi. Inoltre, quando venivano dati suggerimenti di parole per la rievocazione degli
eventi dopo due anni, molti bambini non erano in gradi di richiamare quegli eventi. All’opposto, i
bambini più grandi di età erano in grado di richiamare gli stessi eventi, anche con il metodo delle cue
46
words. Da quest’ultimo studio si evince che i bambini più piccoli sembrano avere accesso ai primi ricordi
di vita, ma a distanza di tempo non sono più in grado di ricordare o di fornire la stessa coerenza del
ricordo o gli stessi dettagli. Tuttavia, sembra che i bambini più grandi di età sono in grado di rievocare in
maniera più consolidata e coerente i primi ricordi di vita forniti precedentemente.
Un ulteriore studio di Peterson e colleghi (Peterson, Morris, Baker-Ward e Flynn, 2014) ha
considerato alcune dimensioni specifiche dell’evento da rievocare, per spiegare la sopravvivenza delle
prime memorie in bambini dai 4 ai 13 anni dopo un periodo di due anni dalla prima rievocazione e cioè
fattori emotivi, di contenuto, cronologici, del contesto narrativo e di coerenza. I risultati di questo studio
supportano la tesi secondo cui i ricordi si mantengono in base alle loro caratteristiche e che i ricordi della
prima infanzia possono oltrepassare il confine dell’amnesia infantile. Tuttavia, in questo studio, solo la
dimensione dell’emozione e della coerenza sono considerati predittivi della sopravvivenza delle prime
memorie, mentre l’unicità dell’evento, il contenuto, o i cue words forniti non sono associati alla
rievocazione del ricordo.
I meccanismi alla base del fenomeno dell’amnesia infantile sono stati oggetto di molte discussioni.
Le teorie della psicologia cognitiva hanno affermato che la capacità di mantenere ricordi dettagliati nel
lungo periodo è correlata allo sviluppo del linguaggio, alla teoria della mente e allo sviluppo del sé.
Tuttavia, gli studi sperimentali condotti sugli animali, hanno mostrato come questo fenomeno non possa
essere spiegato completamente in questi termini. Piuttosto, il fenomeno dell’amnesia infantile è stato
discusso anche attraverso ipotesi neurobiologiche. In un recente studio (Josselyn e Frankland, 2014) è
stata proposta un’ipotesi specifica sull’amnesia infantile che si concentra sullo sviluppo postnatale del
cervello, in cui i neonati presentano alti livelli di neuro genesi ippocampale e quindi una incapacità di
formare ricordi duraturi. E’ interessante notare che il declino dei livelli di neuorogenesi postnatale
corrisponde all’emergere della capacità di formare una memoria a lungo termine, come se gli alti livelli di
neurogenesi regolassero negativamente la capacità di regolare i ricordi duraturi, probabilmente
sostituendo connessioni sinaptiche nei preesistenti circuiti di memori dell’ippocampo. Di supporto a
queste teorie neurobiologiche, infatti, anche se la maggior parte del cervello umano è formato alla nascita,
le due regioni chiave della memoria dichiarativa, la corteccia e l’ippocampo, mostrano uno sviluppo
postnatale protratto (Eriksson, Perfilieva, Bjork-Eriksson, Alborn, Nordborg, Peterson e Gage, 1998;
Knoth, Singec, Ditter, Pantazis, Capetian, Meyer, Horvat, Volk e Kempermann, 2010; Sierra, Encinas e
Maletic-Savatic, 2011). Altre teorie sull’immaturità del cervello suggeriscono che lo sviluppo prolungato
dell’ippocampo può spiegare l’amnesia infantile (Alvarado e Bachevalier, 2000; Richmond e Nelson,
2007).
47
All’opposto, altri studi si sono concentrati sul modello gerarchico dello sviluppo neurobiologico e
neuroanatomico cerebrale per spiegare la formazione e il progressivo aumento funzionale della memoria
autobiografica, sostenendo che la maturazione differenziale dei circuiti ippocampali influisce
sull’emergere dei processi di memoria (Lavanex e Lavanex, 2013). La formazione dell’ippocampo è
essenziale per la costruzione della memoria autobiografica episodica degli eventi che accadono in un
contesto spaziotemporale preciso (Squire, 1992; Tulving, 1972, 2002). Sembra che il fenomeno
dell’amnesia infantile si verifichi nell’età prima dei due anni, perché i bambini non sono capaci di
formare o di immagazzinare memorie episodiche da richiamare più tardi nel tempo (Newcombe, Lloyd e
Ratliff, 2007). Da questi studi, quindi, sembra essere probabile una relazione causale tra la maturazione
strutturale e funzionale dell’ippocampo e l’amnesia infantile. La ricerca futura dovrebbe dare priorità allo
studio sui rapporti tra la maturazione di specifici circuiti ippocampali e lo sviluppo delle capacità di
memoria nei bambini.
In accoro con le teorie socioculturali sull’amnesia infantile, i bambini acquisiscono la capacità di
memoria autobiografica attraverso le interazioni con le figure significative (Fivush, Haden e Adam, 1995;
Nelson, 1993; Pillemer e White, 1989; Tessler e Nelson, 1994). Le prime interazioni narrative,
specialmente tra genitore e figlio riguardo le esperienze di vita, favoriscono nei bambini l’apprendimento
e il mantenimento di appropriate forme di reminiscenza personale ( per esempio, cosa ricordare, come
ricordare e perché ricordare), la capacità di ricollocare le esperienze passare attraverso rappresentazioni
linguistiche, e dare rilievo alla funzione sociale della memoria autobiografica. Alcuni studi socioculturali
hanno dimostrato che bambini di 3 e 4 anni che partecipavano a conversazioni sui primi ricordi con gli
adulti, erano in grado di contribuire alla narrazione delle esperienze passate (Fivish e Hamond, 1990). Le
teorie socioculturali sostengono che il fenomeno dell’amnesia infantile sia strettamente correlato allo
sviluppo dell’abilità narrativa (Fivush e Hamond, 1990) o del sistema di memoria verbale (Nelson, 1998;
Pillemer e White, 1989). Secondo queste teorie, prima che il bambino acquisisca l’abilità narrativa o il
sistema di memoria, i ricordi appartenenti ai primi episodi di vita rimangono perduti o inaccessibili al
richiamo verbale. In specifico, i ricercatori hanno individuato differenti stili di conversazione tra genitori
e bambini, i cui effetti si notano sulla capacità di memoria autobiografica dei bambini (Leichtman,
Palmer, Wang, Kureishi e Han, 2000; Peterson e Mccabe, 1994; Reese, Haden e Fivush, 1993; Tesseler e
Nelson, 1994). Questi studi hanno trovato che genitori che tendevano a parlare eccessivamente dei ricordi
con i propri bambini, offrivano informazioni ricche e colorite di dettagli sugli episodi di vita e tendevano
a invitare i bambini alla co-costruzione delle storie circa le differenti esperienze. All’opposto, genitori che
tendevano ad avere conversazioni brevi e dirette con i loro bambini sugli episodi di vita, proponevano
pochi dettagli sugli eventi raccontati e spesso tendevano a ottenere risposte corrette nel bambino come se
48
fosse una prestazione di memoria. I bambini dei genitori che proponevano ricchi racconti ricordavano
maggiori dettagli ed erano in grado di riportare l’evento passato discusso con il genitore in modo coerente
ed elaborato (Harley e Reese, 1990). Le ricerche sugli stili conversazionali tra genitori e figli, rivelano
differenze culturali tra le popolazioni. Crescendo in differenti ambienti narrativi, i bambini internalizzano
gradualmente differenti valori e stili genitoriali, proprio attraverso le discussioni e i racconti sulle
esperienze personali di vita, influenzando l’accessibilità e la capacità a lungo termine della memoria
autobiografica e il fenomeno dell’amnesia infantile.
Un altro importante aspetto da considerare nel fenomeno dell’amnesia infantile è la qualità del
tipo di relazione genitori-bambini. La letteratura ha mostrato il ruolo importante che la relazione genitorebambino ha sull’acquisizione e sullo sviluppo dell’abilità di richiamo degli episodi personali del passato.
Esistono molte ricerche che mostrano come l’ambiente linguistico in cui genitori e bambini sono inseriti,
influenza la memoria del bambino sui primi ricordi di vita (Fivush et al., 2006). Per esempio, bambini di
età prescolare e di scuola primaria possiedono una buona capacità di rievocare gli eventi passati se i
genitori propongono routine di discussione sulle esperienze di vita, specialmente se sono elaborate (Reese
e Newcombe, 2007). La capacità di recall dei bambini è salda tanto quanto i genitori hanno allenato i
propri bambini nella discussione delle esperienze personali attraverso uno stile elaborato (Boland, Haden
e Ornstein, 2003; Peterson, Jesso e McCabe, 1999; Peterson e McCabe, 2004). Inoltre, ci sono altre
tipologie qualitative della relazione genitore-bambino che sono correlate alla memoria autobiografica del
bambino. Madri che forniscono supporto all’autonomia del bambino, hanno bambini maggiormente
interessati ai ricordi personali (Cleveland e Reese, 2005; Leyva, Reese, Grolnick e Price, 2008), e questo
rafforza la capacità di memoria degli eventi. Un’altra importante qualità di relazione è l’attaccamento
sicuro, nel quale madri e bambini si impegnano nella discussione di ricordi ricchi e dettagliati, in
particolare se hanno contenuti emotivi significativi (Etzion-Carasso e Oppenheim, 2000; Laible e
Thompson, 2000; Reese e Farrant, 2003), e dimostrano quindi una migliore capacità di memoria
autobiografica (Alexander, Quas, e Goodman, 2002; Fivush e Vasudeva, 2002; McCabe, Peterson e
Connors, 2006; Newcombe e Reese, 2004).
È importante sottolineare che la quasi totalità della letteratura sulle influenze dei genitori nella
memoria dei bambini si concentra sulla memoria per eventi relativamente recenti, accaduti mesi o qualche
anno prima, piuttosto che sui primi ricordi, lasciando ancora aperta la discussione sul confine
dell’amnesia infantile. Un’eccezione è lo studio di Jack, MacDonald, Reese e Hayne (2009), che ha
valutato lo stile narrativo di madri, i cui bambini di 12 e 13 anni erano in grado di rievocare episodi
autobiografici discussi con le madri all’età di 2 e 4 anni.
49
Diverse ricerche si sono occupate anche dell’interazione tra il genere del genitore e il genere del
bambino nello studio della memoria autobiografica (Lytton e Romney, 1991). Rispetto all’uso del
linguaggio, la discussione di ricordi è particolarmente forte tre genitore e bambino dello stesso sesso
quando i bambini sono nell’età prescolastica (Reese, Haden e Fivush, 1996). Inoltre, madri e figlie dagli 8
ai 13 anni hanno un'alta corrispondenza di stile narrativo nel ricordo di episodi di vita passati (Peterson e
Roberts, 2003).
Infine, uno studio (Peterson e Nguyen, 2010) ha esaminato se la qualità percepita della relazione
genitori-figli è associata al numero dei primi ricordi che possono essere recuperati e all’età della primo
ricordo. Sono state trovate associazioni significativa, ma dipendenti dal genere del genitore. Le relazioni
madri-figli erano più affettivamente intense, caratterizzate da maggiore sostegno sociale e più interscambi
negativi, e associate al ricordo dei primi eventi di vita, anche se la figura del padre era associata al
richiamo del primo ricordo. E’ stato valutato anche il tono affettivo dei ricordi recuperati, ed è stata
trovata una maggiore percentuale di ricordi affettivamente positivi associati a un elevato coinvolgimento
dei genitori nella vita dei bambini. I risultati di questi studi suggeriscono che l’abilità di richiamo dei
primi eventi di vita è correlata alla qualità della relazione genitori-figli.
50
2.2 Abuso e maltrattamento in età evolutiva.
In questo paragrafo sarà affrontato il tema delle esperienze traumatiche in età evolutiva, con
particolare riferimento alle esperienze di abuso e maltrattamento sui minori, alle conseguenze di tali
esperienze e dello stress sui processi di memoria, sui substrati neurali, sulla regolazione emotiva e
affettiva. In specifico, l’interazione tra le esperienze di abuso e maltrattamento in età evolutiva e lo
sviluppo e il funzionamento della memoria autobiografica sarà oggetto della ricerca sperimentale
elaborata in questa tesi.
Il tema dell’abuso e del maltrattamento sul minore sarà letto all’interno di un modello complesso
di trasmissione intergenerazionale del trauma, in cui l’interazione tra il bambino e il proprio ambiente di
attaccamento influisce sulla vulnerabilità epigenetica e biologica, psicologica e sociale. Infine, saranno
brevemente descritte le tipologie e le caratteristiche dell’abuso e del maltrattamento nel minore, quali gli
indicatori fisici, psicologici, sociali, e i fattori di rischio e di protezione.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che “ogni bambino ha il diritto alla salute e a
una vita priva di violenza” (WHO, 2006). Nonostante questo diritto sia sancito da numerose Convenzioni
Internazionali e Leggi nazionali, in tutto il mondo ogni anno milioni di soggetti in età evolutiva sono
vittime e testimoni di violenza fisica, sessuale, psicologica e sfruttamento. L’abuso e il maltrattamento
sono quindi considerati “un problema di salute pubblica” (WHO, 2006) perché influiscono sul benessere
fisico, psicologico e sociale delle vittime.
Il maltrattamento/abuso nei confronti dei soggetti in età evolutiva si configura come fenomeno
complesso per le caratteristiche, che sono differenziate a seconda dell’età della vittima, della tipologia e
della gravità della violenza, del contesto in cui avviene e della relazione tra la vittima e l’autore della
violenza.
Nonostante la violenza sui minori sia molto diffusa, è difficile rilevarla sia i per meccanismi
culturali di minimizzazione e negazione del fenomeno sia perché si verifica frequentemente e
prevalentemente nell’ambiente intrafamiliare (WHO, 2002), aumentando il rischio che rimanga invisibile,
e cronicizzando i danni sul piano fisico e psicologico delle vittime. Le evidenze cliniche e le ricerche
svolte in tutto il mondo hanno dimostrato il verificarsi di conseguenze a breve, medio e lungo termine
della violenza sulla salute, e l’importanza di attuare cure precoci, efficaci, integrate e specialistiche (Cheli
et al., 2012).
Per maltrattamento/abuso sui bambini e gli adolescenti s’intende “tutte le forme di cattiva salute
fisica e/o emozionale, abuso sessuale, trascuratezza o negligenza o sfruttamento commerciale o altro che
comportano un pregiudizio reale o potenziale per la salute del bambino, per la sua sopravvivenza, per il
51
suo sviluppo o per la sua dignità nell’ambito di una relazione caratterizzata da responsabilità, fiducia o
potere” (WHO, 2002).
Lo sviluppo delle scienze psicologiche ha permesso di consolidare una conoscenza scientifica
sugli effetti del maltrattamento in età evolutiva, comprese le più recenti ricerche delle neuroscienze che
ne evidenziano le dannose conseguenze a livello neurologico e le alterazioni sullo sviluppo cerebrale
(Courtois e Ford, 2009; Felitti et al., 2012). Ogni evento di natura maltrattante, specialmente se
sperimentato precocemente e ripetutamente nelle relazioni primarie di cura, cioè con le figure che
dovrebbero garantire sicurezza, affidabilità, stabilità, contenimento affettivo ed emotivo, in carenza o
assenza di fattori protettivi e di “resilienza” nel bambino, produce un trauma psichico e/o interpersonale,
che influisce negativamente sulle principali funzioni dello sviluppo (Malacrea, 2002; Van der Kolk, 2005;
Courtois e Ford, 2009), e può causare una grave deprivazione del controllo personale, una distorsione
dell’immagine di sé e del mondo circostante.
La classificazione delle varie forme di maltrattamento/abuso all’infanzia è costituita da una
costellazione di maltrattamenti multiformi (Montecchi, 2002; WHO 1999, 2006; SINPIA, 2007) che si
manifestano come: maltrattamento fisico, maltrattamento psicologico, violenza assistita, abuso sessuale,
abuso on line, patologia delle cure (incuria/trascuratezza grave, discuria, ipercura), bullismo e cyber
bullismo. Per motivi di congruenza all’oggetto specifico della ricerca sperimentale di questa tesi, saranno
descritte maggiormente le forme di maltrattamento fisico e psicologico, abuso sessuale e violenza assistita
perpetuate in contesti intra ed extra familiare.
Per maltrattamento fisico s’intende il ricorso sistematico alla violenza fisica come aggressioni,
punizioni corporali o gravi attentati all’integrità fisica, alla vita del bambino/adolescente e alla sua
dignità, come ad esempio colpire, percuotere, prendere a calci, scuotere (Shaken baby), mordere,
strangolare, scottare, bruciare, avvelenare, soffocare (WHO, 2006). Le lesioni possono essere a carico di
diversi organi e apparati configurando quadri clinici diversi.
Per maltrattamento psicologico s’intendono i comportamenti e le frasi che si configurano come
pressioni psicologiche, ricatti affettivi, minacce, intimidazioni, discriminazioni, indifferenza, rifiuto volti
a provocare umiliazione, denigrazione e svalutazione in modo continuato e duraturo nel tempo. E’ una
forma molto insidiosa di violenza perché può essere difficile da riconoscere e può essere associata ad altre
forme di maltrattamento. Rientra in tale categoria anche il coinvolgimento del figlio minorenne nelle
separazioni coniugali altamente conflittuali, che comportano il suo attivo coinvolgimento in strategie
volte a denigrare, svalutare, alienare, rifiutare un genitore (Montecchi, 2005). Il maltrattamento
psicologico comporta conseguenze alla struttura di personalità in formazione, al senso di autostima del
52
bambino e dell’adolescente, alle sue competenze sociali e, più in generale, alla sua rappresentazione del
mondo.
Per violenza assistita s’intende il fare esperienza, da parte del bambino, di qualsiasi forma di
maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica su
figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative. S’include l’assistere alle violenze
messe in atto da minori su minori o su altri membri della famiglia, gli abbandoni e i maltrattamenti ai
danni di animali domestici. Il bambino può fare esperienza di tali atti direttamente (quando avvengono nel
suo campo percettivo) oppure indirettamente quando ne è a conoscenza o ne percepisce gli effetti
(CISMAI, 2003). La violenza assistita rappresenta un fattore di rischio altamente predittivo per le altre
forme di maltrattamento.
Per abuso sessuale s’intende “ogni situazione in cui il bambino sia tratto a espressioni sessuali alle
quali, in ragione della sua giovane età, non può liberamente acconsentire con totale consapevolezza, o che
violino radicati tabù sociali” (Kempe e Kempe, 1980). Questa definizione per la sua ampiezza e
genericità, è particolarmente efficace perché considera abuso sessuale qualsiasi approccio o azione di
natura sessuale che coinvolga un bambino o un adolescente e/o che causi in lui disagio o sofferenza
psicologica, incluse le più sfumate manifestazioni seduttive ed erotizzate che il bambino non può
comprendere e decodificare.
A seconda del rapporto esistente tra il bambino e l’abusante, l’abuso sessuale può suddividersi in:
intrafamiliare, quando attuato da membri della famiglia nucleare o allargata; perifamiliare, quando
attuato da persone conosciute dal minore, comprese quelle a cui è affidato per ragioni di cura/educazione;
extrafamiliare, se l’abusante è una figura estranea all’ambiente familiare e al minore. La diagnosi di
abuso sessuale è complessa e multidisciplinare perché comporta segni fisici, psicologici, sociali.
Una tipologia di abuso sessuale è rappresentata dallo sfruttamento sessuale, ovvero ogni
comportamento attuato da parte di singoli o di gruppi finalizzata all’esercizio di pedopornografia (ogni
rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore in attività sessuali specifiche, reali o simulate, o
qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore per scopi principalmente sessuali),
prostituzione minorile (il minore viene indotto a compiere atti sessuali in cambio di denaro o altra utilità),
turismo sessuale (colui che al fine di praticare sesso con i minori, organizza periodi di vacanza o di lavoro
in paesi che, tollerano e propagandano la prostituzione minorile).
Per abuso “on line” s’intende ogni forma di abuso sessuale su minori perpetrata attraverso
internet e la documentazione di immagini, video, registrazioni di attività sessuali esplicite, reali o
simulate, che può avvenire in diverse situazioni, come ad esempio l’adescamento su internet, induzione a
guardare pornografia o alla produzione di foto e/o video erotiche ecc.
53
Per patologia delle cure s’intendono quelle condizioni in cui i genitori o le persone legalmente
responsabili del bambino/adolescente non provvedono adeguatamente ai suoi bisogni fisici, psichici e
affettivi, in rapporto alla fase evolutiva. Essa comprende: l’incuria/trascuratezza grave, ovvero qualsiasi
atto omissivo prodotto da una grave incapacità del genitore nel provvedere ai bisogni del figlio, quale
forma di abbandono, rifiuto, grave compromissione dello sviluppo fisico, cognitivo, emotivo o altre forme
di abuso e violenza fino al decesso; discuria, caratterizzata dal fornire cure in modo distorto, non
appropriato al momento educativo; ipercura, quando le cure fisiche sono caratterizzate da una persistente
ed eccessiva medicalizzazione da parte di un genitore (per esempio, Sindrome di Münchausen per
procura).
Infine, con il termine “bullismo” si definiscono quei comportamenti offensivi e/o aggressivi che
un singolo individuo o più persone mettono in atto, ripetutamente nel corso del tempo, ai danni di una o
più persone con lo scopo di esercitare un potere o un dominio sulla vittima (Fonzi, 1997). Le forme di
bullismo si differenziano per il tipo e l’intensità del comportamento aggressivo in fisiche (botte, spinte,
prepotenze fisiche), verbali (ingiurie, ricatti, intimidazioni, vessazioni, insulti, chiamare con nomi
offensivi) e indirette (manipolazione sociale, esclusione sociale ecc).
L’accertamento di un abuso richiede competenza e professionalità da parte degli operatori deputati
a questo, ed è necessaria una valutazione multidimensionale e multidisciplinare che prenda in
considerazione aspetti fisici, psicologici, individuali e relazionali. Non sempre la sintomatologia e i segni
di un abuso sono chiari ed evidenti e spesso non è presente alcun segno fisico di violenza, soprattutto
quando la valutazione del bambino/adolescente avviene a distanza di tempo dall’abuso. Devono quindi
essere utilizzati una serie di criteri o indicatori finalizzati ad accertare l’effettivo verificarsi di un
abuso/maltrattamento, i quali variano in relazione alla fase di sviluppo del minore, e si distinguono in:
fisici, cognitivi comportamentali ed emotivi.
Gli indicatori fisici di abuso sessuale sono: la deflorazione, la rottura del frenulo, le ecchimosi e i
lividi in zona perineale, i sintomi di malattie veneree e altri che devono considerarsi più equivoci per le
molteplici cause che possono averli generati, come le incisure imenali, le neovascolarizzazioni a livello
del derma nelle grandi labbra (nelle bambine) o le irritazioni del glande o del prepuzio (nei bambini) oltre
che arrossamenti e infiammazioni aspecifiche localizzate. Gli indicatori cognitivi sono quelle conoscenze
sessuali che risultano inadeguate per l’età del minore in esame, le modalità di rivelazione e i dettagli del
riferito abuso da parte del bambino. Nel racconto del minore - vittima può essere presente anche una certa
confusione nel ricordo dei fatti e nella consequenzialità degli eventi, problemi nelle normali attività
quotidiane, come, ad esempio, quelle scolastiche e nelle attività socio-relazionali. Per scoprire gli
indicatori di tipo cognitivo le aree da investigare sono: il livello di coerenza delle dichiarazioni,
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l’elaborazione fantastica, il giudizio morale, la chiarezza semantica. Si ritiene di particolare importanza,
soprattutto per la valutazione della testimonianza del bambino, la conoscenza dello sviluppo cognitivo.
Gli indicatori comportamentali ed emotivi comprendono sentimenti di paura, depressione, disturbi
del sonno e dell'alimentazione, difficoltà di linguaggio e dell’attenzione, reattività fisiologica a eventi che
simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico, crisi acute di ansia, sentimenti di
paura, un comportamento ipervigilante, la mancanza d'interesse verso le attività ludiche con i compagni,
calo del rendimento scolastico, sfiducia verso gli adulti, l'alterazione significativa della personalità con
possibili sintomi psicologici, atteggiamenti aggressivi, ecc. A causa dei sensi di colpa e delle minacce che
ricevono, i bambini abusati possono mettere in atto comportamenti autodistruttivi fino al suicidio.
Tuttavia, non tutte le vittime di abuso sessuale mostrano effetti traumatici e negativi: alcune ricerche
sostengono che alcuni fattori protettivi siano in grado di ricostruire la resilienza, cioè la capacità della
vittima di resistere e di fronteggiare adeguatamente gli effetti negativi del trauma di abuso, nonché di
ritrovare il livello di adattamento anteriore al trauma.
Le conseguenze del maltrattamento/abuso possono incidere negativamente sui processi evolutivi
della psiche con gravi conseguenze per l’equilibrio della personalità. Le conseguenze dell’evento
traumatico di un abuso sono diverse, poiché dipendono da fattori variabili, quali l’età di vittima e
abusante/aggressore, la relazione esistente fra i soggetti coinvolti, la durata dell’abuso, il livello di
sviluppo fisico e cognitivo del minore e la risposta della società alla rivelazione dell’abuso.
L’abuso sessuale, come ogni trauma, comporta effetti negativi in elementi fondamentali dell’evoluzione
mentale del bambino: sul senso di prevedibilità e di controllo del mondo, dell’esperienza e delle figure
adulte; sul senso d'invulnerabilità/inviolabilità del sé che costituisce la base alla fiducia e sicurezza nel
proprio futuro; sulla possibilità di dare un senso positivo alla propria esperienza e alla propria esistenza;
sull’autostima come consapevolezza di un valore costitutivo appartenente al sé (Caffo, Camerini e Florit,
2002; De Zulueta, 1999). Il trauma, quindi, rappresenta per il bambino una perdita radicale della capacità
di efficacia sul mondo circostante, della consapevolezza e della capacità di mantenere il contatto con la
realtà. Inoltre, l’abuso sessuale è un trauma, e come tale può avere come esito lo sviluppo di un Disturbo
Post-Traumatico da Stress (PTSD).
55
2.2.1 Un modello complesso di trasmissione del trauma: epigenetica e attaccamento.
Sta diventando chiaro che il destino di un gene non è definito unicamente dalla sequenza del
DNA, ma anche dal modo in cui il gene è marcato e programmato dalla modificazione della cromatina,
dalla metilazione del DNA e dalla codifica del RNA. La programmazione epigenetica dell’espressione del
gene è stabile, ma a lungo termine è ancora reversibile e reattiva secondo le influenze dell’ambiente
attorno all’organismo (Razin e Riggs, 1980). Il modello classico sostiene che una variazione genetica
avverrebbe solo durante la gestazione ma non più tardi nella vita. Al contrario, un’ipotesi alternativa che
sta emergendo recentemente suggerisce che la metilazione del DNA potrebbe modificarsi più tardi nella
vita e quindi fornire una piattaforma attraverso la quale l’ambiente potrebbe modellare il genoma e
influenzare il fenotipo lungo l’arco della vita (Anway, Cupp, Uzumcu, Skinner, 2005). Dati recenti
implicano che esposizioni ambientali potrebbero alterare l’epigenoma dopo la nascita, supportando
l’ipotesi che la metilazione del DNA e la modificazione cromatica rimangono attive e dinamiche per tutta
la vita (Meaney e Szyf, 2005). Inoltre, i dati suggeriscono che il pattern di metilazione del DNA
nell’ippocampo è reattivo alle esposizioni ambientali, anche nell’adulto (Weaver, Cervoni, Champagne,
D’Alessio, Sharma, Seckl, Dymov, Szyf e Meaney, 2004; Miller e Sweatt, 2007). E’ importante chiarire
che la risposta dell’epigenoma alle avversità ambientali durante la vita non è solo il risultato di qualcosa
di negativo che conduce alla patologia, ma è un meccanismo biologico che serve all’organismo per
adattarsi alle alterazioni ambientali che lo minacciano. E’ inoltre fondamentale definire i cambiamenti
epigenetici associati alle esposizioni ambientali e determinare se la tipologia e la gravità di tali
esposizioni, nonché l’origine chimica (ad esempio, farmaci, tossine) o l’origine sociale (ad esempio,
ambiente familiare, attaccamento) influenzano l’epigenoma. La prospettiva che sostiene che l’ambiente
sociale è in grado di modellare il genoma dell’individuo attraverso la modificazione dell’epigenoma
potrebbe fornire una spiegazione dell’interazione complessa tra organismo e ambiente. Dati recenti
suggeriscono che l’esposizione sociale nei primi anni di vita potrebbe alterare la programmazione
epigenetica, rimanendo stabile per tutta la vita (Weaver et al., 2004).
Una domanda cruciale è: qual è il collegamento tra l’esposizione sociale e comportamentale e la
modificazione della cromatina e del DNA? Dati recenti effettuati sui ratti hanno evidenziato rapidi eventi
di metilazione-demetilazione durante il processo di potenziamento a lungo termine e durante il processo
di condizionamento della paura, suggerendo un possibile legame tra le condizioni psicosociali attivanti
l’attività cerebrale e l’epigenoma (Levenson, Lubin, Miller, Huang, Desai, Malone, Sweatt, 2006; Miller
e Sweatt, 2007).
Un’altra prospettiva interessante da considerare è che gli stati epigenetici alterati non sono solo un
effetto delle esposizioni comportamentali, ma che a loro volta potrebbero influenzare il comportamento.
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Ciò suggerisce l’esistenza di un ciclo attraverso il quale l’esposizione sociale influenza gli stati
epigenetici, i quali a loro volta influenzano il comportamento sociale tanto quanto le patologie
comportamentali. Diverse esposizioni chimiche e ambientali potrebbero influenzare il comportamento
della patologia attraverso la programmazione epigenetica. Una questione importante e ancora irrisolta è se
esiste un periodo critico nel quale tali esposizioni durante l’embriogenesi e dopo la nascita, oppure più
tardi nell’età adulta potrebbero avere sempre un impatto epigenetico.
In sintesi, il modello epigenetico fornisce un meccanismo per spiegare variazioni interindividuali
nel comportamento umano e nelle patologie comportamentali e fornisce un possibile collegamento tra
l’esposizione ambientale sociale e chimica e gli esiti fisiologici e comportamentali.
Le ricerche evidenziano che il processo epigenetico può mediare l’effetto delle prime esperienze
di vita sul cervello e sulla risposta neuroendocrina allo stress. Gli studi evidenziano che l’ambiente
psicosociale per eccellenza è determinato dal caregiver e dal relativo comportamento di cure primario,
che influenza l’epigenoma e la sua risposta allo stesso ambiente psicosociale.
Il periodo dopo la nascita è particolarmente sensibile e vulnerabile ai cambiamenti e alle influenze
ambientali. Durante i primi periodi di sviluppo del neonato e in seguito del bambino, eventi
particolarmente avversi e traumatici come lo stress o il maltrattamento possono produrre alterazioni
epigenetiche e conseguentemente alterazioni delle funzioni fisiologiche e comportamentali che
comportano ripercussioni nell’età adulta (Fenoglio, Brunson, Baram, 2006; Fumagalli, Molteni, Racagni,
Riva, 2007). Le evidenze derivate da questo modello sulle cure materne documentano che gli stimoli
ambientali avversi alterano il gene GR dei recettori glucocorticoidi espressi nell’ippocampo,
producendone alti livelli nel cervello (Reul e De Kloet, 1985; Conrad, 2008; Sapolsky, 2000). Il
meccanismo del gene GR ippocampale ha la funzione di regolare l’asse ipotalamo – ipofisi – surrene
(HPA), responsabile della risposta allo stress (Jacobson e Sapolsky, 1991). Per esempio, i bambini di
madre con depressione post-poartum esibiscono un incremento della risposta di cortisolo allo stress e
sono a rischio per disturbi comportamentali in futuro (Field, Diego, Dieter, Hernandez-Reif, Schanberg,
Kuhn, Yando, Bendell, 2004).
In aggiunta, gli studi evidenziano un’alterazione dell’espressione del fattore neurotrofico (BDNF),
cioè quel fattore di crescita che media la plasticità neurale attraverso lo sviluppo di nuove connessioni
sinaptiche tra i neuroni, a causa di precoci esperienze di vita traumatiche (Greenberg, Xu, Lu, Hempstead,
2009; Cohen-Cory, Kidane, Shirkey, Marshak, 2010; Cowansage, Ledoux, Monfils, 2010). Ad esempio,
l’esposizione a esperienze di abuso materno in età infantile produce una riduzione del BDNF nella
corteccia prefrontale e nell’ippocampo durante l’età adulta (Roth e Sweatt, 2010).
57
I dati recenti, quindi, dimostrano che lo stress nell’infanzia conduce ad alterazioni del livello di cortisolo
nei bambini e a una vulnerabilità verso la disregolazione degli affetti in età adolescenziale e adulta.
Naturalmente, le regioni neurali che mediano la generazione e la regolazione della risposta emozionale
sono implicate in questa vulnerabilità. Gli effetti dello stress, soprattutto precoce nella vita, sul circuito
neurale cortico-limbico sono mediati dallo stress correlato alle alterazioni nella funzione dell’asse HPA.
Diverse ricerche negli umani e animali hanno dimostrato ampiamente che la disregolazione dell’asse
HPA provoca problemi mentali e fisici (McEwen e Gianaros, 2010). Ad esempio, uno studio ha mostrato
che precoci esperienze di stress aumentano negli adolescenti sintomi di ansia e depressione e
incrementano il volume dell’amigdala e il livello di cortisolo correlati alle esperienze traumatiche o
stressanti (Burghy, Stodola, Ruttle, Molloy, Armstrong, Oler, Fox, Hayes, Kalin, Essex, Davidson e Birn,
2012). In particolare, questo studio ha integrato con dati derivati dalla valutazione della correlazione tra
precoce stress nell’infanzia, rappresentato dalla misura dello stress materno, cioè le cure primarie del
caregiver e il livello di cortisolo nei bambini. I risultati sottolineano che una storia di stress materno
durante l’infanzia predice alterazioni nel livello di cortisolo durante l’adolescenza.
Molte delle esperienze avverse o traumatiche nell’infanzia sono associate ai disturbi affettivi
nell’adulto. Queste includono scarsa o inadeguata genitorialità, caratterizzata da scarse o assenti cure
oppure da alti livelli di controllo da parte del caregiver (Mackinnon, Henderson e Andrews, 1993; Parker
et al., 1997) e separazione o perdita della figura genitoriale (Forehand, Thomas, Wierson, Brody, et al.,
1990; Harris, Brown e Bifulco, 1990), e conflitti genitoriali (Cummings e Davies, 2002; Forehand,
Wierson, Thomas, Armistead, et al., 1991; Jenkins, 2000). Inoltre, queste includono le esperienze estreme
di neglet, abuso fisico o sessuale (Bifulco, Brown, Moran, Ball e Campbell, 1998). L’associazione non
riguarda solo i disturbi mentali in età adulta, ma anche più tardi in adolescenza (Andrews, Valentine e
Valentine, 1995). Un ruolo centrale nelle esperienze avversive dell’infanzia e nello sviluppo di una
psicopatologia in adolescenza o nell’età adulta è assunto dal caregiver, in termini di vulnerabilità
psicosociale materna, di presenza di disturbi depressivi e di esperienze di neglet o abuso vissute in età
precoci. Diventa quindi importante esaminare il collegamento tra la vulnerabilità materna e quella
infantile come effetto di trasmissione del rischio nel bambino di disturbi psicologici e comportamentali, e
per improntare interventi family-based nella riduzione del rischio generazionale del disturbo mentale.
Il comportamento del caregiver è stato definito ampiamente nella letteratura e nella ricerca. Esso
include non solo i comportamenti di cura e di funzione genitoriale verso il bambino, ma anche altre
caratteristiche genitoriali come il funzionamento psicosociale e il più ampio contesto genitoriale quali le
caratteristiche familiari, le caratteristiche del bambino e l’interazione genitore – bambino (Rutter, 1989).
Questi fattori possono essere classificati in termini di tre differenti prospettive rispetto alle prime
58
esperienze avversive nel bambino (Belsky e Vondra, 1980). La prospettiva psichiatrica/psicologica si
focalizza sul genitore abusante verso il bambino. La prospettiva sociologica enfatizza le condizioni sociali
che influenzano il funzionamento familiare e alterano la genitorialità, come l’isolamento sociale e i
conflitti di coppia tra i genitori. Infine, la prospettiva “effect of child-on-caregiver” si focalizza sulle
caratteristiche del bambino, come il temperamento, che hanno un effetto sull’interazione sociale con il
caregiver e sul suo funzionamento di risposta genitoriale. Naturalmente, un modello complesso potrebbe
considerare l’integrazione tra le diverse prospettive. Uno studio ha esaminato l’impatto di comportamenti
maladattivi del caregiver sul bambino, rilevando una vulnerabilità a disturbi affettivi in adolescenza ed età
adulta (Johnsono, Cohen, Kasen, Smailes e Brook, 2001). Sono stati rilevati oltre ai disturbi affettivi,
anche d’ansia, abuso di sostanze e disturbi comportamentali. Tuttavia, bisogna considerare le
caratteristiche e il temperamento del bambino come fattore di interazione e di rischio alla vulnerabilità
psicologica/psichiatrica.
Nell’impatto dell’abuso/maltrattamento nel bambino è quindi importante considerare le
primissime esperienze interattive col caregiver principale, a determinare il trauma iniziale e di
conseguenza a definire le modalità con cui il soggetto in seguito risponderà agli stimoli stressanti, quali
stili di coping adotterà, come affronterà gli eventi traumatici successivi. Se il caregiver non riesce a
sintonizzarsi sugli stati psicofisici del bambino, a rispondervi in modo sincronico (Tronick e Weinberg,
1997) e quindi fallisce nel regolarli, il bambino non può acquisire la funzione di autoregolazione. La
capacità, acquisita nei primi due anni di vita, di interagire positivamente con un'altra persona tollerando
una vasta gamma di emozioni, grazie allo sviluppo di una buona capacità di regolazione emotiva è
fondamentale anche per l’individuo adulto poiché gli consente di pensare a rielaborare e inserire in una
narrativa coerente le esperienze vissute, traumatiche o meno (Schore, 2009).
La teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1973) può, quindi, contribuire ad argomentare l’interazione
tra la relazione bambino-caregiver, le esperienze di abuso/maltrattamento e la vulnerabilità alla
psicopatologia. Inoltre, la teoria dell’attaccamento dà grande rilievo a come gli individui regolano le
emozioni ed elaborano le informazioni affettive. Le differenze interpersonali nella gestione delle
emozioni nel corso della vita sono strettamente collegate alle differenze nelle interazioni nella prima
infanzia tra il bambino e il caregiver. Il bambino in seguito alle molteplici interazioni con i caregiver
sviluppa dei modelli operativi interni, che guidano il comportamento e contengono aspettative e strategie
per gestire le relazioni interpersonali (Ainsworth, 1978). La qualità dei modelli operativi interni e dei
rapporti adulti sarà quindi legata alla qualità delle relazioni bambino-caregiver.
I più moderni teorici dell’attaccamento hanno individuato due dimensioni che meglio possono
descriverlo: l’ansia e l’evitamento (Schachner, Shaver e Mikulincer, 2005). L’ansia descrive quelle
59
relazioni di attaccamento in cui il bambino prova preoccupazione per la non disponibilità del caregiver.
L’evitamento descrive quelle situazioni in cui il bambino, non potendo essere sicuro della disponibilità
del caregiver, si distacca da esso e ostenta un’indipendenza forzata.
Ad esempio, nel recupero dei ricordi dell’infanzia, che riguarda la capacità di memoria autobiografica, gli
individui evitanti mostrano difficoltà nell’accedere alle memorie affettivamente cariche (Haggerty, Siefert
e Weinberger, 2010). In particolare, chi ha subito abusi sessuali durante l’infanzia ha difficoltà nel
recuperare i ricordi (Edelstein, Ghetti, Quas, Goodman, Alexander e Redlich, 2005). Al contrario, le
persone con elevati livelli di ansia possiedono molti ricordi riguardanti la relazione con il caregiver,
perché sono ipervigili rispetto alla disponibilità della figura di attaccamento. Nel narrare i ricordi, questi
individui mostrano un coinvolgimento ancora elevato nelle relazioni infantili e non riescono a distaccarsi
dall’esperienza dolorosa (Haggerty, Siefert e Weinberger, 2010). La differenza nella quantità di memorie
è probabilmente dovuta all’iperattivazione nel caso dell’ansia, e all’ipoattivazione nel caso
dell’evitamento del sistema di attaccamento al momento della codifica del ricordo. In specifico, il
bambino ansioso è costantemente preoccupato per la disponibilità del caregiver, mentre il bambino
evitante cerca di non avere mai bisogno della figura di attaccamento per non rischiare di soffrire per la
sua assenza e la mancata comprensione dei suoi bisogni. Dai primi legami di attaccamento dipende la
capacità di regolare le emozioni e conseguentemente la possibilità di recuperare dei ricordi affettivamente
carichi.
60
2.2.2 Le conseguenze delle esperienze traumatiche di abuso/maltrattamento in età
evolutiva.
L’abuso e il maltrattamento in età evolutiva sono considerate esperienze traumatiche altamente
stressanti che comportano problemi cognitivi e comportamentali, cambiamenti fisiologici, neurobiologici
e ormonali, e possono produrre alterazioni alle strutture e alle funzioni cerebrali (Teicher, Samson,
Polcari e McGreenery, 2006). Il cervello umano continua a svilupparsi durante l’età evolutiva attraverso
processi sinaptici di rimodellamento, attività di metilazione e morte cellulare (de Graaf-Peters e HaddersAlgra, 2003, 2006).
Il trauma e lo stress durante il primo periodo di vita provocano una distruzione di questi processi di
sviluppo neurale. Questo è in parte modulato attraverso tre principali sistemi di risposta allo stress
neurobiologico: il sistema serotoninergico, il sistema nervoso sinaptico (SNS) / il sistema catecolamina e
l’asse ipotalamo – ipofisi-surrene (HPA) (Watta-English, Fortson, Gibler, Hooper e DeBellis, 2006).
Questi sistemi influenzano in modo significativo le reazioni allo stress, l’arousal, la regolazione
emozionale, lo sviluppo cerebrale e lo sviluppo cognitivo, e possono produrre conseguenze negative a
lungo termine (McCrory, De Brito e Viding, 2010; Twardosz e Lutzker, 2010). Numerosi studi
neuropsicologici, di neuroimaging funzionale e di PET che si sono occupati delle implicazioni cognitive
in bambini vittime di abuso/maltrattamento, hanno rilevato effetti di queste esperienze traumatiche sulla
memoria, sul QI, sulle funzioni esecutive, sulla memoria di lavoro, sull’attenzione e sui processi emotivi
(Hart e Rubia, 2012).
Le recenti ricerche sull’argomento hanno investigato l’impatto e gli effetti delle esperienze di
abuso e maltrattamento in età evolutiva sui fattori neuroendocrini e genetici. In particolare, saranno prese
in considerazione le modificazioni sui sistemi deputati alla risposta allo stress (HPA), considerando che le
esperienze di maltrattamento possono alterare il funzionamento di questi sistemi in bambini e adulti.
L’asse ipotalamo – ipofisi – surrene (HPA) rappresenta un importante sistema implicato nella
risposta allo stress. L’esposizione allo stress innesca il rilascio dell’ormone corticotropina (CRH) e il
rilascio della vasopressina (AVP) dal nucleo paraventricolare dell’ipotalamo, che a sua volta stimola la
secrezione dell’ormone corticosurrenale-trofico (ACTH), che agisce sulla corteccia surrenale per
sintetizzare il cortisolo. Questo sistema ha il compito di assicurare l’omeostasi dell’organismo attraverso
il mantenimento del livello di cortisolo, perché livelli cronicamente elevati di cortisolo, possono
comportare effetti deleteri sulla salute (Lupien, De Leon, De Santi, Convit, Tarshish, Nair, Thakur,
Mcewen, Hauger e Meaney,1998).
Sono numerosi gli studi che hanno investigato l’attività dell’asse HPA in bambini e adolescenti
con una storia di maltrattamento. Per esempio, in uno studio che ha indagato la risposta dell’asse HPA
61
agli stimoli CRH (Kaufman, Birmaher, Perel, Dahl, Moreci, Nelson, Wells e Ryan, 1998), ha riportato
un’iper – reattività ACTH, ma solo nel campione di bambini maltrattati che erano depressi e ancora
esposti a un ambiente familiare stressante, mentre non è stata rilevata differenza nelle misure di cortisolo.
In contrasto, uno studio (Hart, Gunnar, Cicchetti,1995) su bambini in età prescolare che avevano vissuto
esperienze di maltrattamento riportavano una soppressione del livello di cortisolo in situazioni di stress
che erano associate a competenze sociali.
Diversi studi in bambini con esperienze stressanti hanno riportato elevati livelli di cortisolo (De
Bellis, Baum, Birmaher, Keshavan, Eccard, Boring, Jenkins e Ryan, 1999; Cicchetti e Rogosch, 2001;
Carrion, Weems, Ray, Glaser, Hessl e Reiss,2002), mentre altri hanno riportato bassi livelli di cortisolo
(Hart et al., 1995). Un motivo che potrebbe spiegare queste contraddizioni nei risultati, cioè l’elevazione
dei livelli di cortisolo, potrebbe essere la presenza di disturbi affettivi (Tarullo e Gunnar, 2006). Per
esempio, due studi hanno riportato un innalzamento del livello di cortisolo in bambini maltrattati con
depressione, ma nessun effetto in bambini maltrattati senza depressione (Kaufman, 1991; Hart et al.,
1996). Altri studi hanno riportato livelli elevati di cortisolo in bambini maltrattati con PTSD (Carrion et
al., 2002) e in bambini maltratti con depressione (De Bellis, Chrousos, Dorn, Burke, Helmers, Kling,
Trickett e Putnam, 1994). Tuttavia, livelli elevati di cortisolo sono stati trovati anche in bambini con
disturbi affettivi senza esperienze di maltrattamento e non è ancora chiaro se l’esperienza di
maltrattamento contribuisce come effetto aggiuntivo (Cicchetti e Rogosch, 2001). Inoltre, altri studi
effettuati su bambini con comportamenti antisociali hanno riportato ridotti livelli di cortisolo durante
l’esposizione a situazioni stressanti (van Goozen e Fairchild, 2008). È possibile che l'esposizione alle
prime esperienze stressanti di avversità in questi bambini, porti a un modello di stress di assuefazione nel
tempo, che aumenta il rischio di difficoltà di regolazione emotiva e comportamentale; allo stesso modo,
una ridotta risposta allo stress potrebbe emergere come risultato di fattori genetici, o d’interazioni
genotipo – ambiente (GxE) (van Goozen e Fairchild, 2008).
Alcuni autori hanno sostenuto che il maltrattamento infantile aumenta il rischio di sviluppare
depressione a causa di una sensibilizzazione del sistema neurobiologico implicato nell’adattamento e
nella risposta allo stress (Heim, Mletzko, Purselle, Musselman e Nemeroff, 2008). Uno studio ha riportato
che donne con una storia di maltrattamento in età infantile con e senza depressione avevano un
incremento della risposta di ACTH rispetto al gruppo di controllo (Heim et al., 2002). Una storia di abuso
infantile, quindi, è considerata un forte predittore della risposta ACTH. Recentemente, Heim e colleghi
(2008) hanno valutato i livelli di cortisolo attraverso test farmacologici sul funzionamento dell’asse HPA
in un campione di uomini con e senza una storia di maltrattamento infantile e presenza di depressione. I
risultati hanno indicato un aumento della risposta di cortisolo e un fallimento del sistema di attivazione
62
HPA nei soggetti con storie di maltrattamento infantile e depressione. Questi studi suggeriscono che la
depressione maggiore successiva al maltrattamento infantile è associata a un inadeguato sistema di
risposta allo stress dell’asse HPA. Ad esempio, i modelli di studio sugli animali sottolineano che bassi
livelli di cure materne sono associate a una ridotta concentrazione dei recettori glucocorticoidi
nell’ippocampo (Liu, Diorio, Tannenbaum, Caldji, Francis, Freedman, Sharma, Pearson, Plotsky e
Meaney, 1997), e si potrebbe ipotizzare che un simile meccanismo si verifichi, almeno in parte, in uomini
e donne con esperienze infantili di maltrattamento, come è stato osservato nella risposta allo stress del
sistema di regolazione dell’asse HPA.
Un ramo parallelo di studi di ricerca si è occupato di indagare il PTSD in un range di popolazione
con una storia di maltrattamento. I recenti risultati della letteratura (Shea, Yen, Pagano, Morey,
Mcglashan, Grilo, Sanislow, Stout, Skodol, Gunderson, Bender e Zanarini, 2004) sostengono che il PTSD
è associato a un pattern di ipocortisolismo e a livelli ridotti di cortisolo (Meewisse, Reitsma, DeVries,
Gersons e Wolff, 2007). Inoltre, Meewisse e colleghi (2007) sottolineano la relazione tra bassi libelli di
cortisolo e PTSD nel contesto di esperienze di abuso psichico e sessuale, ipotizzando l’esistenza di
differenti patterns che riflettono un adattamento dell’asse HPA a seconda di differenti forme di
maltrattamento, differenti periodi di esordio e cronicità, e differente suscettibilità genetica.
Riassumendo, i traumi precoci, incluso il maltrattamento e l’abuso psichico, sessuale ed emotivo
sono associati con un aumento del rischio di psicopatologia nell’età evolutiva e adulta, così come
problemi di salute fisica e sociale (Gilbert, Kemp, Thoburn, Sidebotham, Radford, Glaser e Macmillan,
2009). Gli studi condotti sugli umani, ma anche sugli animali evidenziano una relazione tra stress precoce
e funzionamento dell’asse HPA, e in specifico, è evidente come il maltrattamento infantile può condurre a
una risposta atipica dell’asse HPA allo stress, che può predisporre a una maggiore vulnerabilità
psichiatrica in età avanzata (van Goozen e Fairchild, 2008). Nonostante ci sia accordo su questi risultati, i
meccanismi di disregolazione dell’asse HPA di risposta allo stress e alla psicopatologia e la natura precisa
di questa interazione rimangono ancora poco chiare (Miller et al., 2007). E’ ipotizzabile, per esempio, che
la diminuita risposta di cortisolo possa emergere se un precoce stress cronico conduce a
un’iperattivazione iniziale del sistema HPA, che poi progredisce nel tempo a uno stato di iporeattività,
come risultato di una forma genetica e di un negativo adattamento a seguito di una esposizione prolungata
per ACTH nel periodo dell’infanzia (Fries, Hesse, Hellhammer e Hellhammer, 2005).
Una mole crescente di ricerca ha investigato come lo stress e in specifico le differenti
forme di maltrattamento possono influire sulle strutture e sulle funzioni neurali. Questi studi si sono
occupati di bambini che hanno subito esperienze di maltrattamento e di adulti che hanno riportato storie
di esperienze di maltrattamento nell’età infantile.
63
Numerosi studi sugli animali hanno mostrato che l’ippocampo gioca un ruolo centrale nell’apprendimento
e nei vari aspetti della memoria (Mizomuri, Smith e Puryear, 2007), e che la funzione della memoria è
danneggiata negli animali che sono stati esposti a stress cronico (McEwen, 1999).
In un primo studio su bambini maltrattati con PTSD, i risultati hanno mostrato deficit nei volumi
cerebrale, intracranico e del corpo calloso (CC) e un ampio volume del ventricolo laterale in confronto a
bambini non maltrattati (De Bellis, Keshavan, Clark, Casey, Giedd, Boring, Frustaci e Ryan, 1999).
Tuttavia, negli studi condotti sugli adulti con PTSD non è stato osservato lo stesso decremento di volume
dell’ippocampo, che invece è stato mostrato negli studi di MRI (sMRI) in bambini e adolescenti con
PTSD in seguito a maltrattamento (Carrion et al., 2001; Woon e Hedges, 2008; Jackowski, De Araújo, De
Lacerda, De Jesus Mari e Kaufman, 2009; Mehta Golembo, Nosarti, Colvert, Mota, Williams, Rutter e
Sonuga-Barke, 2009).
In contrasto, uno studio (Pederson, Maurer, Kaminski, Zander, Peters, Stokes-Crowe e Osborn 2004) ha
riportato una riduzione del volume dell’ippocampo negli adulti che avevano avuto esperienza di
maltrattamento come è stato riportato nei bambini maltrattati (Vythilingam, Heim, Newport, Miller,
Anderson, Bronen, Brummer, Staib, Vermetten, Charney, Nemeroff e Douglas Bremner 2002; Vermetten,
Schmahl, Lindner, Loewenstein e Bremner, 2006; Woon e Hedges, 2008).
Riguardo a tale discrepanza negli studi tra i bambini e gli adulti, è stata proposta un’ipotesi di
neurotossicità (neurotoxicity hypothesis) basata sui risultati degli studi effettuati su animali e umani, in
cui è stato postulato che lo stress prolungato induce una maggiore e prolungata esposizione ai
glucocorticoidi, che può condurre a una riduzione delle complesse celle ippocampali, così come può
condurre a morte cellulare (Sapolsky, Uno, Rebert e Finch, 1990). Inoltre, è possibile che negli umani, la
riduzione del volume ippocampale possa derivare da anni di stress cronico e da PTSD. In supporto a
questa ipotesi, uno studio longitudinale (Carrion et al., 2007) ha riportato che i livelli di cortisolo e i
sintomi di PTSD erano predittivi di una riduzione del volume dell’ippocampo in un periodo di età tra i 12
e i 18 mesi in bambini maltratti con PTSD.
In alternativa, è stata elaborata un’ulteriore ipotesi di vulnerabilità (vulnerability hypothesis), che
ha sostenuto che un ridotto volume ippocampale negli individui con PTSD non sarebbe conseguente dello
stress, ma piuttosto, dipenderebbe dalla predisposizione a un fattore di rischio alla psicopatologia che è
presente in alcuni individui, maggiormente rispetto alle esperienze traumatiche (Gibertson et al., 2002).
Futuri studi longitudinali su bambini e adulti con esperienze di maltrattamento dovrebbero essere svolte
per comprendere meglio i risultati discordanti derivati dalle ricerche.
L’amigdala gioca un ruolo chiave nella valutazione delle situazioni, nelle condizioni di paura, nel
processo emozionale e nella memoria per gli eventi emotivi (Phelps e LeDoux, 2005). Gli studi effettuati
64
sugli animali hanno mostrato che lo stress cronico conduce a un incremento dell’arborizzazione dendritica
dell’amigdala (Vyas, Bernal e Chattarji, 2003), e potrebbe essere ipotizzabile che le stesse differenze
nelle strutture dell’amigdala possono essere associate anche al maltrattamento infantile (Lupien, Mcewen,
Gunnar e Heim, 2009).
Le recenti ricerche sono concordi nell’affermare che i bambini maltrattati con PTSD non differiscono nel
volume dell’amigdala rispetto a bambini non maltrattati (Woon e Hedges, 2008). Al contrario, due recenti
studi hanno riportato un incremento nel volume dell’amigdala in bambini e adolescenti che avevano
subito esperienze di precoce istituzionalizzazione e adozione. Uno studio (Mehta, Golembo, Nosarti,
Colvert, Mota, Williams, Rutter e Sonuga-Barke, 2009) ha riportato un ampio volume dell’amigdala in 14
adolescenti adottati che avevano subito esperienze di precoce istituzionalizzazione rispetto al gruppo di
adolescenti non – deprivati e non – adottati. Similmente, uno studio (Tottenham, Hare, Quinn, Mccarry,
Nurse, Gilhooly, Millner, Galvan, Davidson, Eigsti, Thomas, Freed, Booma, Gunnar, Altemus, Aronson e
Casey, 2010) ha riportato un ampio volume dell’amigdala in 17 preadolescenti che erano stati adottati
come orfani, in confronto al campione di bambini non – adottati. Una correlazione significativa è stata
anche riportata tra il volume dell’amigdala e l’età di adozione, suggerendo che una precoce esposizione
all’istituzionalizzazione delle cure può comportare un atipico sviluppo del circuito limbico. Tuttavia, è da
notare che in questi studi l’effetto delle prime esperienze avversive sull’amigdala è stato osservato solo
diversi anni dopo l’esperienza, ed è un fattore da considerare per futuri studi.
Ci sono solo tre studi che hanno esaminato il volume dell’amigdala su adulti con una storia di
maltrattamento nell’infanzia: uno studio ha trovato una riduzione del volume dell’amigdala in pazienti
donne (Vermetten, Schmahl, Lindner, Loewenstein e Bremner, 2006), mentre altri due studi hanno
riportato nessuna differenza nelle misure (Bremner, Randall, Vermetten, Staib, Bronen, Mazure, Capelli,
Mccarthy, Innis e Charney, 1997; Andersen Tomada, Vincow, Valente, Polcari, e Teicher, 2008). Questi
risultati suggeriscono che l’amigdala è vulnerabile alle precoci e severe esperienze stressanti in un
contesto di istituzionalizzazione e di perdita delle figure genitoriali. Tuttavia, risulta che esposizioni meno
gravi e limitate nel tempo hanno minore impatto sul volume dell’amigdala.
Gli studi neurobiologici che si sono occupati dell’influenza delle precoci esperienze di
maltrattamento, hanno indagato l’impatto di tali esperienze sul corpo calloso (CC), cioè quella struttura
nel cervello deputata al controllo della comunicazione inter-emisferica, incluso anche i processi di
funzionamento dell’arousal, delle emozioni e delle complesse abilità cognitive (Kitterle, 1995; Giedd,
Rumsey, Castellanos, Kaysen, Vaitsis, Vauss, Hamburger e Rapoport1996). Naturalmente, il corpo
calloso è una struttura cerebrale cruciale nello sviluppo del bambino e dell’adulto (Giedd et al., 1996;
Teicher, Dumont, Ito, Vaitsis, Giedd e Andersen, 2004). A eccezione di uno studio (Mehta et al., 2009),
65
la riduzione del volume del corpo calloso (in particolare le regioni media e posteriore) è stata riportata in
bambini e adolescenti maltrattati rispetto a non maltrattati (De Bellis et al., 1999; De Bellis e Keshavan,
2003; Teicher et al., 2004; Jackowski, Douglas-Palumberi, Jackowski, Win, Schultz, Staib, Krystal e
Kaufman,2008). La correlazione tra esperienze di maltrattamento e anormalità nelle strutture del corpo
calloso potrebbe essere associata a difficoltà nella sfera cognitiva e delle emozioni (Pears, Kim e Fisher,
2008).
Anche gli studi effettuati sugli adulti con PTSD correlato a maltrattamento nell’età infantile hanno
riportato simili risultati di una riduzione dell’area posteriore e centrale del CC rispetto al gruppo di
controllo (Kitayama, Brummer, Hertz, Quinn, Kim e Bremner, 2007).
Ci sono numerosi studi e differenti risultati che correlano la misura del volume della corteccia
prefrontale (PFC) con le esperienze di maltrattamento in bambini con PTSD e in bambini non –
maltrattati (De Bellis et al., 1999). La corteccia prefrontale è interconnessa con le altre regioni corticali e
subcorticali e svolge un ruolo in molti aspetti del comportamento, della cognizione e della regolazione
delle emozioni (Fuster, 1997; Davidson, Putnam e Larson, 2000; Miller e Cohen, 2001). Uno studio (De
Bellis et al., 1999) non ha riportato differenze significative tra i due gruppi, ma un altro studio ha rilevato
una diminuzione del volume della corteccia prefrontale e della sostanza bianca prefrontale nel gruppo di
bambini maltrattati (De Bellis, Keshavan, Shifflett, Iyengar, Beers, Hall e Moritz, 2002). Altri due recenti
studi hanno analizzato le differenze di volume in soggetti maltrattati con PTSD e hanno osservato un
ampio volume della sostanza grigia nelle regioni medio - inferiori e ventrali della corteccia prefrontale
(Richert et al., 2006; Carrion et al., 2009). Un recente studio (Hanson, Chung, Avants, Shirtcliff, Gee,
Davidson e Pollak, 2010) ha confrontato 31 bambini con una storia documentata di abusi fisici senza la
presenza di PTSD con 41 bambini non abusati della stessa età e genere, e i risultati hanno indicato
differenze significativa nella parte destra della corteccia orbito – frontale (OFC): il gruppo di bambini
abusati riportava un significativa riduzione del volume cerebrale in questa regione rispetto al gruppo di
bambini non abusati. Dato che la OFC svolge un ruolo importante nella regolazione delle emozioni e
sociale, è ipotizzabile che alterazioni di questa struttura cerebrale possano in parte rappresentare il
meccanismo
biologico
di
collegamento
dall’apprendimento
sociale
primario
alle
risposte
comportamentali nell’individuo.
Infine, un unico studio incrociato (Anderson, Tomada, Vincow, Valente, Polcari e Teicher, 2008)
ha rilevato che il volume della sostanza grigia della corteccia frontale era influenzato dall’esperienza di
abuso nel periodo di età dai 14 ai 16 anni, mentre l’ippocampo e il corpo calloso erano influenzati
dall’abuso a un età dai 3 ai 5 anni e dai 9 ai 10 anni rispettivamente, indicando con ciò che la corteccia
frontale in questo campione di soggetti era particolarmente suscettibile al cambiamento strutturale in
66
seguito all’abuso durante il periodo dell’adolescenza. Futuri studi dovrebbero esplorare come le
differenze nelle regioni cerebrali possano emergere in base al periodo in cui è avvenuto il maltrattamento
allo scopo di ottenere una panoramica più chiara sulle modificazioni dello sviluppo neurobiologico in
seguito a esperienze traumatiche.
In contrasto agli studi sui bambini maltrattati, i risultati degli studi sugli adulti con una storia di
maltrattamento mostrano una riduzione del volume della corteccia prefrontale. Per esempio, Tomoda et
al. (Tomoda, Suzuki, Rabi, Sheu, Polcari e Teicher, 2009) ha rilevato che, in un campione non – clinico, i
bambini che avevano vissuto maltrattamenti fisici (per es., punizioni corporali), mostravano una riduzione
del volume della sostanza grigia nella corteccia prefrontale nella parte sinistra dorso laterale e nella parte
destra mediale, due regioni cerebrali centrali nel processamento cognitivo delle informazioni, così come
nella memoria di lavoro e nella cognizione sociale (Miller e Cohen, 2001; Amodio e Frith, 2006). In un
altro studio è stato confrontato un gruppo di individui sani con pazienti con depressione maggiore e una
storia di maltrattamento infantile, e i risultati hanno osservato una riduzione del volume della corteccia
cingolata anteriore rostrale (ACC) nel gruppo dei pazienti, negativamente correlato con elevati livelli di
cortisolo (Treadway, Grant, Ding, Hollon, Gore e Shelton, 2009). Questo studio suggerisce che l’ACC
rostrale come l’ippocampo, potrebbero essere vulnerabili all’esposizione prolungata di glucocorticoidi
come risultato di uno stress cronico, e quindi di una deficitaria regolazione del sistema asse ipotalamo –
ipofisi – surrene (Treadway et al., 2009). Infine, in un recente studio (van Harmelen, Van Tol, Van Der
Wee, Veltman, Aleman, Spinhoven, Van Buchem, Zitman, Penninx e Elzinga, 2010) che ha confrontato
un gruppo di soggetti sani con un gruppo di pazienti con depressione e/o disturbi d’ansia e una storia di
maltrattamento emotivo infantile prima dei 16 anni, ha riportato che l’abuso emotivo era associato con
una riduzione della PFC nell’area sinistra dorsale mediale.
In contrasto alle ricerche che hanno esaminato le differenze delle strutture cerebrali associate al
maltrattamento, ci sono ancora pochi studi che hanno utilizzato l’imaging a risonanza magnetica MRI
(fMRI). Solo alcuni di questi studi hanno investigato l’esposizione agli eventi avversivi o le esperienze di
maltrattamento nei bambini. Ad esempio, gli studi di Carrion e colleghi (Carrion, Garrett, Menon, Weems
e Reiss, 2008) hanno investigato i processi cognitivi. Uno studio ha confrontato adolescenti con sintomi
di disturbo post-traumatico da stress (PTSS) e maltrattamento subito (abuso fisico, sessuale e violenza
assistita) con un gruppo di controllo, indagando la risposta di inibizione (Carrion, et al., 2008). I risultati
hanno evidenziato un aumento dell’attivazione nella corteccia cingolata anteriore rostrale nei soggetti
maltrattati rispetto al gruppo di controllo. Questi risultati sottolineano come le difficoltà nel processo
cognitivo di controllo crescano in contesti di alta reattività subcorticale reattiva che influenza
negativamente e aumenta la vulnerabilità alla psicopatologia (Mueller, Maheu, Dozier, Peloso, Mandell,
67
Leibenluft, Pine e Ernst, 2010). Un altro studio (Carrion et al., 2010) ha utilizzato un compito di memoria
dichiarativa verbale su soggetti con PTSD e con esperienze di maltrattamento confrontati con un gruppo
di controllo. Durante la fase di recupero del compito mnemonico, i soggetti con PTSD esibivano una
riduzione dell’attività ippocampale destra associata alla presenza di gravi sintomi di evitamento e di
intorpidimento.
Altri
studi
fMRI,
invece,
hanno
investigato
l’impatto
di
esperienze
di
precoce
istituzionalizzazione, utilizzando il paradigma dell’emotional face processing. I risultati hanno
evidenziato un incremento della risposta dell’amigdala ai cues facciali in bambini esposti a precoci
esperienze traumatiche, anche se non è chiaro se le esperienze traumatiche riguardavano maltrattamento
fisico, o sessuale, o emotivo (Maheu, Dozier, Guyer, Mandell, Peloso, Poet, Jenness, Lau, Ackerman,
Pine e Ernst, 2010; Tottenham, Hare, Millner, Gilhooly, Zevin e Casey, 2011).
In aggiunta, altri studi hanno utilizzato l’ERP per registrare l’attività elettrica cerebrale e fornire
informazioni sulla sequenza temporale delle operazioni cognitive. Molti di questi studi hanno confrontato
pattern di risposte cerebrali in bambini maltrattati e non durante il processo di espressione facciale,
un’abilità che viene acquisita negli anni prescolari (Izard e Harris, 1995). Nel confronto tra bambini non
istituzionalizzati e bambini istituzionalizzati, che avevano avuto esperienze di grave deprivazione sociale,
i risultati hanno mostrato un pattern di ipoattivazione corticale durante le espressioni facciali emotive
(Parker e Nelson, 2005) e durante espressioni di facce familiari e non familiari (Parker, Nelson, Zeanah,
Smyke, Koga, Fox, Marshall e Woodward, 2005). Altri studi (Pollak e Tolley-Schell, 2003) hanno
dimostrato che bambini in età scolastica che erano stati esposti ad abusi fisici dirigevano più attenzione
alle espressioni di facce con emozione di rabbia e mostravano maggiori problematiche nella regolazione
delle emozioni, in particolare dell’ansia (Shackman, Shackman e Pollak2007). Risultati simili sono stati
trovati in bambini che avevano vissuto esperienze di maltrattamento nel loro primo anno di vita (Cicchetti
e Curtis, 2005). Inoltre, appare chiaro come molti dei bambini maltrattati siano ipervigilanti agli stimoli cues sociali presenti nell’ambiente.
Gli studi di fMRI condotti sugli adulti con una storia di maltrattamento nell’infanzia, hanno
osservato correlazioni positive tra l’abuso fisico e l’attivazione dell’amigdala alle espressioni facciali
tristi in pazienti con depressione e maltrattamento infantile rispetto al gruppo di controllo (ad esempio,
Grant, Cannistraci, Hollon, Gore e Shelton, 2011). L’evidenza del pattern di risposta dell’amigdala alle
espressioni facciali negative è consistente con quello osservato nei bambini maltrattati. In accordo con
questi risultati, sembra che sia possibile ipotizzare una relazione tra le precoci esperienze traumatiche in
età infantile e la presenza di psicopatologia in età adulta, associate a un’iperattivazione dell’amigdala
rispetto agli stimoli facciali, in particolare quelli a valenza negativa, come la rabbia. La ricerca si è
68
occupata di rispondere al quesito su quale sia la relazione tra le differenze genetiche e individuali nella
resilienza e nella vulnerabilità.
Diversi recenti studi hanno misurato l’impatto biologico dell’avversità ambientale tenendo conto
delle differenze genetiche, che potrebbe determinare una risposta allo stress e aumentare la probabilità di
resilienza o all’opposto di vulnerabilità, in seguito a esperienze di maltrattamento (Moffitt, Caspi e Rutter,
2005). Molti degli studi sull’argomento hanno dimostrato che la maggior parte dei disturbi psichiatrici
associati a maltrattamento, come ad esempio, PTSD, depressione e comportamenti antisociali sono in
parte di natura ereditaria (ad esempio, Sullivan et al., 2000; Rhee and Waldman, 2002; Koenen, Nugent e
Umstadter, 2008). In altre parole, le differenze individuali alla vulnerabilità psichiatrica sono in parte
guidate dalle influenze genetiche. Rispetto alla varianza genetica è necessario tenere conto che nell’arco
della vita, alcuni individui potrebbero non sviluppare un disturbo psichiatrico (Plomin, Owen e Mcguffin,
1994). Si ritiene che questa varianza genetica nel corso della vita sia influenzata dal funzionamento di
alcuni circuiti ormonali e cerebrali che mediano le risposte fisiche/corporee allo stress (Viding,
Williamson e Hariri, 2006).
La ricerca sull’interazione genotipo - ambiente (GxE) si occupa di come il genotipo interagisce
con i fattori ambientali nella determinazione di un fenotipo individuale, e negli ultimi anni ha riportato
diversi studi sull’argomento. Molti di questi lavori si sono focalizzati sugli esiti di esperienze precoci di
stress e maltrattamento come una funzione del genotipo. Uno dei primi studi (Caspi, Mcclay, Moffitt,
Mill, Martin, Craig, Taylor e Poulton, 2002) ha riportato un’interazione tra la misura del genotipo
(MAOA) e l’ambiente (maltrattamento) come risposta al disturbo psichiatrico, e ha dimostrato che gli
individui che possiedono una bassa attività di alleli (geni che si riferiscono al medesimo carattere
distintivo e che sono localizzati nel medesimo posto nei cromosomi) (MAOA-1), ma non un’alta attività
di alleli (MAOA-H) sono più predisposti al rischio di disturbo da comportamenti antisociali a seguito di
esperienze di maltrattamento.
Questi risultati sono stati replicati in altre ricerche (ad esempio, Taylor e Kim-Cohen, 2007; Weder,
Yang, DouglasPalumberi, Massey, Krystal, Gelernter e Kaufman, 2009) e studi di genetica con imaging,
che hanno rilevato che il rischio MAOA-1 genotipo è correlato a un’iper-risposta del sistema deputato al
controllo di minacce e alla riduzione del sistema di attivazione della regolazione delle emozioni, così
come a differenze strutturali in regioni cerebrali importanti, quale la corteccia orbito frontale (MeyerLindenberg, Buckholtz, Kolachana, Hariri, Pezawas, Blasi, Wabnitz, Honea, Verchinski, Callicott, Egan,
Mattay e Weinberger, 2006). Questi lavori suggeriscono che il meccanismo dal quale il genotipo MAOA
genera vulnerabilità in seguito a esperienze di maltrattamento, potrebbe includere un cambiamento della
69
reattività neurale agli stimoli minacciosi dell’ambiente, aumentando o riducendo la risposta
dell’organismo (Viding e Frith, 2006).
Questi studi suggeriscono che il potenziale genotipo serve a predisporre entrambi il rischio e la resilienza
al disturbo psichiatrico nell’individuo adulto che ha subito maltrattamenti e abusi in età infantile. Inoltre,
la ricerca GxE ha suggerito che influenze ambientali positive, come il supporto sociale possono
respingere il rischio genetico e ambientale alla psicopatologia e promuovere la resilienza (Kaufman et al.,
2006), così come è importante considerare l’ambiente familiare e il tipo di attaccamento positivo come
fattori protettivi alla vulnerabilità genetica.
Gli effetti del rischio di un gene potrebbero manifestarsi mai se quel gene non è espresso. La regolazione
dell’espressione del gene è descritta come un potenziale meccanismo molecolare che è in grado di
mediare la vulnerabilità così come la resilienza, cioè l’adattamento dell’organismo (Tsankova et al.,
2007). Questo meccanismo “epigenetico” fa riferimento a un complesso processo attivato dalle influenze
ambientali che può servire a regolare l’attività del gene senza alterare la sottostante sequenza del DNA. E’
evidente che la regolazione epigenetica è quel meccanismo attraverso il quale i comportamenti di cura del
caregiver, sia negli uomini sia negli animali, possono produrre effetti a lungo termine sull’attività
dell’asse ipotalamo – ipofisi – surrene e sulla funzione neurale (Weaver et al., 2004). I risultati di diversi
studi hanno rilevato che cambiamenti epigenetici di metilazione possono essere associati a deprivanti o
scarse cure materne, sottolineando l’importanza dell’influenza positiva e/o negativa dell’ambiente nel tipo
di risposta biologica allo stress. Tale aspetto ha importanti implicazioni per l’intervento.
Anche gli studi condotti sugli animali che hanno investigato gli effetti epigenetici derivati dal
maltrattamento sui ratti infanti, hanno confermato gli stessi risultati negli adulti, e cioè cambiamenti
nell’espressione del gene, nella corteccia prefrontale e nell’ippocampo in seguito all’esposizione a precoci
esperienze di maltrattamento (Roth, Lubin, Funk e Sweatt, 2009). Tuttavia, pochi studi sugli umani hanno
studiato gli effetti del maltrattamento sull’espressione genetica. Ad esempio, uno studio (McGowan,
Sasaki, D’alessio, Dymov, Labonté, Szyf, Turecki e Meaney, 2009) ha osservato differenze nella
regolazione epigenetica dell’espressione del recettore glucocorticoide ippocampale in soggetti con una
storia di abuso infantile rispetto al gruppo di controllo. Lo stesso effetto epigenetico osservato sul
campione di soggetti vittime di abusi nell’infanzia è stato rilevato sul campione di ratti con esperienze di
deprivazione materna (Weaver et al., 2004).
Infine, il settore degli studi basati sull’epigenetica dovrebbe continuare a esplorare il meccanismo
dell’espressione genetica e l’influenza degli stressors ambientali, soprattutto quelli derivati dall’ambiente
primario di attaccamento e dei fattori di protezione. Ad esempio, è stato dimostrato che il comportamento
materno è predittivo di come i neonati rispondono agli stressors quotidiani: i neonati di madri con
70
comportamenti materni di buona qualità, mostrano bassi livelli di cortisolo (Albers, Marianne Riksen
Walraven, Sweep e Weerth, 2008). Similmente, l’attaccamento sicuro è associato a pattern di reattività
allo stress nei bambini (Ahnert, Gunnar, Lamb e Barthel, 2004). Il sistema neurobiologico è influenzato
dal comportamento del caregiver che ha il compito di determinare sia un sicuro micro – ambiente per il
bambino sia di aiutarlo a regolare i propri stati interni emotivi. In altre parole, i patterns di sensibilità, di
responsività e di attenzione da parte del caregiver contribuiscono a costruire il meccanismo di regolazione
glucocorticoide e di risposta agli stressors ambientali nel bambino (Nachmias, Gunnar, Mangelsdorf,
Parritz e Buss, 1996). Inoltre, questi studi hanno sottolineato che dove risulta assente la sensibilità e la
responsività delle cure del caregiver, il bambino è costretto ad autoregolarsi o a dover affrontare alti
livelli di stressors ambientali. Tuttavia, in alcuni casi è il caregiver stesso a essere la causa dello stress nel
bambino, comportando lo sviluppo di un processo di adattamento dell’asse HPA con conseguenze
psicologiche e biologiche, e aumentando la vulnerabilità alla psicopatologia a lungo termine (Gunnar e
Cheatham, 2003).
La qualità delle cure del caregiver può alterare la reattività dello stress nel bambino, per cui, gli
studi propongono di concentrare l’intervento sulla valutazione della reattività del cortisolo nel bambino in
condizioni di stress. Ad esempio, uno studio ha investigato i patterns di reattività del cortisolo in bambini
a seguito di interventi basati sull’attaccamento di genitori adottivi. I bambini di genitori adottivi che
hanno ricevuto questo tipo di intervento, hanno mostrato una normalizzazione delle risposte di cortisolo a
stressor sociale, dimostrando che interventi clinici possono essere in grado di aiutare il bambino a
ricalibrare la reattività allo stress (Dozier, Peloso, Lewis, Laurenceau e Levine, 2008).
71
2.3 Memoria e abuso.
Per molti anni, le sole documentazioni delle memorie dei bambini vittime di abuso/maltrattamento
provengono da casi di studi clinici. Ad esempio, Terr (1988) ha riportato osservazioni di bambini vittime
di trauma incluso esperienze di abuso sessuale, sostenendo che tutti i bambini mostravano scarsi o assenti
ricordi dell’esperienza di abuso. Tuttavia, l’autore riportò che tutti i bambini esibivano comportamenti
come segnali del rivivere il trauma, ad esempio durante il gioco, o specifiche paure correlate al trauma,
cambiamenti di personalità, ma sempre in assenza di un richiamo verbale. Altri autori hanno riportato
simili osservazioni di non richiamo dell’esperienza traumatica (Gaensbauer 1995; Sugar, 1992). Tuttavia,
è necessario considerare questi dati con cautela, in quanto è possibile che i bambini riportavano memorie
implicite dell’evento traumatico ma senza averne consapevolezza, oppure le interpretazioni dei
comportamenti indicativi di segnali dell’esperienza traumatica potevano dipendere dal contesto o dalle
conoscenze dell’intervistatore sul trauma del bambino.
Studi empirici precedenti sulla memoria del bambino vittima di maltrattamento hanno utilizzato
una metodologia retrospettiva che indagava la memoria dell’esperienza traumatica nell’adulto. Questi
studi si sono basati sui casi clinici e non clinici di adulti che riportavano una storia di abuso infantile
(Briere e Conte, 1993; Epstein e Botton, 2002; Ghetti, Edelstein, Qin e Davis, 2006). Alcuni di questi
lavori sono stati criticati perché i report sulle esperienze di abuso mostravano delle incoerenze.
Altre ricerche hanno riportato dati sulla memoria dell’abuso nei bambini tramite studi
longitudinali che tracciano il recupero delle memorie degli individui con una storia documentata di abuso
infantile. Ad esempio, William (1994) ha intervistato 129 donne con una storia abuso sessuale
nell’infanzia: il 38% di queste donne non era in grado di riportare l’evento dell’abuso, e il 12% riportava
nessun abuso subito nell’infanzia. Anche altri studi (Widom e Morris, 1997; Goodman et al., 2003) hanno
riportato gli stessi dati su adulti con una storia di abuso sessuale nell’infanzia, anche se la percentuale dei
soggetti era minima. Al contrario, altri studi di Goodman (2003) hanno mostrato che i soggetti che
richiamavano alla memoria l’abuso erano il 72% e oltretutto con documentati dettagli dell’evento. Alti
studi, invece, hanno riportato che i bambini che erano molto piccoli al tempo dell’abuso mostravano alte
percentuali di dimenticanza dell’evento (Greenhot, McClosely e Glisky, 2005). Questi studi suggeriscono
che le memorie degli abusi nei bambini non sempre possono essere ricordate nell’età adulta e che l’età è
una variabile discriminante.
Tuttavia, i risultati degli studi dipendono anche dal modello della memoria al quale fanno riferimento.
Nello studio di William (1994), i soggetti con relazioni di più vicinanza con l’abusante erano più
facilmente propensi a dimenticare l’esperienza di abuso. Questi risultati sono in linea con le teorie
sull’amnesia del trauma-specifico, in cui l’abuso exstrafamiliare e cioè perpetuato da una persona
72
estranea alla famiglia è considerato meno traumatico rispetto all’abuso intrafamiliare, in quanto l’abuso
intrafamiliare è meno discusso in famiglia rispetto a quello exstrafamiliare. Ad esempio, lo studio di
Goodman (2003) ha riportato come la mancanza di supporto materno nei confronti della rivelazione
dell’abuso e ridotte discussioni sull’evento erano predittive di un’alta percentuale di dimenticanza.
All’opposto lo studio di Greenhoot e colleghi (2005) ha trovato che adolescenti esposti a gravi episodi di
violenza familiare non avevano dimenticato completamente le azioni violente perpetuate nei loro
confronti rispetto invece ai soggetti che avevano vissuto episodi di violenza meno gravi. Inoltre, i risultati
indicavano che questi adolescenti erano a conoscenza di essere stati esposti a violenze familiari da
bambini, ma avevano difficoltà a ricordare in modo vivido i dettagli, e tendevano invece a riportare le
azioni di forme di violenza più comunemente conosciute. Questo modello sui patterns di memoria
dell’abuso correlato al trauma descrive processi standard di memoria, ma certamente bisogna considerare
i processi emozionali che incorrono nell’attenuare o nell’intensificare questi patterns.
Altre evidenze che i ricordi dell’abuso attingono ai processi di memoria autobiografica derivano
dal confronto tra memoria dell’abuso e memoria di eventi non-traumatici negli stessi soggetti. Greenhoot
et al. (2005) ha documentato diversi eventi significativi ma non-traumatici (per es., morte di un parente)
durante il periodo della violenza familiare, e ha rilevato che sei anni dopo questi eventi, i soggetti
avevano completamente dimenticato gli eventi non-traumatici così come quelli di violenza familiare.
Infine, parallelo a questo studio, un altro studio (Ghetti et al., 2002) ha rilevato che i report di abusi su
bambini tra 3 e 6 anni erano correlati a misure della memoria autobiografica di eventi non-traumatici.
Ci sono evidenze in letteratura che il trauma infantile è associato a distinti patterns di memoria
autobiografica. Le maggiori consistenze di risultati provengono dalle ricerche sull’overgeneral memory,
cioè la tendenza a riportare ricordi dell’evento caratterizzati da descrizioni generiche, come ad esempio,
descrizioni degli eventi che mancano di dettagli spaziali e temporali (Ogle, Block, Harris, Goodman,
Pineda, Timmer e Urquiza, 2013). Queste ricerche rivelano che adulti e adolescenti con esperienze di
trauma o abuso nell’infanzia sono meno in grado di richiamare specifici ricordi personali (de Decker,
Hermans, Raes e Eelen, 2003; Johnsonn, Greenhot, Glisky e McCloskey, 2005). Ad esempio, in uno di
questi studi, i soggetti dovevano riferire ricordi di singoli eventi in risposta a cue words. I soggetti con
una storia di abuso infantile erano più propensi a produrre ricordi di overgeneral memory che si riferiva a
categorie di eventi rispetto a episodi singoli.
In un altro studio (Valentino, Toth e Cicchetti, 2009) sono state esaminate le performance al test
AMT (Autobiographical Memory Test) tra bambini in età scolare che avevano vissuto esperienze di
abuso e abbandono rispetto a bambini non-maltrattati, e i risultati indicavano che i ricordi dei bambini
abusati erano maggiormente overgeneral rispetto ai bambini non-maltrattati.
73
Anche se numerosi studi che hanno illustrato che il trauma correlato all’overgeneral memory non
è spiegato da sintomi depressivi, recenti investigazioni che hanno misurato il PTSD hanno suggerito che
questo fenomeno potrebbe essere direttamente collegato ai sintomi di PTSD piuttosto che al trauma in se
per se (Blix e Brennan, 2011; Bunnel e Greenhot, 2012; Goodman, Quas e Ogle, 2010). Per esempio uno
studio (Bunnel et al., 2012) ha esaminato la performance al compito AMT su adulti con e senza storia di
abuso e ha rilevato che la gravità dell’abuso era correlata a una riduzione della memoria ma questa
correlazione era spiegata dai sintomi di PTSD. Infine, altri autori (Chae, Goodman, Eisen e Qin, 2011)
hanno esaminato la memoria per gli eventi neutrali (per es., un gioco) in bambini da 3 a 16 anni che
avevano vissuto esperienze di abuso e abbandono e confrontati con un gruppo di controllo. I risultati
hanno rilevato che lo stato d’abuso non è predittivo della performance di memoria nei bambini, tuttavia
nel gruppo sperimentale, i bambini con sintomi correlati al trauma avevano prodotto performance di
memoria peggiori.
E’ necessario considerare che le differenze dei risultati sulle performance di memoria potrebbero
dipendere dalla condizione in cui è avvenuta la rievocazione, dal tipo di cue words utilizzate, dalla
presenza di altre variabili come i pensieri intrusivi o dal compito di memoria utilizzato. Inoltre, questi
studi suggeriscono che le differenze tra le persone con o senza una storia di trauma sono maggiormente
qualitative che quantitative, e che il trauma da solo non può spiegare la povertà di memoria autobiografica
(Bunnel et al., 2012; William et al., 2007). Inoltre, in accordo con il modello sull’overgeneral memory,
sembra che essa possa essere considerata una strategia di regolazione emozionale, perché riduce la
capacità di recupero di determinati dettagli spaziali e temporali dell’evento traumatico.
Molte tra le recenti ricerche sul trauma e la memoria si sono occupate di come le esperienze
traumatiche sono ricordate, focalizzandosi sulle caratteristiche qualitative dei ricordi traumatici (per
esempio, coerenza, emozionalità) rispetto alle caratteristiche quantitative, allo scopo di indagare in che
modo gli eventi traumatici sono codificati e rappresentati in memoria.
Molte delle ricerche sul campione adulto mostrano che i ricordi di eventi traumatici, come storie di
abuso/maltrattamento nell’infanzia sono maggiormente frammentati, incoerenti, dominati da maggiore
sensibilità emotiva, poco integrate nell’autobiografia, e questi fattori qualitativi sono maggiormente
associati a cues ambientali, che conducono a una rievocazione intrusiva e involontaria del trauma.
Alcune di queste ricerche hanno valutato se le stesse caratteristiche qualitative legate ai ricordi traumatici
possono essere applicate ai ricordi dei bambini e se ci sono differenze legate all’età. Altre ricerche,
invece, si sono focalizzate sui processi di socializzazione e su come questi potrebbero influenzare il modo
in cui il bambino ricorda gli eventi traumatici. Ad esempio, gli studi hanno studiato le conversazioni tra
caregiver-bambino sugli aspetti dell’evento traumatico (Fivish e Sales, 2004). In particolare, i genitori
74
strutturerebbero le conversazioni sull’evento traumatico in modo da aiutare il bambino a comprenderlo e
ad affrontarlo, e le caratteristiche di queste specifiche conversazioni caregiver-bambino influenzano il
mood in cui il bambino ricorda e sente a livello emotivo l’esperienza traumatica.
A questo proposito, Nelsono e Fivush (2000) commentano come la rappresentazione mnemonica
dell’evento nel bambino sia influenzata dalla capacità dello stesso di discutere l’evento, quando e come è
accaduto, e dalla modalità con cui ne discute con il caregiver, tale evento viene rappresentato. Lo stile di
elaborazione è un fattore importante nel facilitare lo sviluppo della capacità nel bambino di richiamare
episodi passati in maniera dettagliata (Reese, Haden e Fivush, 1993). Inoltre, le ricerche longitudinali
hanno mostrato come non solo le differenti modalità narrative del caregiver influenzano le narrazioni del
bambino, ma anche che i bambini imparano come strutturare le proprie memorie all’interno di una
narrativa coerente, cioè organizzata coerentemente per poter essere condivisa con gli altri.
La teoria dell’attaccamento può quindi costituire una cornice per un approfondimento del legame
tra la relazione bambino-genitore e lo sviluppo della memoria autobiografica. I modelli operativi interni e
le discussioni sulle memorie autobiografiche si influenzerebbero reciprocamente. Non solo, infatti, i
modelli operativi interni influirebbero sulla selezione dei temi emotivi trattati nel discutere il passato, ma
le conversazioni tra genitori e figli influenzerebbero la formazione dei modelli operativi stessi. In
generale, la modalità con cui madre e bambino discutono i ricordi autobiografici può essere considerata
sia una componente attiva nella costruzione dei modelli rappresentazionali sia espressione dei modelli
operativi interni del genitore e del bambino (Bretherton, 1993). Ricerche nell’ambito dell’attaccamento
hanno mostrato come la modalità con cui i genitori narrano le proprie esperienze infantili sia altamente
predittiva del modello di attaccamento che il figlio mostrerà nello sviluppo. Gli aspetti impliciti della
memoria, in particolare, sembrano avere una funzione rilevante nell’influenzare la struttura delle
successive narrative autobiografiche.
Solo pochi studi hanno confrontato i ricordi di eventi traumatici e non-traumatici nei bambini,
basandosi sulle analisi narrative e sulle caratteristiche di coerenza, valenza emotiva, uso di termini
cognitivi, quali fattori di significazione dell’evento. Ad esempio, uno studio (Gerorgsson, Almgvist e
Broberg, 2011) che ha valutato le analisi narrative in bambini dagli 8 ai 12 anni suggerisce che i ricordi di
eventi traumatici erano meno accurati e completi rispetto ad altri ricordi. In particolare, i bambini erano
stati vittima di violenza domestica perpetuata sulla madre, e gli autori hanno rilevato che questi bambini
avevano difficoltà nel descrivere la violenza che avevano osservato in una forma narrativa coerente, ma
erano in grado di descrivere le loro reazioni. Questi pattern contrastano con i risultati degli studi di Fivush
et al. (Fivush, Hazzard, Sales, Sarfati e Brown, 2003). In questi studi dei bambini tra i 6 e i 12 anni
venivano intervistati sugli episodi di violenza vissuti all’interno della propria città, indicati come episodi
75
traumatici, e le narrazioni sulle caratteristiche negative degli episodi erano più coerenti rispetto alle
narrazioni sulle caratteristiche positive degli episodi. Come è stato osservato nel campione adulto, i
bambini riferivano maggiori pensieri ed emozioni nelle narrazioni negative degli eventi traumatici
rispetto alle narrazioni positive (Fivush et al., 2003). Tuttavia, in questi studi, i bambini più colpiti dal
trauma riportavano meno informazioni sui propri stati emotivi interni nella rievocazione dell’episodio
rispetto ai bambini meno colpiti. A questo proposito, Peterson e Biggs (1998) hanno trovato che bambini
che erano stati esposti ad eventi altamente stressanti, riportavano meno dettagli emotivi rispetto ai
bambini esposti ad esperienze meno stressanti.
Da questi studi è interessante notare come l’esposizione a eventi gravi o molto stressanti sia
predittiva di alte percentuali di stati emotivi e cognitivi negativi, come emergono nelle narrazioni di
soggetti esposti a eventi traumatici, anche durante le interviste a distanza di 6 anni dall’evento.
76
Conclusioni
La letteratura e la ricerca scientifica sostengono l’esistenza di una complessa relazione tra le
esperienze traumatiche di abuso/maltrattamento nell’infanzia e lo sviluppo e il funzionamento dei
processi di memoria. Tuttavia, i risultati di tali ricerche sono ancora discordanti.
La ricerca ha fornito numerosi dati che indicano come le esperienze traumatiche vissute nell’età
infantile comportano rilevanti conseguenze sul benessere psicologico e sociale dell’individuo in età
adolescenziale e adulta. Per primo, è stata rilevata una relazione tra l’abuso in età infantile e i disturbi
mentali, quali ad esempio, disturbi affettivi, disturbi d’ansia e disturbo post-traumatico da stress,
indicando il rischio di una vulnerabilità alla psicopatologia.
Inoltre, la letteratura e la ricerca hanno studiato le esperienze avversive e traumatiche vissute in età
evolutiva all’interno di un’ottica di trasmissione intergenerazionale e di attaccamento, nelle quali emerge
l’importanza di considerare l’interazione caregiver-bambino e il modello primario di cura e di
attaccamento. All’interno di questo complesso modello, gli studi si sono occupati della relazione tre le
esperienze traumatiche nella madre vissute in età infantile, le cure e il modello di attaccamento verso il
figlio, e la vulnerabilità a problemi psicologici e comportamentali nel bambino.
In specifico, numerose recenti ricerche hanno preso in considerazione il modello epigenetico,
evidenziando che l’ambiente psicosociale per eccellenza è determinato dal caregiver e dal relativo
comportamento di cure primario verso il bambino, che influenza l’epigenoma e la sua risposta allo stesso
ambiente psicosociale. Il processo epigenetico può mediare l’effetto delle prime esperienze di vita sul
cervello e sulla risposta neuroendocrina allo stress. Durante i primi periodi di sviluppo del neonato e in
seguito del bambino, eventi particolarmente avversi e traumatici come lo stress o il maltrattamento
possono produrre alterazioni epigenetiche e conseguentemente alterazioni delle funzioni fisiologiche e
comportamentali che comportano ripercussioni nell’età adulta (Fenoglio, Brunson, Baram, 2006;
Fumagalli, Molteni, Racagni, Riva, 2007). I dati recenti, quindi, dimostrano che lo stress nell’infanzia
conduce ad alterazioni del livello di cortisolo nei bambini e a una vulnerabilità verso la disregolazione
degli affetti in età adolescenziale e adulta.
La ricerca ha sottolineato come nell’impatto dell’abuso/maltrattamento nel bambino è importante
considerare le primissime esperienze interattive col caregiver principale, a determinare il trauma iniziale e
di conseguenza a definire le modalità con cui il soggetto in seguito risponderà agli stimoli stressanti, quali
stili di coping adotterà, come affronterà gli eventi traumatici successivi. Ad esempio, nel recupero dei
ricordi dell’infanzia, che riguarda la capacità di memoria autobiografica, gli individui evitanti mostrano
difficoltà nell’accedere alle memorie affettivamente cariche (Haggerty, Siefert e Weinberger, 2010). In
particolare, chi ha subito abusi sessuali durante l’infanzia ha difficoltà nel recuperare i ricordi (Edelstein,
77
Ghetti, Quas, Goodman, Alexander e Redlich, 2005). Al contrario, le persone con elevati livelli di ansia
possiedono molti ricordi riguardanti la relazione con il caregiver, perché sono ipervigili rispetto alla
disponibilità della figura di attaccamento. Nel narrare i ricordi, questi individui mostrano un
coinvolgimento ancora elevato nelle relazioni infantili e non riescono a distaccarsi dall’esperienza
dolorosa (Haggerty, Siefert e Weinberger, 2010). La differenza nella quantità di memorie è probabilmente
dovuta all’iperattivazione nel caso dell’ansia, e all’ipoattivazione nel caso dell’evitamento del sistema di
attaccamento al momento della codifica del ricordo. In specifico, il bambino ansioso è costantemente
preoccupato per la disponibilità del caregiver, mentre il bambino evitante cerca di non avere mai bisogno
della figura di attaccamento per non rischiare di soffrire per la sua assenza e la mancata comprensione dei
suoi bisogni. Dai primi legami di attaccamento dipende la capacità di regolare le emozioni e
conseguentemente la possibilità di recuperare dei ricordi affettivamente carichi.
Il capitolo si è occupato della ricerca e degli studi sullo sviluppo e sul funzionamento della
capacità di memoria autobiografica. Come per gli adulti, anche i bambini si affidano alla memoria
autobiografica e alle sue componenti distintive per recuperare e raccontare episodi recenti o passati
accaduti nella propria vita. In generale, gli studi suggeriscono che la capacità di memoria autobiografica
per gli eventi passati personali si sviluppa progressivamente. Questo tipo di memoria emerge nel bambino
dalla seconda metà del primo anno di vita fino al terzo anno di vita (Pathman, Larkina, Burch e Bauer,
2013) per poi continuare negli anni della prima infanzia all’adolescenza, e coinvolge la maturazione e
l’attivazione di diverse regioni e substrati neurali.
Lo sviluppo e il funzionamento della memoria autobiografica nel bambino e nell’adolescente è
stata studiata nell’interazione con le esperienze di abuso e maltrattamento.
In generale, dalla ricerca scientifica emergono dati discordanti, in quanto gli studi riportano risultati che
sostengono sia un mantenimento della capacità di rievocare gli episodi traumatici sia una riduzione della
memoria autobiografica nei bambini e negli adulti che hanno vissuto esperienze traumatiche di
abuso/maltrattamento rispetto agli individui che non hanno vissute tali esperienze.
I risultati differiscono tra loro in base all’età dei soggetti, al modello teorico, e agli strumenti di
valutazione utilizzati. Per questo motivo, è necessario che la ricerca si ponga l’obiettivo di munirsi di
strumenti di indagine e di valutazione clinica, neuropsicologica e di trattamento validi e aggiornati.
Molte delle ricerche sul campione adulto mostrano che i ricordi di eventi traumatici, come storie
di abuso/maltrattamento nell’infanzia sono maggiormente frammentati, incoerenti, dominati da maggiore
sensibilità emotiva, poco integrate nell’autobiografia, e questi fattori qualitativi sono maggiormente
associati a cues ambientali, che conducono a una rievocazione intrusiva e involontaria del trauma.
78
Alcune di queste ricerche hanno valutato se le stesse caratteristiche qualitative legate ai ricordi traumatici
possono essere applicate ai ricordi dei bambini e se ci sono differenze legate all’età. Altre ricerche,
invece, si sono focalizzate sui processi di socializzazione e su come questi potrebbero influenzare il modo
in cui il bambino ricorda gli eventi traumatici.
Questi contenuti saranno oggetto di indagine e valutazione all’interno della ricerca sperimentale nella tesi,
che si pone l’obiettivo principale di indagare la capacità di memoria autobiografica nei bambini vittime di
abuso/maltrattamento e il confronto nella capacità di memoria autobiografica con bambini e adolescenti
non-maltrattati.
Infine, in questo capitolo sono stati indagati gli effetti delle esperienze avversive e traumatiche
nell’adulto e nel bambino sui sistemi cerebrali e i processi neurali. In particolare, sono emerse
correlazioni significative con i sistemi di regolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene di risposta allo
stress e alle esperienze traumatiche nell’infanzia e nell’adolescenza (Miller et al., 2007).
Tuttavia, la ricerca è ancora limitata e i risultati discordanti. E’ importante approfondire l’ambito
dell’intervento e del trattamento psicoterapico, promuovendo protocolli sempre più specifici e mirati.
79
CAPITOLO 3 RICERCA SPERIMENTALE
Introduzione
La ricerca sperimentale di questa tesi rappresenta il desiderio di comprendere e approfondire il
complesso ambito dell’abuso e del maltrattamento sul minore. L’interesse per questa tematica nasce
parallelamente allo svolgimento di un tirocinio presso il Centro Specialistico “Il Faro”, un centro multi professionale contro gli abusi e i maltrattamenti all’infanzia dell’Azienda USL di Bologna. Il Centro
Specialistico “Il Faro” si avvale di un modello teorico-operativo integrato che accoglie al suo interno un
equipe multi - professionale di professionisti esperti del minore e delle problematiche di abuso e
maltrattamento. In specifico, il mio interesse si è rivolto all’ambito della consulenza e dell’ascolto del
minore vittima di abuso/maltrattamento, che avvengono sia nel setting della valutazione psicologica sia
nel setting della valutazione giuridica della testimonianza.
La valutazione psicologica del minore si pone l’obiettivo di intervenire sia sul disagio sia sulla
conferma o disconferma di abuso, per programmare un progetto terapeutico individuale (ad esempio,
interventi di sostegno, psicoterapia) e per accompagnare il minore nel percorso giudiziario. Le finalità
della valutazione psicologica del minore sono: definire una diagnosi di sviluppo, sviluppare ipotesi circa i
legami di attaccamento nella storia affettiva, approfondire la conoscenza delle relazioni con l’ambiente
familiare, scolastico e sociale, valutare l’esistenza di un disagio eventualmente computabile con
un’esperienza di tipo traumatico, tracciare un profilo di personalità e verificare l’opportunità di un
progetto terapeutico. Tuttavia, la valutazione psicologica non è esente da alcuni limiti oggettivi.
L’esistenza di un’ipotesi di reato potrebbe orientare il professionista verso la ricerca di una verità dei fatti
condizionando il lavoro di valutazione, compresa anche la psicologia dell’evento traumatico. L’adozione
degli strumenti diagnostici dovrebbe tenere conto sia di caratteristiche di affidabilità ai fini di una
diagnosi di abuso sia di una buona rilevanza clinica ai fini di una diagnosi di disagio, compatibile con
esperienze di tipo traumatico. Inoltre, in letteratura vi è ancora una convergenza parziale tra i diversi
autori sulle procedure diagnostiche, sui criteri di valutazione e sugli indicatori. Infine, è importante
integrare la diagnosi psicologica del minore con gli elementi relativi alla diagnosi della famiglia, della
coppia genitoriale e della diagnosi sociale.
In generale, gli strumenti di valutazione psicologica utilizzati comprendono oltre al colloquio
clinico, all’osservazione del bambino e/o del genitore-bambino, la somministrazione di test proiettivi,
ritenuti efficaci ed essenziali ai fini valutativi. Tuttavia, dal punto di vista della valutazione psicologica
del bambino vittima di abuso/maltrattamento rimane ancora poco indagato l’aspetto della memoria
80
autobiografica, cioè della capacità di codifica, elaborazione e ritenzione dei ricordi legati a esperienze di
tipo traumatico. In letteratura è ampiamente riconosciuto un effetto significativo delle esperienze
traumatiche sui processi di memoria del bambino, in particolare della memoria autobiografica (ad
esempio, de Decker, Hermans, Raes e Eelen, 2003; Johnsonn, Greenhot, Glisky e McCloskey, 2005).
Inoltre, gli aspetti psicologici che sono solitamente oggetto di valutazione sono anche quelli coinvolti nei
criteri giuridici, che dovrebbero essere soddisfatti affinché si possa parlare di idoneità a rendere
testimonianza. Tra questi, emerge la valutazione della memoria autobiografica del minore, intesa come la
verifica della capacità di ricordare e riferire fatti vissuti in prima persona (Stracciari, Bianchi e Sartori,
2010).
Da queste valutazioni è derivata la scelta del tema principale affrontato nella tesi e nel lavoro di ricerca
sperimentale, che si costituisce come una preliminare analisi della relazione tra le esperienze di abuso e
maltrattamento nel bambino e il ricordo autobiografico.
81
3.1 Ipotesi di ricerca.
Le ipotesi di ricerca sono:
il punteggio di memoria autobiografica totale dovrebbe essere minore nel gruppo sperimentale e
maggiore nel gruppo di controllo. Ci si aspetta, quindi, un effetto indiretto della condizione di
abuso e maltrattamento.
Il punteggio di memoria autobiografica totale dovrebbe diminuire con il diminuire dell’età e
aumentare con l’aumentare dell’età (correlazione diretta tra memoria autobiografica totale ed età).
Ci si aspetta, quindi, un effetto età.
Il punteggio totale delle parole astratte dovrebbe essere minore del punteggio totale delle parole
concrete in entrambi i gruppi sperimentale e di controllo.
Il punteggio totale delle parole astratte e concrete dovrebbe essere minore nel gruppo sperimentale
rispetto al gruppo di controllo. Ci si aspetta, quindi, un effetto indiretto della condizione di abuso e
maltrattamento.
Il punteggio totale delle parole astratte dovrebbe aumentare all’aumentare dell’età e diminuire al
diminuire dell’età (correlazione diretta). Ci si aspetta, quindi, un effetto età.
I punteggi di memoria a lungo termine episodica e semantica dovrebbero correlare inversamente
al punteggio di memoria autobiografica totale nel gruppo sperimentale. Ci si aspetta, quindi, un
mantenimento della memoria procedurale e semantica al di là della riduzione della memoria
autobiografica.
82
3.2 Metodologia.
Procedura della ricerca.
La ricerca è stata condotta nel periodo tra aprile e novembre 2014. La procedura della ricerca
prevede una serie di fasi.
La prima fase prevede il reperimento del campione sperimentale e di controllo. I soggetti del gruppo
sperimentale sono stati selezionati dagli archivi contenenti i casi clinici osservati e valutati negli ultimi
quattro anni presso “Il Faro”, secondo i criteri descritti in seguito. Poi, sono stati contattati i genitori dei
bambini selezionati, ai quali è stata spiegata la ricerca. I genitori che hanno acconsentito di partecipare
alla ricerca, hanno firmato i documenti di consenso al trattamento dei dati personali e alla privacy.
I soggetti del gruppo di controllo sono stati selezionati attraverso la divulgazione di un volantino creato
ad hoc, nel quale si chiedeva la collaborazione a partecipare a un progetto di ricerca sulla memoria
autobiografica in bambini di età compresa tra 6 e 14 anni. I genitori che hanno acconsentito di partecipare
alla ricerca, hanno firmato i documenti di consenso al trattamento dei dati personali e alla privacy.
La seconda frase prevede i colloqui clinici e di valutazione con i soggetti di entrambi i gruppi che sono
stati svolti principalmente presso il domicilio dei soggetti. La quantità dei colloqui varia da uno a due in
base alla disponibilità dei soggetti.
Ai soggetti del gruppo sperimentale sono stati somministrati il test di Crovitz, il test di memoria di prosa
e il test di fluenza verbale per associazione libera, mentre ai soggetti del gruppo sperimentale è stato
somministrato solamente il test di Crovitz. Le interviste sono state audio registrate e trascritte
verbalmente per una maggiore accuratezza dei dati.
La terza fase prevede un colloquio di restituzione dei risultati dei test con il genitore del bambino, allo
scopo ove possibile, di ricavare una misura obiettiva della rievocazione degli episodi personali in termini
di accuratezza e datazione dei bambini.
Infine la quarta fase prevede l’analisi dei dati e la valutazione di ipotesi.
83
Strumenti.
Nella ricerca sono stati utilizzati tre tipi di strumenti: uno rivolto alla valutazione della memoria
autobiografica in entrambi i gruppi sperimentale e di controllo, due rivolti alla valutazione delle capacità
di memoria a lungo termine episodica e di memoria a lungo termine semantica solo nel gruppo
sperimentale.
Il test di Crovitz (Crovitz e Shiffman, 1994; Ghidoni, Poletti e Bondavalli, 1995) è un test usato
per studiare se e come vengono recuperati i ricordi con carattere episodico e autobiografico, e il ruolo
della distanza temporale nel recupero del ricordo. La valutazione della prova si basa sulla quantità di
ricordi e sul numero di dettagli spazio-temporali recuperati sulla base della presentazione di alcuni
stimoli.
Nella vita quotidiana la memoria autobiografica (MA) è la più naturale forma di memoria, e i disturbi
mnesici più frequentemente riportati anche in condizioni non patologiche sono i fallimenti della MA.
Tuttavia, la MA è fra i sottosistemi della memoria a lungo termine, quello meno studiato. Ciò è dovuto
alle sue caratteristiche intrinseche: il patrimonio di informazione della MA è unico per ogni individuo ed
è verificabile solo in maniera indiretta e parziale mediante i dati forniti dal soggetto stesso o da testimoni
(parenti, amici). La soggettività interviene sia al momento della registrazione che del consolidamento e
del recupero di informazioni, che risultano distorte da bias sistemici (ad esempio, la tendenza a dare
continuità alla figura del sé o a fornire una immagine positiva in funzione di criteri di autostima attivi nel
momento del processo). Mentre in generale tutti gli studi sulla memoria implicano misure dell'accuratezza
del ricordo, per la MA questo è l'aspetto più difficilmente valutabile.
Una tecnica di esame primitivamente formulata da Galton (1879), che intendeva esplorare i contenuti
mentali utilizzando delle parole stimolo, è stata ripresa come prova per la MA da Crovitz e Schiffman
(1970, 1974). In generale, si presentano al soggetto delle parole (scelte secondo criteri variabili:
frequenza, concretezza, associabilità, valore emotivo, ecc.) e si richiede per ciascuna di esse la produzione
di un ricordo personale, un evento rievocato per via associativa. Il tipo di istruzioni e di costrizioni che
vengono date ha notevole influenza sulle risposte ottenute, che si possono valutare secondo numerose
variabili, per es.: la fluenza e la velocità con cui si ottiene la risposta, il valore episodico dell'evento
rievocato, la ricchezza di dettagli, l'attendibilità e la veridicità dell'episodio, la sua datazione.
In questa ricerca, per la valutazione della memoria autobiografica si fa riferimento al lavoro di Ghidoni,
Poletti e Bondavalli (1995), adattamento italiano della "Galton cueing technique". Questo strumento è
nato inizialmente per essere somministrato agli adulti di un’età compresa tra 15 e 80 anni. Si compone di
60 parole, di cui 30 associative e 30 concrete, scelte secondo i criteri sopra descritti. Le parole vengono
presentate singolarmente e il soggetto viene istruito a leggere la parola e a cercare di rievocare un ricordo
84
personale, inteso come episodio preciso accaduto in un tempo e luogo ben definiti. Si invita la persona a
specificare il luogo e il tempo dell'episodio anche nel caso egli non lo faccia spontaneamente. Il compito
viene spiegato con esempi. In caso di risposta insoddisfacente si ripetono le istruzioni per ogni successiva
parola fino alla decima; in seguito le istruzioni vengono ripetute ogni tre successive risposte
insoddisfacenti. In questa prova l’attenzione è focalizzata sul valore episodico dei ricordi evocati e sulla
loro distribuzione temporale. Viene adottato pertanto un sistema di attribuzione di punteggio per le
risposte che premia il contenuto episodico:
3 punti per un ricordo episodico personale con spazio e tempo ben specificati;
2 punti per un evento personale meno specifico, senza connotazione temporale precisa, o che si è
ripetuto più volte;
1 punto per un ricordo personale molto vago o per un’attribuzione semantica personale:
0 punti per risposte puramente semantiche (definizione della parola o affermazioni generiche
relative allo stimolo, senza riferimento personale) oppure nessuna risposta.
Le risposte vengono trascritte e successivamente valutate per l’attribuzione del punteggio. Sulla base
della versione appena descritta, è stato messo a punto da Sartori e collaboratori (Università di Padova) un
adattamento per l’età evolutiva, con la creazione di una versione del test per un campione di soggetti dai 6
agli 11 anni. Il test per bambini è costituito da un totale di 30 nuove parole (15 concrete, 15 astratte) per
adattare i tempi di somministrazione e la difficoltà della prova al campione. La modalità di
somministrazione e il sistema di attribuzione dei punteggi rimane lo stesso della prova per il campione
adulto.
Le analisi descrittive evidenziano un progressivo miglioramento della prestazione nel test: all’aumentare
dell’età migliora la capacità dei soggetti di rievocare e raccontare con dettagli ricordi autobiografici a
carattere episodico. Si evidenzia altresì una differenza marcata tra la prestazione dei soggetti della prima
classe elementare rispetto a tutte le altri classi: all’aumentare dell’età aumentano le risposte a 3 e 2 punti e
diminuiscono nettamente le risposte a 1 e 0 punti.
Questa versione costruita per l’età evolutiva non è ancora disponibile, e in attesa di pubblicazione è stata
scelta la versione per adulti come prova di memoria autobiografica nei bambini.
Il test di Crovitz può aiutare a indagare e misurare la capacità di memoria autobiografica, distinguendo il
carattere episodico e semantico del ricordo. Il test di Crovitz potrebbe essere utilizzato come un relativo
indicatore di funzionamento mnestico e come una variabile di confronto tra il gruppo sperimentale e di
controllo.
Inoltre, considerando la reale difficoltà di misurare un valore endocrino come quello del cortisolo che
consentirebbe una prova dell’interazione tra esperienza di abuso e maltrattamento, e memoria
85
autobiografica, osservabile da una diminuita risposta di cortisolo (Carpenter, Tyrka, Ross, Khoury,
Anderson e Price, 2009; Sturge-Apple, Davies, Cicchetti e Manning, 2012; Bogdan e Hariri, 2012),
quello che il test di Crovitz può aiutare a consolidare è la possibilità che un episodio di abuso o
maltrattamento subito possa predire come effetto indiretto una riduzione della capacità di memoria
autobiografica, pur mantenendo relativamente inalterata la capacità di memoria procedurale e semantica.
Oltre al test di Crovitz, al gruppo sperimentale sono stati somministrati due test per misurare la capacità
di memoria a lungo termine episodica e semantica.
Il test di prova di memoria di prosa (Spinnler e Tognoni, 1987) è un adattamento italiano del
Babcock Story Recall Test (Babcock e Levy, 1940; Rapaport, Gill e Schafer, 1986) che indaga i processi
di estrazione e rievocazione dei significati. La prova valuta sia la componente a lungo termine della
memoria, sia la capacità di comprensione verbale e di integrazione delle informazioni, e consente anche
di effettuare una valutazione della capacità di pianificazione andando ad analizzare la coerenza nella
ripetizione del testo.
La prova consiste nella lettura di un breve testo che il soggetto deve ripetere sia dopo la prima lettura sia
dopo la seconda a distanza di dieci minuti.
Per lo scoring viene attribuito un punteggio determinato a ogni evento ricordato e ai dettagli dell’evento
stesso, che saranno valutati solo se quel determinato evento è stato ricordato. Il punteggio totale è ricavato
dalla somma dei punteggi della rievocazione immediata e differita.
Il test di fluenza verbale per associazione libera di parole (Novelli, 1986) è una prova di accesso al
lessico interno, volto a misurare la capacità di memoria a lungo termine semantica.
La prova consiste nella letteratura di quattro parole, per le quali il soggetto deve assocciare tutte le parole
che gli vengono in mente. Per ogni parola il tempo concesso è di due minuti.
Lo scoring si ricava dalla somma delle parole per ogni parola-stimolo diviso per quattro.
L’utilizzo dei due test di memoria di prosa e di fluenza verbale dovrebbe consentire di ottenere una
misura della memoria procedurale e semantica nel gruppo sperimentale, ipotizzando che un
mantenimento della capacità dei due tipi di memoria possa esserci indipendentemente da una riduzione
della capacità di memoria autobiografica.
Infine, i colloqui clinici e di assessment effettuati con i soggetti del gruppo sperimentale e in
misura minore con i soggetti del gruppo di controllo forniscono elementi importanti alla rilevazione e
valutazione di alcune variabili: caratteristiche personali, modalità relazioni, comportamento verbale,
comportamento non verbale, competenze linguistiche, livello di attenzione, stati emotivi, ecc. Inoltre, i
colloqui e i contatti con genitori e familiari dei soggetti sperimentali hanno determinato le rilevazioni di
altri importanti elementi relativi al bambino e alla sua storia, facilitando la costruzione di ipotesi relative
86
alla relazione di attaccamento bambino-genitore. In aggiunta, questi elementi uniti ai dati raccolti presso
“Il Faro”, favoriscono un’analisi dei casi clinici più completa.
87
Setting e campione.
La ricerca è stata svolta in collaborazione con il Centro Specialistico “Il Faro”, che ha messo a
disposizione un archivio di casi clinici di minori valutati negli ultimi quattro anni. Il campione è
rappresentato da un gruppo sperimentale e un gruppo di controllo.
Il gruppo sperimentale è formato da soggetti selezionati in base a specifiche caratteristiche:
 essere vittima di abuso o maltrattamento o sospetto di abuso nell’infanzia;
 età compresa tra 6 e 14 anni;
 aver frequentato almeno la classe prima elementare;
 assenza di deficit cognitivi e un QI nella media.
Le caratteristiche del campione sperimentale sono riportate nelle tabelle e nei grafici sottostanti che
descrivono le frequenze delle variabili esaminate. In totale, il gruppo sperimentale è costituito da 8
soggetti, di cui 6 soggetti femmine e 2 soggetti maschi (vedi in Tabella 1). L’età dei soggetti è compresa
tra 6 e 12 anni (vedi tabella 2) e gli anni di scolarità variano da un minimo di 1 a un massimo di 7, che
corrispondono alle classi della scuola elementare e media (vedi tabella 4). Il gruppo sperimentale si
differenzia dal gruppo di controllo perché tutti i soggetti hanno subito abusi o un sospetto di abuso negli
ultimi quattro anni della vita. Come è riportato in tabella 5, 1 soggetto è stato vittima di abuso fisico e
abuso emotivo, 6 soggetti di sospetto di abuso sessuale, e 1 soggetto di sospetto di abuso sessuale e
violenza assistita. Le tipologie di abuso riportate comprendono l’abuso intrafamiliare ed extrafamiliare,
ovvero in 4 soggetti l’autore dell’abuso è un genitore o un parente della famiglia di appartenenza e in 4
soggetti l’autore dell’abuso è una persona esterna alla famiglia, ad esempio un insegnante o un educatore
oppure una persona sconosciuta alla famiglia (vedi in tabella 6). Tutti i soggetti provengono dalla
provincia di Bologna (vedi in tabella 10).
Altra caratteristica valutata nel gruppo sperimentale è la variabile “coppia genitoriale”, la quale è descritta
in base allo stato attuale di relazione all’interno della coppia (vedi in tabella 8). N. 4 soggetti ha genitori
coniugati, 3 separati e 1 soggetto ha genitori adottivi. Tuttavia, le tabelle descrittive non tengono conto
del percorso comunitario e di affidamento precedente alla situazione attuale in cui si trovano i soggetti,
che potrebbero essere ricostruito dagli elementi clinici emersi durante i colloqui.
La descrizione del gruppo sperimentale prende in considerazione quanto tempo è trascorso dall’evento di
abuso a oggi e il tipo di intervento psicologico a cui i soggetti hanno partecipato. Come si nota in tabella
7, 5 soggetti hanno vissuto l’evento di abuso un anno fa, 1 soggetto ha vissuto l’evento di abuso due anni
fa, e 2 soggetti hanno vissuto l’evento di abuso quattro anni fa. Gli interventi effettuati sono stati scelti in
base alla valutazione del singolo caso e sono stati programmati dal Centro Specialistico “Il Faro”. Gli
88
interventi sono suddivisi in: psicoterapia individuale, terapia familiare o terapia di coppia genitoriale,
terapia di gruppo intesa come laboratori terapeutici esperienziali organizzati dall’Associazione onlus
“L’Isola che c’è”, e il trattamento integrato tra i precedenti. Dalla tabella 9 emerge che 1 soggetto ha
partecipato a un trattamento psicoterapico individuale, 2 soggetti hanno partecipato alla terapia di gruppo,
1 soggetto ha partecipato alla terapia familiare, 1 soggetto ha partecipato a un trattamento integrato e 3
soggetti non hanno ricevuto nessun intervento. Tuttavia, non sempre è stato possibile ricavare dati relativi
al tempo trascorso tra l’accadimento dell’evento di abuso, l’inizio e la fine del trattamento ricevuto, e per
questo motivo tali dati nono sono stati inseriti nelle statistiche descrittive del campione.
Il gruppo di controllo è formato da soggetti reperiti dalla popolazione generale. In totale, il gruppo
di controllo è costituito da 7 soggetti, di cui 4 femmine e 3 maschi (vedi tabella 11), tutti provenienti dalla
provincia di Forlì - Cesena (vedi tabella 16). L’età dei soggetti è compresa tra 7 e 13 anni (vedi tabella
12) e gli anni di scolarità variano da un minimo di 1 a un massimo di 8 (vedi tabella 14). Anche per il
gruppo di controllo è stata presa in considerazione la variabile “coppia genitoriale”. Tutti i soggetti hanno
genitori coniugati (vedi tabella 15).
Infine, nell'ultima parte del paragrafo sono presenti grafici che confrontano le differenze nelle variabili
descrittive tra i due gruppi.
89
Tabelle di frequenza del gruppo sperimentale
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
F
6
75,0
75,0
75,0
Valid M
2
25,0
25,0
100,0
8
100,0
100,0
Total
Tabella 1 - Sesso campione sperimentale
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Valid
6
1
12,5
12,5
12,5
7
2
25,0
25,0
37,5
8
1
12,5
12,5
50,0
9
1
12,5
12,5
62,5
11
2
25,0
25,0
87,5
12
1
12,5
12,5
100,0
Total
8
100,0
100,0
Tabella 2 - Età campione sperimentale
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Valid
2002
2
25,0
25,0
25,0
2003
1
12,5
12,5
37,5
2005
1
12,5
12,5
50,0
2006
2
25,0
25,0
75,0
2007
2
25,0
25,0
100,0
Total
8
100,0
100,0
Tabella 3 - Anno di nascita campione sperimentale
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Valid
1
2
25,0
25,0
25,0
2
1
12,5
12,5
37,5
3
1
12,5
12,5
50,0
4
1
12,5
12,5
62,5
6
1
12,5
12,5
75,0
7
2
25,0
25,0
100,0
Total
8
100,0
100,0
Tabella 4 - Anni di scolarità campione sperimentale
90
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Valid
Abuso emotivo e fisico
1
12,5
12,5
12,5
Sospetto abuso sessuale
6
75,0
75,0
87,5
Sospetto abuso sessuale e violenza assistita
1
12,5
12,5
100,0
Total
8
100,0
100,0
Tabella 5 - Tipo di abuso campione sperimentale
13%
100%
SOSPETTO ABUSO
SESSUALE E
VIOLENZA
ASSISTITA
13%
80%
ABUSO EMOTIVO
E FISICO
60%
75%
40%
SOSPETTO ABUSO
SESSUALE
20%
0%
TIPO DI ABUSO
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Extrafamiliare
4
50,0
50,0
50,0
Valid Intrafamiliare
4
50,0
50,0
100,0
8
100,0
100,0
Total
Tabella 6 - Autore abuso campione sperimentale
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Valid
1
5
62,5
62,5
62,5
2
1
12,5
12,5
75,0
4
2
25,0
25,0
100,0
Total
8
100,0
100,0
Tabella 7 - Età abuso campione sperimentale
91
100%
25%
80%
4 ANNI
13%
60%
2 ANNI
63%
40%
1 ANNO
20%
0%
ETA' DELL'ABUSO
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Valid
adottivi/affidatari
1
12,5
12,5
12,5
coniugati
4
50,0
50,0
62,5
separati
3
37,5
37,5
100,0
Total
8
100,0
100,0
Tabella 8 - Coppia genitoriale campione sperimentale
100%
80%
38%
SEPARATI
60%
40%
20%
50%
CONIUGATI
ADOTTIVI/AFFI
DATARI
13%
0%
COPPIA
GENITORIALE
92
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Valid
familiare
1
12,5
12,5
12,5
gruppo
2
25,0
25,0
37,5
individuale
1
12,5
12,5
50,0
integrato
1
12,5
12,5
62,5
nessuno
3
37,5
37,5
100,0
Total
8
100,0
100,0
Tabella 9 - Tipo di intervento campione sperimentale
100%
NESSUNO
38%
80%
60%
13%
13%
40%
25%
20%
13%
INTEGRATO
INDIVIDUALE
GRUPPO
FAMILIARE
0%
TIPO DI INTERVENTO
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Valid BO
8
100,0
100,0
100,0
Tabella 10 - Provincia campione sperimentale
Tabelle di frequenza del gruppo di controllo
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
F
4
57,1
57,1
57,1
Valid M
3
42,9
42,9
100,0
7
100,0
100,0
Total
Tabella 11 - Sesso campione di controllo
93
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Valid
7
1
14,3
14,3
14,3
8
2
28,6
28,6
42,9
10
1
14,3
14,3
57,1
12
1
14,3
14,3
71,4
13
2
28,6
28,6
100,0
Total
7
100,0
100,0
Tabella 12 - Età campione di controllo
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Valid
2000
1
14,3
14,3
14,3
2001
2
28,6
28,6
42,9
2004
1
14,3
14,3
57,1
2005
2
28,6
28,6
85,7
2007
1
14,3
14,3
100,0
Total
7
100,0
100,0
Tabella 13 - Anno di nascita campione di controllo
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Valid
1
1
14,3
14,3
14,3
3
2
28,6
28,6
42,9
4
1
14,3
14,3
57,1
7
2
28,6
28,6
85,7
8
1
14,3
14,3
100,0
Total
7
100,0
100,0
Tabella 14 - Anni di scolarità campione di controllo
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Valid coniugati
7
100,0
100,0
100,0
Tabella 15 - Coppia genitoriale campione di controllo
Frequency Percent Valid Percent Cumulative Percent
Valid FC
7
100,0
100,0
Tabella 16 - Provincia campione di controllo
94
100,0
Grafici di rappresentazione del confronto fra gruppo sperimentale e gruppo di controllo
66,7
100
33,3
50
0
Femmine
Maschi
Figura 1 - Sesso
20
20
20
15
10
6,7
6,7
13,3
13,3
13,3
11
12
13
6,7
5
0
6
7
8
9
10
Età
Figura 2 - Età
95
30
25
26,7
20
20
20
13,3
15
10
6,7
6,7
6,7
5
0
1
2
3
4
6
7
Anni di scolarità
Figura 3 - Anni di scolarità
Coppia genitoriale
73,3
20
6,7
adozione/affido
coniugati
separati
Figura 4 - Coppia genitoriale
96
8
3.3 Analisi dei risultati.
1° Ipotesi
I due gruppi di soggetti analizzati differiscono al test di memoria autobiografica di Crovitz, sia per
la memoria di parole concrete, sia per quelle astratte, sia per il totale del test.
Utilizzando il programma statistico SPSS, ho applicato il test non parametrico U di Mann-Whitney che ha
prodotto i seguenti risultati:
Parole concrete
Parole astratte
97
Totale Crovitz
Come si può osservare dalle tabelle, non sono state evidenziate differenze significative tra i due gruppi.
Risultati analoghi si sono ottenuti applicando il t di Student per campioni indipendenti per verificare le
differenze delle medie.
La prima ipotesi dunque non è verificata.
Test per campioni indipendenti
Test di Levene di uguaglianza delle
varianze
Assumi varianze uguali
Tot
Non assumere varianze
concrete
uguali
F
Sig.
,022
,884
Test t di uguaglianza
delle medie
Sig.
t
df
(2code)
,060
13
,953
,060
12,604
,953
Test per campioni indipendenti
Test di Levene di uguaglianza Test t di uguaglianza delle
delle varianze
medie
Sig. (2F
Sig.
t
df
code)
Assumi varianze
uguali
Tot
astratte Non assumere varianze
uguali
,747
,403
98
-,077
13
,940
-,078
12,944
,939
Test per campioni indipendenti
Test di Levene di uguaglianza Test t di uguaglianza delle
delle varianze
medie
Sig. (2F
Sig.
t
df
code)
Assumi varianze
uguali
Non assumere
varianze uguali
Tot
Crovitz
,133
,721
-,009
13
,993
-,009
12,588
,993
2° Ipotesi
I due gruppi differiscono al test di Crovitz se si inserisce la variabile età dei soggetti come
covariata, dopo aver verificato che non ci siano differenze significative delle età fra i due gruppi.
Gruppi
Numerici
E
1
età
2
8
Statistiche di gruppo
Deviazione
Media
std.
8,88
2,232
7
10,14
N
Errore std. Media
2,545
,789
,962
Test per campioni indipendenti
Test di Levene di
Test t di uguaglianza delle medie
uguaglianza delle varianze
F
Sig.
t
df
Sig. (2-code)
Assumi varianze uguali
,314
,585
-1,029
13
,322
E
Non assumere varianze
età
-1,019
12,098
,328
uguali
Come si può notare dalla prima tabella, le medie sono molto simili e le deviazioni standard praticamente
uguali. La seconda tabella mostra la non significatività delle differenze.
Eseguendo a questo punto un test Anova univariata, ponendo come variabile dipendente il totale delle
risposte alle parole concrete, come indipendente i due gruppi, e come covariata l’età, otteniamo i risultati
illustrati dalle tabelle e dai grafici sottostanti.
99
Test degli effetti fra soggetti
Variabile dipendente: tot concrete
Sorgente
Modello
corretto
Intercetta
Età
GRUPPI
Errore
Totale
Totale corretto
Somma dei
quadrati Tipo
III
df
Media dei
quadrati
F
Sig.
3721,8 11a
2
1860,905
7,308
,008
38,996
1
38,996
,153
3719,906
1
3719,906
14,609
326,157
1
326,157
1,281
3055,522
12
254,627
90404,000
15
6777,333
14
a. R quadrato = ,549 (R quadrato corretto = ,474)
100
,702
,002
,280
Di seguito, è inserita come variabile dipendente il totale delle risposte alle parole astratte.
Test degli effetti fra soggetti
Variabile dipendente: totastratte
Sorgente
Modello
corretto
Intercetta
Età
GRUPPI
Errore
Totale
Totale corretto
Somma dei
quadrati Tipo
III
df
Media dei
quadrati
F
Sig.
3770,969a
2
1885,485
6,958
,010
564,093
1
564,093
2,082
3767,750
1
3767,750
13,903
228,451
1
228,451
,843
3251,964
12
270,997
32156,000
15
7022,933
14
a. R quadrato = ,537 (R quadrato corretto = ,460)
,175
,003
,377
Infine, è inserita come variabile dipendente il totale delle risposte al test di Crovitz.
101
Test degli effetti fra soggetti
Sorgente
Modello
corretto
Intercetta
Età
GRUPPI
Errore
Totale
Totale corretto
Variabile dipendente: tot Crovitz
Somma dei
df
Media dei
F
quadrati Tipo
quadrati
III
14975,331a
2
7487,666
8,336
306,460
1
306,460
,341
14975,160
1
14975,160
16,673
1100,541
1
1100,541
1,225
10778,269
12
898,189
226204,000
15
25753,600
14
a. R quadrato = ,581 (R quadrato corretto = ,512)
Sig.
,005
,570
,002
,290
In tutti tre i casi, le differenze appaiono significative con un vantaggio sistematico per il gruppo dei
soggetti che si sono rivolti al Servizio.
102
Per confermare l’effetto dell’età sui valori della memoria autobiografica, ho effettuato un test di
regressione lineare ponendo come variabile dipendente il totale al test di Crovitz e l’età dei soggetti come
predittore. Il risultato è significativo come mostrano tabelle e grafici sottostanti.
Correlazione di
Pearson
Sig. (1 coda)
N
Correlazioni
Tot Crovitz
TOT CROVITZ
1,000
età
,734
TOT CROVITZ
.
età
,001
TOT CROVITZ
15
età
15
Età
,734
1,000
,001
.
15
15
Riepilogo del modellob
R-quadrato
Deviazione standard
Modello
R
R-quadrato
corretto
Errore della stima
a
1
30,228
,734
,539
,503
a. Predittori: (Costante), età
b. Variabile dipendente: Tot Crovitz
Coefficientia
Coefficienti non
Coefficienti
standardizzati
standardizzati
Modello
Deviazione
B
standard
Beta
Errore
(Costante)
-9,279
32,984
1
età
13,191
3,385
,734
a. Variabile dipendente: TOTCROVITZ
103
t
Sig.
-,281
3,897
,783
,002
3° Ipotesi
Ho da ultimo effettuato un test non parametrico di correlazione di Spearman soltanto fra i soggetti
clinici, che ha evidenziato alti livelli correlazionali fra memorie lessicali e semantiche e autobiografiche.
Spearman Rank Order Correlations MD pairwise deleted Marked correlations are significant at p
<,05000
TOT
CONCR
TOT
ASTR
TOT
TUTTE
Riev.
Immediata
Totale
MLT
semantica
TOT
CONCRETE
1,000000 0,864817
0,973168
0,860622
0,843435
0,506061
TOT
ASTRATTE
0,864817 1,000000
0,924040
0,873494
0,802410
0,694623
TOT TUTTE
0,973168 0,924040
1,000000
0,946125
0,880952
0,595238
Riev.Immediata 0,860622 0,873494
0,946125
1,000000
0,898220
0,610789
Totale
0,843435 0,802410
0,880952
0,898220
1,000000
0,714286
MLT
semantica
0,506061 0,694623
0,595238
0,610789
0,714286
1,000000
104
Discussione e limiti.
Dalle analisi statistiche emerge che i soggetti clinici hanno un andamento maggiore nel punteggio
di memoria autobiografica al test di Crovitz sia nel totale sia nella memoria delle parole astratte e delle
concrete, rispetto ai soggetti non clinici. In tutti e tre i casi, la direzione delle medie marginali ha un
andamento crescente per i soggetti del gruppo sperimentale.
Per verificare ulteriormente l’attendibilità di tale dato, si potrebbe misurare il livello di cortisolo, come
risposta allo stress, in quanto i recenti studi indicano un’alterazione del livello di cortisolo in bambini che
hanno vissuto esperienze traumatiche di abuso e maltrattamento (ad esempio, Fenoglio, Brunson, Baram,
2006; Fumagalli, Molteni, Racagni, Riva, 2007). L’ipotesi è che i soggetti che si suppone abbiano subito
esperienze precoci avversive, come ad esempio un abuso, hanno sviluppato invece che una riduzione
dell’evento, una capacità forte di ricordare situazioni o eventi non traumatici.
Nel processo di memoria, i ricordi degli episodi passati si fissano in due modi: gli ormoni
mineralcorticoidi fissano le memorie neutre, cioè non emotivamente cariche, così come ad esempio, altri
elementi neutri della storia dell’individuo; invece il cortisolo fissa una traccia per le memorie
emotivamente cariche.
Considerando il dato psicometrico si potrebbe immaginare che i bambini del gruppo sperimentale hanno
sviluppato una maggiore capacità dei mineralcorticoidi, che consente loro di ricordare meglio gli eventi
autobiografici, qui rappresentati dalle parole neutre del test di Crovitz, e che non si riferiscono a eventi
emotivamente carichi.
Inoltre, i dati hanno verificato un effetto significativo dell’età sui valori della memoria autobiografica,
dato da un valore della regressione molto alto. Indipendentemente dall’età, i soggetti clinici hanno
sviluppato una capacità mnestica particolarmente rilevante.
In conclusione, si potrebbe ipotizzare che i bambini del gruppo sperimentale che si suppone
abbiano subito episodi di abuso, come i soggetti che soffrono di un disturbo post-traumatico da stress,
sviluppano sintomi di flashback come risposta al trauma, che li porta a “ripetere” il ricordo dell’evento e a
sviluppare un’iperattivazione psicofisiologica.
Generalmente, le rievocazioni degli episodi autobiografici al test di Crovitz dei bambini clinici hanno la
caratteristica di vividezza, ma senza un riferimento preciso. Tale elemento deve essere considerato alla
luce dei limiti della ricerca, che per questioni di tempo non ha potuto permettere lo stabilirsi di una
adeguata relazione di fiducia tra l’esaminatore e i bambini.
105
Nella ricerca emergono limiti inerenti la procedura di selezione del campione e degli strumenti. Ai
genitori dei bambini del gruppo sperimentale è stato comunicato che i colloqui con i bambini non
andavano a vertere sui contenuti delle esperienze traumatiche vissute nel passato, e che si trattava di test
che valutavano il funzionamento della memoria a lungo termine episodica e semantica e della memoria
autobiografica. E’ possibile, quindi, che i bambini del gruppo sperimentale che hanno inizialmente
ricevuto la comunicazione sulla ricerca da parte del genitore, abbiano percepito un messaggio implicito
sull’esperienza traumatica, e che questo fattore abbia influenzato le risposte ai test e durante il colloquio.
Molti dei genitori erano preoccupati che potessero emergere contenuti traumatici passati ed è possibile
che la modalità con cui il genitore e il bambino hanno affrontato l’argomento sulla ricerca sia stata
caratterizzata da ansia, pensieri di preoccupazione, fantasie, insicurezze ecc. Questo aspetto è da valutare
come variabile non controllata della ricerca, perché non è stato possibile misurarla e potrebbe aver
influito sulle risposte del bambino ai test e nel colloquio.
Altro limite presente in entrambi i gruppi è rappresentato dal setting. Principalmente i colloqui si
sono svolti nelle abitazioni dei bambini ed è possibile che la presenza di variabili disturbanti come il
rumore, oggetti, persone, ecc., possano aver influito sulle risposte dei bambini, sulla prestazione, sullo
stati emotivi e sul comportamento.
In letteratura, sono presenti molte ricerche che indagano la capacità di memoria autobiografica nel
bambino valutando la veridicità degli episodi rievocati e della loro datazione, attraverso il confronto con
il genitore. In questa ricerca non è sempre stato possibile ottenere questo confronto, e questo dato non è
stato inserito nelle analisi dei dati.
Un altro limite riguarda la procedura, la scelta e la quantità degli strumenti di valutazione. Per
questioni di tempo limitato si è scelto si somministrare tutti i test solo al gruppo sperimentale, per cui
manca un confronto della capacità di memoria lessicale e semantica fra i due gruppi.
Il test di Crovitz è uno strumento tarato solo per l’età dai 15 agli 80 anni e non si dispone ancora dello
strumento adattato per l’età evolutiva. Tuttavia, l’analisi dei dati tiene conto anche dei singoli punteggi
agli item e cioè dei contenuti qualitativi dei ricordi, che aggiungono valore alla valutazione del caso
singolo e a ipotesi interpretative.
Inoltre, manca una valutazione dello stile di attaccamento, delle capacità genitoriali e un’approfondita
anamnesi familiare, che avrebbe aggiunto valore ai dati emersi sulla memoria autobiografica.
In letteratura è ampiamente riconosciuto l’effetto dello stress, delle esperienze traumatiche di
abuso e maltrattamento, e dell’ambiente affettivo primario sulle risposte di cortisolo nel bambino. In
questa ricerca, non è stato possibile misurare il livello di cortisolo nei bambini per ottenere una misura
specifica dell’interazione tra gene e ambiente.
106
Un altro limite riguarda la scarsa numerosità del campione che non è rappresentativa della
popolazione generale. Tuttavia, questa ricerca può rappresentare uno studio preliminare sui cui dati
discutere e approfondire. Inoltre, l’analisi e la valutazione dei dati riguardano anche lo studio singolo dei
casi clinici, come fonte di ipotesi e interpretazioni.
107
CAPITOLO 4 ANALISI DEI DATI CLINICI
Premessa
In quest’ultima parte saranno presi in considerazione i casi clinici rappresentati dai soggetti del
gruppo sperimentale, attraverso un approfondimento degli elementi emersi durante i colloqui clinici e di
valutazione. L’aspetto “relazionale”, ovvero l’interazione tra l’esaminatore, i bambini e i genitori è un
fattore molto importante nella valutazione clinica e nella formulazione di ipotesi diagnostiche, relative
alla personalità del bambino, all’effetto del trauma sul bambino e sulla memoria autobiografica. Oltre ai
risultati ottenuti dalle analisi statistiche, l’osservazione indiretta rappresenta qui uno strumento essenziale
che integra con altri aspetti salienti la comprensione del bambino e del suo ambiente affettivo primario.
L’osservazione diventa un’occasione per riflettere, pensare e collegare gli eventi, anche all’interno della
supervisione della discussione dei casi, con l’obiettivo di costruire ipotesi interpretative per successive
valutazioni e futuri studi di ricerca.
La descrizione dei casi clinici ha cercato di porre l’attenzione su alcuni punti principali, anche se non
sempre è stato possibile valutarli:
anamnesi del bambino e del suo ambiente familiare;
comportamenti verbali e non verbali;
capacità cognitive (capacità di comprensione linguistica, livello di attenzione e concentrazione
sulle prove ecc.);
elementi significativi emersi dalla rievocazione degli episodi personali agli stimoli neutri della
prova di memoria autobiografica;
vissuti emotivi, stati di ansia ecc.;
elementi dell’interazione bambino-genitore;
caratteristiche del genitore (es., comportamenti verso il figlio).
108
4.1 Casi clinici.
E. è una bambina di 7 anni, frequentante la classe prima elementare. Inizialmente mostra timore
nell’incontrare una psicologa nuova perché è solita incontrare il neuropsichiatra infantile del centro che la
segue dal 2003. Benché la madre, inizialmente, fosse dubbiosa nell’accettare la proposta per evitare
vissuti emotivi negativi nella figlia, in seguito ha dato la sua disponibilità e l’ha accompagnata presso il
centro dove sono stati effettuati i colloqui. La madre ha accettato pensando che i dati ottenuti dai test
potessero servire per riscontrare nella bambina la presenza di eventuali problematiche.
Dai racconti di alcuni episodi di vita emerge la figura di una madre preoccupata e in ansia per la figlia,
che agisce su di lei comportamenti di iper protezione e di attenzione a qualsiasi segnale proveniente da E.,
soprattutto da quando la bambina è stata esposta a episodi di sospetto di molestia fisica extrafamiliare che
non hanno trovato alcun riscontro di conferma.
Alcuni episodi rievocati fanno riferimento ad atteggiamenti svalutativi della madre sulla figlia (Augurio:
“era bello ed era il giorno del mio compleanno di 5 anni e ho ricevuto una casa di legno, dentro c’era la
cucina finta ma sembrava vera. Quel giorno giocavo e stavo molto bene. Ero affezionata a quella casa
ma la mamma l’ha tolta e l’ha regalata alla cugina”). Dall’altra parte la figura del padre rimane sullo
sfondo, poco presente e poco considerato, soprattutto dalla madre di E. La bambina menziona più volte il
padre nei suoi racconti, descrivendolo durante piacevoli momenti di gioco condiviso, oppure come un
“pasticcione”, che combina piccoli guai domestici, ai quali subentrano le risate o le svalutazioni della
moglie (Coltello: “papà ha affettato un’anguria. L’anguria è schizzata in faccia alla mamma, a mio
fratello e al papà e la mamma si è arrabbiata.”). Da alcuni racconti, emerge un atteggiamento svalutativo
di E. nei confronti del padre, ipotizzando un comportamento appreso da quello materno (Latte:
“Stamattina ho mangiato il latte con il cacao e sono arrivata tardi a scuola perché il papà ha preparato
tardi il latte e i pan di stelle.”; accusa: “l’altra domenica ho accusato mio padre di aver aperto il
rubinetto perché è schizzata tutta l’acqua.”). Il padre appare come una figura passiva e subordinata a
quella della madre, mentre la madre come intrusiva e investigativa.
Il confronto di questi aspetti durante la supervisione, hanno confermato l’atteggiamento di svalutazione
della madre nei confronti del padre ed eccessiva attenzione a tutti quei segnali provenienti dalla figlia che
potrebbero invece confermare il sospetto di maltrattamento fisico. I genitori sono stati inviati a un
percorso di coppia.
E. ha una sorella e un fratello maggiore, ma appaiono come figure marginali negli episodi di vita
personali.
Durante la somministrazione del test di Crovitz, E. è stata collaborativa e ha risposto alle prime parole
concrete, ma il suo livello di attenzione è diminuito col passare del tempo e non ha terminato tutte le
109
parole. E. ha mostrato segnali di noia, ed è sembrata più interessata a terminare presto per poter giocare
insieme a me. E. ha fornito più risposte incomplete alle parole astratte, probabilmente per difficoltà a
riconoscere il significato dei termini.
Gli episodi personali erano spesso arricchiti da molti dettagli dell’evento: il contesto più riferito è stato
quello familiare e in misura minore quello scolastico, e i ricordi a valenza negativa sono stati più presenti
di quelli a valenza positiva. La datazione degli episodi rievocati è stata in misura maggiore “assente”, e in
misura minore “recentemente”. Il punteggio totale di memoria autobiografica è basso rispetto al
punteggio medio del gruppo sperimentale (p= 156,8), e al di sotto del punteggio medio totale (gruppi
sperimentale + controllo) (p= 158,4). Inoltre, c’è una preminenza delle risposte alle parole concrete (p=
30) rispetto a quelle astratte (p= 8). Quando E. non era in grado di ricordare in modo specifico un
episodio, tendeva ad aggiungere elementi di fantasia. Questo aspetto è stato notato durante le rievocazioni
immediata e differita del raccontino, nelle quali ha introdotto elementi da lei conosciuti ma incoerenti con
quelli del raccontino, come ad es. la storia di una fiaba o una canzone (p= 2,40/16).
Durante la somministrazione dei test, E. si muoveva spesso sulla sedia, si guardava attorno, si appoggiava
sul tavolo con la testa e mostrava segni di stanchezza e noia.
Durante i colloqui, E. ha scelto in autonomia di giocare al “gioco di prepararmi da mangiare” e al “gioco
del dottore” utilizzando del materiale conosciuto presente nella stanza. In entrambi i giochi, E. aveva
assunto il ruolo della conduttrice ed esaminatrice (cuoca e dottore) e per me aveva scelto il ruolo
dell’esaminata (cliente e ammalata). E. utilizzava termini e azioni molto specifici al suo ruolo. Da questi
elementi sembra che E. abbia messo in atto comportamenti di controllo della situazione o di un vissuto
emotivo, forse di uno stato d’ansia legato alla situazione prestazionale o alla relazione con una persona
sconosciuta, poiché ha ribaltato i ruoli esaminatore-paziente. Si potrebbe ipotizzare un comportamento
appreso dalla madre, la quale è iper attenta, preoccupata e controllante sulla figlia e sull’ambiente. Il
“gioco” potrebbe essere letto come collegamento o significato di una traccia mnestica, oppure, al
contrario è un elemento casuale, poiché è un gioco comune tra bambini della stessa età. Il riferimento sul
corpo, sulle malattie e sulle cure mediche potrebbe essere letto come elemento di maggiore sensibilità,
oppure legato a esperienze vissute da E., come ad esempio, visite mediche. Il linguaggio e la
comprensione verbale appaiono adeguati all’età. Il punteggio al test di fluenza verbale evidenzia una
capacità di memoria a lungo termine semantica adeguata all’età (p= 7,00 vs. punteggio medio= 16,42).
K. è un bambino di 7 anni, frequentante la classe prima elementare. E’ di origine sudamericana e
proviene da un contesto di deprivazione affettiva e sociale, caratterizzato da ripetuti maltrattamenti fisici
ed emotivi subiti dalla madre naturale. K. è stato allontanato dalla madre all’età di 4 anni e in seguito è
stato inserito prima presso la famiglia materna e successivamente presso una famiglia affidataria. Dal
110
2012, K. è stato adottato dall’attuale famiglia italiana. La madre ha accettato volentieri la proposta di
ricerca perché voleva capire più cose possibili del figlio, soprattutto sulla sua storia passata e sugli effetti
sullo sviluppo del bambino. Durante il primo anno di permanenza in famiglia, K. ha portato
spontaneamente alcuni ricordi sulla sua vita, tra cui le violenze subite dalla madre. A scuola ha mostrato
problemi di attenzione, concentrazione e disinteresse, e ha messo in atto comportamenti aggressivi nei
confronti degli oggetti e dei compagni, e manifestazioni di rabbia incontrollata, in precedenza anche a
casa. Questi elementi fanno suppore la presenza di una disregolazione emotiva e una forte paura di non
essere accettato. Dopo la valutazione neuropsichiatrica, K. È stato inserito in un laboratorio terapeutico
esperienziale.
I rapporti con la madre, il padre e la nonna materna sembrano essere positivi e caratterizzati da un forte
legame. La madre appare molto coinvolta nella vita del bambino, attenta ai suoi bisogni, e interessata a
fargli svolgere attività che lo entusiasmi e lo arricchisca.
I colloqui con K. si sono svolti presso il suo domicilio. Inizialmente, K. sembra intimidito dalla mia
presenza ma gradualmente acquisisce confidenza e collabora volentieri alla somministrazione testistica.
Appare come un bambino vivace, desideroso di raccontare le sue giornate e le cose che gli piacciono.
Durante i test, K. cerca di attirare la mia attenzione mostrandomi le sue doti da ginnasta. Nonostante si
muove spesso sulla sedia, manipola degli oggetti, o disegna, risponde con attenzione alle domande e non
sembra perdere la concentrazione. Tra la somministrazione di un test e l’altro giochiamo a dama e in
quell’occasione appare gradire la competizione con me, ad esempio esultando delle vittorie ottenute e
sembra in grado di tollerare la sconfitta. Inoltre, diverse volte mi chiede con impeto di guardare la tv, ma
accetta la negazione.
K. è molto coinvolto dal test di Crovitz. Le rievocazioni degli episodi personali si riferiscono
principalmente ad attività di gioco, di scambio affettivo con la madre, il padre, la nonna e anche se i
relativi contenuti emotivi sono scarsi, la valenza emotiva predominante è quella positiva (per es.,
fenomeno: “ delle volte la mamma, tipo ieri, mi dice fenomeno, oppure anche il papà”). Inoltre, dai
contenuti dei ricordi emerge che i genitori riconoscono i bisogni di K. e se ne prendono cura (per es.,
bottone: “quando mi si stacca un bottone dalla felpa, la mamma mette un altro bottone”; unghia: “papà
mi taglia sempre le unghie”), e sembra sentirsi sicuro e protetto (per es., salvezza: “ una volta, quando
ero al mare, stavo andando giù sott’acqua e papà mi ha preso e mi ha portato su di nuovo, e alcune volte
è successo che a papà, alcune anguille, l’hanno punto”). La presenza di emozioni negative riguarda
episodi personali associati in modo coerente alla parola-stimolo (per es., disturbo o perdono). Non sono
mai presenti ricordi legati a periodi di vita precedente a quella con la famiglia adottiva e questo aspetto è
confermato dalla totale preminenza di datazioni recenti. Si potrebbe ipotizzare un effetto del trauma sulla
111
traccia mnestica del bambino, oppure un’esigenza della psiche di difendersi da contenuti troppo dolorosi.
Tuttavia, dal colloquio con la madre è emerso che K., poco dopo l’ingresso nella nuova famiglia, ha
mostrato il bisogno di parlare di alcuni contenuti degli episodi traumatici passati, prediligendo una
modalità simbolica (ad es., “queste cose le possiamo buttare nel cestino”). Da questo elemento si
potrebbe ipotizzare che il bambino ha tentato di digerire o elaborare vissuti emotivi collegati al trauma.
Attualmente, il bambino evita di parlare la propria lingua madre anche su richiesta e forse questo nuovo
elemento può essere letto come modalità difensiva.
Il punteggio totale della memoria autobiografica è 129, vicino alla media totale del gruppo sperimentale
(p= 156,8). Il punteggio delle risposte alle parole concrete è maggiore rispetto a quello delle parole
astratte (p= 58; p= 13). Il linguaggio e la comprensione verbale appaiono adeguati all’età, così come la
comprensione della lingua italiana. Il punteggio al test di fluenza verbale evidenzia una capacità di
memoria a lungo termine semantica adeguata all’età (p= 7,25 vs. punteggio medio= 16,42), così come il
punteggio totale di memoria a lungo termine episodica (p= 13, 30/16).
M. ha 11 anni e frequenta la classe prima media. I genitori sono stati sin da subito disponibili a
collaborare alla ricerca. I colloqui con il bambino e i genitori si sono svolti presso la loro abitazione.
Dall’anamnesi familiare emerge una famiglia allargata: il padre, di anni 58, ha un altro figlio di 39 anni,
proveniente da un precedente matrimonio e dopo un anno che lui e la moglie erano insieme, è nato M.
Inoltre, dai racconti di M., i nonni materni sono molti presenti nella sua vita.
La prima accoglienza è avvenuta dalla madre che si è mostrata molto gentile. Il padre si è presentato
come molto colloquiale e desideroso di entrare in relazione con me, anche se con modalità troppo
confidenziali. Ad esempio, nonostante fosse a conoscenza del colloquio tra me e M., è entrato nella stanza
per presentarsi, e si è offerto di regalarmi un tatuaggio, sua passione, per ringraziarmi della valutazione
che stavo svolgendo su suo figlio. Inoltre, il padre ha una patologia di disabilità fisica di forte impatto;
tuttavia, M. parlandomi della sua famiglia, non ha menzionato questo aspetto.
Durante il colloquio di restituzione con i genitori, il padre ha assunto un ruolo attivo, prevaricando sulla
moglie, e sminuendola (“che cosa ne vuoi sapere tu”), mentre la madre, alla presenza del marito, ha
assunto un ruolo passivo, al contrario di quando si relazionava individualmente con me. Inoltre,
accompagnandomi alla porta, ha più volte salutato il marito ricercando una sua risposta e un suo sguardo,
ma in quell’occasione il figlio ha risposto al posto del padre (“guarda che ti ha salutato”).
Durante la somministrazione testistica, M. è stato collaborativo e disponibile. La rievocazione degli
episodi personali è caratterizzata principalmente da contenuti a valenza emotiva negativa e riguarda
maggiormente l’ambiente scolastico e di amicizia rispetto a quello familiare poco presente (per es.,
disagio: “il primo giorno di prima media. Un po’ li conoscevo gli altri e mi sono sentito un po’ a
112
disagio.”; disastro: “calamità. Quando c’è un terremoto. A scuola, due anni fa era venuto un piccolo
terremoto di 5.4 e siamo tutti usciti. Qualcuno si è messo a piangere e altri tipo me a ribere perché c’era
la lezione di inglese. La maestra non mi piace.”). Durante l’attività di ricerca mnestica degli episodi, M.
tendeva a utilizzare un metodo specifico, ovvero la prima parola associata alla parola-stimolo che gli
veniva in mente lo indirizzava al ricordo, per esempio, lana vs. pecora, pantaloni vs. strilli/arrabbiatura,
sasso vs. rompi, emozione vs. felicità, nostalgia vs. voglia ecc. La datazione prevalente dei ricordi
autobiografici si riferisce principalmente all’anno precedente o attuale, mentre sono carenti i ricordi
riferiti agli anni dai 4 ai 6. Il punteggio totale di memoria autobiografica è superiore alla media del
punteggio totale del gruppo sperimentale e superiore del punteggio totale del gruppo di controllo (p= 213
v. media gruppo sperimentale p= 156,8, vs. media gruppo di controllo= 165,3). Il punteggio delle risposte
alle parole concrete è maggiore rispetto a quello delle parole astratte (p= 81; p= 51).
Il linguaggio e la comprensione verbale appaiono adeguati all’età, così come la comprensione della lingua
italiana. Il punteggio al test di fluenza verbale evidenzia una capacità di memoria a lungo termine
semantica adeguata all’età (p= 19,25 vs. punteggio medio= 16,42), così come il punteggio totale di
memoria a lungo termine episodica (p= 15,80/16). Il punteggio della memoria a lungo termine semantica
potrebbe indicare una proprietà di linguaggio sopra le media rispetto alla sua età, e potrebbe spiegare il
risultato alle parole astratte.
B. è una bambina di 7 anni, frequentante la classe seconda elementare. Entrambi madre e padre
lavorano come psicologici e B. ha una sorella maggiore che frequenta le scuole elementari. La madre ha
avuto un precedente matrimonio.
Il primo contatto è avvenuto con il padre che ha espresso perplessità e preoccupazione che la figlia
potesse rivivere ricordi traumatici. Inizialmente, anche la madre era restia alla partecipazione della figlia
alla ricerca per timore che potessero ripresentarsi stati d’ansia, paure o comportamenti regressivi nella
figlia. Tuttavia, sia per telefono sia durante il colloquio, ha raccontato molti dettagli della vicenda di
sospetto di abuso sessuale e altri dettagli personali di entrambe le figlie e della propria vita personale,
nonostante all’inizio fosse incerta.
La madre appare iper protettiva nei confronti di entrambe le figlie, molto attenta ai comportamenti, alle
espressioni del viso o a qualsiasi segnale di inquietudine. La madre tende a controllare in maniera
eccessiva l’ambiente esterno, ad esempio è attenta alla pulizia degli spazi della casa, per evitare "batteri o
germi" che possono far ammalare le figlie.
Un elemento interessante collegato alla vicenda di sospetto di abuso, che ha visto coinvolta anche la
babysitter, è che la madre ha deciso di far seguire le figlie da una babysitter con una formazione in
psicologia. Con ciò si sottolinea ulteriormente le modalità iper protettiva e controllante della madre.
113
Tuttavia, non è stato possibile reperire informazioni sulla madre e sui comportamenti di cura verso le
figlie prima dell’evento traumatico.
La madre tende a stimolare le figlie motivandole a essere creative, ad esempio, le spinge a scrivere le
parole e le frasi che secondo lei hanno un bel significato poetico, oppure le coinvolge a partecipare
attivamente alle sue attività di volontariato a persone povere.
Il padre è una figura che rimane sullo sfondo, non viene mai menzionato dalla madre e poco nei racconti
di B. (per es., nostalgia: “quando sono in un posto solo insieme al papà. Sono in vacanza e sento
nostalgia della mamma. Quando ero in Umbria.”; disturbo: “a volte quando dormo, papà mi sveglia per
andare a scuola e mi disturba”).
Durante i colloqui, B. è disponibile e mi rende partecipe di sé mostrandomi i suoi giochi preferiti o i
balletti delle canzoni della cantante preferita.
La rievocazione degli episodi personali riguarda principalmente il rapporto con la madre (per es., nodo:
“quando mi metto, a volte gli occhiali della mamma per vedere come mi stanno. Nel filo si fa un nodo
con i capelli e la mamma me lo toglie”) e i rapporti con i compagni di classe (per es., accusa: “a scuola
mi è caduta la frutta per terra e mi hanno incolpata anche se io non ero stata. Ho detto che in verità era
stato il mio compagno..”) e le insegnanti (per es., bottone: “quando mi metto i bottoni ho fastidio perché
una volta, da piccola, mi hanno tolto una ciocca grande di capelli e mi sono fatta male. E’ stata una
maestra. Mi doveva togliere una maglietta perché avevo caldo, però aveva i bottoni e mi ha tolto una
ciocca di bottoni. Da piccola perché da non sapere parlare”; impulso: “a volte se sono di fretta e non so
delle operazioni che mi chiede la maestra faccio di fretta”).
In generale, la valenza emotiva dei ricordi è maggiormente negativa. Alcuni di questi potrebbero far
supporre a un tentativo di B. di rispondere le richieste della madre che in alcuni momenti risultano
eccessive (per es., mostro: “una volta ho fatto un brutto sogno di un leone. Ero in una chiesa da sola di
notte e quel leone mi stava per mangiare. Però era una mia impressione che si muoveva appeso sulla
chiesa. E mi diceva: ripetimi la canzone del cuscino: e io non la sapevo”). Da alcuni ricordi emerge
l’aspetto iper controllante e di controllo sulle figlie, soprattutto la tendenza nel favorire lo sviluppo di
particolari doti di sensibilità (per es., nello scrivere poesie o nel donare ai più poveri) (per es., protesta:
“protesto quando la mamma regala ad altri bambini dei film che piacciono a me, a dei poveri. Gli
abbiamo offerto una torta di cioccolato e il film di Mary Poppins, il mio preferito”; solidarietà:
“un’amica di mia madre sta male, è in ospedale e la mamma va da lei a trovarla tante volte. A noi ci
lascia con il papà e lei ci va. Non siamo mai andati con lei. Non vorrei andarci, mi darebbe un po’
fastidio restare la”). Inoltre, questa modalità relazionale della madre potrebbe influenzare il rapporto tra
le figlie, stimolando comportamenti di gelosia e competizione (per es., lana: “Quando fa freddo a mia
114
sorella viene l’allergia. Diventa tutta rossa. Io non sono allergica a niente”; unghia: “mia sorella ha
sempre le unghie lunghe e la mamma gliele taglia sempre”; debolezza: “dopo aver fatto tennis mi sento
un po’ debole.. a me serve perché sono un po’ più ciccione di mia sorella”). La datazione dei ricordi si
distribuisce principalmente a un anno prima o nell’anno attuale. Il rapporto di punteggio totale tra le
parole concrete e astratte è rispettivamente 37 e 19, mentre il punteggio totale di memoria autobiografica
è lontano dalla media totale del gruppo sperimentale (p=93 vs. p= 156,8).
Il linguaggio e la comprensione verbale appaiono adeguati all’età, così come la comprensione della lingua
italiana. Il punteggio al test di fluenza verbale evidenzia una capacità di memoria a lungo termine
semantica adeguata all’età (p= 11 vs. punteggio medio= 16,42), mentre il punteggio totale di memoria a
lungo termine episodica è basso rispetto alla media (p= 3,00/16).
L. ha 8 anni e frequenta la classe terza elementare. L. vive con la madre e incontra il padre fuori
casa. I genitori sono separati e i rapporti con loro sono conflittuali. Tale dato deriva sia da alcune
informazioni reperite in cartella clinica, sia perché la madre ha voluto che fossi io a richiedere il consenso
per la partecipazione alla ricerca al padre al posto suo. Purtroppo non è stato possibile effettuare colloqui
con la madre.
La madre mi accoglie con gentilezza e mi lascia sola con la bambina per iniziare il colloquio.
L. si mostra molto disponibile e interessata a iniziare un’attività diversa dai compiti. Durante la prova di
rievocazione, si guarda molto in giro, forse per cercare spunti nella stanza per rievocare gli episodi. La
maggior parte dei ricordi riguarda i contesti familiare e scolastico, con una prevalenza di emozioni
negative per quello scolastico e per la relazione con i compagni di classe. L. racconta spesso di episodi in
cui è stata presa in giro e derisa da alcuni compagni di classe (per es., augurio: “quando ero piccola, alla
mia festa di compleanno ho invitato tutta la classe e poi hanno iniziato a prendermi in giro in classe. Ci
sono rimasta male. L’avevo fatta domenica e il giorno dopo hanno iniziato a prendermi in giro.”;
tradimento: “un altro mio compagno mi ha tradito e non mi ha chiesto scusa perché mi continua a dire
banana tutti i giorni. Mi da fastidio.”), ed episodi di difficoltà o incomprensione con le insegnanti (per
es., accusa: “la maestra mi ha accusato perché non ho fatto vedere il quaderno a un mio compagno di
classe che è lento, perché era rimasto indietro. Mi sono arrabbiata.”). Diversi ricordi fanno riferimento a
caratteristiche personali, al senso di autostima e capacità personali (per es., ambizione: “quando ero
piccola volevo sempre disegnare meglio, infatti adesso disegno meglio”; categoria: “in prima abbiamo
fatto una gara a carnevale e io col mio compagno di classe ho vinto la gara di ballo”; disagio: “quando
rimango indietro in classe per fare i compiti. In prima ho fatto un disegno troppo grande, ci ho messo un
bel po’ a colorare e sono rimasta indietro”; garanzia: “io presto molto spesso le pagine ai miei compagni
perché dimenticano il quaderno a casa”). Le figure del padre e della madre emergono in egual misura
115
nella rievocazione degli episodi con una prevalenza di valenza emotiva positiva, e non risultano mai
presenti contemporaneamente. Questo aspetto potrebbe essere collegato alla condizione attuale di
separazione e conflittualità tra i genitori, che potrebbe condizionare sia la direzione della traccia mnestica
sia delle emozioni a valenza positiva per entrambi il padre e la madre. Le uniche emozioni negative sono
legate all’ambiente scolastico e ai rapporti interpersonali.
Il punteggio totale della memoria autobiografica è superiore alla media del gruppo sperimentale (p= 162),
mentre si osserva una differenza minima nel punteggio totale delle parole concrete e astratte (p= 52, p=
55).
Il linguaggio e la comprensione verbale appaiono adeguati all’età, così come la comprensione della lingua
italiana. Il punteggio al test di fluenza verbale evidenzia una capacità di memoria a lungo termine
semantica adeguata all’età (p= 9,50 vs. punteggio medio= 16,42), così come il punteggio totale di
memoria a lungo termine episodica (p= 12/16).
A. ha 11 anni e frequenta la classe seconda media. A. proviene da una situazione familiare
difficile. Ha una sorella maggiore di 15 anni, la quale, da bambina, è stata vittima di abuso sessuale
intrafamiliare da parte del padre, abuso “on line”, ovvero visione materiale pornografico e abusi emotivi
in famiglia. Queste situazioni hanno coinvolto anche la cugina, figlia della sorella gemella della madre e
A., verso la quale si sospetta lo stesso tipo di abuso intrafamiliare. Parallelamente si è aggiunta la
difficoltà di una situazione giudiziaria che ha coinvolto entrambi i genitori. Attualmente, solo il padre non
è più in possesso della patria podestà, mentre la madre è stata allontanata dalle figlie per un certo periodo.
Le sorella sono state collocate in una comunità educativa, dove hanno vissuto per tre anni. Da pochi mesi,
le sorelle sono in affido a casa della nonna e della zia materna e partecipano a un progetto di
riavvicinamento con la madre, svolto all’interno del centro “Il Faro”, con l’obiettivo di un
ricongiungimento a casa della madre. Durante questi anni sono accadute molte vicende difficili per A. e la
sorella. Ad esempio, la madre ha avuto comportamenti inadeguati verso le figlie, verso l’incolumità della
loro sicurezza: in un episodio, la madre si è presentata senza permesso davanti la scuola delle figlie,
travestita, e le ha fatto incontrare con il padre.
Durante i colloquio, la madre si mostra disponibile e ben disposta a parlare con me, e si commuove,
quando parliamo dell’andamento positivo del progetto di riavvicinamento con le figlie, perché spera si
risolva presto. Anche la madre è seguita da una psicoterapeuta da circa tre anni e collabora con i servizi.
La sorella di A. ha vissuto anche un episodio di molestia fisica perpetuata da pari, e nel corso di questi
anni ha sofferto di stati d’ansia e di comportamenti autolesionistici. Entrambe A. e la sorella sono seguite
psicologicamente.
116
Durante il colloquio, A. è molto disponibile. Sin da subito emerge come una ragazzina molto attenta al
contesto, agli altri, a quello che succede intorno a lei, alle emozioni che gli altri sentono, alle dinamiche
interpersonali e ai conflitti che possono venire a crearsi. Questi elementi emergono molto durante la
rievocazione degli episodi personali, in cui appare come una ragazzina che ben si adatta ai contesti e che
risulta adeguata. Queste caratteristiche personali di A. si potrebbero collegare alle esperienze traumatiche
di cui è stata spettatrice in questi anni, e che hanno comportato molti cambiamenti nella sua vita, e
l’incontro di molte persone con cui si è dovuta relazionale. Questa caratteristica di adattabilità
all’ambiente e agli altri potrebbe essere presente sia come predisposizione naturale di personalità, sia
come modalità funzionale di sopravvivenza dell’Io, proprio a seguito delle esperienze traumatiche che
hanno coinvolta lei e le persone significative della sua vita e per le quali di è dovuta “difendere”.
La rievocazione degli episodi personali è caratterizzata in egual misura da contenuti emotivi positivi e
negativi e dai contesti familiare, di comunità e di relazioni amicali.
I ricordi in famiglia riguardano episodi passati e recenti con la sorella, la cugina, la nonna, la zia, la madre
e il padre, in cui emergono soprattutto emozioni positive, e racconti di quotidianità e di giochi. Ad
esempio, bottone: “da piccola, quando avevo 6 anni, era estate, stavamo giocando io e lisa a costruire
una casetta con tutti i bottoni che avevamo…”; coltello: “mi viene in mente il papà che tagliava la carne
e affilava il coltello e una volta ho provato anche io ma non sapevo fare”; lana: “quando ero andata a
casa di mia cugina e c’erano le pecore e stavano togliendo il pelo, e c’era una signora anziana che
faceva la lana. Ci andiamo spesso perché è la gemella di mia mamma.”; nodo: “quando avevo messo un
braccialetto e l’avevo arrotolato nel dito e avevo fatto un nodo che non si toglieva. Dopo, mio babbo e lo
ha tagliato e io piangevo perché per scherzare mi diceva che mi tagliava il dito.”; poltrona: “quando mio
nonno stava sempre in una poltrona e dopo, quando è morto, io e lisa stavamo in quella poltrona.”;
prostituta: “quando andavamo via dalla casa di mia zia di sera, quando eravamo ancora a casa, c’erano
sempre delle prostitute che ci salutavano e chiedevo alla mamma come erano vestite”; augurio: “quando
mia mamma mi aveva scritto un bigliettino tutto brillantato e ci aveva scritto happy birthday”.
I ricordi in comunità e con le utenti-amiche sono a contenuti emotivi sia positivi sia negativi. In molti di
questi episodi, A. appare come la ragazzina “contesa” dalle amiche per i giochi, e molto attenta alle
situazioni conflittuali che succedono tra le ragazze e tra le ragazze e le educatrici (ad es, circostanza:
“quando eravamo in comunità, eravamo usciti e le mie amiche si erano vestite tutte male e dopo le
stavano per punire perché volevano uscire così perché volevano andare dai maschi e perché
rispondevano male e gli volevano togliere gli incontri protetti e io ci sono rimasta male e ho detto “dai
non..”; onda: “al mare, con la comunità, stavamo giocando con i delfini gonfiabili con G. e D e stavamo
giocando alle sirene..”; accusa: “quando una mia amica mi accusava che le avevo rubato dei soldi ma
117
non era vero e gli educatori mi hanno punito”; debolezza: “quando una mia amica trovava sempre il
punto debole per le altre, è quella che più comanda, che sta al centro dell’attenzione e una ci stava male
perché era grassa e piangeva. Invece quando è capitato a me sono stata zitta e facevo finta che non c’ero
rimasta mele e lei c’è rimasta male. Mi aveva toccato la famiglia.”).
La datazione degli episodi personali è prevalentemente negli ultimi tre/quattro anni, e alcuni episodi
fanno riferimento al periodo tra i 7 e i 9 anni. Il punteggio totale di memoria autobiografica è superiore
alla media del gruppo sperimentale (p= 222) e la differenza nei punteggi tra le parole concrete e astratte è
minimo (p= 77, p=68).
Il linguaggio e la comprensione verbale appaiono adeguati all’età, così come la comprensione della lingua
italiana. Il punteggio al test di fluenza verbale evidenzia una capacità di memoria a lungo termine
semantica adeguata all’età (p= 11,75 vs. punteggio medio= 16,42), così come il punteggio totale di
memoria a lungo termine episodica (p= 15,80/16).
G. è una bambina di 9 anni, frequentante la classe quarta elementare. I genitori sono separati e i
rapporti tra loro sono conflittuali. G. abita con la madre e il suo compagno, e dal colloquio con G. emerge
anche la figura della madre del compagno come presente nella sua vita (ad esempio, aereo: “questa estate
sono andata a Budapest e a Valencia. Con mia mamma e C., il fidanzato di mia mamma e anche con la
mamma di C.”) La madre lavora come educatrice e il padre come rappresentante, mentre il compagno
della madre è un cuoco. G. racconta che il padre ha iniziato a lavorare a 15 anni perché la nonna non era
in grado di gestirlo in casa.
I ricordi familiari sono caratterizzati da molti episodi conflittuali con la madre. In diversi ricordi, G.
racconta di sé, della sua perosnalità, e riconosce i suoi difetti e l’effetto che hanno sulle persone che le
stanno vicino, soprattutto la madre (ad es., disagio: l’anno scorso ho rovesciato l’aceto sulla tovaglia. La
mamma l’ha pulita e si è arrabbiata anche molto”; disastro: “quando ero piccola, verso i 5 anni, quando
non volevo fare delle cose, mi metteva in castigo in quell’angolino con la faccia contro il muro. Una
volta piangevo e lei mi ha messo in quell’angolino perché combinavo dei guai, o se no mi portava in
camera mia.”; impulso: “io alcune volte faccio delle cose senza pensare, tipo rispondere male ai genitori
soprattutto a mia mamma. Perché mi dice delle cose e io rispondo abbastanza male e C. mi dice di
pensare 10 secondi prima di rispondere”; personalità “alcune volte sono molto forte, non nel senso di
forzuta. Quando rispondo male alla mamma, mi metto a piangere per delle scemenze”). Gli episodi
personali sono a valenza maggiormente negativa, con una prevalenza di contesti familiare e scolastico. La
datazione degli episodi personali si riferisce prevalentemente all’ultimo anno. Dal colloquio con G. non
emerge il rapporto conflittuale tra i genitori, ma la figura del compagno della madre è più presente negli
episodi personali rispetto a quella del padre.
118
Il linguaggio e la comprensione verbale appaiono adeguati all’età, così come la comprensione della lingua
italiana. Il punteggio al test di fluenza verbale evidenzia una capacità di memoria a lungo termine
semantica adeguata all’età (p= 6,25 vs. punteggio medio= 16,42), così come il punteggio totale di
memoria a lungo termine episodica (p= 10,40/16).
A. ha 12 anni e frequenta la seconda media. Vive con entrambi i genitori e un fratello di 17 anni.
Dal colloquio, A. appare come una ragazzina introversa e timida. Gli episodi personali rievocati
riguardano principalmente i rapporti interpersonali con le amiche e a scuola, in cui emerge molto la
competizione, il conflitto con i pari e il senso di appartenenza al gruppo e la ricerca di una propria
identità. Ad esempio, ambizione: “avevo un’amica alle elementari che faceva di tutto per farsi vedere ..
non siamo mai state amiche perché io non la riuscivo a sopportare”; circostanza: “in prima e seconda
elementare. I compagni prendevano in giro altri compagni, anche me e in quella circostanza volevo
sotterrarmi e non essere li”; disagio: “quando chiedo una cosa a una mia compagna e la mia compagna
legge i messaggi ma non risponde e sono molto a disagio, tipo i compiti. E’ successo anche poco tempo
fa.”; genio: “alcuni miei compagni sono intelligenti e la prof vede quasi solo loro, tipo gli fa fare gli
esercizi difficile e a noi da fastidio perché sembriamo degli ignoranti”; personalità: “una settimana fa mi
ero messa dei vestiti e una mia amica mi ha detto ti metti sempre dei vestiti che poi non è vero”;
tradimento: “molto tempo fa avevo due amiche, però si sono rinchiuse solo loro due e sono rimasta
sola”). La datazione dei ricordi riguarda prevalentemente il periodo attuale e l’anno precedente.
Il linguaggio e la comprensione verbale appaiono adeguati all’età, così come la comprensione della lingua
italiana. Il punteggio al test di fluenza verbale evidenzia una capacità di memoria a lungo termine
semantica adeguata all’età (p= 20 vs. punteggio medio= 16,42), così come il punteggio totale di memoria
a lungo termine episodica (p= 15,50/16).
4.2 Analisi del confronto tra i gruppi.
Il grafico sottostante rappresenta il confronto in medie aritmetiche delle scale di memoria
autobiografica del test di Crovitz tra i due gruppi sperimentale e di controllo. Ogni episodio personale
rievocato è stato misurato secondo scale specifiche:
Contenuto emotivo: presente, assente.
Valenza emotiva: positiva, negativa, positiva + negativa, nessuna.
Contesto: presente, assente.
Tipologia del contesto: familiare/casa/comunità, scuola, amicizia, anniversari, altre attività,
nessuno.
119
Età del ricordo: da 1 a 3 anni, da 4 a 6 anni, da 7 a 9 anni, da 10 a 13 anni, recentemente, nessuno.
Nella prima metà del grafico, da 1 a 8 sono inseriti i punteggi dei soggetti del gruppo sperimentale,
mentre nella seconda metà, da 9 a 15 sono inseriti i punteggi dei soggetti del gruppo di controllo (vedi
tabella corrispondente). La distribuzione delle scale “contesto” e “contenuto emotivo”, che indicano se nel
ricordo è presente un contesto e un contenuto emotivo specifici, è simile in entrambi i gruppi. La scala
“tipologia contesto”, che indica l’ambiente specifico in cui è avvenuto l’episodio personale rievocato
presenta un innalzamento della distribuzione nella fascia di età 7-9 anni e 13 anni in entrambi i gruppi
sperimentale e di controllo, ovvero in queste fasce di età l’ambiente predominante è “amicizia” e “altre
attività”, mentre nel restante campione la distribuzione delle medie dei punteggi fa riferimento a
“famiglia/casa/comunità” e “scuola”. La distribuzione delle medie dei punteggi della scala “valenza
emotiva” è simile in entrambi i gruppi, con un’alternanza di emozioni positive e/o negative. Infine, la
distribuzione della scala “età del ricordo” indica che i soggetti del gruppo sperimentale ricordano più
episodi lontani nel tempo rispetto ai soggetti del gruppo di controllo che ricordano più episodi accaduti
recentemente e nell’ultimo anno. Questo punteggio indicherebbe una misura della memoria
autobiografica, che sembra essere migliore nel gruppo sperimentale.
4,00
3,50
3,00
Contenuto Emotivo
2,50
Valenza Emotiva
2,00
Contesto
1,50
Tipologia Contesto
1,00
Età Ricordo
0,50
0,00
0
1
SOGGETTI
ETA’
2
3
1
7
4
2
7
5
3
11
6
7
4
6
8
9
5
8
6
11
10 11 12 13 14 15 16
7
9
8
12
9
8
10
13
11
10
12
8
13
7
14
13
15
12
Grafico di rappresentazione della correlazione tra le medie aritmetiche delle scale di memoria autobiografica tra i due
gruppi.
120
Conclusione generale.
Le ricerche scientifiche sullo studio della relazione tra abuso infantile e memoria autobiografica
conducono a risultati discordanti.
Nella letteratura emergono numerosi approcci teorici che si sono occupati di questa tematica, ognuno dei
quali porta a considerare evidenze teoriche e scientifiche.
Fra questi, il recente sviluppo del modello epigenetico e il modello dell’attaccamento dirigono
l’attenzione all’ambiente primario del bambino e all’interazione fra loro.
L’ambiente psicosociale per eccellenza è determinato dal caregiver e dal relativo comportamento di cure
primario verso il bambino, che influenza l’epigenoma e la sua risposta allo stesso ambiente psicosociale.
Il processo epigenetico può mediare l’effetto delle prime esperienze di vita sul cervello e sulla risposta
neuroendocrina allo stress. Durante i primi periodi di sviluppo del neonato e in seguito del bambino,
eventi particolarmente avversi e traumatici come lo stress o l’abuso possono produrre alterazioni
epigenetiche e conseguentemente alterazioni delle funzioni fisiologiche e comportamentali che
comportano ripercussioni nell’età adulta (Fenoglio, Brunson, Baram, 2006; Fumagalli, Molteni, Racagni,
Riva, 2007). I dati recenti, quindi, dimostrano che lo stress nell’infanzia conduce ad alterazioni del livello
di cortisolo nei bambini e a una vulnerabilità verso la disregolazione degli affetti in età adolescenziale e
adulta.
Nell’impatto dell’esperienza di abuso nel bambino è importante considerare le primissime esperienze
interattive col caregiver principale, a determinare il trauma iniziale e di conseguenza a definire le
modalità con cui il soggetto in seguito risponderà agli stimoli stressanti, quali stili di coping adotterà,
come affronterà gli eventi traumatici successivi. Dai primi legami di attaccamento dipende la capacità di
regolare le emozioni e conseguentemente la possibilità di recuperare dei ricordi affettivamente carichi.
In generale, dalla ricerca scientifica non emergono dati univoci, perché gli studi sostengono sia un
mantenimento della capacità di rievocare gli episodi traumatici sia una riduzione della memoria
autobiografica
nei
bambini
e
negli
adulti
che
hanno
vissuto
esperienze
traumatiche
di
abuso/maltrattamento rispetto agli individui che non hanno vissute tali esperienze. I risultati differiscono
tra loro in base all’età dei soggetti, al modello teorico, e agli strumenti di valutazione utilizzati. Per questo
motivo, è necessario che la ricerca si ponga l’obiettivo di munirsi di strumenti di indagine e di valutazione
clinica, neuropsicologica e di trattamento validi e aggiornati.
La ricerca sviluppata in questa tesi ha cercato di indagare sulla relazione tra abuso infantile e
memoria autobiografica, attraverso uno studio controllato. Lo studio ha prodotto i risultati preliminari del
confronto fra bambini che si sospetta abbiano vissuto esperienze di diverse tipologie di abuso e bambini
121
non abusati. I risultati ottenuti hanno disconfermato le ipotesi iniziali attese che ipotizzavano una
riduzione della capacità di memoria autobiografica nei bambini abusati e una prestazione migliore per i
bambini non abusati. I dati psicometrici hanno determinato una differenza significativa fra i due gruppi
sperimentale e di controllo, con un vantaggio sistematico per i soggetti clinici. Da questi risultati si
potrebbe ipotizzare che i soggetti che si suppone abbiano subito esperienze precoci di abuso hanno
sviluppato invece che una riduzione dell’evento, una capacità forte di ricordare situazioni o eventi non
traumatici, e così come, i soggetti che soffrono di un disturbo post-traumatico da stress sviluppano
sintomi di flashback come risposta al trauma, che li porta a “ripetere” il ricordo dell’evento e a sviluppare
un’iperattivazione psicofisiologica, così potrebbe verificarsi per i bambini con queste esperienze
traumatiche.
I risultati ottenuti vanno letti alla luce dei limiti della ricerca, ma propongono una stimolante sfida per la
ricerca scientifica in questo ambito.
122
Appendice
Allegato 1
Test di Crovitz (memoria autobiografica). Tratto da Ghidoni E,
Poletti N, Bondavalli M “Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria”
Vol.56, 428-443, 1995.
Istruzioni: “Adesso ti presenterò una serie di parole, per ognuna di esse dovrai cercare di
ricordare un evento della tua vita, specificando per quanto possibile dove e quando esso è avvenuto. E’
tutto chiaro? Bene, iniziamo....” Si possono fornire degli esempi.
In caso di risposte insoddisfacenti si ripetono le istruzioni per ogni successiva parola fino alla 10°; in
seguito le istruzioni possono essere ripetute ogni 3 successive risposte insoddisfacenti.
Punteggio: 3 punti per un ricordo episodico personale con spazio e tempo ben specificati; 2 punti per un
evento personale meno specifico, senza connotazione temporale precisa, o che si è ripetuto più volte; 1
punto per un ricordo personale molto vago o per una attribuzione semantica personale; 0 punti per
risposte puramente semantiche (definizione della parola o affermazioni generiche relative allo stimolo,
senza riferimento personale) oppure nessuna risposta.
Per le risposte che ottengono punteggi 3 o 2 chiedere se possibile la datazione cronologica del ricordo.
CONCRETE:
AEREO
COLTELLO
NODO
PROSTITUTA
STATUA
BOTTONE
LANA
ONDA
RUOTA
TAZZA
CAMION
LATTE
OSSO
SABBIA
TRAMONTO
CAPPELLO
LUPO
PANTALONI
SASSO
UNGHIA
AUGURIO
DISASTRO
IMPIEGO
POSSESSO
SALVEZZA
BENESSERE
DISTURBO
IMPULSO
PROGETTO
SOLIDARIETA'
DESERTO
MELA
POLTRONA
SEDIA
VERME
GOCCIA
MOSTRO
PORTA
SEME
ZUCCHERO
ASTRATTE:
ACCUSA
DEBOLEZZA
GARANZIA
PERDONO
PROTESTA
AMBIZIONE
DISAGIO
GENIO
PERSONALITA'
RIMORSO
123
CATEGORIA
EMOZIONE
NOSTALGIA
PROGRESSO
TEORIA
CIRCOSTANZA
FENOMENO
ONORE
PROPRIETA'
TRADIMENTO
Allegato 2
Test di memoria di Prosa, rievocazione immediata e differita
(Spinnler e Tognoni, 1987).
Procedura di somministrazione.
Il test viene effettuato senza prova preliminare. L’E: dice al S:: “Ora le leggerò questo raccontino: non
appena ho finito mi ripeta tutto ciò che ricorda”. L’E: legge il racconto e chiede al soggetto di ripeterlo,
senza fornire al S. alcun suggerimento. L’E: trascrive per esteso tutto ciò che il S. rievoca (rievocazione
immediata). Dopo la rievocazione del S.., l’E. legge il raccontino per una seconda volta. Successivamente
il S. viene occupato per 10min. con attività interferente non verbale , poi ha luogo la seconda ripetizione.
Raccontino.
Sei dicembre/ La scorsa settimana/ un fiume/ straripò/ in una piccola/città/ situata / a 20 km/ da
Torino./ L’acqua/ invase/ le strade/ e le case./ Quattordici/ persone/ annegarono/ e seicento/
si ammalarono/ a causa dell’umidità/ e del freddo./ Nel tentativo di salvare/ un ragazzo/ un uomo/
si ferì/ le mani./
Rievocazione immediata.
………………………………………………………………………………………………………………
……………………..
Rievocazione differita (dopo 10 minuti. Prima rileggere il raccontino).
………………………………………………………………………………………………………………
……………………..
Punteggio complessivo:
1°
2°
ripetizione ripetizione
per eventi
…./8
totale
…./8
…./16
124
Punteggio.
La rievocazione immediata e la rievocazione differita vengono valutate separatamente attribuendo ad ogni
evento rievocato il punteggio arbitrario riportato in calce:
“Straripamento” = 3 punti
Solo se viene riferito l’evento “straripamento” si valorizzano anche i dettagli relativi:
“piccola città” e/o “vicino a Torino” = 0.3 punti;
“La scorsa settimana” e/o “6 dicembre” = 0.3 punti;
“morti” = 2 punti
Solo sviene riferito l’evento “morti”
“numero morti” (14+/-5) =0.2 punti
“ammalati” = 1 punto
Solo se viene riferito l’evento “ammalati”:
“Numero ammalati” (600+/-100) =0.1 punti;
“Tentativo di salvataggio” = 1 punto.
Solo se viene riferito l’evento “tentativo di salvataggio”
“ferimento” e/o “ragazzo” =0.1 punti.
Il punteggio massimo per ogni ripetizione è 8, il punteggio totale massimo è 16.
125
Allegato 3
Test di fluenza verbale per associazione libera di parole (Novelli,
1986). (MLT semantica. Prova di accesso al lessico interno)
Procedura di somministrazione.
L’E pronuncia una per volta le parole stimolo previste nell’ordine con cui sono elencate nel protocollo.
Per ogni stimolo viene concesso un tempo massimo di 2 minuti, durante i quali l’E non dà alcun
suggerimento, né commenta eventuali ripetizioni o richieste. Se il S. dichiara di aver finito, o che non gli
vengono in mente altre parole, si attende ugualmente il trascorrere dei 2 minuti, semmai indicando
l’orologio. L’E riporta nell’apposito spazio tutte le parole prodotte dal S.
Sono ritenute corrette tutte le parole purché siano in qualche relazione con lo stimolo, nel caso dubbio l’E
chiede precisazioni al S stesso, dopo lo scadere del tempo. Non si computano le ripetizioni (anche quelle
grammaticali, ad esempio : morsicatura, morso, mordere); vanno, invece considerate le risposte similari
(ad esempio, morso, dente, fauci, digrignare). Allo stesso modo, nel punteggio non verranno contati gli
aggettivi generici, non strettamente correlati alla parola chiave.
Test:
“Gatto”
“Scarpa”
“Pioggia”
“Sciopero”
Punteggio: somma di 1+2+3+4/4 = …….
Range 0-infinito.
Punteggio medio: 16,42 ds: 4,64
126
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I miei ringraziamenti al Centro Specialistico "Il Faro" e, in particolare, alla Dottoressa
Mariagnese Cheli, al Dottore Cosimo Ricciutello, alla Dottoressa Francesca Pincanelli e al Dottore Luca
De Giorgis, che hanno supportato la mia ricerca con vivo interesse e disponibilità.
Al Professore Gianni Brighetti, che sempre ha dimostrato il suo sostegno nel futuro di noi giovani
psicologi.
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