Il termine luce si riferisce alla porzione dello spettro

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Il termine luce si riferisce alla porzione dello spettro elettromagnetico visibile dall'occhio umano, ed è
approssimativamente compresa tra 400 e 700 nanometri di lunghezza d'onda, ovvero tra 750 e 428 THz di
frequenza. Questo intervallo coincide con la regione di massima emissione da parte del sole. La luce, come
tutte le onde elettromagnetiche, interagisce con la materia. I fenomeni più comuni osservabili sono:
l'assorbimento, la trasmissione, la riflessione, la rifrazione e la diffrazione.
Sebbene nell'elettromagnetismo classico la luce sia descritta come un'onda, l'avvento della meccanica
quantistica ha permesso di capire che questa possiede anche proprietà tipiche delle particelle e di spiegare
fenomeni come l'effetto Compton. Nella fisica moderna la luce (e tutta la radiazione elettromagnetica)
viene descritta come composta da quanti del campo elettromagnetico chiamati fotoni.
Formulata da Isaac Newton nel XVII secolo. La luce viene vista
come composta da piccole particelle di materia (corpuscoli)
emesse in tutte le direzioni.
Oltre che essere matematicamente molto semplice, questa teoria
spiega molto facilmente alcune caratteristiche della propagazione
della luce che erano ben note all'epoca di Newton.
Innanzitutto la meccanica galileiana prevede, correttamente, che
le particelle (inclusi i corpuscoli di luce) si propaghino in linea
retta ed il fatto che questi fossero previsti essere molto leggeri è
coerente con una velocità della luce alta ma non infinita. Anche il
fenomeno della riflessione può essere spiegato in maniera
semplice tramite l'urto elastico (urto senza perdita di energia)
della particella di luce sulla superficie riflettente.
La luce e tutte le altre radiazioni elettromagnetiche si propagano (muovono) a una velocità costante nel
vuoto, la velocità della luce. Tale velocità rappresenta una costante fisica indicata tradizionalmente con la
lettera . Indipendentemente dal sistema di riferimento di un osservatore o dalla velocità dell'oggetto che
emette la radiazione, ogni osservatore otterrà lo stesso valore della velocità della luce. Nessuna
informazione può viaggiare più velocemente di .
La velocità della luce è stata misurata molte volte da numerosi fisici. Il primo tentativo di misura venne
compiuto da Galileo Galilei con l'ausilio di lampade oscurabili ma la rudimentalità dei mezzi disponibili non
permise di ottenere alcun valore. La migliore tra le prime misurazioni venne eseguita da Roemer (un fisico
danese), nel 1676. Egli sviluppò un metodo di misurazione, osservando Giove e una delle sue lune con un
telescopio. Grazie al fatto che la luna veniva eclissata da Giove a intervalli regolari, calcolò il periodo di
rivoluzione della luna quando la Terra era vicina a Giove. Il fatto che il periodo di rivoluzione si allungasse
quando la distanza tra Giove e Terra aumentava, poteva essere spiegato assumendo che la luce impiegava
più tempo a coprire la distanza Terra-Giove, ipotizzando quindi, una velocità finita per essa. La velocità della
luce venne calcolata analizzando la distanza tra i due pianeti in tempi differenti. Roemer calcolò una
velocità di 227 326 km/s.
Albert A. Michelson migliorò il suo lavoro: usando uno specchio rotante, misurò il tempo impiegato dalla
luce per percorrere il viaggio di andata e ritorno dal monte Wilson al monte San Antonio in California. La
misura precisa portò a una velocità di 299 796 km/s.
Questo esperimento in realtà misurò la velocità della luce nell'aria. Infatti, quando la luce passa attraverso
una sostanza trasparente, come l'aria, l'acqua o il vetro, tuttavia, la sua velocità viene ridotta e la luce è
sottoposta a rifrazione (il suo valore è dato dall'indice di rifrazione, solitamente indicato con n). In altre
parole, n = 1 nel vuoto e n > 1 nella materia. L'indice di rifrazione dell'aria di fatto è molto vicino a 1, e in
effetti la misura di Michelson è un'ottima approssimazione di c.
Il valore è pari a 299 792 458 m/s, che tipicamente viene approssimato a 300 000 km/s.
Dal 21 ottobre 1983, si è scelto questo valore come esatto per tarare altre costanti, tra cui il metro. Questo
valore è in relazione con la permittività elettrica
(una costante che fornisce una quantificazione della
polarizzazione, che evidentemente non è presente nel caso in cui il dielettrico sia il vuoto, o l'aria in quasi
tutte le situazioni pratiche) e la permeabilità magnetica del vuoto
(grandezza fisica che esprime
l'attitudine di una sostanza a lasciarsi magnetizzare; si misura in henry su metro “H/m”, equivalente a
newton su ampere quadrato “N/A2”). In particolare:
Solitamente, nell'interpretazione fisica più comune, la permeabilità magnetica viene ricavata dagli altri due
valori, in quanto il magnetismo può essere visto come un effetto relativistico del moto degli elettroni, e
quindi si considerano le due costanti
e c. È tuttavia possibile usare qualunque coppia di costanti, a
scelta.
La spiegazione della rifrazione è leggermente più complicata ma tutt'altro che impossibile: basta infatti
pensare che le particelle incidenti sul materiale rifrangente subiscano, ad opera di questo, delle forze
perpendicolari alla superficie che ne cambiano la traiettoria.
I colori dell'arcobaleno venivano spiegati tramite l'introduzione di un gran numero di corpuscoli di luce
diversi (uno per ogni colore) ed il bianco era pensato come formato da tante di queste particelle. La
separazione dei colori ad opera, ad esempio, di un prisma poneva qualche problema teorico in più perché
le particelle di luce dovrebbero avere proprietà identiche nel vuoto ma diverse all'interno della materia.
Una conseguenza della teoria corpuscolare della luce è che questa, per via dell'accelerazione gravitazionale,
aumenti la sua velocità quando si propaga all'interno di un mezzo.
Formulata da Christiaan Huygens nel 1678 ma pubblicata solo nel 1690 nel Traité de la Lumière. La luce
viene vista come un'onda (movimento periodico o impulsivo che si propaga in un mezzo, non
necessariamente un mezzo materiale, con una velocità ben definita) che si propaga in un mezzo, chiamato
etere, che si supponeva pervadere tutto l'universo ed essere formato da microscopiche particelle elastiche.
La teoria ondulatoria della luce permetteva di spiegare (anche se in maniera matematicamente complessa)
un gran numero di fenomeni: oltre alla riflessione ed alla rifrazione, Huygens riuscì infatti a spiegare anche
il fenomeno della birifrangenza (è la scomposizione di un raggio di luce in due raggi che avviene quando
esso attraversa particolari mezzi anisotropi, a seconda della polarizzazione della luce; il materiale, ad
esempio la calcite, a causa della sua struttura cristallina, presenta indici di rifrazione differenti nelle diverse
direzioni di propagazione dei raggi luminosi e della direzione di vibrazione del campo elettrico).
Nel 1801 Thomas Young dimostrò come i fenomeni della diffrazione e dell'interferenza fossero
interamente spiegabili dalla teoria ondulatoria e non lo fossero dalla teoria corpuscolare.
Un problema della teoria ondulatoria era la propagazione rettilinea della luce. Infatti era ben noto che le
onde sono capaci di aggirare gli ostacoli mentre è esperienza comune che la luce si propaghi in linea retta.
Questa apparente incongruenza può però essere spiegata assumendo che la luce abbia una lunghezza
d'onda microscopica.
Al contrario della teoria corpuscolare, quella ondulatoria prevede che la luce si propaghi più lentamente
all'interno di un mezzo che nel vuoto.
L'espressione dualismo onda-particella si riferisce al fatto che le particelle elementari, come l'elettrone o il
fotone, mostrano una duplice natura, sia corpuscolare sia ondulatoria. Tale evidenza nasce
dall'interpretazione di alcuni esperimenti compiuti all'inizio del XX secolo. L'effetto fotoelettrico, per
esempio, suggeriva una natura corpuscolare per la luce, che d'altra parte manifestava proprietà
chiaramente ondulatorie in altri casi, per esempio nel fenomeno della diffrazione, che non era spiegabile
ricorrendo all'ipotesi corpuscolare.
Il paradosso era evidente prima della formulazione completa della meccanica quantistica, quando
Effetto fotoelettrico
L'effetto fotoelettrico rappresenta l'emissione di cariche elettriche negative da una superficie,
solitamente metallica, quando questa viene colpita da una radiazione elettromagnetica.
L'effetto fotoelettrico fu rivelato da Hertz nel 1887: Quando la luce colpisce una superficie metallica
pulita vengono emessi elettroni.
finalmente si riesce a descrivere i due aspetti in maniera unificata.
Il dibattito sulla natura corpuscolare o ondulatoria della materia nasce nel XVII secolo in seguito alla
contrapposizione fra le teorie di Newton e di Huygens sulla natura della luce.
Nel 1801 l'inglese Thomas Young eseguì un esperimento, ormai diventato celebre, che avvalorava la teoria
sulla natura ondulatoria della luce. Due raggi di luce (originati dalla divisione di un unico raggio di partenza)
colpivano due fenditure, intersecandosi e interferendo tra loro successivamente. L'area di intersezione non
era più luminosa, come ci si sarebbe aspettato da un modello particellare, ma presentava delle bande più
luminose e meno luminose alternate, come prevedeva il modello ondulatorio: a seconda del punto di
incontro i due fasci di luce si sommano o si annullano, creando un'immagine d'interferenza.
Esperimento della doppia fenditura
Questo esperimento è una variante dell'esperimento di Young che permette di dimostrare la dualità ondaparticella di luce e materia. Richard Feynman era solito ripetere che il cuore della meccanica quantistica
può essere intuito riflettendo su questo esperimento.
Si dispone tra una sorgente coerente e una lastra fotografica che registri il passaggio della luce una barriera
opaca nella quale sono tagliate due fenditure parallele richiudibili (di grandezza superiore alla lunghezza
d'onda della luce per evitare effetti di diffrazione). Quindi, si procede col verificare cosa succede aprendo
entrambe o soltanto una delle due fenditure. Aprendo soltanto una fenditura (ad esempio, quella di
sinistra), sulla lastra fotografica si ottiene la proiezione della fenditura. Aprendo la fessura destra e tenendo
chiusa quella di sinistra, si forma una figura speculare a quella precedente. La luce, in questo caso, risponde
perfettamente alla teoria corpuscolare di Newton. Ora, provando a prevedere che figura risulterebbe
dall'apertura contemporanea di entrambe le fenditure, secondo la teoria corpuscolare si verificherebbe la
semplice sovrapposizione delle due figure precedenti. In realtà, quella che si genera è una figura di
interferenza, ovvero in questo caso la
luce si comporta come un'onda
Esperimento della
meccanica: sulla lastra fotografica
doppia fenditura
avremmo in alcuni punti sovrapposizioni
di picchi o ventri, in altri cancellazioni.
effettuato con elettroni.
Young,
sul
finire
dell'Ottocento,
Le immagini sono prese
realizzando quest'esperimento concluse
dopo l'invio di 10 (a), 200
con l'invalidità della teoria newtoniana
(b), 6000 (c), 40000 (d),
della luce e affermando invece la teoria
140000 (e) elettroni.
ondulatoria. Qualche anno dopo,
Maxwell ne pose le basi matematiche.
Se però si usano le lastre fotografiche
moderne (molto più sensibili di quelle disponibili nell'ottocento) e si ripete
l'esperimento con una sorgente estremamente debole si nota che la luce
non impressiona la lastra in maniera continua (come previsto dalla teoria
ondulatoria) ma che si formano dei puntini piuttosto intensi, inizialmente
diradati e dall'apparenza caotica. Man mano che il numero di puntini
aumenta questi vanno a formare le frange di interferenza tipiche del
comportamento ondulatorio.
Analogo risultato si ottiene se in luogo di utilizzare una sorgente di luce (e
quindi dei fotoni) si utilizzano elettroni, come nella figura a destra.
Questo esperimento mostra come la luce possa comportarsi allo stesso
tempo sia come un'onda (infatti le frange di interferenza non sono spiegabili
da un comportamento corpuscolare e derivano dal fatto che la luce passi da
entrambe le fenditure contemporaneamente) che come una particella
(difatti la luce arriva sulla lastra fotografica sotto forma di corpuscoli).
Questa dualità non è spiegabile tramite la fisica classica ma viene descritta
dalla meccanica quantistica ed in particolare dall'elettrodinamica
quantistica.
Proposta da James Clerk Maxwell alla fine del XIX secolo, sostiene che le
onde luminose sono elettromagnetiche e non necessitano di un mezzo per la trasmissione, mostra che la
luce visibile è una parte dello spettro elettromagnetico. Con la formulazione delle equazioni di Maxwell
vennero completamente unificati i fenomeni elettrici, magnetici ed ottici. Per la grandissima maggioranza
delle applicazioni questa teoria è ancora utilizzata al giorno d'oggi.
Per risolvere alcuni problemi sulla trattazione del corpo nero nel 1900 Max Planck ideò un artificio
matematico, pensò che l'energia associata ad una onda elettromagnetica non fosse proporzionale al
quadrato della sua frequenza (come nel caso delle onde elastiche in meccanica classica), ma direttamente
proporzionale alla frequenza e che la sua costante di proporzionalità fosse discreta e non continua.
L'interpretazione successiva che Albert Einstein diede dell'effetto fotoelettrico incanalò il pensiero dei suoi
contemporanei verso una nuova strada. Si cominciò a pensare che quanto fatto da Planck non fosse un
mero artificio matematico, ma piuttosto l'interpretazione di una nuova struttura fisica, cioè che la natura
della luce potesse avere un qualche rapporto con una forma discreta di alcune sue proprietà. Si cominciò a
parlare di pacchetti discreti di energia, battezzati fotoni. Con l'avvento delle teorie quantistiche dei campi
(ed in particolare dell'elettrodinamica quantistica) il concetto di fotone venne formalizzato ed oggi sta alla
base dell'ottica quantistica.
Il modello ondulatorio di Huygens sembrava quindi quello corretto fino agli inizi del '900, quando Einstein
nel 1905, con un lavoro che gli valse il premio Nobel, giustificò l'effetto fotoelettrico postulando l'esistenza
di quanti di luce (che negli anni Venti saranno chiamati da Gilbert N. Lewis fotoni). In tale lavoro, che si
ispirava al concetto di quanto di energia introdotto da Max Planck, compariva un'equazione di
fondamentale importanza, quella che lega l'energia E di un fotone con la frequenza della luce ν:
(dove h è la costante di Planck).
Nel 1924 Louis de Broglie ipotizzò che tutta la materia avesse proprietà ondulatorie: ad un corpo con
quantità di moto p veniva infatti associata un'onda di lunghezza d'onda λ:
Tale equazione è una generalizzazione dell'equazione di Einstein, visto che per ogni onda elettromagnetica
valgono le relazioni
(proprietà delle onde) e
(momento di un fotone).
Tre anni dopo i fisici Joseph Clinton Davisson e Halbert Lester Germer confermarono le previsioni della
formula di de Broglie dirigendo un fascio di elettroni (che erano stati fino ad allora assimilati a particelle)
contro un reticolo cristallino e osservandone figure d'interferenza. Esperimenti simili furono condotti
diversi anni più tardi ricorrendo ai neutroni, ai protoni e a particelle più pesanti.
La meccanica quantistica spiega bene i risultati dell'esperimento di Young e giustifica il dualismo ondaparticella.
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