Utopia e positivismo: il caso italiano di Paolo

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Utopia e positivismo: il caso italiano di Paolo
Mantegazza
Claudio De Boni
Università degli Studi di Firenze (Italia)
Riassunto
Paolo Mantegazza è stato il fondatore della scienza antropologica italiana
nella seconda metà dell’Ottocento. Grande organizzatore culturale e divulgatore,
oltre che scienzato, ha anche svolto una lunga attività parlamentare, prima nelle
file della Destra storica, poi in quelle della Sinistra. Il suo romanzo L’anno 3000.
Sogno, pubblicato nel 1897 è forse l’unica opera utopica prodotta dal positivismo
italiano. In essa Mantegazza proietta nel futuro alcuni elementi della sua idea
di progresso (sviluppo tecnologico, ricerca scientifica, eugenetica, controllo
demografico, istruzione generalizata); sul piano politico, enfatizza il motivo di
un governo mondiale illuminato, lontano sia all’arricchimento fine a se stesso del
capitalismo sia delle pretese di rivelamento autoritario del socialismo.
Claudio De Boni è professore associato in Storia delle dottrine politiche alla Facoltà di Scienze
Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze. Studioso del positivismo e dell’idea di stato sociale, per
quanto riguarda il pensiero utopico ha al suo attivo vari interventi su riviste e opere collettive e
due volumi: Uguali e felici. Utopie francesi del secondo Settecento, Firenze, 1986, e Descrivere il futuro.
Scienza e utopia in Francia nell’età del positivismo, Firenze, 2003.
Claudio De Boni
P
1
Per una visione del fenomeno
nella patria di fondazione del
positivismo, la Francia, mi
permetto di rinviare al mio
Descrivere il futuro. Scienza e
utopia in Francia nell’età del
positivismo, Firenze, Firenze
University Press, 2003.
2
Come è noto, il termine
“ucronia” si impone a partire
dalla pubblicazione nel 1876
del libro di Charles Renouvier
Uchronie (L’Utopie dans
l’histoire). A parte il fatto che
Renouvier sviluppa il proprio
pensiero ai margini, e talvolta
in opposizione rispetto alla
cultura positivista del periodo,
va detto che il suo “tempo
inesistente” non è il futuro,
ma un passato reinventato
secondo il criterio di una
storia che non è stata ma
avrebbe potuto essere: ciò non
impedirà tuttavia che di lì in
avanti la parola ucronia serva
a identificare soprattutto le
utopie proiettate nel futuro, in
un tempo immaginario oltre
che in uno spazio immaginario
come nella tradizione del
genere.
138
er uno di quei paradossi apparenti che costellano la storia delle idee,
il positivismo, corrente culturale basata sul rispetto scientifico del
dato empirico, è anche un movimento incline a operazioni legate
all’immaginazione, quali sono quelle dell’utopismo e ancor più dell’aperta
utopia1. Da un lato la complessità del movimento, sensibile alle atmosfere
scientiste ma anche dottrina politica e morale; dall’altro la sua aspirazione a
creare un mondo migliore in sintonia con la propria idea del progresso storico,
confluiscono in un uso dell’immaginazione volto a delineare il futuro con gli
strumenti più tipici dell’utopia: l’effettuazione di un viaggio immaginario,
la descrizione di una società alternativa a quella esistente. Più che lo
spostamento nello spazio, l’utopia dell’età del positivismo predilige infatti
lo spostamento nel tempo: anche se il termine viene coniato all’esterno della
cultura positivista e con altri scopi2, è la parola ucronia a meglio identificare
questa stagione della letteratura utopica, che ha i suoi cardini nel Frammento
di storia futura di Gabriel Tarde, in Guardando indietro di Edward Bellamy,
nelle Notizie da nessun luogo di William Morris, nell’Utopia moderna di
Herbert George Wells.
In Italia il maggior rappresentante di questa tendenza è Paolo
Mantegazza, autore dell’unica (credo) utopia compiuta prodotta dal
positivismo italiano: L’anno 3000. Sogno, pubblicata nel 1897. Prima di
parlare di questa utopia, conviene tuttavia tratteggiare la figura del suo
autore, essendo la memoria che ne è rimasta oggi inadeguata rispetto
all’influenza che il personaggio esercitò nella cultura italiana di fine
Ottocento. Mantegazza fu anzitutto un uomo di scienza: nato a Monza nel
1831, si laurea in medicina all’inizio degli anni cinquanta; poi soggiorna per
quattro anni, dal 1854 al ’58, in America Latina, soprattutto in Argentina,
per ragioni di studio e di attività medica; al ritorno in Italia diventa
professore di patologia all’Università di Pavia. L’impronta maggiore che
egli è destinato a dare alla cultura accademica italiana non è tuttavia legata
alla medicina, ma all’antropologia: nel 1869 egli viene chiamato a ricoprire
la prima cattedra di antropologia istituita in Italia, quella dell’Istituto di
Studi Superiori di Firenze, incarico che ottiene per le sollecitazioni di
uno degli ispiratori riconosciuti del nascente positivismo italiano, vale a
dire Pasquale Villari3. Per Mantegazza l’antropologia, coltivata a partire
dalle esperienze di studio del territorio, delle popolazioni e dei costumi
del Sudamerica, è una scienza-sintesi tra fisiologia, psicologia, geografia,
storia. In modi analoghi, e quasi nello stesso periodo, presentava il proprio
sapere il fondatore dell’antropologia francese, Pierre Broca, che vedeva
nell’integrazione fra natura e storia propria dell’indagine antropologica una
specie di “scienza delle scienze”, corrispondente all’aspirazione comtiana
della filosofia positiva come scienza generale capace di condurre a unità
le scienze particolari. Caposaldo conoscitivo dell’antropologia positiva
è per Mantegazza l’etnografia comparata, lo studio delle varie culture
e delle diverse razze confrontate nelle loro relazioni con l’ambiente.
Ciò non prelude tuttavia ad alcuna concessione a uno spirito razzista:
nella sua utopia il nostro autore, ponendosi dal punto di vista del futuro,
amerà anzi indicare nella fusione tra le razze uno dei fattori del progresso:
Utopia e positivismo
“Le rapide e facili comunicazioni fra paese e paese e le profonde modificazioni
dei climi avvenute per opera dell’uomo tendono ad ogni generazione a fondere
indefinitamente le razze, creando un nuovo tipo, indefinitamente cosmopolita,
frutto dell’incrociamento intimo e profondo di tante e tante razze, che per
lunghi secoli erano rimaste isolate e disgiunte, facendosi paura reciproca
e continua e distruggendosi a vicenda col ferro, col fuoco e più ancora col
trasporto di terribili malattie infettive, che poi colla cresciuta civiltà sono
quasi del tutto scomparse dalla superficie della terra”4.
Anche Mantegazza, come gran parte del positivismo francese,
interpreta la nuova scienza dell’uomo non solo come uno strumento
descrittivo, ma anche come un sapere avente il compito di costruire un
nuovo indirizzo morale, di instillare nell’umanità il dovere di operare per il
progresso futuro. La scienza antropologica ha per programma di “studiare
l’origine dell’uomo, fissare il suo posto naturale nella gerarchia degli
esseri viventi, studiarne anche i cambiamenti dovuti al clima, alla razza,
al sesso, all’alimentazione, alle malattie; studiare le varietà, le razze, i tipi
differenti dell’umanità, classificarli, far delle ricerche sugli incrociamenti e
gli ibridismi umani; analizzare l’individuo, definirne e misurarne le forze;
studiare i differenti gruppi umani nei loro usi, nella loro storia, nella loro
psicologia, e di ciascuno tracciare la storia naturale; tentare la delimitazione
della perfettibilità umana, ecco ciò che si propone questa scienza”5.
E proprio in questa tensione verso la perfettibilità sta il momento di unione
fra scienza e utopia, come vedremo fra breve.
Oltre che scienziato, e anzi forse più che scienziato, Mantegazza è
un grande organizzatore culturale e un grande divulgatore. A Firenze fonda
il Museo nazionale di antropologia ed etnologia, la Società nazionale di
antropologia ed etnologia, l’Archivio storico delle medesime discipline: tutte
istituzioni giunte fino ai nostri giorni, dopo essere state assorbite dall’Ateneo
fiorentino. Egli inoltre pubblica alcune delle opere più lette in Italia nella
seconda metà dell’Ottocento, sia di tipo narrativo (come il fortunatissimo
romanzo Un giorno a Madera, del 1868), sia di un tipo che potremmo
definire, secondo una diffusa aspirazione dell’epoca, scientifico-popolare,
fra cui le varie Fisiologie dedicate all’amore, al piacere, al dolore,
e così via6. Si tratta di opere discusse all’epoca e ancor più discutibili se lette
ora, nel loro alternarsi fra parti di sicuro impegno scientifico e altre che
sembrano proprie, per linguaggio e argomentazione, più di un rotocalco
che di un trattato: opere, tuttavia, capaci di evidenziare nel loro autore la
tensione verso una specie di apostolato affinché gli uomini sappiano risolvere
le dicotomie della natura (amore-odio, piacere-dolore) nel senso della ricerca
di una sempre maggiore felicità.
Terza fonte di impegno per Mantegazza, dopo la scienza e la
divulgazione, è la politica. Eletto alla camera dei deputati nel collegio di
Pavia nel 1865, mantiene il seggio, per effetto di varie rielezioni, fino al
1876, quando viene nominato senatore per continuare la propria attività
parlamentare praticamente fino alla morte, avvenuta nel 1910. Nella sua
azione politica Mantegazza conosce una significativa maturazione: dopo
l’esordio nelle file della Destra si avvicina progressivamente alla Sinistra,
3
È quasi una convenzione
ritenere una specie di data di
nascita ufficiale del positivismo
italiano la pubblicazione
nel primo numero del 1866
della rivista “Il Politecnico”
dell’articolo di Villari
La filosofia positiva e il metodo
storico, anche se in Italia già
si erano verificati a quella
data episodi, peraltro di
minore influenza, di adesione
al positivismo (per esempio
l’infatuazione del genovese
Benedetto Profumo per la
religione dell’umanità di
Comte, con il quale aveva
intrattenuto un rapporto
epistolare abbastanza
fitto intorno al 1848).
Per quanto riguarda la figura
di Mantegazza, rinvio al
volume che raccoglie gli atti del
convegno Paolo Mantegazza
e l’origine dell’antropologia in
Italia, Milano, Ars Medica
Antiqua, 1986, e, per
l’esperienza fiorentina, alle parti
che lo riguardano del bel libro
di G. Landucci, Darwinismo a
Firenze. Tra scienza e ideologia
1860-1900, Firenze, Olschki,
1972. Segnalo inoltre, in
tempi più recenti, la tesi di
laurea preparata sotto la mia
direzione da Giovan Battista
Pili alla Facoltà di Scienze
Politiche “Cesare Alfieri”,
erede storica di quell’Istituto di
Studi Superiori in cui insegnò
Mantegazza.
4
P. Mantegazza, L’Anno 3000.
Sogno, Milano, Treves, 1897,
pp. 273-274.
5
Il passo è tratto dal discorso
inaugurale all’anno accademico
1870-71 della sezione
antropologica dell’Istituto di
Studi Superiori, pronunciato
da Mantegazza il 14 gennaio
1870 e poi pubblicato, con il
titolo Del metodo dei nostri studi
antropologici, come prefazione
a Quadri della natura umana,
Milano, Bernardoni, 1871,
pp. 7-34.
139
Claudio De Boni
6
Fra le opere di maggior
successo di Mantegazza il
primo posto spetta senz’altro
a Un giorno a Madera, che
fra il 1868 e il 1922 conosce
una cinquantina di riedizioni
e ristampe. Di notevole
diffusione sono tuttavia anche
i suoi testi di divulgazione
scientifica, di cui ricordo qui le
prime edizioni delle più lette:
Fisiologia del piacere, Milano,
Bernardoni, 1854; Elementi
d’igiene, Milano, Brigola,
1865; Fisiologia dell’amore,
Milano, Brigola, 1870: tutti
titoli che conoscono entro il
primo Novecento fra una e due
decine di ristampe ciascuno e
varie traduzioni all’estero. In
questo filone si inseriscono
anche Gli amori degli uomini,
in 2 voll., Milano, Treves,
1885, che hanno un rapido
successo (la seconda edizione,
di diecimila copie, è esaurita
in poco tempo), e suscitano
molte polemiche per qualche
passaggio in merito ai costumi
sessuali dell’umanità, giudicato
all’epoca troppo scabroso.
Da segnalare sono ancora le
notevoli diffusioni di due opere
per i giovani: Le glorie e le gioie
del lavoro, Milano, Maisner,
1870, e soprattutto Testa,
Milano, Treves, 1887: romanzo
pedagogico a integrazione e
correzione del deamicisiano
Cuore, che frutta a Mantegazza
in media più di una riedizione
l’anno fino al 1910.
7
P. Mantegazza, L’anno 3000,
cit., pp. 12-13.
8
P. Mantegazza, Il secolo
nevrosico, Firenze, Barbera,
1887, p. 69.
9
P. Mantegazza, L’anno 3000,
cit., p. 54.
140
votando a favore di questa nel passaggio di consegne governative del
1876, e rimanendo poi vicino alla Sinistra fino al termine della propria
attività parlamentare. In sintonia con gli umori della Sinistra storica,
non si spinge fino ad avallare posizioni socialisteggianti: dei socialisti
Mantegazza condivide la denuncia delle eccessive disuguaglianze materiali
e l’esaltazione del lavoro come merito sociale, ma non la sottovalutazione
delle libertà economiche (fra cui egli apprezza quella d’impresa,
in quanto luogo di possibile realizzazione dello spirito creativo degli
uomini), né la pretesa di dare luogo a una società programmata una volta
per tutte. Tanto che, mettendosi letterariamente nella posizione degli
abitanti illuminati dell’anno 3000, rappresenta nella sua opera utopica un
futuro che avrà superato il socialismo: “L’esperimento generoso, ma folle,
durò quattro generazioni, cioè un secolo; ma gli uomini si accorsero di aver
sbagliato strada. Avevano soppresso l’individuo e la libertà era morta per la
mano di chi l’aveva voluta santificare. Alla tirannia del re e del parlamento
si era sostituita una tirannia ben più molesta e schiacciante, quella d’un
meccanismo artificiale, che per proteggere e difendere un collettivismo
anonimo soffocava e spegneva i germi delle iniziative individuali e la santa
lotta del primato. […] Un gran consesso di sociologi e di biologi seppellì
il socialismo e fondò gli Stati Uniti del mondo, governato dai migliori e
dai più onesti per doppia elezione. Al governo delle maggioranze stupide
subentrò quello delle minoranze sapienti e oneste. L’aristocrazia della natura
fu copiata dagli uomini, che ne fecero la base dell’umana società”7.
Analoghi dubbi sono espressi a proposito della democrazia, se intesa
come governo di tutti. La democrazia, apparsa nel mondo per combattere
gerarchie ormai superate come quelle nobiliari, ha senso per Mantegazza solo
se la si interpreta alla moda dei positivisti come ricerca di nuove e più progredite
gerarchie, intellettuali e morali, non come eliminazione di ogni disuguaglianza,
in sé impossibile. Il nostro antropologo non si fa eccessive illusioni nemmeno
sulla democrazia rappresentativa come metodo di scelta dei migliori,
pur operando egli all’interno, per gran parte della vita, delle istituzioni
parlamentari. Secondo un atteggiamento diffuso nelle rappresentanze
politiche dell’Italia postunitaria, egli è insieme sostenitore e critico del
parlamentarismo: sostenitore perché la via parlamentare incarna una
fase storica necessaria al progresso, ma critico perché l’istituzione sconta
nella realtà molte imperfezioni. Sul piano generale il parlamentarismo
presenta il grave limite di essere “la critica sostituita all’autorità”8:
una continua delegittimazione di chi governa, un permanente fattore di
disordine accentuato fuori delle aule parlamentari da un giornalismo di solito
asservito agli interessi privati e irresponsabile nei confronti dell’interesse
generale. Su un terreno più specifico, i parlamenti presentano poi due
altri inconvenienti, due vere e proprie “infermità organiche”: “Quella di
fabbricar le leggi con una commissione di troppi individui, facendole
mutevoli ad ogni accidente od incidente di persone o di cose. E l’altra di
mutar sempre al capriccio vagabondo degli elettori coloro che devono dettar
le leggi e reggere il timone dello Stato”9. Come vedremo, nell’anno 3000 il
sistema parlamentare si sarà trasformato in una serie di rappresentanze, dal
Utopia e positivismo
territorio vicino fino alla dimensione mondiale, rischiarate dalla scienza e
con funzioni politiche limitate. Per l’immediato Mantegazza riconosce un
merito alla democrazia solo se saprà unire le riforme politiche con il progresso
dell’istruzione, compito difficile ma inevitabile palestra per un mondo che
voglia effettivamente avanzare: “La democrazia ha per compito primo, forse
padre inconscio di altri compiti maggiori, quello di ripartire fra molti ciò che
prima era patrimonio di pochi. Un re e un popolo; uno e più genii e una turba
di ignoranti, ecco le formole di molta storia del passato: oggi vuolsi invece la
distribuzione dei pani e dei pesci fatta per opera di quel Messia universale,
che è il progresso. Nascano pure e sian benedetti i genii, si chiamino re del
trono o re del pensiero; ma essi non hanno a comandare a pecore, ma a uomini,
e a uomini intelligenti e dotti”10.
Se il Mantegazza politico oscilla fra Destra e Sinistra e, sul piano
sociale, tra fiducia nei meccanismi liberali e necessità di intervento statale,
un punto fermo nel suo atteggiamento è costituito dall’anticlericalismo:
come rifiuto non del sentimento religioso in quanto tale, ma dell’influenza
permanente di una chiesa organizzata nelle vicende umane. In un
volume del 1896 in cui cerca di stilare un bilancio della propria attività
parlamentare, Mantegazza scrive a proposito del proprio anticlericalismo,
che lo aveva visto combattere alle camere a favore di tutti i provvedimenti
che promettevano di limitare i privilegi della chiesa cattolica: “Io non ho mai
combattuto la religione, che credo una delle più alte idealità del pensiero,
e soprattutto uno dei più cari conforti nei travagli della vita; ma a viso
aperto, e dalla cattedra e dai libri, ho gettato l’anatema all’industria, alla
simonia del cielo; a tutte le forme ipocrite del misticismo, che adoperano il
sentimento religioso come instrumentum imperii o come sorgente di lucro.
Ho sempre rispettato il tempio, ho sempre derisa la sagrestia; ho abbassato
il capo all’altare, ho sempre guardato con alto disprezzo la bottega”11.
Come avviene tradizionalmente per gli scrittori di utopie, anche per
Mantegazza l’immaginazione sociale nasce anzitutto dall’insoddisfazione
per l’esistente. Nel programma di critica del proprio tempo stilato ad
apertura del suo Secolo nevrosico, programma destinato a continuare in altri
volumi, egli scrive: “Fisicamente il secolo XIX è nevrosico. Moralmente
è ipocrita. Intellettualmente è scettico”12. Il presente è nevrotico perché
pessimista, compiaciuto del dolore, dedito alla dimenticanza attraverso
gli effetti stupefacenti della droga e dell’alcool, non in grado di reggere le
rapide trasformazioni dell’economia industriale e di una società incapace di
coniugare libertà e uguaglianza. È ipocrita come ogni periodo di transizione:
“il secolo XIX è critico, è industriale, è positivo, è scettico, è tante altre belle
e brutte cose; ma è innanzi tutto e soprattutto ipocrita. Ed è ipocrita, perché
è un periodo di passaggio, fra un passato di violenze e di ignoranza che non
è del tutto sepolto e un avvenire di giustizia e di scienza, che presenta i primi
crepuscoli rosei dell’alba”13. Le ipocrisie del pensiero costruiscono infine un
quadro di scetticismo, nel quale continuano a giocare un ruolo da protagonisti
i filosofi metafisici e gli avvocati, incapaci, a detta del nostro autore,
di condurre ad armonia tre codici sempre più disgiunti: quello religioso, quello
penale e quello dell’opinione pubblica.
10
P. Mantegazza, Il secolo
nevrosico, cit., p. 88.
11
P. Mantegazza, Ricordi
politici di un fantaccino del
parlamento italiano, Firenze,
Barbera, 1896, p. 174.
12
P. Mantegazza, Il secolo
nevrosico, Firenze, Barbera,
1887, p. 7.
13
P. Mantegazza, Il secolo
tartufo ovvero L’elogio
dell’ipocrisia, Padova, Franco
Muzzio ed., 1997, p. 47.
141
Claudio De Boni
14. P. Mantegazza, Lezioni
di antropologia 1870-1910,
Firenze, Società Italiana di
Antropologia e Etnologia,
1989, vol. I, p. 125: il passo
deriva dagli appunti di una
lezione del 1871.
15. P. Mantegazza, Parvulae:
pagine sparse, Milano, Treves,
1910, pp. 94-95: la citazione
proviene da una conferenza
tenuta a Roma nel 1885 e
ripresa a Firenze nel 1889.
16. P. Mantegazza, Il secolo
nevrosico, cit., pp. 90-91.
142
La situazione è tuttavia destinata a trasformarsi nel futuro, per
effetto del progresso materiale, scientifico e morale. Intanto va rilevato che
la scienza più studia la natura e più ne offre un’immagine storica, dinamica e
non statica: “la natura che abbiamo sempre in bocca, è essa stessa un concetto
così largo, così indefinito che ognuno di noi l’adopera in senso diverso. […]
In ogni modo, prendendo la natura nel suo significato più semplice e più
chiaro, la natura di un organismo, di un popolo, di una civiltà è già un risultato
della lotta combattuta per anni, per secoli, dall’uomo, dal popolo, dalla civiltà
con l’ambiente che li ha circondati”14. La storia ci rappresenta la scienza in
continua espansione, secondo un progresso che va interpretato non solo nei
suoi risvolti strumentali, ma anche nelle influenze di ordine morale. Secondo
uno schema già presente (con maggiore sistematicità, ovviamente) in Comte,
Mantegazza si mostra desideroso che il progresso scientifico, di per sé volto
ai dati materiali, si accompagni tuttavia a un’analoga attenzione per il cuore,
alle possibilità di rinnovamento morale insite nella religiosità laica e nella
pedagogia. È giusto, osserva il nostro autore, che ci affidiamo alla scienza e
al progresso delle conoscenze che ci assicura, pur nella consapevolezza che
sconfiggere la nostra ignoranza richiede un cammino lungo. “Solo vorrei che
il nostro secolo non proclamasse l’infausta eresia che la scienza basta a tutto e
che essa sola è fine e scopo della nostra vita. Ogni epoca storica ha un grande
amore e ad esso con ingiusta preferenza sagrifica ogni altra cosa. Abbiamo
avuto l’epoca della violenza, quella della fede mistica e quella dell’arte: oggi
ci è minacciato il culto assoluto, esclusivo della scienza. E amiamola pure,
ma senza trascurare il cuore, né il sentimento, né il bisogno della felicità.
Gli amori esclusivi sono idolatrie, e noi non vogliamo idoli: perché lo
sviluppo perfetto dell’umanità consiste nell’armonica soddisfazione di tutti
i nostri bisogni. La scienza non deve distruggere l’idealità ma rischiararla
e guidarla e andar a braccetto con essa, come due sorelle eguali nella loro
bellezza, ma diversamente belle”15. Lo stesso progresso materiale è tuttavia
già di per sé un progresso anche delle conoscenze intellettuali e morali, per
la sua suscettibilità di estendersi a tutti i ceti sociali e a tutti gli individui
indipendentemente dalle appartenenze di classe: “Il progresso materiale
meglio d’ogni rivoluzione, meglio d’ogni libro di morale, meglio d’ogni legge
eguaglia gli uomini, avvicinandone gli estremi; essendo pochissime le scoperte
e le invenzioni che giovano soltanto ai milionarii. La locomotiva fa viaggiare
colla stessa velocità principi e proletarii, la fotografia concede la gioia del
ritratto anche al povero, e il più nevrosico fra tutti gli strumenti, l’alfabeto,
apre a tutti le porte della scienza, che rende legittima ogni ambizione.
[…] Nulla è più democratico della scienza, che sembra tanto aristocratica;
nulla è più bestialmente aristocratico di quella democrazia falsa, che si riduce
alla rettorica”16.
E veniamo finalmente alla vicenda narrata nell’Anno 3000, di
cui è protagonista una coppia di italiani, Paolo e Maria, che partono da
Roma, capitale degli Stati Uniti d’Europa, diretti verso la capitale degli
Stati Uniti Planetari, Andropoli, situata nei pressi dell’Himalaya.
Per raggiungere la capitale di un mondo ormai riunito in un’unica sovranità
politica i due italiani devono quindi muoversi verso Oriente, secondo un
Utopia e positivismo
moto effettivo ma anche simbolico, di corsa verso il sole, visto che da Oriente
“sempre è venuta colla luce del giorno la speranza, che mai non muore”17.
E non è solo questo il messaggio racchiuso nella collocazione nel cuore
dell’Asia della capitale mondiale dell’anno 3000. Partendo da Occidente,
toccando l’Egitto e poi penetrando nel continente asiatico, i nostri due
viaggiatori del futuro percorrono a ritroso l’effettivo cammino della civiltà
rappresentato in molti storicismi ottocenteschi: di quella civiltà che, nata
nell’Estremo Oriente ed espansasi verso la Mesopotamia e l’Egitto, si è alla
fine trasferita in Grecia, a Roma e poi nell’Europa erede della sua cultura
classica. Utopia del futuribile, l’operazione letteraria di Mantegazza si basa
tuttavia su una forte considerazione per la storia, come si vedrà anche da
altre notazioni successive.
Paolo e Maria si recano ad Andropoli per avere dagli scienziati della
capitale il permesso di procreare, di trasformare la loro unione d’amore,
che dura già da qualche anno, in matrimonio fecondo. Uno dei caratteri
più insistiti dell’utopia di Mantegazza, ma più in generale del suo pensiero,
è costituito infatti dall’eugenetica, aspirazione già apparsa nel romanzo
Un giorno a Madera e nella produzione scientifica. In una delle sue lezioni
di antropologia egli aveva affermato una concezione del progresso come
prodotto da forze biologiche (senza la cui azione fondamentale esso non
si manifesterebbe) ma anche dalla capacità dell’uomo di arricchirsene e di
alimentarle. “Nell’uomo si accumulano i progressi per via dell’esperienza
accumulata ed anche per via della genesi”; “è più facile però perfezionare i
futuri per via dell’elezione sessuale. Riunire i migliori, perché trasmettano
la vita, consigliare ai peggiori di non generare il dolore, la malattia, la
miseria”18, è il programma di miglioramento dell’umanità per via genetica
che Mantegazza si sente di proporre. E nell’Anno 3000 assisteremo
all’eliminazione dei neonati identificati dai medici come portatori di
insuperabili difetti fisici o mentali, compresi i delinquenti nati di lombrosiana
memoria, che per fortuna sono un piccolo numero, specifica l’autore.
La soppressione avviene tuttavia non per decisione dello stato ma per scelta
dei genitori, sollecitati a non perpetuare l’infelicità della loro prole facendola
sopravvivere in condizioni deficitarie o pericolose per sé e per gli altri.
Ma torniamo al racconto. Il viaggio dei due protagonisti avviene per
mezzo di veicoli avveniristici: un “aerotaco” a due posti guidato dallo stesso
Paolo, cioè una navicella volante mossa dall’elettricità e di facile utilizzo; un
analogo mezzo per muoversi sull’acqua a breve distanza; altre e più ampie
imbarcazioni costruite con materiali speciali che hanno eliminato i rollii
di un tempo, fastidiosi per i passeggeri, e così via. Prima di raggiungere
Andropoli i due si fermano in altri luoghi, fra i quali è interessante e insistita,
nella ricostruzione di Mantegazza, la visita all’isola di Ceilan. Detta anche
l’Isola degli Esperimenti, Ceilan ospita infatti piccole comunità che si
reggono secondo princìpi ormai superati, ma tollerate perché la loro presenza
permette ai visitatori la documentazione comparata dei sistemi sociali del
passato. È uno dei tanti musei che si trovano nelle descrizioni dell’Anno
3000, a conferma che il mondo del futuro coltiva il confronto con il passato,
perché il progresso si misura nella storia: un museo nel quale Mantegazza
17
P. Mantegazza, L’Anno 3000,
cit., p. 20.
18
P. Mantegazza, Lezioni di
antropologia, cit., p. 120.
143
Claudio De Boni
19
P. Mantegazza, L’anno 3000,
cit., pp. 60-61.
144
si diverte a giocare un po’ con la storia reale e un po’ con i modelli presenti
tradizionalmente nelle utopie. A Ceilan Paolo e Maria sbarcano nella città
di Eguaglianza, i cui abitanti sono dediti a un ugualitarismo assoluto spinto
fino al vestiario, alle case, alle vie, indicate, come gli uomini, con numeri
e non con nomi. La città è governata a rotazione da un capo che cambia
ogni giorno, ma in realtà non c’è nulla da governare, se non assicurare il
rispetto del codice ugualitario che regola ogni momento della comunità:
la realizzazione del sogno del 1789, secondo Mantegazza. Esiste a Ceilan
un altro modello socialisteggiante, meno radicale, quello di Turazia, città
così chiamata in onore di un vecchio socialista di nome Turati: un modello
criticato da Paolo perché dà troppo peso agli incolti e troppo potere a uno
stato che assorbe ogni energia individuale, ma anche giudicato un’espressione
generosa della fede ardente dei socialisti, che Mantegazza non approva,
come sappiamo, ma a suo modo rispetta. I due visitano ancora Tirannopoli,
in cui governa uno solo assistito da molti soldati, e Logopoli, la città della
parola, retta secondo un regime parlamentare del quale il nostro autore
ripete le critiche che già conosciamo. E, trovandosi nell’isola ogni utopia
sociale che gli uomini vogliano ripetere, sappiamo che esistono Poligama,
in cui ogni maschio ha molte mogli, e il suo opposto Poliandra; Cenobia,
in cui vivono asceticamente solo maschi, e Monachia, popolata da monache
dedite al culto di Saffo; e ancora Peruvia, in cui vige un comunismo di stato
di origine incaica.
La destinazione successiva dei due viaggiatori nel futuro è l’isola di
Dinamo, situata nelle attuali Andamane, che nell’anno 3000 è uno dei quattro
luoghi in cui vengono accumulate le energie cosmiche per distribuirle su tutta
la Terra. Anche qui esiste un museo che documenta la storia dell’evoluzione
della meccanica, dall’antica forza animale a quella del vento, fino al vapore
e all’elettricità; la fase successiva, iniziata a metà del XXVII secolo, è quella
dell’applicazione della forza nervosa alla meccanica. Da osservazioni sugli
animali, che producono calore e movimento, gli scienziati del futuro hanno
inventato il “pandinamo”, capace di riprodurre in laboratorio il protoplasma
dei corpi viventi e di distribuirlo sotto forma di energia in tutto il mondo
attraverso tubi simili ai nostri nervi. Per questa ragione Dinamo è una
città-laboratorio abitata da ingegneri e luogo di formazione dei futuri fisici.
La sua destinazione produttiva non ne ha però rovinato l’ambiente, come
avviene invece nelle nostre città industriali: tanto che, con piglio tipico delle
narrazioni utopiche, Mantegazza scrive: “Sbarcando a Dinamo, nessun
rumore stridente, nessun fumo disgustoso, che annunziasse un’officina,
come invece era il caso delle antiche fabbriche. E per le vie nessun uomo
sporco di carbone o di sugna, o colla faccia logorata da lavori malsani o
eccessivi. Gli operai erano pulitamente vestiti, vigorosi d’aspetto, e quasi
per nulla si distinguevano dai loro capi, gli ingegneri dinamologhi. Alberi
sempre verdi riuniti in boschetti e aiuole di fiori profumati separavano i
diversi compartimenti dell’officina gigante”19. La visita all’isola costituisce
anche l’occasione per celebrare gli effetti di pacificazione del progresso
tecnico e scientifico: “La rapidità delle comunicazioni ottenute col vapore e
col telegrafo hanno contribuito più di tutti i libri, di tutti i giornali, più di
Utopia e positivismo
tutti i parlamenti, di tutti i codici ed anche di tutte le religioni a distruggere
l’antica e scellerata guerra fra popolo e popolo e a creare una nuova morale,
sana e sincera”20.
Paolo e Maria giungono finalmente a Andropoli, città fondata
cinquecento anni prima per essere capitale della Terra, e che nell’anno 3000
conta ormai dieci milioni di abitanti. Sin dall’inizio, cioè dalla descrizione
della città, percepiamo che la società utopica che ci vuole presentare
Mantegazza non è uguale a quelle più diffuse nella storia del genere. Manca
per esempio una rappresentazione della città come ordine uniforme, se non
al suo centro, costituito da una grande piazza da cui si irradiano sette grandi
strade simili ai raggi di una stella. Questa parte della città ha un aspetto
monumentale perché è in pratica il cuore pulsante del mondo: nella piazza
“si innalzavano superbi il Palazzo del Governo, l’Accademia delle scienze e
delle lettere, l’Accademia delle arti belle e il Tempio della speranza. Nelle
vie che sboccavano nella piazza, eran posti gli alberghi, i grandi magazzini,
gli Archivii, le Biblioteche; tutti gli edifizii pubblici necessari alla vita di
un gran popolo”21. Ma il resto dell’immensa città, in mano ai privati, non è
monotona (come le città americane a scacchiera, sottolinea Mantegazza):
la pianificazione urbanistica si limita a stabilire che le costruzioni non siano
di più di due piani e che le vie siano ampie, di non meno di venti metri di
larghezza: per il resto ognuno privilegia lo stile che preferisce, cosicché le
abitazioni, che affiancano anche strade curve e non solo rettilinee, presentano
un singolare miscuglio di tutti gli stili architettonici conosciuti. È il primo
segnale che l’utopia di Mantegazza vuole essere in più punti innovatrice
rispetto alla tradizione del genere: e capiremo progressivamente che si tratta
di un mondo non perfetto ma in via di continuo perfezionamento (non si
sono per esempio ancora sconfitte tutte le malattie); di un mondo in cui il
governo pubblico si confronta positivamente con la libertà dei cittadini e
con il loro senso di autonomia; di un mondo in cui anche molti servizi che
in altre società immaginate sono rigorosamente pubblici qui sono soggetti a
sollecitazioni private: a un certo punto assistiamo per esempio a un paziente
che paga un medico dell’ospedale per la visita, cosa inammissibile per molta
tradizione utopica.
La ricerca di una composizione fra tecnocrazia e libertà ispira la
stessa organizzazione politica del mondo futuro. Nel Palazzo del Governo
di Andropoli si riuniscono periodicamente i delegati che rappresentano le
varie regioni del mondo, eletti con cadenza annuale nei loro paesi a suffragio
universale, con il diritto di voto che spetta anche alle donne: l’esistenza di un
governo centrale, destinato a coordinare il progresso su tutta la Terra, non
si risolve tuttavia a danno dell’autonomia dei diversi territori, spettante alle
regioni e ai comuni. La funzione principale dei delegati è quella di eleggere
un capo anch’egli di durata annuale, a cui spetta il nome di Pancrate, il quale
a sua volta è soprattutto un controllore politico dei tecnici che presiedono
i quattro uffici centrali che sovrintendono rispettivamente all’agricoltura,
alla salute, all’istruzione e all’industria e commercio.
A differenza di molte altre utopie del passato, L’anno 3000 non
si dilunga a proposito della struttura economica: la collaborazione fra
20
Ivi, p. 65.
21
Ivi, p. 84.
145
Claudio De Boni
22
Ivi, p. 131.
23
Ivi, p. 136.
146
scienza, tecnica e produzione assicurata da una società illuminata sembra
infatti sufficiente a costruire una situazione economica soddisfacente, in
cui l’iniziativa privata si equilibra quasi automaticamente con l’interesse
pubblico. Il ruolo del governo centrale, assistito come sappiamo dai tecnici,
è soprattutto quello di garantire la corrispondenza fra popolazione e risorse
(tutta l’utopia mantegazziana è piena di richiami malthusiani), e di evitare
che le iniziative produttive creino eccessivi danni all’ambiente o pericoli di
crisi da sovrapproduzione. Fra i compiti delle autorità c’è per esempio quello
di esprimere un parere sui grandi disboscamenti planetari, che incrementano
le aree poste a coltura e quindi le risorse, ma possono provocare squilibri
climatici, e di organizzare e fornire le informazioni affinché le imprese non
falliscano a causa di un’eventuale scarsa conoscenza delle condizioni dei
mercati. Esiste ovviamente ad Andropoli una finanza pubblica, che non
sembra tuttavia molto rilevante, visto che nell’anno 3000 si versano poche
imposte, e le pagano solo i ricchi.
Più attenzione è posta da Mantegazza attorno al sistema sanitario
dell’anno 3000, che ha per scopo di “abolire le malattie, prolungare la vita
umana e togliere alla morte ogni dolore e ogni terrore”22. Il tema della salute
si accompagna a insistiti richiami di tipo eugenetico e malthusiano, dei
quali tuttavia si è già detto, e i risultati sono apprezzabili, visto che la durata
della vita media delle persone continua a salire (anche se Mantegazza non
prevede, a così grande distanza, esiti spettacolari: i cittadini di Andropoli
campano in media 72 anni, con punte che si spingono fino a 86).
I progressi effettuati non nascondono il fatto che molto ancora resta da fare:
all’interno della sua utopia della perfettibilità e non della perfezione, come
si è detto, l’autore dell’Anno 3000 riconosce che nel suo mondo ideale ci
sono ancora malattie ereditarie ed errori di valutazione medica, nonostante
solo i sani vedano riconosciuta la loro aspirazione a un matrimonio fecondo.
Comunque apprendiamo che esiste una vasta medicina preventiva, che si
partorisce senza dolore, che i defunti vengono cremati.
Grande rilievo ha infine nell’utopia di Mantegazza, come un po’ in
tutte le utopie, il sistema educativo e culturale. È convinzione degli uomini
del futuro che per la felicità occorra, oltre alla buona salute, l’“equilibrio
armonico di tutte le facoltà del pensiero e di tutte le energie del sentimento,
in modo che tutte sieno attive e nessuna si esaurisca per troppa fatica”23.
Di qui il peso determinante assunto dall’istruzione, tanto che il direttore del
dipartimento scolastico è ad Andropoli la seconda autorità dopo il Pancrate
e corrisponde – aggiunge il nostro autore con piglio comtiano – al pontefice
della vecchia chiesa cattolica. All’epoca in cui Paolo e Maria visitano la
capitale del mondo il dipartimento scolastico è impegnato a studiare il
problema dell’inserimento delle donne nelle professioni, avvenuto ormai
da tempo, ma ancora fonte di nevrosi perché non è ancora perfezionato un
sistema che armonizzi il lavoro maschile con quello femminile e con i ruoli
sociali dei due generi. Sappiamo comunque che anche le donne insegnano,
e fino ai livelli più alti di studio. Il dipartimento scolastico, rispettoso della
libertà di pensiero che vige in tutto il mondo, procede non per ordini ma
per consigli: esiste però per tutti i giovani un controllo scientifico delle loro
Utopia e positivismo
capacità e inclinazioni intellettuali, allo scopo di inviarli verso le professioni
a loro più adatte. Tutti sono in ogni caso stimolati a procedere il più a
lungo possibile negli studi, in ossequio al motto “volere è potere, ma a
patto di sapere”24. I vecchi programmi scolastici, quelli in vigore nel lontano
secolo XIX, sono stati ovviamente modificati: non si studia più la filosofia,
sostituita da psicologia e antropologia; l’insegnamento ha un’intonazione
prevalentemente scientifica, ma la storia rimane una delle discipline più
curate. Nell’ampia simbologia che, come in tutte le utopie, accompagna
la descrizione della città effettuata dai suoi visitatori, il culto del passato,
inteso come passaggio importante verso la felicità presente, ha uno spazio
rilevante. Ovunque i nostri due viaggiatori incontrano monumenti che
celebrano i geni dell’umanità che con le loro scoperte e le loro azioni hanno
favorito il progresso nella scienza e nel vivere sociale. Analoga funzione
hanno i musei, dei quali si è già fatto cenno, disseminati in tutta la capitale
per documentare il progresso delle varie branche in cui si è esercitato il
pensiero creativo dell’umanità.
Altre forme di comunicazione culturale hanno infine il compito di
muovere i cuori all’amore per i propri simili. Importanti sono in proposito
i teatri, ad Andropoli quasi tutti a gestione privata, ad eccezione dell’unico
pubblico, ma anche il più grande, denominato “Panopticon” (con un
significativo slittamento del termine benthamiano dall’indicazione carceraria
delle origini a un luogo di piacere e di cultura). A teatro i cittadini del futuro
si recano quasi esclusivamente di giorno, cosa che è loro consentita dal fatto
che le ore di lavoro nella giornata si sono drasticamente ridotte rispetto al
presente; di notte essi preferiscono dormire. Paolo e Maria si documentano
sugli spettacoli rappresentati, che alternano a pièces originali di argomento
per lo più tecnico e scientifico riprese dei nostri classici, fra i quali apprezzati
sono Sofocle e Shakespeare. Essi hanno anche la possibilità di assistere a una
serata di gala avente per argomento il “ciclo del piacere cosmico da Omero
fino all’anno 3000”, nel quale recitazione, musica e danza confluiscono nel
celebrare vari tipi di soddisfazione, dal cibo alla voluttà nella lotta all’eros.
Un ruolo significativo esercita anche la religione: non più le religioni del
passato, in gran parte cadute in rovina (salvo un piccolo nucleo di cristiani
che hanno abbandonato molti dei loro vecchi dogmi), ma un credo senza
clero che si limita alla libera accettazione dell’idea dell’esistenza di Dio
e dell’immortalità dell’anima. Si tratta di una religione che assomiglia al
deismo settecentesco, ma che lo ha rivitalizzato con una grande fiducia nel
futuro. Esiste ad Andropoli una vera e propria chiesa deista, che onora il
Dio Ignoto: ma a Paolo sembra una religione troppo dettata dal pensiero
e poco incline a lasciar sfogare i moti positivi del cuore. Non per nulla
l’edificio religioso più bello e più maestoso di Andropoli è invece il Tempio
della Speranza, compresa la speranza di durare oltre la morte terrena, che
nessun costume scientifico riuscirà mai a eliminare.
Utopia di non elevate aspirazioni letterarie, L’anno 3000 riesce
tuttavia a condensare in modo efficace le aspirazioni progressive e scientiste
del suo autore, restituendo in definitiva al genere quello che gli è proprio:
un’idea di sistema troppo semplice se paragonata alla complessità del
24
Ivi, p. 167.
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Claudio De Boni
mondo reale, compensata però da una grande capacità di aprire squarci
specifici su temi che saranno davvero del futuro, come la grande espansione
dei mezzi di comunicazione e il loro perfezionamento, la volontà degli
uomini di intervenire nei meccanismi riproduttivi per renderli più consoni
ai loro desideri, l’aspirazione della scienza e della tecnica a piegare la
natura agli scopi dell’umanità. Con in più la consapevolezza, nel caso di
Mantegazza, che ogni azione umana deve sapersi tenere in equilibrio con le
capacità di adattamento dell’uomo stesso e con le possibilità dell’ambiente.
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